Concerto a quattro in re maggiore

Francesco Antonio Bonporti (1672 - 19 dicembre 1749): Concerto a quattro in re maggiore op. 11 n. 8 (c1715). I Virtuosi Italiani.

  1. Allegro
  2. Largo [4:13]
  3. Vivace [7:49]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Francesco Antonio Bonporti: il gentiluomo musico tra ambiti e sonate

La vita di Francesco Antonio Bonporti, compositore e sacerdote trentino dalla solida formazione intellettuale, fu segnata da una costante, ma frustrata, ambizione di ottenere un prestigioso incarico a corte.

Formazione e carriera iniziale
Nato a Trento nel 1672, Bonporti intraprese un percorso di studi rigoroso, passando dagli studi umanistici nel seminario locale alla fisica e metafisica presso l’università di Innsbruck (1688-91). Trasferitosi a Roma nel 1691, studiò teologia presso il Collegio germanico, ma coltivò contemporaneamente la musica sotto la guida di maestri come Ottavio Pitoni e, forse per il violino, Arcangelo Corelli o il suo allievo Matteo Fornari. Dopo l’ordinazione sacerdotale (1697), il compositore tornò a Trento, dove ottenne due benefici ecclesiastici nella cattedrale. Benché si firmasse «dilettante di musica», la sua fama di compositore si diffuse rapidamente in Europa, a partire dalla pubblicazione della sua opera prima (Sonate a tre) a Venezia nel 1696.

La ricerca infruttuosa di patrocinio e status
Bonporti dedicò gran parte della sua vita a tentativi volti a migliorare la propria posizione sociale e professionale, cercando invano di passare da beneficiato a canonico ordinario della Cattedrale di Trento. Per questo obiettivo utilizzò le proprie composizioni come strumenti di appello politico e diplomatico. Esempi di questa strategia includono la dedicazione di opere con titoli politicamente significativi, come Il trionfo della Grande Alleanza (opera ottava, perduta) o La Pace (opera decima), rivolti a sollecitare il favore di figure potenti come il principe elettore di Magonza o l’imperatore Carlo VI d’Asburgo. Questi nel 1727 lo nominò “familiare aulico”, un titolo che fu spesso frainteso dai biografi, i quali erroneamente credettero che Bonporti lavorasse presso la corte di Vienna. In realtà, egli rimase per quarant’anni nel suo modesto ruolo nella Cattedrale di Trento. Nonostante l’ultima vana richiesta di canonicato a Maria Teresa d’Austria nel 1746, il compositore morì a Padova nel 1749, dopo essersi ritirato in pensione (giubilazione) nel 1740.

Il catalogo musicale e l’evoluzione stilistica
La produzione di Bonporti è prevalentemente strumentale, articolata in dodici opere pubblicate che spaziano dalle sonate a tre al concerto solistico.
Le prime opere, come l’opera prima, ricalcano le sonate da chiesa di stile corelliano. Successivamente, nelle Sonate da camera (op. II, IV, VI), il compositore sviluppa uno stile più libero e cantabile, dove la linea melodica è affidata prevalentemente al primo violino. L’opera terza (Motetti a canto solo) si collega invece al genere della cantata di scuola romana e napoletana, evidenziando una forte attenzione all’espressione del testo attraverso l’armonia.
A partire dal 1707, egli si concentra su brani per violino solo, raggiungendo la piena maturità stilistica con le Invenzioni a violino solo (Opera decima, 1712). I Concerti a quattro (Opera XI) occupano infine una posizione unica nel periodo, abbandonando la struttura “a terrazze” del concerto grosso corelliano in favore di una sinfonia concertante, dove le parti dialogano in parità, con una scrittura decisamente polifonica.

Riconoscimento postumo e il caso Bach
La qualità della musica di Bonporti è testimoniata da un singolare episodio: quattro delle sue Invenzioni (Opera X) furono copiate da Johann Sebastian Bach a scopo di studio e, a causa di un errore editoriale del XIX secolo, vennero per lungo tempo incluse nel catalogo delle opere del Kantor di Lipsia. Le sue ultime composizioni, i Concertini e serenate (Opera XII), sono invece brani estesi che uniscono virtuosismo e cantabilità, caratterizzati da recitativi di intensa espressività.
Nonostante sia stato a lungo trascurato dalla critica, l’opera del compositore è stata oggetto di rinnovato interesse negli ultimi decenni, in gran parte grazie agli studi e alle riesumazioni del musicologo Guglielmo Barblan.

Il Concerto a quattro in re maggiore
Il brano si colloca in un affascinante periodo di transizione stilistica tra il robusto concerto grosso barocco corelliano e l’emergente concerto solistico. Come suggerito dagli studiosi, Bonporti non adotta pienamente la contrapposizione netta tra concertino e ripieno, preferendo una struttura che si avvicina alla sinfonia concertante, dove tutti gli strumenti partecipano al dialogo musicale con un alto grado di parità.
Il primo movimento è un Allegro vivace e ritmicamente propulsivo, tipico del Barocco maturo. Esso si apre con un tema principale marcatamente ritmico e incisivo, dominato dal profilo ascendente degli archi. L’inizio è caratterizzato dall’impiego del pieno organico orchestrale (tutti), che stabilisce saldamente la tonalità di re maggiore. L’andamento è brillante, con rapide figure di semicrome che generano grande energia.
Ha poi inizio un serrato dialogo tra le singole parti: a differenza di molti concerti grossi coevi, dove il gruppo di solisti (il concertino) si distingue nettamente dall’orchestra (ripieno), qui l’interazione è più fluida e si notano passaggi virtuosistici che vengono scambiati tra i violini primi e secondi, mantenendo un tessuto sonoro ricco e polifonico.
La musica si evolve attraverso sezioni più distese, caratterizzate da armonie che esplorano tonalità vicine. Le linee melodiche continuano a essere distribuite tra le voci superiori, spesso con figurazioni rapide e arpeggiate che mettono in mostra l’abilità tecnica degli strumentisti. Dopo una sezione centrale complessa, si verifica un ritorno del tema principale, con una ripresa energica che riporta alla tonalità di impianto. Il movimento si conclude con una reiterazione delle frasi tematiche, ribadendo il carattere festoso e dinamico dell’Allegro.
Il movimento centrale, Largo, offre un profondo contrasto emotivo e timbrico rispetto al movimento precedente. La tonalità si sposta verso una regione vicina più malinconica. Il carattere è meditativo e lirico, mentre le dinamiche sono generalmente più contenute. Il violino prende il centro della scena, con una linea melodica espressiva e ornata, tipica del linguaggio solistico del periodo. L’accompagnamento degli altri strumenti è discreto, fornendo un supporto armonico essenziale che enfatizza la cantabilità del violino. L’attenzione si sposta dall’interazione ritmica a una profonda espressività melodica.
Bonporti mantiene l’interesse variando sottilmente la melodia e introducendo tensioni armoniche. Nonostante l’andamento lento, ci sono momenti di intensità emotiva, spesso creati attraverso dissonanze risolte dolcemente o passaggi cromatici, che accrescono il senso di introspezione. Il movimento si chiude con una riaffermazione della serenità iniziale, preparando l’ascoltatore per il finale virtuosistico. Una cadenza perfetta conclude il brano con grazia e compostezza.
L’ultimo movimento, Vivace, ripristina l’energia e il virtuosismo del primo, concludendo il concerto con brio. Il movimento si lancia in un ritmo serrato e veloce, tornando al re maggiore brillante. Il tema è agile e giocoso, con figurazioni di crome e semicrome che richiamano la vivacità delle danze.
La trama musicale è densa, con passaggi rapidi che richiedono grande coordinazione all’ensemble. C’è un forte senso di moto perpetuo, dove l’energia ritmica non si placa. Le frasi vengono scambiate rapidamente, mantenendo la natura “a quattro” del concerto. Inframezzate all’energia principale, compaiono brevi momenti di maggiore cantabilità o di minore intensità, che fungono da respiro prima di reintrodurre la spinta motoria: questi contrasti dinamici e ritmici sono fondamentali per evitare la monotonia del tempo veloce.
Segue una sezione di elevato tecnicismo, con scalette e figurazioni veloci eseguite all’unisono o in imitazione stretta tra i violini. L’elemento distintivo di Bonporti, ovvero l’attiva scrittura polifonica, è particolarmente evidente qui, creando un effetto di turbinio orchestrale. Il movimento si dirige verso la sua conclusione con una ritmica intensificazione: le ultime battute sono un’affermazione conclusiva e perentoria della tonalità di impianto, chiudendo il pezzo con la tipica brillantezza e risolutezza del Barocco italiano.

Zodiaco

Urmas Sisask (1960 - 17 dicembre 2022): Sodiaak per pianoforte op. 50 (1994). Lauri Väinmaa.

  1. Kaljukits – Mina kasutan – Meister (Capricorno – Io uso – Maestro)
  2. Veevalaja – Mina tean – Avastaja (Aquario – Io so – Scopritore)
  3. Kalad – Mina usun – Unistaja (Pesci – Io credo – Sognatore)
  4. Jäär – Mina olen – Alustaja (Ariete – Io sono – Iniziatore)
  5. Sõnn – Mina oman – Koguja (Toro – Io possiedo – Collezionista)
  6. Kaksikud – Mina mõtlen – Vahendaja (Gemelli – Io penso – Mediatore)
  7. Vähk – Mina tunnen – Hoolitseja (Cancro – Io sento – Custode)
  8. Lõvi – Mina tahan – Esineja (Leone – Io voglio – Esecutore)
  9. Neitsi – Mina kontrollin – Korrastaja (Vergine – Io controllo – Organizzatore)
  10. Kaalud – Mina kaalun – Harmoniseerija (Bilancia – Io peso – Armonizzatore)
  11. Skorpion – Mina loodan – Kirglik suhtleja (Scorpione – Io spero – Comunicatore appassionato)
  12. Ambur – Mina näen – Prohvet (Sagittario – Io vedo – Profeta)


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Urmas Sisask, il trascrittore di musica cosmica

Urmas Sisask non si considerava un compositore, bensì un «trascrittore di musica». La sua visione è profondamente radicata nell’amore universale e nella connessione cosmica, affermando che l’Universo fu creato con amore 13,7 miliardi di anni fa e che gli esseri umani esistono per percepirlo. Vedeva il pianeta Terra come una «calamita per la vita» e l’essere umano come un’entità nata dalle stelle e destinata a tornare ad esse.

Formazione e l’osservatorio di Jäneda
Intrapresi gli suoi studi di composizione presso la Scuola superiore di musica di Tallinn, Sisask si diplomò nel 1985 presso il Conservatorio statale di Tallinn. Dal 1985 al 2000 la sua attività fu strettamente legata alla piccola città estone di Jäneda, dove lavorò come direttore artistico della casa della cultura locale e come insegnante di musica. In questo contesto, nel 1994, fondò la Torre osservatorio musicale all’interno del maniero di Jäneda, dotata di un planetario autoprodotto (1996). Questa torre divenne il luogo centrale delle sue osservazioni astronomiche, della creazione della maggior parte delle sue composizioni e dell’organizzazione di numerosi concerti-conferenza.

L’astro-musica: metodo e ispirazione
L’interesse per l’astronomia fu sin dall’infanzia la sua principale fonte di ispirazione e si concretizzò nelle prime opere astro-musicali (ad esempio, il ciclo pianistico per bambini Cassiopeia).
L’astro-musica di Sisask si basa su due metodi distinti: il metodo intuitivo, per cui l’ispirazione è tratta dall’esperienza diretta, dalle osservazioni e dalle conoscenze astronomiche; e il metodo matematico, per cui le frequenze dei suoni sono determinate dalla conversione numerica dei movimenti dei corpi celesti. Il metodo matematico si basa sul principio che la rotazione dei corpi celesti può essere trattata come l’oscillazione di frequenze fisse, convertibili nel campo dell’udito umano.
Analizzando i moti planetari nel 1987, Sisask derivò una serie di cinque note (do diesis – re – fa diesis – sol diesis – la), che corrisponde esattamente alla scala pentatonica giapponese Kumayoshi. Questa struttura scalare costituisce la base melodica e armonica per un gran numero di sue opere, tra cui Gloria Patri. Le tematiche astronomiche sono particolarmente evidenti nelle sue opere strumentali, come i tre cicli per pianoforte Starry Sky e numerosi concerti dedicati a comete (The Hale Bopp Comet) o sciami meteorici (Concerto per violino n. 1 Perseids).

