Louis Gruenberg (3 agosto 1884 - 1964): Vier Indiskretionen per quartetto d’archi op. 20 (1924). The Ebony Quartet: Marleen Asberg e Anna De Vey Mestdagh, violini; Roland Krämer, viola; Daniel Esser, violoncello.
- Allegro con spirito
- Lento sostenuto e espressivo [4:01]
- Moderato grazioso e delicato [7:01]
- Allegro giocoso [9:12]
L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni
Da Schoenberg a Hollywood: l’incredibile viaggio di Louis Gruenberg
Louis Gruenberg è stato un compositore e pianista russo-americano la cui opera ha attraversato mondi musicali apparentemente distanti, dall’avanguardia europea al cinema di Hollywood, passando per il jazz e il grande repertorio operistico.
Introduzione e formazione di un talento transatlantico
Nato vicino a Brest-Litovsk (allora in Russia) nel 1884, Gruenberg emigrò con la famiglia negli Stati Uniti quando aveva pochi mesi. Cresciuto a New York, dimostrò un talento precoce per il pianoforte, studiando con Adele Margulies al Conservatorio nazionale, all’epoca diretto da Antonín Dvořák. La sua formazione fu completata in Europa, dove divenne allievo del celebre pianista e compositore Ferruccio Busoni al Conservatorio di Vienna. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale si affermò come pianista concertista e accompagnatore di talento.
L’affermazione come compositore d’avanguardia e pioniere del jazz
La svolta nella sua carriera di compositore avvenne nel 1919, quando la sua opera orchestrale The Hill of Dreams vinse il prestigioso Premio Flagler, che gli permise di dedicarsi interamente alla composizione. In questo periodo, Gruenberg sviluppò un profondo interesse per il jazz e il ragtime, integrandone ritmi e armonie nelle proprie opere. Divenne una figura centrale nella scena musicale d’avanguardia di New York, unendosi all’International Composers’ Guild (ICG) fondata da Edgard Varèse. Fu un convinto promotore della musica contemporanea, dirigendo la “prima” americana del rivoluzionario Pierrot Lunaire di Arnold Schoenberg nel 1923. A seguito di divergenze con Varèse, fondò insieme ad altri la League of Composers, consolidando il ruolo di leader nel panorama della musica moderna americana.
Il successo operistico e accademico
Il culmine della sua carriera teatrale fu raggiunto nel 1933 con la prima della sua opera espressionista The Emperor Jones, basata sul dramma di Eugene O’Neill. Messa in scena al Metropolitan, con il baritono Lawrence Tibbett nel ruolo del protagonista (in blackface), ottenne un enorme successo di critica, tanto da meritare la copertina della rivista “Time”. Negli anni successivi Gruenberg diresse il Dipartimento di composizione del Chicago Musical College (1933-36) e collaborò con personalità quali il regista Pare Lorentz e lo scrittore John Steinbeck.
La carriera a Hollywood: tra riconoscimenti e controversie
Nel 1937 il compositore si trasferì a Beverly Hills, unendosi a una comunità di esuli e compositori europei che includeva Schoenberg e Stravinskij. Iniziò una prolifica carriera nel cinema, ma non senza complessità. Lavorò alla colonna sonora del capolavoro di John Ford Ombre rosse (Stagecoach, 1939) ma, pur essendo a capo del team di compositori, inspiegabilmente non fu incluso nella lista dei candidati all’Oscar, che il film vinse per la miglior colonna sonora. Ottenne tuttavia due nomination per altrettante partiture originali: So Ends Our Night (1941), un omaggio alla cultura musicale austro-tedesca e Commandos Strike at Dawn (1942), per cui fu chiamato a sostituire Igor’ Stravinskij, il cui lavoro fu scartato perché completato prima ancora che il film fosse girato.
