10 pensieri riguardo “Méditations

  1. Buongiorno, caro Claudio, grazie mille di aver portato questa composizione inquieta dal grande sapore mistico😊. Come molte opere di compositori giapponesi contemporanei, non è facile da comprendere con immediatezza se non si conoscono diversi temi cari alla tradizione giapponese.

    Nato a Tōkyō, Taïra studiò dapprima alla Tokyo University of the Arts e poi al Conservatorio di Parigi, dove si perfezionò nella composizione con Henri Dutilleux, André Jolivet e Oliver Messiaen. Dopo il diploma nel 1971, ottenuto con il primo premio, nello stesso anno vinse anche il premio Lili Boulanger, debuttando con un’orchestra parigina.

    Al termine dei suoi studi, il giovane decise di stabilirsi definitivamente nella capitale francese, dedicandosi all’attività compositiva. In parallelo, intraprese la carriera didattica, contribuendo a formare diversi studenti nella composizione come professore dell’École Normale de Musique de Paris.

    Nel corso della sua vita, Taïra ricevette diverse commissioni da festival musicali in varie località francesi, come Royan e Metz. Alcune delle sue composizioni conobbero diverse rappresentazioni sul continente europeo, specialmente in Germania. Nella scrittura di alcuni suoi lavori per flauto, in particolare, si avvalse della collaborazione del flautista virtuoso Pierre-Yves Artaud.

    Al 1974, invece, risale una delle sue opere più rappresentative, Chromophonie, eseguita in prima assoluta nel suo paese natale dalla NHK Symphony Orchestra. Grazie a questo lavoro, Taïra poté far conoscere per la prima volta la propria musica in Giappone, a seguito del suo trasferimento in Francia.

    Dopo essersi stabilito a Parigi, infatti, il compositore ritornò solo occasionalmente in Giappone, allo scopo di tenere conferenze e simposi. Vanno anche menzionati il suo invito come docente ospite all’Akiyoshidai International Contemporary Music Seminar and Festival (1992) e la ricezione di una commissione dalla Mito Chamber Orchestra come ulteriori esempi di legami artistici con il suo paese natale.

    Negli ultimi anni della vita, Taïra fu tormentato da numerosi problemi di salute, fin quando nel 2005 non morì a Parigi a causa di una polmonite.

    La sua produzione musicale annovera perlopiù pezzi orchestrali, cameristici e strumentali e si caratterizza per le sue sonorità colorate e delicate, ma anche fortemente tensive. Ogni suo lavoro, anche quello destinato a organici speciali come le percussioni, presenta un eccellente uso della tecnica strumentale e orchestrale, finalizzato a controllare la tensione in un riverbero non direttamente percepito.

    Il suo motto, “Trovare la preghiera nel silenzio”, esprime perfettamente la sua grande sensibilità per il colore della moderna musica francese, rappresentata da Debussy, ma anche l’interazione della tensione invisibile nello spazio tra i suoi della musica tradizionale giapponese [1].

    Le sue prime composizioni, in particolare, furono influenzate non solo dalla musica dei suoi insegnanti, ma anche dalle tendenze della musica francese moderna e contemporanea. Si possono, inoltre, notare tracce della musica di alcuni suoi connazionali, sia più anziani (come Tōru Takemitsu e Jōji Yuasa) che della sua stessa generazione (come Yoshio Hachimura).

    Nella sua produzione più tarda, invece, le sue fonti di ispirazione sono diventate maggiormente “internazionali”, finendo per assorbire le nuove tendenze della prima Scuola di Darmstadt (in particolare, la musica di Boulez) e dei Darmstädter Ferienkurse für Neue Musik, conosciuti anche in Giappone fin dalla loro fondazione.

    Tuttavia, Taïra non assorbì tutti questi elementi in maniera acritica, ma diede a essi un nuovo valore e una nuova collocazione nell’ambito della cultura giapponese, contribuendo a creare uno stile davvero unico e innovativo.

    Dal punto di vista della tecnica musicale, il compositore si focalizzò dapprima sull’utilizzo attivo di linee melodiche basate sulla scala pentatonica, ispirandosi a una rappresentazione di Bunraku [2] a cui aveva assistito a Parigi. Questa tendenza, iniziata negli anni ’70, si intravede a partire dal trio per archi Dioptase (1972).

    In questo lavoro, in particolare nelle parti per archi e pianoforte, è possibile udire degli accordi a grappolo che ricordano la musica di Messiaen, formando una specie di linea melodica unica, all’interno della quale vi sono altre linee musicali caratterizzate dalla presenza di intervalli di seconda maggiore e di terza minore che ricordano la scala pentatonica. Si vedono, altresì, anche schemi ritmici basati sui numeri 5 e 7 che, nelle intenzioni del compositore, fanno riferimento alla prosodia giapponese [3].

    Queste citazioni, tuttavia, non sono subito evidenti, in quanto secondo Taïra costituiscono non un punto di partenza della sua sperimentazione musicale, ma piuttosto un punto di arrivo nella sua ricerca del suono e di ritmi irrazionali e, in termini di influenza della cultura giapponese, rientrano nella dimensione della tensione contenuta nel riverbero sopra menzionato.