Ricchezza di generi e influenze culturali
L’opera di Sisask è ricca per generi e stili, spaziando dalla musica sacra (corale, messe, oratori) a composizioni popolari o persino rap-simili. Le sue opere più note includono il Requiem per coro maschile e orchestra sinfonica (1998) e la Messa n. 3 (Messa estone, 1992), la prima messa scritta in lingua estone. Ha ottenuto un vasto riconoscimento internazionale, soprattutto per la sua musica corale, caratterizzata da una trama chiara, armonia semplice, fluidità della conduzione vocale, e una sincera emotività (Gloria Patri, ciclo di 24 inni a cappella, 1988).
Oltre all’astronomia, il lavoro di Sisask è influenzato dalle culture sciamaniche, dai canti runici estoni, dalla tradizione della musica sacra europea, dal canto gregoriano, dalla polifonia vocale medievale e dall’armonia corale luterana.
Il suo idioma musicale è costantemente segnato dallo sviluppo variato di vivide melodie centrali, da un impulso ritmico estatico e da tecniche di stile della musica rituale (spesso richiamando i canti runici o i rituali sciamanici con l’uso di semplici ostinati). Egli stesso partecipa spesso all’esecuzione delle sue opere suonando il pianoforte o il tamburo sciamanico.

Riconoscimenti e pubblicazioni
Urmas Sisask ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio culturale della Repubblica estone (1990) e il Premio musicale del Consiglio musicale estone (2020).

Sodiaak
Questa suite appartiene al più ampio ciclo dei lavori di “astro-musica” del compositore. L’opera non è solo una semplice sequenza di brani, ma un vero e proprio viaggio sonoro attraverso i dodici segni zodiacali, ognuno associato a un’affermazione esistenziale e a un archetipo psicologico.
Il Capricorno, archetipo del Maestro, è associato alla determinazione, alla struttura e all’uso metodico delle risorse. Il movimento è caratterizzato da un’esposizione austera che bilancia momenti di stabilità e tensione. Sisask utilizza una trama complessa e serrata, dominata da intervalli stretti e progressioni che suggeriscono un’implacabile forza di volontà. La musica si sviluppa attraverso figure virtuosistiche e ascendenti nella mano destra, accompagnate da un movimento costante nella mano sinistra.
La musica riflette l’archetipo del Maestro non attraverso l’esuberanza, ma attraverso il controllo tecnico e la precisione strutturale. Il fraseggio è nitido e l’esecuzione richiede una notevole maestria per mantenere la chiarezza in mezzo alla densità armonica, evocando l’idea di una mente che pianifica e utilizza la sua conoscenza con rigore. La sezione centrale, più pacata, sembra rappresentare la solitudine o l’introspezione necessaria alla leadership, prima di tornare alla sua energia strutturata e finalistica.
L’Aquario, archetipo dello Scopritore, incarna invece la conoscenza intuitiva, l’innovazione e il distacco intellettuale. Questo movimento è notevolmente diverso dal precedente, introducendo una sonorità più eterea e dinamica. È strutturato con arpeggi rapidi e fluidi, che creano un senso di leggerezza e moto perpetuo. L’uso di scale ascendenti e discendenti a velocità vertiginosa suggerisce l’idea di scoperta e di navigazione attraverso nuove idee (l’“Io so” dell’Aquario). L’armonia rimane prevalentemente modale, ma l’uso del registro acuto e della dinamica leggera conferisce un carattere quasi impalpabile, simile all’aria.
La musica è una rappresentazione della mente in continuo movimento. L’energia incessante, ma non pesante, della musica simboleggia la curiosità intellettuale e la ricerca di nuove frontiere. La tessitura leggera e l’uso del pedale creano riverberi che evocano l’immensità dello spazio, campo d’azione prediletto dell’Aquario e di Sisask stesso.
I Pesci, archetipo del Sognatore, sono legati all’intuizione, alla fede e all’unione mistica. Il movimento si apre con una melodia semplice e toccante, trasportata su arpeggi lenti e sognanti. L’atmosfera è meditativa e profondamente emotiva, in netto contrasto con il rigore di Capricorno e l’attività intellettuale di Aquario. Sisask utilizza armonie dense e accordi arpeggiati che si dissolvono lentamente, creando un effetto quasi mistico. La melodia è centrale e trasmette una forte sensazione di credenza e speranza.
Questo brano è l’incarnazione del “Io credo”: la musica comunica una qualità onirica, un senso di trascendenza e di connessione con il non-visibile, tipico del segno dei Pesci. La dolcezza del fraseggio e l’uso di dinamiche sommesse (spesso pianissimo) riflettono la natura compassionevole e introspettiva del sognatore.
L’Ariete, archetipo dell’Iniziatore, rappresenta invece l’azione, l’identità e la forza primordiale del “Io sono”. Il movimento è audace, diretto e marcatamente ritmico, e si qualifica come una delle sezioni più energiche dell’opera, dominata da accordi staccati e un ostinato frenetico nella mano sinistra. L’uso della scala Kumayoshi (Do#-Re-Fa#-Sol#-La) è evidente, conferendo al brano un sapore esotico e una propulsione ritmica incalzante, un tratto distintivo dell’astro-musica di Sisask. L’andamento è veloce e assertivo.
Questo è l’esplosivo “Io sono”. La musica non lascia spazio a dubbi: è una dichiarazione di esistenza e di forza propulsiva. Il ritmo incessante simboleggia la natura impulsiva dell’Ariete, che inizia e apre la strada, riflettendo la forza primigenia e l’autoaffermazione.
Il Toro, archetipo del Collezionista, è legato alla stabilità, al possesso materiale e al godimento sensoriale. Il brano presenta un carattere più terroso e radicato, con la musica costruita su una melodia solida e ripetitiva, poggiata su un basso fermo e accordi ben scanditi. Meno frenetico dell’Ariete, ma con una densità maggiore, il pezzo evoca una sensazione di abbondanza e radicamento. Il tempo è moderato e il rubato espressivo assente, sottolineando la stabilità e la materialità.
Il concetto di “Io possiedo” è espresso attraverso la ricchezza della tessitura e la ripetizione ostinata delle figure. Questa stabilità musicale simboleggia l’amore del Toro per il confort e la sua natura di “Collezionista”, che accumula e apprezza ciò che è tangibile e duraturo.
I Gemelli, archetipo del Mediatore, simboleggiano la comunicazione, la dualità e l’attività mentale (l’“Io penso”). Il movimento è caratterizzato da un’estrema leggerezza e velocità, utilizzando cromatismi e figurazioni in entrambe le mani. La rapidità dell’esecuzione riflette la dualità e l’agilità mentale dei Gemelli. Il timbro è brillante e aereo, mentre l’escursione melodica è ampia e frammentata, suggerendo un flusso di pensieri che si muovono velocemente e in molteplici direzioni.
La musica è l’epitome del “Io penso”, esemplificato dal dialogo tra le mani che evoca la necessità di comunicazione e mediazione (il Mediatore). L’instabilità armonica rappresenta l’irrequietezza intellettuale e la costante elaborazione di informazioni.
Il Cancro, archetipo del Custode, è invece il segno associato alle emozioni profonde, alla casa e all’impulso di nutrire (“Io sento”). Qui l’atmosfera si fa più intima e nostalgica, con dinamiche più calde e un respiro più lento. Il movimento utilizza una melodia fluida e arpeggiata su armonie modali, spesso con un rubato che enfatizza il sentimento. La musica si sviluppa con profondità emotiva, riflettendo la natura legata all’acqua e all’emozione del Cancro. L’uso di intervalli che generano nostalgia e calore emotivo è prevalente.
Il Cancro si esprime attraverso l’“Io sento”. La musica agisce come una culla sonora, evocando sentimenti di protezione e nostalgia. La delicatezza del tocco e il flusso melodico continuo simboleggiano l’empatia e il ruolo di “Custode” che protegge il focolare emotivo.
Il Leone, archetipo dell’Esecutore, è sinonimo di regalità, creatività e affermazione della volontà (“Io voglio”). Questo brano è un’esplosione di energia e teatralità: Sisask fa ampio uso di ottave, triadi maggiori e dinamiche potenti, creando una sonorità ricca e imponente. Il ritmo è marziale e affermativo, con figurazioni che risalgono il pianoforte in maniera gloriosa. È il movimento più esuberante e apertamente virtuosistico, quasi un inno celebrativo.
L’“Io voglio” del Leone è manifestato in un brano che esige attenzione e riflette un ego forte e creativo. La musica è concepita per essere eseguita con grande pathos e convinzione, incarnando il ruolo dell’“Esecutore” che cerca il palcoscenico e il riconoscimento.
La Vergine, archetipo dell’Organizzatore, simboleggia infine l’analisi, il servizio e l’attenzione ai dettagli (“Io controllo”). Caratterizzato da un ritmo incalzante e ripetitivo, il movimento impiega la scala Kumayoshi, ma con una sensazione di maggiore controllo tecnico rispetto all’Ariete. Le linee sono precise e articolate, spesso con rapidi passaggi eseguiti con meticolosa chiarezza. La musica non è emotiva, ma è incentrata sulla meccanica e sulla pulizia delle esecuzioni.
Il brano evoca l’immagine di un meccanismo complesso e ben oliato. L’attenzione ai dettagli è tradotta in figurazioni tecniche che devono essere “controllate” perfettamente. L’archetipo dell’“Organizzatore” si manifesta nella precisione ossessiva e nell’efficienza ritmica della musica, riflettendo l’esigenza di ordine e analisi tipica della Vergine.
La Bilancia, archetipo dell’Armonizzatore, si apre con un’atmosfera sospesa e meditativa, stabilita subito da accordi eseguiti in un registro grave. L’armonia è modale e dissonante, creando un senso di mistero e profondità. La dinamica è invece contenuta, suggerendo una quiete interiore o una contemplazione e richiamando il concetto di “peso”, ma in senso riflessivo o karmico, come un bilanciamento di forze interiori.
La sezione centrale vede un aumento graduale della dinamica e della complessità ritmica. La melodia si fa più insistente, spesso ripetuta in sequenze ascendenti. L’accompagnamento diventa più attivo e frammentato, spesso con figure che suggeriscono un movimento pendolare o oscillatorio. Questo è l’apice del concetto di “Bilancia”, dove le forze in gioco tentano di trovare un equilibrio.
L’energia cresce fino a un picco emotivo e dinamico, dopo il quale si ha un rallentamento del tempo e una momentanea riduzione della dinamica. Questa sezione rappresenta l’azione dell’Armonizzatore, il processo attivo di mediazione. Si ritorna poi a maggiore chiarezza e meno dissonanze estreme, con melodie più convergenti e armonie più fluide. Il ritmo rallenta fino a raggiungere quasi l’immobilità e gli accordi finali vengono mantenuti, concludendo il brano in maniera quieta.
La Scorpione si apre invece con brillanti e veloci arpeggi acuti sostenuti da note lunghe od ottave ribattute nel registro grave. La dinamica è contenuta e l’armonia procede lentamente, basandosi su accordi modale che si susseguono senza una chiara risoluzione tonale tradizionale, enfatizzando il colore.
Seguono sezioni più movimentate e instabili che conducono a una coda dissolvente e a poche note isolate e distanziate. Questo finale così quieto e risonante rispecchia la profondità e l’esaurimento emotivo spesso associati a questo segno zodiacale.
L’ultimo brano si sviluppa infine attraverso una chiara giustapposizione di due sezioni contrastanti: la prima è virtuosistica e veloce, mentre la seconda è lenta e meditativa, seguita da una rapida ed energica ripresa. Questa struttura rappresenta il Sagittario che ritorna alla sua caccia dopo una sua visione.
Questo pezzo unisce il virtuosismo neoromantico con un linguaggio armonico del tutto originale, impiegando il pianoforte in modo sia percussivo (nelle sezioni veloci) che timbrico (nelle pause risonanti della sezione lenta). Il risultato è una composizione breve, ricca di contrasti emotivi e dinamici, che incarna con successo sia l’impulso fisico e viaggiatore del Sagittario (l’Arciere) sia la sua inclinazione mistica e intellettuale (il Profeta).
Nel complesso, l’opera è un eccellente esempio dell’approccio sincretico di Sisask, che fonde rigorosa struttura musicale (spesso matematica) con temi cosmici ed esistenziali. Attraverso l’uso sapiente della scala pentatonica (in particolare la Kumayoshi), egli conferisce all’intero ciclo una coerenza armonica, pur esplorando una vasta gamma di caratteri espressivi e tecnici. Ogni movimento funge da ritratto sonoro del segno zodiacale, utilizzando tessiture, ritmi e dinamiche specifiche per incarnare l’affermazione esistenziale e l’archetipo associato. Sodiaak si presenta come un tentativo di trascrivere le leggi cosmiche in un linguaggio accessibile e profondamente emotivo, consolidando la reputazione di Sisask non solo come compositore, ma come “trascrittore di musica” proveniente dalle armonie del cielo.

