Natus ante saecula

La sequenza Natus ante saecula di Notker I di San Gallo, detto Balbulus (il Balbuziente; c840 - 912), eseguita dall’ensemble Sequentia.

Natus ante saecula
 Dei filius invisibilis
 Interminus
Per quem fit machina
 Caeli ac terrae maris
 Et in his degentium
Per quem dies et horae labant
 Et se iterum reciprocant
Quem angeli in arce poli
 Voce consona semper canunt,
Hic corpus assumpserat
 Fragile
Sine labe originalis criminis
 De carne Mariae virginis
 Quo primi parentis culpam
 Evaeque lasciviam tergeret.
Hoc praesens diecula loquitur,
Praelucida adaucta
 Longitudine quod sol verus
 Radio sui luminis vetustas
 Mundi depulerit
 Genitus tenebras.
Nec nox vacat novi
 Syderis luce quod magorum
 Oculos terruit scios,
Nec gregum magistris
 Defuit lumen quos praestrinxit
 Claritas militum Dei.
Gaude Dei genitrix
 Quam circumstant obstetricum vice concinentes
 Angeli gloriam Deo.
Christe patris unice
 Qui humanam nostri
 Causa formam assumpsisti
 Refove supplices tuos
Et quorum participem te fore
 Dignatus es Jesu
 Dignanter eorum
 Suscipe preces
Ut ipsos divinitatis tuae
 Participes Deus facere digneris unice Dei.

(Nato prima dei secoli, il figlio di Dio, invisibile e senza fine, per il cui tramite fu creato l’apparato del cielo, della terra, del mare e di tutti coloro che vi abitano; in grazia del quale trascorrono i giorni e le ore, e si alternano tra loro; Colui al quale gli angeli nella rocca celeste sempre inneggiano con armoniosa voce aveva preso un fragile corpo, senza la macchia del peccato originale, dalla carne di Maria vergine, per lavar via con esso la colpa del primo genitore e la lascivia di Eva. Questo ci dice la luminosa tregua attuale, accresciuta nella durata: che il vero sole, ora nato, con il suo raggio di luce ha scacciato le antiche tenebre dal mondo. La notte non è priva della luce della nuova stella che ha atterrito gli occhi saggi dei maghi, così come non manca la luce per coloro che conducono le greggi, i quali furono abbagliati dallo splendore dei soldati del Signore. Rallegrati, Madre di Dio: attorno a te non si adunano levatrici ma angeli che cantano la gloria di Dio. O Cristo, unigenito figlio di Dio, che per noi hai assunto forma umana, ristora i tuoi supplici e con benevolenza accogli le preghiere di coloro dei quali, o Gesù, ti sei degnato di essere partecipe, così che ti degnerai di rendere anch’essi partecipi della tua divinità, Dio unico figlio di Dio.)

Torniamo molto indietro nel tempo, valicando a ritroso il fatale anno 1000 per giun­gere nel pieno dell’età carolingia e ascoltare un capolavoro della musica di quel tempo.

Che cos’è una sequenza? La prima occorrenza del termine si trova nel Liber officialis di Amalario di Metz (c775 - 850); afferma l’insigne liturgista che il canto dell’alleluia tocca nel profondo l’animo del cantore, e « haec jubilatio, quam cantores sequentiam vocant », non necessita di testo (sant’Ago­stino aveva infatti asserito che « chi gioisce non può espri­mersi con parole »).
Dunque, la sequenza era originariamente un vocalizzo, un melisma (ossia un canto privo di testo) articolato sull’ultima vocale della parola alleluia. Ma a un certo punto della sua storia, per l’appunto nel corso del IX secolo, la sequenza comincia a essere dotata di testo. Sulle ragioni di questa novità aiuta a far luce proprio la testimonianza di Notker Balbulus. Questi compose una quarantina di testi di sequenze (da lui chiamati hymni), che poi inviò come omaggio al vescovo di Vercelli Liutvardo, cancelliere di Carlo il Grosso: nella lettera dedicatoria Notker racconta che, in gioventù, faceva molta fatica a ricordare le « longissimae melodiae » del canto liturgico e si chiedeva se ci fosse un metodo per aiutare la memoria. « In quel periodo giunse fra noi un monaco sacerdote dell’abbazia di Jumièges, devastata dai normanni. Portava con sé un libro di musica (antiphonarium) nel quale alcuni testi (aliqui versus) erano adattati alla musica dei melismi alleluiatici (ad sequentias) ». Forte di questo esempio e incoraggiato dai propri superiori, Notker si dedicò alla composizione di testi analoghi affinché fossero cantati sulle note delle sequenze.
L’aggiunta di testi ai vocalizzi dell’alleluia, insomma, è in origine un espediente mnemonico: a volte la storia dell’arte, non solo musicale, riserva gustose sorprese.