Il Concerto per violino e gli anni della lista nera
Nel 1944 Gruenberg raggiunse un altro importante traguardo nel mondo della musica classica: il leggendario violinista Jascha Heifetz gli commissionò il Concerto per violino op. 47, un brano vibrante e virtuosistico che fu inciso da Heifetz in quella che divenne un’esecuzione di riferimento. Nel dopoguerra, la carriera a Hollywood di Gruenberg proseguì con film importanti come All The King’s Men (1949), per cui ottenne una nomination al Golden Globe. Tuttavia, la sua carriera cinematografica si interruppe bruscamente nel 1950: si presume che le sue frequenti collaborazioni con sceneggiatori e registi finiti sulla lista nera di Hollywood durante il maccartismo abbiano portato al suo allontanamento dall’industria cinematografica.
Ultimi anni, eredità e riscoperta
Negli ultimi vent’anni della sua vita, Gruenberg si ritrovò sempre più isolato sia dal mondo del cinema che da quello della musica da concerto, pur mantenendo una stretta amicizia con Schoenberg. Non smise mai di comporre, lasciando un vasto catalogo di opere, tra cui cinque sinfonie e quattro opere complete. Morì a Los Angeles nel 1964. Caduto in un relativo oblio per decenni, il suo lavoro ha visto poi una rinascita di interesse: in particolare, il Concerto per violino è stato riscoperto e riproposto al pubblico dal violinista Koh Gabriel Kameda a partire dal 2002, riportando l’attenzione su una delle figure più versatili e ingiustamente trascurate della musica del XX secolo.
Le Quattro Indiscrezioni: analisi
L’opus 20 costituisce una rappresentazione perfetta dello stile eclettico e audace di Gruenberg. Il titolo suggerisce un approccio irriverente alle convenzioni, una volontà di mescolare linguaggi musicali considerati all’epoca incompatibili. Le quattro Indiscrezioni rivelano una profonda conoscenza della tradizione europea, una sincera passione per l’avanguardia espressionista e l’irresistibile fascino che i ritmi sincopati del jazz esercitavano su Gruenberg. L’opera è un microcosmo della sua identità di compositore transatlantico, capace di sintetizzare il rigore accademico con l’energia della musica popolare.
Il primo movimento è un’esplosione di energia nervosa e motoria: si apre senza preamboli con un motivo ritmico incisivo e martellante che funge da cellula generatrice per l’intero brano. La scrittura è densa e contrappuntisticamente complessa, con le quattro voci che si intrecciano in un dialogo serrato e a tratti aggressivo.
L’influenza del jazz è immediatamente percepibile: Gruenberg utilizza ritmi fortemente sincopati, quasi ragtime, soprattutto nella parte del violoncello che spesso abbandona il suo ruolo melodico per fornire un impulso percussivo e ostinato, a volte in pizzicato, che ricorda una linea di basso walking bass. L’indicazione “con spirito” è interpretata come una vitalità irrequieta, quasi meccanica, che anticipa certi aspetti del neoclassicismo di Stravinskij o del futurismo.
L’armonia è spigolosa e costantemente dissonante: sebbene non si tratti di una dodecafonia rigorosa, Gruenberg si muove liberamente in un’atonalità che genera una tensione continua. Le linee melodiche sono frammentate, spezzate e passano rapidamente da uno strumento all’altro, evitando la cantabilità tradizionale. Emergono brevi oasi più liriche, ma vengono subito travolte dal flusso ritmico inarrestabile.
Il movimento è costruito su contrasti dinamici e di densità: a sezioni di grande impeto, eseguite con forza da tutto il quartetto, si alternano momenti più rarefatti e sommessi, dove emergono dialoghi più intimi tra due strumenti. La conclusione è brusca e affermativa, sigillando un’apertura dirompente e piena di carattere.
Con il secondo movimento, si viene proiettati in un universo sonoro completamente diverso: questa sezione è il cuore emotivo e lirico dell’opera, un brano di profonda introspezione che rivela l’influenza dell’espressionismo della seconda Scuola di Vienna, in particolare di Schoenberg, di cui Gruenberg fu un grande promotore.
Il movimento si apre con un lungo e toccante canto solitario della viola, la cui melodia cromatica e dolente stabilisce immediatamente un’atmosfera di malinconia e desiderio. Questa linea melodica, piena di inflessioni espressive, è il fulcro del brano. Gradualmente, gli altri strumenti entrano, costruendo un tessuto sonoro denso e avvolgente.