Grand chœur dialogué

Eugène Gigout (1844 - 9 dicembre 1925): Grand chœur dialogué in sol maggiore per organo (1881); adattamento per organo, ottoni e percussione di Egil Smedvig. Michael Murray, organo; Empire Brass.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Eugène Gigout: il maestro dell’organo e della Toccata in si minore

Eugène Gigout è stato un celebre organista e compositore francese, nato a Nancy e morto a Parigi. La sua carriera fu caratterizzata da una longevità eccezionale in un ruolo chiave della capitale francese: fu infatti organista titolare della Chiesa di Saint-Augustin a Parigi per ben 62 anni.

Formazione e ruolo didattico
La sua formazione musicale iniziò come corista presso la Cattedrale di Nancy. Studiò poi all’École Niedermeyer di Parigi a partire dal 1857, dove ebbe come illustri maestri Camille Saint-Saëns e Clément Loret. Egli intraprese rapidamente la carriera didattica, diventando professore nella stessa École Niedermeyer dal 1862, insegnando scrittura, pianoforte e organo. Il suo prestigio crebbe a tal punto che nel 1911 succedette ad Alexandre Guilmant alla prestigiosa cattedra d’organo del Conservatorio di Parigi. Gigout era rinomato per la sua abilità come insegnante e fondò anche una sua scuola di musica. La lista dei suoi allievi è notevole e include figure di spicco come Maurice Duruflé, Gaston Bélier, André Marchal, André Messager, Albert Roussel, e suo nipote Léon Boëllmann.

Eredità musicale e stile
Sebbene la sua vasta opera non fosse interamente votata all’organo, Gigout lasciò un repertorio significativo per questo strumento. Dal punto di vista stilistico, le sue composizioni mostrano una scrittura fortemente classica, con un rigoroso rispetto delle regole tradizionali del contrappunto e dell’armonia. Tuttavia, una caratteristica distintiva della sua musica è l’influenza del canto gregoriano, che fungeva da motore melodico in molte delle sue opere. Era inoltre noto per la sua abilità come improvvisatore.
Tra le sue creazioni più celebri per organo si annoverano la Toccata in si minore e lo Scherzo in mi maggiore, entrambi estratti dalle Dix Pièces pour orgue del 1890; la Toccata rimane la sua opera più nota, spesso eseguita come bis nei recital. Fra le altre opere organistiche vanno ricordati il Grand chœur dialogué (1881), alcune collezioni incentrate sul canto piano, come Cent Pièces brèves dans la tonalité du plain-chant (1889) e l’Album grégorien (1895), i Poèmes mystiques (1903) e le Cent Pièces nouvelles (1922).

Vita privata e parentela
Gigout era strettamente legato al mondo musicale anche per via familiare: era sposato con Caroline-Mathilde Niedermeyer, figlia del compositore Louis-Abraham Niedermeyer. Fu inoltre lo zio per matrimonio e il padre adottivo del compositore e organista Léon Boëllmann, che fu anche suo allievo. Eugène Gigout riposa nel cimitero di Montmartre a Parigi, dove è sepolto insieme alla moglie e al nipote Boëllmann.

Il Grand chœur dialogué
Composizione fra le più note di Gigout, in questo arrangiamento assume un carattere ancora più imponente grazie all’integrazione di ottoni e percussioni. Il titolo stesso suggerisce la struttura centrale del brano: l’alternanza e la contrapposizione tra due entità sonore distinte, che in questo caso sono il chœur 1 e il chœur 2, spesso interpretate come il pieno dell’organo contrapposto a un registro più brillante o, in questo adattamento, l’intera orchestra/pieno organo contro un suono più contenuto o solistico.
Il brano si apre con l’indicazione di tempo Allegro moderato quasi maestoso (Allegro moderato, quasi maestoso), che ne definisce immediatamente il carattere solenne e trionfale. L’attacco è imponente, con l’organo che suona a pieno registro (come indicato da ff e dalle annotazioni sullo spartito relative a fonds et anches, registri di fondo e registri ad ancia), sostenuto potentemente dagli ottoni e dalle percussioni che scandiscono il ritmo.
Il tema principale, di natura marziale e assertiva, è dominato da accordi a blocco e da una cascata di semicrome in sottofondo, che danno un senso di grande energia e slancio. Questo blocco sonoro rappresenta la prima “voce” del dialogo.
La struttura dialogica si manifesta chiaramente nelle sezioni successive, dove il volume e la strumentazione si riducono bruscamente. Subito dopo la maestosa affermazione iniziale, il pieno orchestrale si ritira, lasciando spazio alla seconda voce, interpretata principalmente dall’organo con un registro più leggero e brillante. L’attenzione si sposta sulla scrittura virtuosistica in semicrome, che scorrono velocemente tra le tastiere, creando un effetto di brillantezza e agilità, in netto contrasto con l’enfasi del tema precedente.
L’intero ensemble torna poi per riaffermare l’idea del tema principale, ma la sua enfasi è brevemente interrotta da un nuovo passaggio più contenuto (che alterna registri più leggeri) per poi risolversi in una conclusione potente e prolungata della frase, un punto di cadenza.
Il brano procede con l’alternanza dinamica e timbrica dei due “cori”, esplorando diverse sfumature e registri. L’organo solista riprende il ruolo virtuosistico con passaggi rapidi e tecnici, mantenendo un’energia costante (forte dinamico), dimostrando la padronanza della tastiera (tipica della tradizione organistica francese).
Il primo tema ritorna in modo trionfale, ma si evolve presto, venendo sostenuto da una linea melodica più lirica (quasi corale), mentre il sottofondo virtuosistico in semicrome dell’organo continua incessantemente. Si introduce poi una sezione calma e cantabile, dal carattere riflessivo o meditativo, affidata principalmente all’organo con registri dolci, creando un’ulteriore pausa emotiva prima di una ripresa più drammatica.
Il Grand chœur ritorna con una forza ancora maggiore e segue una sezione caratterizzata da ritmi puntati, che conferiscono un’andatura drammatica, quasi militare, con l’uso di fanfara e forti contrasti dinamici, tipici di una fase di sviluppo più intensa, che poi sfocia in una rapida e concitata sequenza in semicrome, preparando al culmine.
L’ultima parte del brano è dedicata alla riaffermazione del tema e a un’esplosione di sonorità. Il virtuosismo dell’organo è portato al massimo con una lunga e tecnicamente impegnativa sezione di scale e arpeggi rapidissimi, interrotti da brevi, potenti interventi del primo tema. L’uso di registri acuti e brillanti amplifica l’effetto di grandezza.
Il brano si avvia alla conclusione con il ritorno definitivo e schiacciante del tema principale. Ottoni, percussioni e organo a pieno registro si uniscono in una celebrazione sonora continua. L’arrangiamento esalta questo momento con la potenza orchestrale del tutti (organo, ottoni e percussioni). L’ultima sequenza armonica e melodica è prolungata e intensificata, culminando in un finale trionfale e definitivo.

Concerto triplo – III

Donald Martino (1931 - 8 dicembre 2005): Con­cer­to per clarinetto, clarinetto basso, clarinetto contrabbasso e piccola orchestra (1977). Anand Devendra, clarinetto; Dennis Smylie, clarinetto basso; Leslie Thimming, clarinetto contrabbasso; The Group for Contemporary Music, dir. Harvey Sollberger.

  1. Tempo libero
  2. Larghetto [13:06]
  3. Agitato [20:43]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Pulitzer e dodecafonia: la storia del compositore Donald Martino

Vita e formazione
Donald James Martino è stato un compositore americano, vincitore del Premio Pulitzer. Originario di Plainfield, New Jersey, iniziò la sua carriera come clarinettista, dedicandosi al jazz sia per diletto che professionalmente. I suoi studi di composizione iniziarono alla Syracuse University con Ernst Bacon e proseguirono alla Princeton University, dove lavorò con i compositori Roger Sessions e Milton Babbitt. Martino completò la sua formazione studiando con Luigi Dallapiccola in Italia come borsista Fulbright.

Carriera accademica e riconoscimenti
Martino fu anche un influente docente, insegnando in prestigiose istituzioni come la Yale University, la Brandeis University, la Harvard University e il New England Conservatory of Music, dove ricoprì il ruolo di capo del dipartimento di composizione. Il culmine della sua carriera arrivò nel 1974, quando vinse il Premio Pulitzer per la musica grazie alla sua opera da camera intitolata Notturno.

Stile musicale e opere notevoli
La maggior parte della produzione matura di Martino, inclusi pezzi con elementi pseudo-tonali, fu composta utilizzando il metodo dodecafonico. Nonostante avesse studiato con Babbitt, il suo stile sonoro era più vicino al lirismo espressivo del suo maestro italiano, Dallapiccola.
Tra le sue composizioni più famose e difficili c’è la sonata Pianississimo, commissionata dal pianista Easley Blackwood con l’esplicita richiesta di renderla una delle pagine più ardue mai scritte. Sebbene l’opera sia di difficoltà “epica” (ed è stata registrata più volte), Blackwood si rifiutò di eseguirla.
Martino espresse anche la sua ammirazione per il suo mentore, Milton Babbitt, dedicandogli due omaggi musicali in occasione dei suoi compleanni: B,a,b,b,i,t,t e il Concerto triplo.

Eredità
Nel 1991, la rivista «Perspectives of New Music» dedicò un ampio tributo di 292 pagine a Martino; in suo onore, il New England Conservatory organizzò un concerto commemorativo nel 2007, la cui registrazione fu successivamente pubblicata nel 2009.