Sul vastissimo repertorio di sequenze composte nei secoli successivi, oltre cinquemila, calò poi la scure del Concilio di Trento, che autorizzò l’uso liturgico di soli quattro componimenti:
Victimae Paschali laudes, attribuita a Wipo di Soletta († dopo il 1046);
Veni Sancte Spiritus, attribuita a Stephen Langton, arcivescovo di Canterbury (c1150 - 1228);
Lauda Sion Salvatorem, composta da Tommaso d’Aquino (1225 - 1274) per la festività del Corpus Domini;
Dies irae, che secondo tradizione sarebbe stata composta da Tommaso da Celano (c1190 - c1260).
A queste fu aggiunta poi Stabat Mater dolorosa, scritta probabilmente da Jacopone da Todi (c1230/36 - 1306).

Natus ante saecula (incipit)

Dal Manoscritto 381 di San Gallo (Biblioteca del Monastero, Codex Sangallensis 381, p. 333), l’inizio della sequenza Natus ante saecula di Notker Balbulus.
Da notare il particolare tipo di impaginazione, caratteristico della tradizione sangallese: il testo e la notazione musicale (neumi in campo aperto) sono riportati su due colonne affiancate.

La musica nel Medioevo: concetto e definizioni

Alfonso el Sabio e la sua corte

L’origine del termine musica si suole far risalire al vocabolo greco Μοῦσα, ossia Musa, nome generico delle nove mitologiche protettrici delle arti. Secondo alcuni, questo vocabo­lo deriverebbe dalla forma (peraltro non documentata) Μόντια = « montanina »: per cui si fa riferimento al fatto che luoghi sacri alle Muse erano le vette dei monti Olimpo, Elicona e Parnaso; secondo altri si sarebbe originato dal verbo μῶσθαι = « ideare ». Diversi eruditi medievali (e ancora, in epoca barocca, il grande studioso tedesco Athanasius Kircher) prendendo spunto da un passo dello storico Diodoro ritennero che il termine fosse di origine egizia, poiché proprio in Egitto secondo loro sarebbe nata la musica, e a “inventarla” sarebbe stato Mosè; altri sostennero che le Muse fossero le deificazioni di « donne musicali al servizio di uno de’ più antichi Re egiziani », come spiega Pietro Lichtenthal nel suo Dizionario e Bibliografia della Musica (Milano, A. Fontana, 1826).

È caratteristico di tutte le civiltà antiche il separare nettamente la pratica del canto e degli strumenti musicali (pratica che i greci chiamavano μουσική τέχνη e i latini ars musica) dalla teoria dotta (μουσική ἐπιστήμη — musica scientia): fino al secolo IX quasi non vi furono legami fra queste due categorie.

La musica è dunque oggetto di studio da parte degli antichi scienziati, i quali per la sua natura essenzialmente mate­matica l’accostano al mondo ideale dei numeri e ai pianeti. A ciascuno di questi ultimi la fantasmagoria cosmologica attribuisce un suono diverso, di frequenza proporzionale alla rapidità del movimento del corpo celeste e non udibile dagli uomini: a causa dell’imperfezione dell’orecchio uma­no (Macrobio), oppure perché non può essere percepito in assenza del suo opposto, il silenzio (Aristotele). Questa teoria, nota come musica o armonia delle sfere, viene elaborata dalla scuola pitagorica intorno alla metà del V secolo a.C., e in seguito variamente trattata da numerosi autori.

Prosegue durante la tarda Antichità e il Medioevo la tradizione che considera la musica una forma di ragionamento, una speculazione filosofica: in pressoché tutte le definizioni che ne dànno gli studiosi permane la parola scientia, talvolta sostituita con sinonimi, come per esempio disciplina.

Nella Roma imperiale la musica fa parte del gruppo delle arti scientifiche che costituiscono il Quadrivio (le altre tre sono l’aritmetica, la geometria e l’astronomia): insieme con le tre arti letterarie del Trivio (grammatica, retorica e dialettica) esse formano l’insieme di quelle che i latini chiamano arti liberali. Una loro precisa classificazione viene data da Mar­zia­no Capella, all’inizio del secolo V, nell’opera nota con il titolo di De nuptiis Mercurii et Philologiae (Le nozze di Mercurio con la Filologia). Pochi anni prima sant’Agosti­no (De musica I/2, 2) aveva definito la musica « scientia bene modulandi » (modulatio è la conoscenza del movimento melodico e ritmico). L’idea agostiniana, derivata da Aristide Quintiliano, sarà più volte citata da autori medievali.