L’armonia è ricca, satura di cromatismi e tensioni che non si risolvono mai completamente, creando un senso di struggimento continuo. La scrittura è caratterizzata da un contrappunto imitativo molto fitto, dove frammenti della melodia principale vengono ripresi e sviluppati dalle altre voci. L’apice emotivo viene raggiunto con l’ingresso del primo violino su un registro acutissimo, un lamento lancinante che sovrasta il denso intreccio armonico sottostante.
Qui si può anche notare un uso magistrale della dinamica, con lunghi crescendo che portano a climax di grande intensità, seguiti da improvvisi subito piano che riportano a un’atmosfera di intimità e riflessione. È un pezzo che richiede una sensibilità e un controllo del suono eccezionali, mettendo in luce l’anima tardo-romantica del compositore.
Il terzo movimento funge da scherzo, un intermezzo leggero e spiritoso che offre un momento di respiro dopo l’intensità del Lento. Qui l’”indiscrezione” sta nel giustapporre una sorta di danza spettrale e ironica tra due movimenti di grande peso drammatico.
Il carattere è elusivo e quasi impalpabile: Gruenberg ottiene questo effetto attraverso un uso quasi costante del pizzicato in tutte le parti, trasformando il quartetto d’archi in uno strumento a corde pizzicate che ricorda un mandolino o un clavicembalo surreale. L’indicazione grazioso e delicato è perfettamente resa da questa scelta timbrica.
Il movimento ha il vago andamento di una danza, forse un valzer distorto o una polka ironica: le melodie sono brevi, frammentarie e scherzose, rimbalzando tra gli strumenti con leggerezza, mentre l’atmosfera è quella di un carillon meccanico e un po’ inquietante, rimandando a certe pagine di Satie o di Ravel.
L’uso della sordina è un altro elemento chiave, che attutisce ulteriormente il suono e contribuisce all’atmosfera sognante e distante. L’interazione tra gli strumenti è giocosa, basata su rapidi scambi di brevi figure ritmiche e melodiche, in un perfetto esempio di scrittura arguta e sofisticata.
Il finale è una danza travolgente e rustica, che riprende l’energia del primo movimento ma la incanala in una direzione più popolare e giocosa: è una conclusione che celebra il vigore ritmico con un tocco di esuberanza quasi selvaggia.
Il movimento è dominato da un’energia ritmica inarrestabile, basata su ostinati percussivi e un andamento che ricorda una danza popolare dell’Europa orientale o una tarantella frenetica. Il violoncello e la viola forniscono una base ritmica potente e quasi barbarica, mentre i violini si lanciano in passaggi virtuosistici e melodie taglienti.
A differenza del primo movimento, il cui modernismo era più astratto, qui si avverte un chiaro sapore folk: le melodie – pur inserite in un contesto armonico dissonante – hanno inflessioni modali e un andamento che evoca la musica tradizionale. Questa fusione tra un linguaggio armonico moderno e un materiale tematico di matrice popolare è una delle cifre stilistiche più interessanti di Gruenberg.
Il brano impegna severamente i quattro interpreti: richiede grande precisione ritmica e agilità tecnica. La struttura rapsodica presenta sezioni susseguentisi in un crescendo di velocità e intensità fino alla coda finale, che accelera in un vortice sonoro inarrestabile per poi concludersi con accordi secchi e decisi, ponendo fine all’opera con un’affermazione di vitalità incontenibile.
Buongiorno, caro Claudio, un saluto, buona giornata e a più tardi!
P.S.: Hai avuto modo di adocchiare il mio nuovo blog? 🙂
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Ciao, Pierfrancesco. Sì, ho visto il tuo blog, interessante. Te ne scriverò via mail domani, e nel contempo ti invierò i dati relativi ai brani sciostakoviciani del 9 agosto 😉
A dopo!
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Ascoltate e non commento per non essere indiscreta sulle indiscrezioni 🙂 Buona serata
La mostra su Bonatti era un po’ scarna e riguardava Il fumetto creato sul suo personaggio. Invece mi è piaciuta molto quella su Guido Rey, personaggio poliedrico, autore di splendide foto… Merita
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Grazie, prendo nota. A presto 🙂
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