Il Concerto triplo
Si tratta di una composizione che, pur muovendosi nel solco della tradizione dodecafonica, ne esplora i confini con un virtuosismo strumentale e una ricchezza timbrica eccezionali. L’opera è strutturata in tre movimenti distinti che mettono in risalto l’interazione unica tra i tre clarinetti solisti e l’orchestra da camera.
Il primo movimento, Tempo libero, si apre con una brusca, quasi violenta, esplosione del pieno organico, subito seguita dall’entrata del clarinetto contrabbasso. Questo attacco stabilisce immediatamente il clima di tensione e l’elemento ritmico e percussivo che caratterizzeranno il movimento.
I tre clarinetti solisti (clarinetto soprano, clarinetto basso, clarinetto contrabbasso) esordiscono con un materiale melodico e ritmico estremamente frammentato e serrato. La natura non tonale della musica, gestita con la tecnica dodecafonica, si manifesta in rapidi scambi di note puntiformi, micro-intervalli e ampi salti, sfruttando l’intera gamma dinamica e timbrica di ciascuno strumento. In particolare, il clarinetto contrabbasso viene impiegato per esplorare le regioni più gravi e scure dell’organico, creando una base timbrica complessa.
La sezione centrale del movimento è dominata da una continua ricerca di interazione virtuosistica tra i tre solisti e l’orchestra. Si susseguono momenti di grande tensione, dove le linee melodiche dei clarinetti si intrecciano in un dialogo frenetico, spesso interrotto da risposte secche e percussive del resto dell’ensemble. L’atmosfera è tesa, a tratti giocosa, ma sempre altamente tecnica e frammentata. Verso la conclusione del movimento, la densità strumentale si riduce, ma solo per un breve respiro, prima di riprendere con un’ulteriore accelerazione e un climax ritmico che porta a un brusco arresto.
Il secondo movimento, Larghetto, offre un netto contrasto, agendo da momento di intensa introspezione e lirismo, seppur all’interno di un linguaggio moderno.
L’inizio è affidato principalmente al clarinetto basso e all’orchestra in una tessitura più rarefatta e cameristica. Il carattere della musica è malinconico, meditativo e si concentra sull’esplorazione di dinamiche sommesse e colori più tenui. Il solismo in questo movimento è meno aggressivo e più orientato all’espressione della linea melodica. La parte centrale è scandita da interventi lirici, quasi lamentosi, affidati in particolare al clarinetto soprano, che emerge dalla trama orchestrale con un tono quasi elegiaco, evidenziando il lato espressivo e cantabile dello strumento, che fu in origine la prima vocazione di Martino.
L’interazione tra i solisti si sviluppa qui attraverso passaggi di linee diatonico-cromatiche distese, con un’esposizione più chiara del materiale seriale, che in questo contesto acquisisce una qualità di “pseudo-tonalità” tipica di alcune opere di Martino influenzate da Dallapiccola. Nonostante la complessità armonica, il movimento mantiene un senso di sospensione emotiva e una raffinata chiarezza timbrica, culminando in un delicato dissolvimento sonoro che prepara l’ascoltatore per il movimento finale.
Il finale, Agitato, riporta l’ascoltatore a un dinamismo e a una tensione ritmica estremi, riprendendo il clima virtuosistico e frammentato del primo movimento.
L’attacco è immediato e perentorio, con i clarinetti che si lanciano in un turbine di figure ritmiche serrate e veloci, spesso caratterizzate da rapidi staccati e un uso incisivo della percussione. La sfida tecnica dei solisti è qui al suo apice, con passaggi rapidissimi e tecnicamente impegnativi che si rincorrono e si stratificano. Il clarinetto contrabbasso, in particolare, riafferma il suo ruolo di “macchina ritmica” con interventi di grande peso sonoro.
Il movimento è un mosaico di frasi brevi e nervose, interrotte da silenzi e riprese esplosive. L’agitazione che dà il titolo al movimento non è solo di natura espressiva, ma si riflette nella scrittura implacabile e nella continua richiesta di virtuosismo a tutti gli esecutori. Il finale è segnato da una progressione di intensità, dove tutti gli elementi orchestrali e solistici convergono in un’ultima, densa e complessa affermazione del materiale tematico, concludendosi con un ultimo e definitivo scatto dinamico e ritmico che sigilla l’intera opera in un gesto di forza e chiarezza strutturale.

La canzone dell’inadeguatezza

Kurt Weill (1900 - 1950): cinque brani dalla Kleine Dreigroschenmusik für Blasorchester (1928). London Sinfonietta, dir. David Atherton.

  1. Die Moritat von Mackie Messer
  2. Anstatt-dass-Song [2:12]
  3. Die Ballade vom angenehmen Leben [3:59]
  4. Tango-Ballade [6:53]
  5. Kanonen-Song [9:35]

La Kleine Dreigroschenmusik non è propriamente una suite tratta dalle musiche scritte per l’Opera da tre soldi, ma piuttosto una composizione del tutto autonoma, dove i temi della partitura originale sono trattati con libertà e arguzia: la celebre «Moritat von Mackie Messer», per esempio, è fusa con il «Lied von der Unzulänglichkeit» in un insieme di mirabile finezza e eleganza.
Pensata per 12 strumenti a fiato, pianoforte, banjo, chitarra, bandoneon e percussione, la Kleine Dreigroschenmusik fu eseguita per la prima volta durante un ballo all’Opera di Berlino nel febbraio 1929, sotto la direzione di Otto Klemperer.


Ed ecco una vera chicca: il «Lied von der Unzulänglichkeit menschlichen Strebens» cantato nientemeno che da Bertolt Brecht in carne e adenoidi.

Der Mensch lebt durch den Kopf,
sein Kopf reicht ihm nicht aus,
versuch´ es nur, von deinem Kopf
lebt höchstens eine Laus.
Denn für dieses Leben
ist der Mensch nicht schlau genug,
niemals merkt er eben
diesen Lug und Trug.

Ja, mach nur einen Plan,
sei nur ein großes Licht
und mach dann noch ´nen zweiten Plan,
gehen tun sie beide nicht.
Denn für dieses Leben
ist der Mensch nicht schlecht genug,
doch sein höh’res Streben
ist ein schöner Zug.

Ja, renn nur nach dem Glück!
Doch renne nicht zu sehr,
denn alle rennen nach dem Glück,
das Glück rennt hinterher!
Denn für dieses Leben
ist der Mensch nicht anspruchslos genug,
drum ist all sein Streben
nur ein Selbstbetrug.

Der Mensch ist gar nicht gut
drum hau ihn auf den Hut
hast du ihn auf den Hut gehaut
dann wird er vielleicht gut.
Denn für dieses Leben
ist der Mensch nicht gut genug
darum haut ihn eben
ruhig auf den Hut.

(L’uomo vive con la testa, ma questa non gli basta. Provaci pure, dalla tua testa ci campa al massimo un pidocchio. Per stare a questo mondo l’uomo non è abbastanza furbo: manco si accorge dei trucchi e degli imbrogli.
Prepara un bel progetto da grande luminare! Poi pensa a un altro bel progetto, e prova a farli funzionare. Per stare a questo mondo l’uomo dev’essere cattivo. Le sue belle aspirazioni, tutt’al più gli fanno onore.
Rincorri la fortuna, però non correr troppo, tutti inseguono la fortuna e invece è lei a inseguire te. Per stare a questo mondo l’uomo accampa troppe pretese. Le belle aspirazioni non sono che un inganno.
L’uomo di certo non è buono, prova a dargli una strigliata. Chissà se forse allora un po’migliorerà. Per stare a questo mondo l’uomo non è abbastanza buono, non ti crucciare, quindi, e dagli una strigliata.)



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Kurt Weill: l’architetto sonoro tra l’Avanguardia di Berlino e i riflettori di Broadway

Kurt Julian Weill è stato un influente compositore tedesco, successivamente naturalizzato statunitense, la cui carriera si è divisa tra il teatro d’avanguardia europeo e i grandi musical americani.

Origini e formazione in Germania
Nato a Dessau in una famiglia ebraica ashkenazita – il padre, Albert Weill, era chazan (cantore) della sinagoga locale – il giovane iniziò la sua formazione musicale fin dall’infanzia. Dopo i primi studi presso il Teatro regio ducale della sua città, nel 1915 passò sotto la guida di Albert Bing. Su incoraggiamento di questi, nel 1918 si iscrisse alla Hochschule für Musik di Berlino per studiare con Engelbert Humperdinck (composizione) e con Rudolf Krasselt (direzione d’orchestra). Tuttavia, problemi finanziari e una certa alienazione dall’ambiente accademico lo spinsero a tornare a Dessau l’anno seguente, dove lavorò come maestro sostituto per Bing e Hans Knappertsbusch, e in seguito come direttore di una piccola compagnia d’opera a Lüdenscheid. Il punto di svolta accademico avvenne nel 1920, quando Weill tornò a Berlino ma, su consiglio dell’amico Hermann Scherchen, scelse di non studiare con Franz Schreker, preferendo iscriversi ai corsi speciali tenuti da Ferruccio Busoni presso l’Akademie der Künste, frequentandoli per tre anni. Si perfezionò anche con l’assistente di Busoni, Philipp Jarnach: è a questo periodo che risale il suo primo balletto per bambini, Zaubernacht (1922).

L’apice tedesco: Nuova Oggettività e la partnership con Brecht
A metà degli anni ’20, Weill emerse come figura chiave della Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit), un movimento che portava temi sociali e politici in musica. I suoi primi lavori significativi, come il Concerto per violino e fiati (1925) e l’opera Der Protagonist (1926), riflettono questa nuova sensibilità. In questi anni, il compositore frequentò assiduamente i circoli espressionisti berlinesi, in particolare il Novembergruppe, entrando in contatto con intellettuali di spicco come Philipp Jarnach, Hanns Eisler e Bertolt Brecht.

La collaborazione con Brecht
La sua collaborazione con il drammaturgo Georg Kaiser portò al successo di Der Protagonist, il quale gli valse una commissione per una breve opera da camera, per la quale Weill attinse ai Mahagonny-Gesänge, testi tratti dalla raccolta poetica Die Hauspostille di Bertolt Brecht. Iniziò così un sodalizio artistico, benché breve (solo tre anni), che rivoluzionò il teatro novecentesco. I frutti di questa collaborazione includono:
– il Mahagonny-Songspiel (Baden-Baden, 1927);
Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi, 1928): ispirata dalla Beggar’s Opera (L’opera del mendicante, 1728) di John Gay e Johann Christoph Pepusch, vide il ruolo di Jenny interpretato da Lotte Lenya, cantante e attrice viennese, sposata da Weill nel 1926;
Happy End (1929), commedia satirica;
Ascesa e caduta della città di Mahagonny (1930), una vera e propria opera in tre atti che rielabora i materiali del precedente Songspiel.
Grazie al suo “grandissimo senso teatrale”, Weill raggiunse fama e stima in Germania e in tutta Europa.

L’esilio forzato: Parigi e Londra
Nonostante la sua crescente notorietà e il successo del suo ultimo lavoro con Kaiser, Der Silbersee (Il lago d’argento), l’avvento del nazismo costrinse Weill, di origine ebraica, a fuggire dalla Germania nel 1933. I suoi anni di esilio in Europa furono complessi, sebbene ricevette l’aiuto di colleghi stimati come Bruno Walter, Darius Milhaud e Arthur Honegger. A Parigi scrisse il balletto Die sieben Todsünden (I sette peccati capitali, 1933) su soggetto di Brecht, e il musical Marie Galante (1934), su testo di Jacques Deval. Dopo un breve periodo nel Regno Unito, Weill si preparò a lasciare definitivamente l’Europa.

La riconversione americana: da opera lirica a Broadway
Nel 1935 Weill si rifugiò negli Stati Uniti, inizialmente per supervisionare la produzione di Der Weg der Verheissung (rappresentato l’anno seguente come The Eternal Road), un lavoro dedicato alla storia del popolo ebraico. Gli anni americani segnarono un distacco volontario dalla musica d’arte europea: Weill si dedicò quasi esclusivamente al teatro di Broadway, a Hollywood e alla Radio americana, affermandosi in un nuovo genere. Dopo alcuni insuccessi iniziali (The Eternal Road o Johnny Johnson), egli raggiunse il successo con importanti musical, spesso collaborando con il paroliere Maxwell Anderson. Tra le sue opere più celebri di questo periodo vi sono: l’operetta The Fireband of Florence, l’opera americana Street Scene e Lost in the Stars. Il 19 ottobre 1938 debuttò invece il musical Knickerbocker Holiday, che raggiunse le 168 recite e rese celebre la canzone September Song.