Plut. 29.1Oltre a una meticolosa descrizione del sistema musicale greco e dell’armonia delle sfere, Boezio trasmette ai posteri la clas­si­fi­cazione della musica suddivisa in mundana, humanainstrumentis constituta: la musica mundana è l’armonia del macrocosmo, cioè appunto l’armonia delle sfere; la musica humana è l’armonia del microcosmo, ossia dell’anima umana; la musica quae in quibusdam constituta est instrumentis (poi detta semplicemente musica instrumentalis) è infine la musi­ca pratica, creata a imitazione delle altre due.
La definizione che Boezio dà della musica (« harmonica est facultas differentias acutorum et gravium sonorum sensu ac ratione perpendens », la capacità di valutare con precisione le diffe­renze fra suoni acuti e gravi con i sensi e con la mente; De musica V, 1) verrà in seguito adottata da teorici quali Hieronymus de Moravia, Jacobus Leodiensis e, oltre le soglie del Medioevo, Franchino Gaffurio, Johannes Cochlaeus e Glareano.

Cassiodoro propone la suddivisione della musica in scientia harmonica, scientia rhytmica e scientia metrica: la prima concerne la struttura della melodia, la seconda si riferisce ai rapporti di correlazione fra melodia e testo, l’ultima riguarda l’analisi metrica. Per Cassiodoro la musica è « disciplina quae de numeris loquitur » (scienza che tratta dei numeri).

Ultimo degli autori altomedievali a occuparsi filologicamente della musica, Isidoro di Siviglia la definisce « peritia modulationis sono cantuque consistens », l’abilità nel modulare (nel­l’ac­cezione che abbiamo già visto) suono e canto. Gli scritti di Boezio, Cassiodoro e Isidoro di Siviglia intorno alla musica costituiscono il fondamento degli studi musicali nell’ambito del Quadrivio fino all’inizio del secolo IX, epoca in cui, come ho già accennato, si comincia a intendere la conoscenza teorica non più disgiunta dall’attività pratica.

Di questo “nuovo” modo di considerare la musica sarà testimonianza, circa un secolo più tardi, la definizione di Oddone di Cluny (Odo Cluniacensis, c879-942): « Musica est scientia veraciter canendi ». Essa verrà poi così modificata dal teorico che oggi chiamiamo Anonimo II di Coussemaker (XIII secolo): « Musica est ars recte canendi » (ars, non più scientia). Numerosi trattatisti — fra cui Johannes de Muris e Adam von Fulda — adotteranno in seguito la definizione dell’Anonimo II.

Un altro importante studioso del tardo secolo IX, Reginone di Prüm (morto a Treviri nel 915), propone la distinzione fra musica naturalis e musica artificialis: la prima corrisponde alla musica mundana e, insieme, alla musica humana di Boezio, la seconda è la musica instrumentalis (ricordo che per instrumenti si intendono sia la voce sia gli strumenti musicali). Nel tardo Medioevo la musica naturalis e l’artificialis saranno dette rispet­ti­va­men­te theoretica (o speculativa) e practica (o activa): terminologia che i trattatisti dell’epoca ricaveranno da scritti teorici di autori arabi, e in particolare dall’opera di al-Fārābī (contemporaneo di Reginone, ma conosciuto nel mondo cristiano soltanto dopo il XII secolo). In realtà questa terminologia era già impiegata nella Roma antica, ma ora la musica practica non è più considerata “imitazione” di quella theoretica, bensì la sua applicazione concreta.
Orbene, abbiamo avuto un primo contatto con la cultura araba. È proprio grazie agli arabi che nel XII secolo l’Europa cristiana fa un’importante scoperta: le opere aristoteliche di carattere filosofico e scientifico (in precedenza erano conosciute soltanto quelle logiche, nelle traduzioni di Boezio). Com’è noto, dopo le prime reazioni negative da parte di teologi e filosofi, l’aristotelismo è infine accolto, pur con molte cautele e riserve, dalla Scolastica, per opera di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino. La cultura europea si arricchisce così, fra l’altro, della concezione aristotelica della partecipazione emotiva che l’accostarsi all’arte implica. Troviamo dunque questa concezione in Dante, con un esplicito riferimento alla musica (Purgatorio II, 112-117):

    « Amor che ne la mente mi ragiona »
      cominciò elli allor sì dolcemente,
    che la dolcezza ancor dentro mi suona.

    Lo mio maestro e io e quella gente
      ch’eran con lui parevan sì contenti,
    come a nessun toccasse altro la mente.