    Dagli anni ’80, invece, il compositore passò da opere di grande respiro a lavori più minuti, le cui sonorità sono cambiate da interruzioni violente a una scrittura più continua e fluida, basata su armonie complesse e orchestrazioni altamente armonizzate. Questa nuova tendenza è visibile a partire dal suo pezzo cameristico di medie dimensioni Delta (1982)e nel suo pezzo orchestrale Polyèdre (1987)

    Anche la sua produzione cameristica generale, è possibile notare non solo questi nuovi cambiamenti stilistici, ma anche la presenza di nuove formazioni strumentali (come flauto e pianoforte).

    Nelle sue opere più tarde, come Saiun e Retour, questi cambiamenti sono ancora più evidenti, anche se Taïra non è mai ritornato del tutto alla musica del passato (per esempio, a una chiara sensazione tonale o un ritmo basato su una semplice ripetizione) e ciò dimostra il suo atteggiamento fortemente rigoroso nei confronti della composizione.

    Note:

    [1] Qui si fa riferimento al concetto di “Ma”, termine traducibile con “intervallo”, “spazio”, “pausa” o “spazio vuoto tra due elementi strutturali”. Il concetto è usato non solo in specifici ambiti (estetico, filosofico, artistico), ma permea quasi ogni aspetto della quotidianità del popolo giapponese. Difficile o impossibile da definire precisamente, il “Ma” ha origini rintracciabili nelle filosofie orientali giunte in Giappone tramite i contatti con la Cina, ovvero Buddhismo e Taoismo.

    Nel Taoismo, infatti, lo spazio vuoto e lo spazio pieno hanno la stessa importanza e, come nell’armonioso equilibrio tra yin e yang, non vi è prevalenza di un elemento su un altro, ma un continuo bilanciamento delle forze. Questo equilibrio è ben rappresentato dal taijitu, il famoso cerchio che vede contrapposti la parte bianca e la parte nera, allo stesso tempo separati e connessi, complementari e alternati. Ciò a dimostrare l’infinito movimento dei fenomeni e la profonda identità tra pieno e vuoto, bene o male, ordine e caos e altri dualismi.

    Nel Buddhismo, invece, il concetto si esprime nella cosiddetta “vacuità” (kū in giapponese o Śūnyatā in sanscrito), attraverso la quale il fedele raggiunge l’illuminazione (Bodhi). Il fedele, infatti, deve arrivare a capire che il vuoto è la “vera natura” delle cose e delle persone, poiché nulla è permanente e non vi è un “io” concreto e stabile. Questa conoscenza non va raggiunta attraverso la coltivazione di un sapere teorico, ma con la meditazione.

    Il concetto di “Ma” si ritrova anche in varie arti di derivazione zen, come l’haiku (un breve componimento poetico, composto da tre versi, per complessive 17 more (unità sonore), secondo lo schema 5-7-5), l’ikebana (l’arte della disposizione dei fiori recisi), il teatro Nō (una forma teatrale dai contenuti poco accessibili, liberamente interpretabili dallo spettatore, caratterizzato da lentezza, grazia spartana e uso di maschere caratteristiche) e la cerimonia del te.

    Tracce del concetto si ritrovano anche nella tradizione shintoista, in particolare nella disposizione degli spazi sacri – sempre lasciati aperti e pronti ad accogliere i kami (gli oggetti di venerazione) – e negli alberi sacri, circondati dalle shimenawa (corde sacre bianche), che demarcano lo spazio sacro, vuoto e aperto, nel quale si credeva che il kami sarebbe vissuto.

    [2] Un tipo di teatro giapponese che riunisce la manipolazione dei burattini (Ningyō), la recitazione di un testo e l’accompagnamento della recitazione con la musica, prodotta da un liuto a tre corde (shamisen). Ciò ha avuto origine da due pratiche antiche e ben consolidate, ossia la narrazione di testi epici (jōruri) accompagnati dallo shamisen e la manipolazione dei burattini da parte di artisti itineranti. Ancora oggi, riveste un ruolo importante tra le maggiori espressioni artistiche teatrali giapponesi, accanto al Kabuki, al Nō e al Kyōgen.

    [3] Si fa riferimento al Waka, una forma poetica giapponese in 31 sillabe, divise in 5 versi di 5-7-5-7-7 sillabe, risalente al tardo VII secolo e derivata dalla regolarizzazione di forme esistenti, conoscendo grande diffusione tra l’aristocrazia di corte nei secoli successivi. Di derivazione cinese, questa forma poetica ha tra i temi principali la natura e l’amore, rappresentate dapprima come manifestazioni divine e poi come fenomeni sensibili. Successivamente, la natura diventa contemplazione estetica e la sua osservazione suscita emozioni nell’animo umano, esprimibili tramite la poesia. Il Waka si realizzava tramite la poesia sul byōbu (il tipico paravento giapponese formato da pannelli uniti e decorati con motivi decorativi o calligrafici, usato per separare interni o delimitare spazi privati) e la utaawase (i concorsi di poesia).

    Buona giornata e a presto!

    Piace a 2 people

commenti