La Kleine Dreigroschenmusik
La Kleine Dreigroschenmusik condensa l’essenza dell’opera più celebre di Kurt Weill e Bertolt Brecht, Die Dreigroschenoper. La strumentazione mette in risalto il carattere tagliente, satirico e volutamente “basso” della partitura, un marchio distintivo del movimento della Nuova Oggettività.

Il primo dei brani qui proposti è il più iconico dell’opera e si presenta immediatamente con un contrasto stridente tra la sua forma musicale – un tipo di ballata medievale cantata da menestrelli itineranti che racconta i crimini di famigerati assassini – e l’eleganza grottesca dell’orchestrazione. La melodia è semplice e armonicamente incisiva, sostenuta da un ritmo costante e leggermente marziale che le conferisce un sapore aspro e un tono quasi beffardo, tipico del cabaret berlinese. Subito dopo, si assiste a una variazione della melodia, dove il clarinetto e altri legni tessono un contrappunto agile, mantenendo la semplicità melodica di base. Le successive ripetizioni vedono i legni predominare, spesso con dinamiche forti. Weill intende prendere le distanze dalla retorica musicale borghese: il pezzo è sfacciatamente popolare, con armonie dissonanti e una strumentazione che evoca l’immagine di un’orchestrina da strada, adatta a raccontare la storia cinica e sanguinaria di Mackie Messer.
Il secondo brano è un esempio perfetto dell’influenza del jazz e della musica da ballo americana sul linguaggio musicale di Weill. Qui si giunge nel regno del foxtrot o dello shimmy, con un ritmo incalzante e una melodia ballabile. L’introduzione è guidata dai legni in un andamento quasi danzante e capriccioso, con frequenti sincopi. La strumentazione è brillante e ironica, con Weill che utilizza i fiati con grande libertà, replicando l’estetica delle prime jazz band. La sincope è onnipresente, creando un senso di precarietà e vivacità, tipico degli sfrenati anni venti. Il pezzo si basa su una serie di contrasti dinamici e tematici che riflettono la natura satirica del testo originale (che parla della caduta degli ideali). La strumentazione più sparsa contribuisce a valorizzare il timbro dei vari solisti e il contrasto tra dolcezza melodica e accompagnamento disincantato.
Il terzo pezzo offre un respiro lirico, pur mantenendo un sottotesto cinico. L’apertura è affidata a un motivo quasi lamentoso, eseguito con grande enfasi melodica, che evoca un tono di falsa nostalgia. La sua melodia è ampia, sentimentale e vivace, con un uso notevole del vibrato e dell’espressività. Il carattere poi si sposta brevemente su un tono più “jazzistico”, con la tromba che interviene con un breve intermezzo ritmico e sincopato, come una parentesi di cabaret decadente: questo inserto è poi interrotto bruscamente e il brano ritorna alla melodia principale. Le armonie sono ricche e talvolta scivolano nella dissonanza, ricordando come anche nei momenti di presunta “piacevolezza” vi sia una nota di fondo amara. L’uso dei fiati bassi (fagotto, tuba) fornisce una base solida e profonda che bilancia l’espressività degli strumenti acuti, mentre l’alternanza tra lirismo esagerato e intrusioni ritmiche spigolose mantiene viva la tensione drammatica.
Il Tango-Ballade è un altro esempio che attinge a generi popolari, deformandoli per esprimere una critica sociale: il tango qui non è romantico, ma lascivo e minaccioso. L’elemento ritmico è predominante fin dall’inizio, stabilendo il caratteristico metro binario del tango, sostenuto da una pulsazione oscura e da percussioni sobrie. Il clima è subito denso, evocando l’atmosfera fumosa e pericolosa dei bassifondi. Il brano è costruito su distinti interventi strumentali: la melodia è spezzata e spesso affidata a strumenti solisti come il sassofono soprano o il clarinetto che suonano con un tono graffiante e sensuale. L’uso del registro grave del sassofono è particolarmente efficace nel creare un senso di bassezza morale e seduzione. Un momento di particolare intensità si verifica con l’entrata della tromba che suona in modo stridulo e penetrante, aggiungendo un elemento di inquietudine, mentre le sezioni orchestrali complete mantengono la ritmica ossessiva del tango, con dinamiche potenti, prima di ritornare a un tono più sommesso e intimo. Il pezzo è notevole per la sua capacità di costruire tensione, con il tango avanza con passo inesorabile, riflettendo la tematica della perdizione e della violenza che permea l’opera di Brecht.
Il quinto brano è un’esplosione di energia cinica, un inno marziale e grottesco che celebra la guerra in modo ironico. Il brano è veloce, quasi frenetico, con un volume sonoro elevato: l’introduzione è un’immediata raffica di ottoni e percussioni che stabiliscono un ritmo di marcia sfrenato e militaristico. Weill qui si concentra sulla sezione degli ottoni, i quali assumono un ruolo preponderante, amplificando la retorica marziale in modo caricaturale. La melodia è energica ma volutamente banale, un inno vuoto e roboante che sottolinea la cieca brutalità della guerra, tipica dell’epos brechtiano. L’interazione tra i legni rapidi (clarinetti e sassofoni) e l’imponenza degli ottoni spinge il brano verso il climax, con Weill che sfrutta appieno le capacità dinamiche e timbriche dell’ensemble di fiati. La conclusione è un fragoroso e ironico accordo finale che lascia un senso di caos organizzato e di critica sociale urlata.

Nel complesso, l’opera è una testimonianza del genio di Weill nel fondere la musica d’arte con gli stili popolari, usando l’orchestrazione per fiati sia per ragioni pratiche (la necessità di un piccolo ensemble nel teatro espressionista), che per forgiare un linguaggio sonoro inconfondibile, cinico e tagliente, perfettamente adatto a commentare la società corrotta e affascinante della Repubblica di Weimar.

Concerto per violoncello – XVIII

Jean-Balthasar Tricklir (1750 - 29 novembre 1813): Concerto per violoncello e orchestra n. 6 in sol maggiore op. 2 n. 3 (1783). Alexander Rudin, violoncello e direzione; ensemble Musica Viva.

  1. Allegro
  2. Adagio [9:57]
  3. Allegretto [15:10]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Jean-Balthasar Tricklir: il microcosmo del violoncello tra virtuosismo di corte e innovazione tecnica

Jean-Balthasar Tricklir (anche Trickler o Triklir) fu una figura centrale nel Classicismo musicale, celebre violoncellista e compositore francese, nato a Digione (sebbene in una famiglia di origine tedesca) e deceduto a Dresda.

Formazione e circuiti europei del Settecento
La sua educazione musicale ebbe inizio presso il seminario di Digione, dove ricevette lezioni di violino e violoncello. Il suo sviluppo professionale prese una piega significativa tra il 1765 e il 1768, quando continuò la sua formazione nell’ambiente altamente influente dell’orchestra di corte di Mannheim, un epicentro dell’innovazione stilistica del periodo. Gli anni Settanta del XVIII secolo furono caratterizzati da intensi viaggi: Tricklir compì almeno tre tournée in Italia. Il suo prestigio come compositore fu confermato nel 1776, quando eseguì una delle proprie opere al prestigioso Concert Spirituel di Parigi.

L’apice della carriera istituzionale
All’inizio degli anni 1780, Tricklir ricoprì la carica di Kammervirtuose (solista di camera) presso il principe elettore di Magonza. Durante questo periodo, si dedicò attivamente alla musica da camera. Insieme al violinista Ernst Schick (1756-1815), Friedrich Wilhelm Heinrich Benda e un musicista di nome Hofmann, formò un quartetto d’archi che si esibì, tra l’altro, ad Amburgo nel 1782, portando all’ascolto anche i quartetti di Joseph Haydn. Un anno cruciale fu il 1783: a partire da marzo, il compositore entrò stabilmente a far parte della Hofkapelle di Dresda, una delle orchestre di corte più importanti d’Europa. Nonostante quest’incarico fisso, Tricklir non abbandonò i viaggi e, dopo il 1783, intraprese diverse tournée concertistiche che lo condussero in Inghilterra e Francia.

Il lascito tecnico e stilistico
Il suo stile esecutivo fu universalmente lodato dai contemporanei per due qualità distintive: una intonazione cristallina («klare Intonation») e una maniera di esecuzione sensibile ed espressiva («empfindsame Vortragsweise»). Nella storia dell’evoluzione della tecnica violoncellistica, Tricklir è considerato un anello di congiunzione fondamentale, rappresentando il punto di transizione tra Anton Fils e Bernhard Romberg. Tra i suoi allievi più noti si annovera Dominique Bideau.

Il compositore e l’inventore sfortunato
Tricklir fu un prolifico compositore, dedicandosi quasi interamente al suo strumento. La sua produzione principale si concentra in un decennio intenso (1779-89) e include vari concerti per violoncello, sei sonate per violoncello e basso continuo e diversi altri pezzi cameristici.

L’esperimento inedito
Oltre alla musica, Tricklir si dedicò a un tentativo di innovazione tecnica: a Dresda tentò di realizzare, con la collaborazione di un meccanico, un dispositivo destinato a facilitare l’accordatura degli strumenti a corda, specialmente in condizioni di repentini cambiamenti climatici; il tentativo non ebbe però successo. Le sue annotazioni e riflessioni su questo esperimento furono raccolte nell’opuscolo inedito Le Microcosmos musical.

Il Concerto per violoncello e orchestra n. 6
Questo concerto, risalente al 1783 circa e pubblicato a Parigi, riflette appieno lo stile galante e pre-classico di Tricklir, caratterizzato da una scrittura elegante, enfasi sulla melodia e un virtuosismo controllato ma espressivo, tipico del violoncello come strumento solista in quel periodo.

Il primo movimento è un tipico Allegro in forma-sonata, energico e brillante, ma bilanciato dall’eleganza del linguaggio classico. Esso si apre immediatamente con un tema vivace in sol maggiore, caratterizzato da figurazioni veloci e arpeggianti, con grande enfasi ritmica e armonica data dall’orchestra (principalmente archi). Il carattere è brillante e affermativo.
Segue un passaggio più melodico ma ancora ritmicamente propulsivo, che prepara la sezione successiva. Il secondo gruppo tematico, in re maggiore (la dominante), si presenta con una melodia più cantabile e leggermente più rilassata, benché mantenuta su un tempo vivace. Con una riaffermazione dell’energia iniziale e frasi cadenzali (in particolare un passaggio virtuosistico di violino), l’orchestra conclude la sua prima esposizione affermando la dominante, pronta per l’ingresso del solista.
Il violoncello solista entra in maniera decisa, riprendendo il tema principale con un’impronta più virtuosistica. La scrittura è arricchita da scale veloci, arpeggi complessi e passaggi. Segue l’espansione del materiale del ponte orchestrale, introducendo figurazioni tecniche più elaborate e sfruttando la corda di sol per ricavarne un suono pieno e risonante. La ripresa del secondo tema offre un momento lirico per il solista e qui Tricklir mette in mostra la capacità cantabile del violoncello, con frasi espressive sostenute dall’accompagnamento degli archi. L’esposizione si chiude con ulteriori sezioni virtuosistiche che stabilizzano la tonalità.
Il breve sviluppo esplora tonalità relative e materiali tematici. Tricklir sfrutta le possibilità armoniche per creare tensione: si notano modulazioni rapide e la frammentazione del tema iniziale, mentre il violoncello si impegna in passaggi tecnici che esplorano le regioni più alte del registro, creando contrasto dinamico e coloristico. Il passaggio a tonalità minori e il ritorno alla dominante attraverso progressioni armoniche ben delineate, preparano il rientro del tema principale.
La ripresa riporta il tema principale nell’orchestra, stavolta in sol maggiore, con il solista che spesso tesse contro-melodie e figurazioni decorative sopra. Il secondo tema viene riproposto anch’esso in sol maggiore, mantenendo il carattere lirico. Il movimento si conclude con una cadenza che culmina nell’ultimo tutti orchestrale.
L’Adagio si apre in sol minore, offrendo un profondo contrasto emotivo e agogico con il movimento precedente. Il violoncello espone una melodia intensamente espressiva, caratterizzata da intervalli ampi e un ritmo quieto. La tonalità minore conferisce immediatamente un senso di Empfindsamkeit (sensibilità) molto apprezzato all’epoca. La melodia prosegue con una scrittura intima, accompagnata da pizzicati leggeri degli archi, creando un’atmosfera cameristica. La musica modula delicatamente verso la tonalità relativa maggiore, si bemolle. Segue l’introduzione di nuovo materiale melodico, sebbene il carattere rimanga contemplativo e vi è una maggiore esplorazione del registro medio del violoncello. L’armonia si fa più ricca, con progressioni cromatiche che portano a momenti di maggiore intensità emotiva e una breve rielaborazione del materiale tematico di apertura. Un passaggio di transizione lento e contemplativo, focalizzato sulla sonorità espressiva del violoncello, conduce gradualmente a una cadenza finale non segnata o a un accordo di dominante che prepara il vivace movimento successivo. L’atmosfera rimane sospesa e meditativa, tipica degli adagi pre-classici.
Il finale è un Allegretto, più leggero e meno impegnativo del primo movimento. Il tono è giocoso e virtuosistico. L’apertura è affidata a un tema caratterizzato da rapidi passaggi e un ritmo saltellante. Tricklir include una serie di fioriture che sfruttano le agilità del violoncello, mantenendo tuttavia la chiarezza dell’intonazione. Un episodio contrastante, in una tonalità vicina, si presenta con un carattere più tranquillo, quasi pastorale, e offre un momento di riposo prima del ritorno al tema principale. Questo ritorna in sol maggiore più condensato e, su di esso, il compositore introduce variazioni più elaborate, aumentando la velocità e la complessità tecnica. La conclusione è affidata a una rapida e brillante coda nella tonalità principale, che riafferma l’energia e la stabilità del tono, concludendo il concerto con spirito tipicamente classico.