Di questo argomento Dante discetta altresì nel Convivio, dove pone in relazione i primi sette cieli del firmamento con le dottrine del Trivio e del Quadrivio: la musica è relativa al quinto cielo, quello di Marte; e la sua relazione è più bella di quella degli altri cieli fra loro — perché, essendo i cieli complessivamente nove, il quinto sta nel mezzo:

« E lo cielo di Marte si può comparare a la Musica per due proprietadi: l’una si è la sua più bella relazione, ché, annumerando li cieli mobili, da qualunque si comincia o da l’infimo o dal sommo, esso cielo di Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti, cioè de li primi, de li secondi, de li terzi e de li quarti. L’altra si è che esso Marte dissecca e arde le cose, perché lo suo calore è simile a quello del fuoco […] E queste due proprietadi sono ne la Musica, la quale è tutta relativa, sì come si vede ne le parole armonizzate e ne li canti, de’ quali tanto più dolce armonia resulta, quanto più la relazione è bella: la quale in essa scienza massimamente è bella, perché massimamente in essa s’intende. Ancora, la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: si è l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito sensibile che riceve lo suono » (Convivio 2/XIII, 20-24).

Sul finire del XIII secolo l’importanza e il valore della musica profana (cioè in nessun modo connessa al culto religioso) sono dati ormai acquisiti. Il primo teorico che si occupa delle forme della musica profana è Johannes de Grocheo o Grocheio (Jean de Grouchy, c1255-c1320): personaggio alquanto singolare, egli si pone di fronte al fatto musicale con uno spirito che, per vari aspetti, anticipa la sensibilità moderna. Innanzi tutto rifiuta le prime due specie musicali codificate da Boezio, la mundana e l’humana, per occuparsi esclusivamente della musica instrumentalis, in quanto è l’unica a produrre suoni. Inoltre esamina questa musica instrumentalis ponendola in rapporto agli usi locali, alle lingue e ai dialetti. Distingue fra musica simplex vel civilis, « quam vulgarem musicam appellamus », e musica composita vel regularis vel canonica, « quam appellant musicam mensuratam »: con la prima locuzione si riferisce alle composizioni monodiche, con la seconda a quelle polifoniche. Infine condensa in un’unica definizione (« musica est ars vel scientia de sono numerato, harmonice sumpto, ad cantandum facilius deputata ») le due diverse concezioni della musica, intesa come sistema numerico sonoro oppure come arte del canto.

Un breve intermezzo… umoristico. L’erronea interpretazione di un passo biblico (Esodo II/10), per cui si credette che il nome di Mosè (considerato, come abbiamo visto, l’inventore della musica) nell’antica lingua egizia significasse « acqua » è all’origine di due curiose definizioni trecentesche: scrive il teorico francese Petrus Frater (detto Petrus Palma ociosa): « Musica est scientia aquatica »; mentre nel trattato Quatuor principalia musicae, in passato erroneamente attribuito all’inglese Simon Tunsted, si può leggere che « Musica est scientia quasi iuxta aquam inventa ». L’amena teoria secondo la quale la musica sarebbe nata dopo il diluvio universale, e la prima idea del suono si sarebbe manifestata agli uomini per opera del vento che soffiava fra le canne sulle rive del Nilo ebbe un certo credito presso qualche studioso fino al secolo XVII.

Alle soglie del Quattrocento la posizione dei trattatisti nei confronti della musica practica è radicalmente mutata rispetto a quella dei loro predecessori: la nuova tendenza — in parte già manifestatasi, come abbiamo visto in Johannes de Grocheo — è di assumere a modello le le opere musicali per esaminarne le strutture e trarne le leggi fondamentali. Le definizioni della musica date dai teorici da questo momento in avanti riflettono questo stato di cose, per cui è dato rilievo alla perizia, alla maestria nel combinare i suoni organicamente. Primo, forse, a rivelare questa nuova sensibilità è l’italo-fiammingo Johannes Ciconia, il cui trattato è significativamente intitolato Nova musica. Ma la definizione più completa e esauriente, allo stesso tempo espressa con una certa eleganza, si trova nell’anonimo De musica men­su­ra­bili : « Musica est disciplina quantitatis », vi si legge, « relatae ad aliquid virtute proportio­num, contemplativa ad notitiam qualitatum ». Ve ne sono due specie: la mu­si­ca mensurabilis, che è la « vera e perfetta disciplina del canto »; e la musica immensurabilis, che « viene cantata senza una precisa scansione del tempo, secondo la volontà del cantore ». Definizioni analoghe per concezione verranno poi espresse da numerosi altri teorici.