Nel complesso, l’opera mostra la maestria di Tricklir nel bilanciare il sentimento (espresso nell’Adagio) con il brillante virtuosismo (nei movimenti esterni). La sua musica si colloca perfettamente nel periodo di transizione tra il tardo Barocco e il Classicismo maturo, evidenziando una predilezione per la melodia chiara e una tecnica esecutiva sofisticata, caratteristiche che lo resero un ponte tra i grandi violoncellisti della sua epoca.

Tricklir op. 2 n. 3

The Giant Guitar

Miguel del Águila (1957): The Giant Guitar per orchestra op. 91 (2006). Kring­kastings­orkestret (Orchestra radiofonica norvegese), dir. Miguel Harth-Bedoya.

« The Giant Guitar is a short overture-like work inspired by Andean folk idioms. Having lived the first twenty years of my life in South America I can’t think of a guitar without associating its music to my early memories. I often view South America as a “giant guitar” … friendly, sentimental, nostalgic, and yet concealing a great powerful secret, only suggested by occasional rasgueado chords or historical revolutions. Unfortunately, I can’t think of this “giant guitar” without remembering conflict and the dramatic political events of the 1970’s. Thus this work starts in a somewhat nostalgic mood, beginning with a theme based on the six open strings of the guitar (E A D G B E). After these few introductory bars the flutes re-introduce the guitar theme now in a very rhythmic pattern resembling an Inca-Andean flute chant. The strings accompany the melody through rhythmically complex pizzicati, imitating a giant guitar or South American charango. The drama begins almost unnoticed as the originally delicately strummed chords turn into violent bass drum and timpani hits. A final chord, a third higher then the rest of the piece, offers a last note of defiance as it confronts a police siren, only to be quickly crushed by the overwhelming percussion. » (Miguel del Águila).

Nascita dell’impromptu

Jan Václav Voříšek (1791 - 19 novembre 1825): 6 Impromptus per pianoforte op. 7 (c1816-22). Tamae Kawai.

  1. Allegro
  2. Allegro moderato [5:18]
  3. Allegretto [11:30]
  4. Allegretto [17:40]
  5. Allegretto [24:36]
  6. Allegretto [33:55]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Jan Voříšek: Il “Beethoven boemo” e l’eredità incompiuta del Romanticismo

Origini e formazione del genio boemo
Jan Václav Hugo Voříšek è stato un compositore, pianista, organista e direttore d’orchestra ceco, noto anche con il soprannome onorifico di “Beethoven boemo”. Nacque a Vamberk, in Boemia, figlio del direttore della scuola locale, nonché maestro del coro e organista. Il padre stesso fu il suo primo insegnante di musica, incoraggiandolo nello studio del pianoforte e assicurandogli una borsa di studio che gli permise di proseguire gli studi presso l’Università Carlo Ferdinando di Praga. Sebbene ammirasse la produzione mozartiana, egli si sentì maggiormente attratto e ispirato dalle correnti del Romanticismo incarnate da Ludwig van Beethoven.

L’ascesa professionale a Vienna
Nel 1813, Voříšek si trasferì a Vienna, formalmente per studiare giurisprudenza, ma con l’obiettivo primario di incontrare il suo idolo. Il desiderio si realizzò nel 1814, quando il giovane compositore ebbe un incontro con il maestro. Nella capitale asburgica, strinse amicizie e collaborazioni con figure centrali del panorama musicale dell’epoca, tra cui Louis Spohr, Ignaz Moscheles, Johann Nepomuk Hummel e in particolare Franz Schubert, con il quale sviluppò una profonda amicizia.
Voříšek completò gli studi di diritto nel 1822, ottenendo successivamente un incarico come praticante presso il consiglio militare di corte. Parallelamente, la sua carriera musicale fiorì rapidamente: nel 1818, divenne direttore della prestigiosa Società degli amici della musica, mentre nel 1822 ottenne la posizione di secondo organista presso la corte imperiale. L’anno seguente fu infine promosso a primo organista. Tra l’altro, divenne un apprezzato insegnante di pianoforte, annoverando tra i suoi allievi personalità di spicco dell’alta società, incluso Napoleone II, figlio di Napoleone Bonaparte e Maria Luisa.

La morte prematura e la sepoltura storica
Nonostante la promettente carriera e il successo ottenuto come compositore di musica orchestrale, vocale e pianistica, Voříšek si ammalò di tubercolosi. Un soggiorno curativo a Graz (Štýrský Hradec) nel 1824 non sortì purtroppo gli effetti sperati e il compositore morì a Vienna l’anno successivo, all’età di soli 34 anni. Fu sepolto nel cimitero di Währing, luogo che accolse anche le spoglie di Beethoven e di Schubert.

Il repertorio e l’innovazione dell’Impromptu
Voříšek è ricordato per la sua produzione, sebbene limitata dalla sua breve vita, di alta qualità e precocemente romantica. Compose un’unica sinfonia, in re maggiore (1821), caratterizzata da una ricca inventiva melodica e considerata un capolavoro del primo Romanticismo, venendo talvolta paragonata alle prime due sinfonie di Beethoven. Durante il suo incarico di organista di corte, compose invece la Messa solenne in si bemolle maggiore op. 24, un’opera celebrativa di pregevole fattura.

L’innovazione dell’Impromptu
Uno dei maggiori contributi di Voříšek alla storia della musica risiede nella sua opera per pianoforte: il primo uso documentato del termine musicale impromptu (un pezzo caratteristico a forma libera che suggerisce l’improvvisazione) risale al 1817 ed è collegato a una sua composizione. Fu la rivista Allgemeine musikalische Zeitung a utilizzare per la prima volta questo termine per designare un suo brano per pianoforte. Fu grazie al compositore che il genere in questione poté vedere la luce ed essere sviluppato e reso famoso da compositori come Schubert e Chopin.

Eredità postuma
Nonostante la sua breve vita, lo stile di Voříšek, con la sua tipica cantabilità pastorale boema, lasciò un segno profondo, influenzando direttamente i futuri giganti della musica nazionale ceca, in particolare Bedřich Smetana e Antonín Dvořák.

I Sei Impromptus op. 7
Contributo fondamentale al repertorio pianistico, queste brevi composizioni, scritte tra il 1816 e il 1822, non solo stabiliscono il genere dell’impromptu come pezzo caratteristico autonomo, ma rivelano anche un’originalità e una liricità che influenzeranno direttamente Schubert. L’intera raccolta è caratterizzata da una spiccata natura lirica, una ricchezza melodica di stampo boemo e una freschezza compositiva tipica dell’emergente sensibilità romantica.
Il primo brano, Allegro, in do maggiore, si presenta con una forma che ricorda il rondò o il tema con variazioni, ma con un carattere più libero e improvvisativo. Si apre con un tema principale energico e brillante, caratterizzato da accordi pieni e un ritmo vivace, tipico di una scrittura virtuosistica post-beethoveniana. L’uso di ampi arpeggi e figure scalari veloci stabilisce immediatamente un tono gioioso e tecnicamente impegnativo. Segue una prima sezione più lirica, in cui la melodia si addolcisce, pur mantenendo un accompagnamento ritmico serrato: questa parte, con i suoi salti di ottava e passaggi rapidi, mette in mostra l’agilità del pianista. Il ritorno del tema principale è subito seguito da un episodio contrastante, la cui tessitura più densa e le armonie più ricche richiamano esplicitamente il clima del primo Romanticismo viennese. Voříšek bilancia abilmente la chiarezza classica della forma con l’espressività romantica dell’armonia. La transizione verso la chiusura è rapida, riaffermando il carattere brillante e conclusivo del movimento.
Il secondo Impromptu, Allegro moderato, in sol maggiore, è lirico e sereno, e dimostra pienamente la predilezione di Voříšek per le melodie cantabili e le armonie raffinate. L’atmosfera è pastorale e sognante, evocata da una melodia dolce che si muove su ampi arpeggi e figure che creano un accompagnamento fluente. La scrittura è trasparente, quasi cameristica, e le dinamiche sono contenute. Si nota un uso frequente di fioriture e abbellimenti che aggiungono grazia alla linea melodica, mentre la progressione armonica è ricca, modulando verso tonalità correlate con facilità, mantenendo sempre la chiarezza strutturale. Una sezione centrale più energica introduce un contrasto drammatico attraverso un ritmo puntato e un registro più grave, sebbene la tensione non sia mai violenta. Questo momento di introspezione oscura offre un respiro prima del ritorno, purificato e intensificato, del tema iniziale. Il brano si conclude con una riaffermazione tranquilla del tema nella tonalità principale, svanendo progressivamente.
Il terzo Impromptu, Allegretto, in re maggiore, è di natura più drammatica e malinconica, sfruttando la malinconia intrinseca della tonalità. Voříšek esplora una tessitura più complessa, con figurazioni ritmiche ostinate che creano un senso di urgenza sottostante. La melodia, sebbene espressiva, è frammentata e più ritmica rispetto al pezzo precedente. Il ritorno del tema principale è trattato con maggiore intensità, mentre la coda finale è scura e rapida, concludendo il pezzo con energia e un senso di irrisolto.
Segue un Allegretto, in la maggiore, che ripristina l’atmosfera di brillantezza e leggerezza. Questo pezzo è marcatamente virtuosistico ed è caratterizzato da arpeggi rapidissimi che si estendono su tutta la tastiera, creando un effetto scintillante. L’abilità tecnica richiesta è notevole, con passaggi veloci e legati assai impegnativi. La struttura è basata sulla ripetizione e variazione di questo materiale brillante, mentre una sezione secondaria introduce un ritmo più incalzante e accordi leggermente più marcati, mantenendo il registro alto e luminoso. Il tema principale riappare, ma con fioriture virtuosistiche aggiunte, quasi a voler celebrare la libertà espressiva del pianista, mantenendo un’atmosfera decisamente positiva e serena. Il finale è un culminare di arpeggi che chiudono il pezzo con decisione.
Il quinto Impromptu, Allegretto, in mi maggiore, è forse il più profondamente lirico e schubertiano del gruppo. Il pezzo si distingue per la sua semplicità melodica e il calore armonico, focalizzandosi sull’espressione pura del sentimento. Il tema iniziale è un ampio canto affidato alla mano destra, sostenuto da un accompagnamento in arpeggi fluidi e legati che evocano tranquillità. La dinamica è spesso in piano, suggerendo un carattere intimo e contemplativo. Voříšek usa modulazioni armoniche sottili ma efficaci, che arricchiscono il flusso emotivo senza rompere l’equilibrio. Il contrasto centrale introduce un elemento di maggiore fervore, ma la velocità rimane moderata, mantenendo la musica concentrata sulla qualità espressiva piuttosto che sulla velocità. Il ritorno del tema è accompagnato da variazioni nella tessitura che ne intensificano la ricchezza emotiva. La conclusione è una dissolvenza progressiva, tipica del romanticismo nascente, lasciando un’impressione di quiete malinconica.
L’Impromptu finale, Allegretto, in si maggiore, è complesso e drammatico, fungendo da conclusione potente e meditativa per l’intera opera. Nonostante l’indicazione di tempo moderata, questo pezzo ha un peso emotivo significativo e inizia con un tema cupo e quasi marziale in do minore che mescola accordi potenti a passaggi veloci. La forma è elaborata, alternando sezioni drammatiche e lamentose con momenti di maggiore introspezione, mentre la mano sinistra gioca un ruolo cruciale nel definire il moto perpetuo e la tensione emotiva, spesso con ampi salti.
La modulazione alla sezione di contrasto porta un breve ma luminoso sollievo, con un tema che appare quasi come una preghiera. Tuttavia, il do minore torna presto con figure concitate. Un elemento distintivo del brano è il finale esteso e maestoso che costruisce la tensione armonica e dinamica in modo graduale. Invece di una conclusione puramente brillante, Voříšek offre un epilogo che combina la potenza del Classicismo (nell’uso delle scale complete e degli accordi) con la profondità emotiva del Romanticismo. L’Impromptu si conclude con un’ultima e decisa cadenza nella tonalità di impianto, lasciando un senso di drammaticità risolta.