L’Umanesimo tende a avvicinare nella speculazione filosofica la teoria musicale e il valore concreto della musica. Fra gli umanisti v’è chi accoglie e rielabora le dottrine boeziane e riafferma il principio filosofico della scienza. Per esempio, Giorgio Anselmi (detto Anselmo da Parma, c1386-c1443) suddivide la musica in harmonia coelestis, instrumentalis e cantabilis, servendosi però dei numeri proporzionali per trovare ogni possibile relazione fra sensibilis e rationalis harmonia (ricordate sensus e ratio nella definizione di Boezio?), stabilendo una gamma planetaria sull’estensione di tre ottave e completando la descrizione dell’universo musicale con il canto delle gerarchie angeliche — un immenso concerto polifonico ben lontano dalla ieratica staticità dell’armonia delle sfere. E Ugolino da Orvieto (c1380-post 1457) sostiene che il fine della musica theoretica è « praticae musicae intellectu speculativo rationem comprehendere, et in ea perspicaci intelligentiae speculo speculari »; inoltre afferma di aver dedotto le regole del contrappunto, quali sono esposte nel suo trat­ta­to, « propor­tio­num merito et aurium (…) iudicio ».

Come scienza, la musica viene da molti accostata alla medicina: il medico, oltre che della terapia del corpo, si deve occupare anche dell’equilibrio spirituale del paziente, e da qui ha origine la trasposizione più interessante, nel pensiero umanistico, della musica humana di Boezio. « Medicina sanat animam per corpus, musica autem corpus per animam » è un pensiero di Giovanni Pico della Mirandola. E Marsilio Ficino: « La prima musica consiste ne la ragione, la seconda è posta nella fantasia, la terza sta ne le parole, la quale séguita il canto: il canto è seguitato dal moto delle dita nel suono: il suono è poi medesimamente seguitato dal moto di tutto il corpo, ouero nel ballare, ouero ne l’esercitarsi, sì che noi possiamo uedere che la musica dello animo di grado in grado discende et si conduce a tutte le membra del corpo la quale anchora gl’oratori, i poeti, i dipintori, gli scultori, gl’architettori ne l’opere loro vanno imitando; essendo dunque tanta similitudine tra la musica de l’animo e del corpo, che maraviglia è se un medesimo huomo cerca di temprar così il corpo come l’animo… »

Da ora in avanti, mentre si accresce in modo considerevole l’importanza che viene attribuita all’attività compositiva, si tenderà a considerare il fenomeno acustico strettamente connesso ai suoi riflessi psicologici, non più sotto l’aspetto metafisico bensì con atteggiamento naturalistico. La musica verrà allora sovente paragonata alle altre arti, e in particolare all’architettura — con chiaro riferimento alla complessità della costruzione musicale — e alla pittura. Leonardo da Vinci definisce la musica « sorella della pittura » in quanto figurazione dell’invisibile:

« La musica non è da essere chiamata altro che sorella della pittura, conciossiaché essa è subietto dell’udito, secondo senso all’occhio, e compone armonia con la congiunzione delle sue parti proporzionali operate nel medesimo tempo, costrette a nascere e morire in uno o piú tempi armonici, i quali tempi circondano la proporzionalità de’ membri di che tale armonia si compone, non altrimenti che faccia la linea circonferenziale per le membra di che si genera la bellezza umana. Ma la pittura eccelle e signoreggia la musica perché essa non muore immediate dopo la sua creazione, come fa la sventurata musica, anzi, resta in essere, e ti si dimostra in vita quel che in fatto è una sola superficie.
[…]
« E benché la poesia entri pel senso dell’udito alla sede del giudizio siccome la musica, esso poeta non può descrivere l’armonia della musica perché non ha potestà in un medesimo tempo di dire diverse cose, come la proporzionalità armonica della pittura composta di diverse membra in un medesimo tempo, la dolcezza delle quali sono giudicate in un medesimo tempo cosí in comune, come in particolare. In comune, in quanto all’intento del composto; in particolare in quanto all’intento de’ componenti, di che si compone esso tutto. E per questo il poeta resta, in quanto alla figurazione delle cose corporee, molto indietro al pittore, e delle cose invisibili rimane indietro al musico. » (Trattato della pittura I, 25 e 28).

Nota. L’idea di compilare un’antologia di definizioni e pensieri vari sulla musica ricavandoli da trattati medievali nacque nel 1978 a seguito di un’amichevole ma assai proficua chiacchierata con don Piero Damilano, all’epoca docente di filologia musicale presso la Facoltà di lettere dell’Università di Torino; ricordo con riconoscenza il prof. Damilano, del quale avevo seguito con grande interesse un corso monografico sull’arte dei trovatori.