I Sei Impromptus op. 7 di Voříšek rappresentano una tappa cruciale nella transizione stilistica tra Classicismo e Romanticismo. Il compositore mostra una padronanza della forma, ereditata da Mozart e Beethoven, ma la infonde con una vena melodico-armonica profondamente personale e lirica, che lo pone tra i precursori del linguaggio che Franz Schubert avrebbe poi esplorato ampiamente.
L’opera bilancia momenti di virtuosismo brillante con sezioni di profonda e malinconica interiorità, culminando nella gravità drammatica dell’ultimo pezzo. La sua influenza sul panorama musicale viennese dell’epoca, benché breve a causa della morte prematura, fu indiscutibile, consolidandone la fama di “Beethoven boemo”.

Brigg Fair

Frederick Delius (1862 - 1934): Brigg Fair, an English rhapsody (1907). Orchestra of the Welsh National Opera, dir. Charles Mackerras.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Brigg Fair: echi di malinconia in una rapsodia pastorale di Delius

Brigg Fair: An English Rhapsody (1907), dedicata all’amico Percy Grainger (che scoprì e registrò il canto popolare a Brigg, Lincolnshire, nel 1905), è una delle opere più celebri e incantevoli del compositore. Essa è concepita come una serie di variazioni sul tema centrale del canto popolare. Delius impiega una grande orchestra, inclusi sei corni e un clarinetto basso, per evocare una profonda e nostalgica atmosfera pastorale, tipica del suo stile impressionista e lirico.
Il pezzo si apre con una lenta introduzione che mira a evocare, come suggerito, «una mattina d’agosto pigra e nebbiosa». Musicalmente, questa sezione è caratterizzata da tessiture orchestrali eteree e armonie indefinite. L’introduzione è dominata da strumenti solisti – flauto, arpa e archi divisi – che introducono progressivamente il nucleo tematico.
La melodia del tema segue l’arrangiamento originale di Grainger, che aggiunse strofe da altri canti popolari per “completare” la narrazione. In modo dorico, essa è espressa con un tono malinconico e pensoso, nonostante il testo parli di un incontro gioioso alla fiera. Il tema è inizialmente affidato all’oboe, uno strumento che Delius spesso usa per esprimere il lirismo pastorale, venendo poi ripetuta da un flauto, mentre gli archi riprendono il tema con pienezza e calore.
La sezione delle variazioni inizia con una tessitura orchestrale più ricca, ma mantiene l’andamento lento e contemplativo.
La prima variazione espande la melodia in un contesto di ampio respiro, con il tema che si muove attraverso le diverse sezioni orchestrali. La musica riflette poi un incremento di intensità dinamica e tessiturale, sebbene ancora contenuta.
La seconda variazione introduce invece un contrasto ritmico e una maggiore vivacità: Delius utilizza spesso un cambio di tempo più rapido in questa fase per iniettare energia. L’orchestrazione si fa più luminosa e ricca. Il clarinetto basso, uno strumento inusuale in ruoli solistici, ha un breve momento distintivo e la musica diventa «allegra e spensierata», come si addice a un giovane che si reca alla fiera.
Segue una modulazione di umore, spostandosi verso atmosfere più complesse e sfumate. La musica si fa più densa armonicamente e drammatica, assumendo la natura di un vero e proprio «paesaggio marino». Le variazioni si concentrano sull’evocazione delle onde, con figure orchestrali che creano movimento ritmico e un senso di vastità.
La musica diventa poi potente e drammatica, dipingendo il «rumore e l’eccitazione» delle onde e forse il tumulto emotivo, raggiungendo la sua massima sonorità ed espressione poco dopo. Le armonie sono più ricche e l’intera orchestra partecipa all’esposizione, con i fiati e le percussioni che amplificano l’effetto. Dopo il picco, la musica inizia la sua progressiva recessione e l’eccitazione si attenua lentamente.
La sezione finale è un lungo epilogo che dissolve l’orchestra nelle stesse tessiture calme e nebbiose dell’inizio e Delius riprende il tema, infondendolo di «nostalgica malinconia». Il ritmo rallenta e l’orchestrazione si alleggerisce, con gli archi che prendono il sopravvento, concludendosi con un senso di pace crepuscolare.
Il tema torna brevemente, sussurrato, spesso affidato a strumenti solisti in un registro alto e il pezzo si conclude su un accordo di armonia risolta, lasciando l’ascoltatore con l’impressione di una quiete profonda e duratura, riflettendo la luce finale e intensa del sole che si riflette sull’acqua.

Nel complesso, questa rapsodia non è una semplice serie di variazioni accademiche, ma un viaggio emotivo che cattura l’essenza del paesaggio e del sentimento umano. Delius utilizza la vasta tavolozza orchestrale non per effetti drammatici tradizionali, ma per creare sfumature timbriche ricche e fluide, tipiche dell’impressionismo musicale, per poi dissolvere il tutto in una risonanza nostalgica. La progressione attraverso gli ambienti naturali serve come metafora per l’arco emotivo e l’evoluzione armonica del canto popolare.

Oggi vogliamo ricordare un grande direttore d’orchestra, sir Charles Mackerras, nel centenario della nascita (17 novembre 1925 - 2010).

Sonata per arpa – III

Paul Hindemith (16 novembre 1895 - 1963): Sonata per arpa (1939). Kateřina Englichová.

  1. Mäßig schnell
  2. Lebhaft [5:06]
  3. Sehr langsam [7:44]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Paul Hindemith: dall’Avanguardia provocatoria all’architettura della Nuova Tonalità

Paul Hindemith è stato una figura centrale della musica moderna tedesca (Neue Musik), un compositore, teorico e musicista universale la cui carriera fu segnata da un’evoluzione stilistica radicale e da una drammatica rottura con il regime nazista.

Vita e formazione giovanile
Nato a Hanau, Hindemith proveniva da una famiglia operaia (il padre Rudolf era imbianchino). Quando era bambino la sua famiglia si spostò, stabilendosi a Francoforte sul Meno nel 1905. Il padre, nonostante le umili origini, incoraggiò l’educazione musicale dei tre figli, Paul, Antonie e Rudolf, presentandoli poi al pubblico in un ensemble chiamato Frankfurter Kindertrio. Hindemith padre perse la vita al fronte nel settembre 1915. A partire dai nove anni, Paul studiò violino e, dal 1909, frequentò il Dr. Hoch’s Konservatorium, studiando con Adolf Rebner (violino), con Arnold Mendelssohn e Bernhard Sekles (composizione). Già nel 1913 fu ingaggiato come I violino (Konzertmeister) presso il Nuovo Teatro di Francoforte e, dal 1915 al 1923, mantenne la medesima posizione all’Opera di Francoforte. Nel 1918 prestò brevemente servizio militare come musicista reggimentale in Alsazia e poi in Francia e Belgio, esperienza che lo confrontò con gli orrori della guerra.

L’ascesa professionale e il ruolo nell’Avanguardia
Il 1921 segnò la sua definitiva affermazione con le prime dei suoi atti unici provocatori Mörder, Hoffnung der Frauen e Das Nusch-Nuschi. Pochi mesi dopo, la prima esecuzione del suo Terzo Quartetto per archi alle prime Giornate di musica di Donaueschingen lo consacrò come uno dei compositori di maggior successo della sua generazione. Suonò stabilmente la viola (dal 1923 al 1929) nel celebre Quartetto Amar, un ensemble di riferimento per la musica contemporanea. Tra il 1923 e il 1930 fu direttore artistico, insieme ad altri, delle Giornate di Donaueschingen, trasformandole in un forum vitale per la Nuova Musica. Era anche un compositore frequentemente eseguito ai festival della Società internazionale per la musica contemporanea (ISCM). Nel 1924 sposò Gertrud Rottenberg, figlia del Kapellmeister dell’Opera di Francoforte. Influenzato dal cognato Hans Flesch (pioniere della radio), Hindemith compose opere specifiche per la radio, inclusa l’opera radiofonica Der Lindberghflug (1929), una collaborazione con Kurt Weill e Bertolt Brecht. Nel 1927 fu nominato professore di composizione all’Accademia Musicale di Berlino. Ebbe anche un interesse per gli strumenti meccanici ed elettronici emergenti, come il Trautonium, di cui seguì lo sviluppo.

Il conflitto con il regime nazista e l’esilio
Già nel 1929, l’opera Neues vom Tage aveva suscitato le ire di Hitler. Con l’ascesa del nazismo, le opere di Hindemith furono etichettate come “bolscevismo culturale” e “arte degenerata” (entartete Kunst). Nel 1934 subirono un divieto di trasmissione radiofonica in Germania. La situazione degenerò quando il direttore Wilhelm Furtwängler tentò una pubblica difesa del compositore (“Il caso Hindemith”). Il ministro della propaganda Joseph Goebbels reagì definendo Hindemith un «rumorista atonale», portando al congedo di Hindemith dalla sua cattedra a Berlino e alle dimissioni di Furtwängler. In segno di solidarietà, Hindemith si esibì al violino in prigioni berlinesi (come Moabit, dove era detenuto il cognato Flesch) tra il 1933 e il 1934. Il divieto di esecuzione delle sue opere in Germania divenne totale nel 1936, una situazione aggravata anche dal fatto che la moglie Gertrud era di ascendenza ebraica. Dopo aver lavorato in Turchia (1935-37) per riformare il sistema di educazione musicale, Hindemith si dimise dalla sua cattedra a Berlino nel 1937. Nel 1938 emigrò in Svizzera e, all’inizio del 1940, si trasferì negli Stati Uniti, dove accettò la cattedra di teoria musicale alla Yale University. Ottenne la cittadinanza americana nel 1946.

La carriera internazionale e l’eredità
Dalla fine degli anni ’40, Hindemith sviluppò una notevole carriera come direttore d’orchestra, esibendosi a livello mondiale con un repertorio vastissimo, dal barocco fino ai contemporanei (dirigendo, ad esempio, i Wiener Philharmoniker e il New York Philharmonic). Dal 1951, iniziò a insegnare anche all’Università di Zurigo, finché nel 1953 lasciò definitivamente gli USA per stabilirsi in Svizzera (a Blonay). Continuò a comporre e dirigere fino alla fine: le sue ultime opere significative includono l’opera Die Harmonie der Welt (su Keplero, 1956-57) e la Messa per coro a cappella (1963), la sua composizione finale, che diresse personalmente a Vienna poco prima di ammalarsi.
Hindemith fu un insegnante molto selettivo e talvolta severo (ricevendo critiche, come quella di Adorno, per l’eccessiva rigidità del suo sistema teorico). Tuttavia, formò una lunga lista di compositori di fama internazionale e ricevette numerosi riconoscimenti, tra cui la laurea honoris causa dalla Freie Universität Berlin (1950) e il Premio Balzan per la Musica (1962). La sua eredità è gestita dalla Hindemith-Stiftung, fondata nel 1968 dalla vedova Gertrud, che sostiene l’Istituto Hindemith a Francoforte e il Centro musicale a Blonay. In suo onore sono stati istituiti due premi, uno dal Festival musicale dello Schleswig-Holstein e uno dalla città di Hanau. Il suo vasto corpus di composizioni è conservato e catalogato dall’Istituto Hindemith. È inoltre degna di nota l’influenza esercitata su altri compositori, come William Walton, autore di Variazioni su un tema di Hindemith.

Il profilo artistico e l’evoluzione stilistica
Nella sua prima fase creativa, Hindemith si guadagnò la reputazione di “Bürgerschreck (terrore dei borghesi) grazie a uno stile musicale deliberatamente scioccante, caratterizzato da ritmi aspri, dissonanze stridenti e l’inclusione di elementi jazz. Successivamente, il suo stile si evolse verso il Neoclassicismo, focalizzandosi su un nuovo approccio alle forme classiche (sinfonia, sonata, fuga). Hindemith rifiutò l’immagine romantica del genio ispirato, enfatizzando invece il primato della tecnica e dell’artigianato compositivo. Questa enfasi si riflesse nella sua teoria, in particolare nel fondamentale Unterweisung im Tonsatz. Il suo sistema teorico è definito come “tonalità libera”, un approccio che si distingue sia dalla tonalità tradizionale maggiore-minore sia dall’atonalità dodecafonica di Schönberg. Sostenne inoltre la Gebrauchsmusik (musica d’uso), considerando un dovere del compositore affrontare le sfide sociali e non comporre per mero fine a sé stesso.

La Sonata per arpa
Dedicata all’arpista italiana Clelia Gatti Aldrovandi, il brano si colloca nella fase matura e neoclassica del compositore tedesco del quale esemplifica i principi estetici: un rigoroso artigianato compositivo, il ritorno alle forme classiche e l’adesione a una “tonalità libera” che rifugge sia dal cromatismo tardo-romantico sia dalle radicalità atonali. Il risultato è un lavoro di razionalità compositiva, privo di eccessivo psicologismo e caratterizzato da uno stile asciutto e ben scandito, pur esaltando le particolari sonorità dello strumento.
Il primo movimento, indicato come Mäßig schnell (Moderatamente veloce), stabilisce immediatamente il tono neoclassico e strutturale della sonata. Nonostante l’indicazione di tempo, il movimento si sviluppa attraverso una chiara alternanza di due elementi distinti, quasi antitetici per funzione e carattere, sfruttando appieno la versatilità dell’arpa.
In primo luogo, si distingue una linea di carattere lirico e misurato, che si snoda con semplicità e chiarezza: questo tema, pur essendo moderno nell’armonia (che aderisce alla “tonalità libera” di Hindemith), mantiene una base strutturale salda. Secondariamente, si nota un materiale di movenze vivaci e veloci, simile a una tessitura clavicembalistica. Questo riferimento al Barocco è un chiaro omaggio al modello bachiano, fondamentale nell’estetica di Hindemith. Quest’elemento è caratterizzato da agilità, precisione e una robusta costruzione ritmica, evitando qualsiasi sentimentalismo.
Il movimento procede attraverso la dialettica e l’alternanza di questi due blocchi sonori, dove la melodia controllata è contrapposta alla propulsione ritmica e virtuosistica. La scrittura essenziale e la melodia chiara assicurano che il suono dell’arpa, spesso associato a toni eterei e impressionistici, venga impiegato qui per scopi costruttivi e razionali.
Il secondo movimento porta invece l’indicazione Lebhaft (Vivace), rivelandosi un brano dallo spirito affine allo Scherzo della tradizione classica. Qui, la componente ritmica, già evidente nel primo movimento, si manifesta in maniera ancora più robusta e affermativa, confermando la «salda padronanza tecnica di tipo artigianale» del compositore.
L’andamento è veloce e dinamico, focalizzato sul vigore costruttivo tipico di Hindemith: sebbene l’arpa sia uno strumento rinomato per i suoi effetti atmosferici, il compositore la impiega per creare sezioni energiche e ben definite, spesso attraverso figurazioni veloci e brillanti. La chiarezza armonica rimane fondamentale, con il linguaggio essenziale che evita di cadere nella complessità contrappuntistica fine a sé stessa, ma che si concentra piuttosto sulla funzionalità e sull’impatto ritmico-costruttivo. Questa parte rappresenta il culmine dell’energia e della motricità nell’opera, fungendo da netto contrasto con il carattere meditabondo del finale.
Il movimento finale, Sehr langsam (Molto lento), assume il carattere di un calmo Lied e si distingue per il suo lirismo profondo, ma sempre contenuto, offrendo un contrasto emotivo con i primi due tempi veloci. La caratteristica più notevole di questo finale è il suo diretto riferimento a un testo lirico di Friedrich Hölderlin (1770-1843), riportato nello spartito dal compositore: «Sei tu che riposi / nel verde suolo / sotto il cielo azzurro? / Sei tu che canti / tra gli alberi / al sole che tramonta?»
Sebbene il movimento sia strumentale e l’arpa non canti il testo, la musica è pensata per evocare l’atmosfera di questa poesia. L’arpa disegna linee melodiche contemplative e sospese, che riflettono la natura malinconica e meditativa della lirica di Hölty (nome con cui Hindemith indicava familiarmente Hölderlin).
Il rallentamento del tempo e la tessitura armonica, pur mantenendo l’assenza di retorica sentimentale tipica di Hindemith, permettono all’arpa di esprimere le sue qualità timbriche più delicate e riflessive. La conclusione del brano non cerca un trionfo drammatico, ma una pacata risoluzione intellettuale ed emotiva, in linea con l’etica compositiva che vedeva l’arte come una «scelta morale e intellettuale».

Nel complesso, l’opera è un esempio paradigmatico del Neo-classicismo di Paul Hindemith. Sebbene sia stata composta in un periodo turbolento (appena prima della sua emigrazione definitiva a causa del nazismo), essa rifiuta l’angoscia espressionista, optando per la chiarezza formale, l’onestà artigianale e l’efficacia musicale. Essa celebra la forma classica tripartita (veloce-scherzo-lento), utilizzando l’arpa non come veicolo per il romanticismo o l’impressionismo, ma come strumento di architettura sonora precisa e razionale. L’influenza di Bach e il principio di Gebrauchsmusik si riflettono nell’attenzione di Hindemith alla tecnica strumentale e nella sua capacità di costruire un linguaggio espressivo forte senza ricorrere a «velleità di musicare idee filosofiche o attività musicali sentimentalisticamente sovraeccitate», ma piuttosto attraverso «schiettezza, realismo e semplicità».

Four Piano Blues

Aaron Copland (14 novembre 1900 - 1990): Four Piano Blues (1926-48). Alan Marks, pianoforte.

  1. For Leo Smit
  2. For Andor Foldes
  3. For William Kapell
  4. For John Kirkpatrick


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Four Piano Blues: il mosaico ritmico di Aaron Copland

Four Piano Blues è una raccolta di quattro brevi brani per pianoforte composti dall’americano Aaron Copland. Sebbene l’opera sia stata pubblicata integralmente solo nel 1949, il materiale che la compone copre un ampio arco temporale nella carriera del compositore, essendo stato scritto in momenti diversi tra il 1926 e il 1948. L’opera rappresenta un assemblaggio eterogeneo di schizzi e melodie rielaborate, legati dal linguaggio e dall’atmosfera del blues.
La collezione è notevole per essere la fusione di due pezzi risalenti agli anni ’20 e due successivi scritti negli anni ’40, tutti originariamente concepiti per altri progetti o rimasti inediti.
I primi due brani risalgono al 1926 e furono inizialmente concepiti come movimenti separati di una suite per pianoforte mai completata, intitolata Five Sentimental Melodies, un lavoro che a sua volta prendeva spunto da melodie estratte dal Concerto per pianoforte di Copland.
Uno degli schizzi era originariamente destinato a far parte di un set di due blues, ma Copland ne pubblicò solo il primo, lasciando il secondo inedito. L’altro brano fu invece intitolato inizialmente Hommage à Milhaud e Copland lo revisionò nel 1934, utilizzandolo poi come base per la «Dove Dance» nel balletto Hear Ye! Hear Ye!
I rimanenti due brani furono infine composti tra il 1947 e il 1948, e questi nuovi schizzi melodici ebbero un ruolo fondamentale nel successivo Clarinet Concerto di Copland, anch’esso completato nel 1948.
Solo dopo aver terminato il Concerto per clarinetto, il compositore decise di rivedere i quattro schizzi per pianoforte, precedentemente rimasti separati e inediti, per unirli sotto il titolo Four Piano Blues. Il set completo fu pubblicato da Boosey & Hawkes nel 1949.

L’ordine dei movimenti nella pubblicazione finale non segue l’ordine cronologico della composizione, ma fu stabilito come segue: il brano del 1947, l’Hommage à Milhaud (1926-34), il brano del 1948 e il Blues No. 2 (il brano del 1926 rimasto inedito).
Nonostante ogni blues possegga un titolo (derivato dall’indicazione di tempo) e un sottotitolo (derivato dalla dedica), la raccolta non ha mai avuto una “prima” ufficiale, poiché è probabile che i singoli brani fossero eseguiti separatamente come intermezzi o bis.

Il primo brano è dedicato a Leo Smit, pianista e fotografo noto per essere stato un fervente sostenitore e interprete della musica di Copland. Esso si caratterizza per un’atmosfera che cerca l’equilibrio tra la libertà espressiva e un rigore strutturale sottostante. L’indicazione di tempo è Freely poetic, suggerendo un approccio lirico e flessibile, mentre la tonalità principale è re maggiore.
La sezione iniziale è dominata da una melodia nostalgica nella mano destra, spesso in terze o seste, con un accompagnamento arpeggiato e rarefatto nella mano sinistra. Indicazioni agogiche come hold back (rallentare) e move forward (accelerare) sottolineano l’intento poetico e non meccanico dell’esecuzione. Subito dopo, si introduce un elemento ritmico più vivace e sincopato, con una progressione cromatica ascendente, marcata mf e poco crescendo. Questa sezione, pur mantenendo l’armonia basata su accordi di settima tipici del blues, aggiunge tensione drammatica.
La musica poi torna a un’espressione più calda (warmly) e rilassata, pur conservando frammenti del precedente materiale ritmico. L’indicazione Tempo I (come sopra) riporta l’esecutore all’andamento iniziale, ma l’armonia si fa più densa e ricca di cluster. Il culmine dinamico e ritmico arriva con un fortissimo (ff con enfasi). L’uso aggressivo degli accordi sincopati in entrambe le mani crea una dichiarazione enfatica prima di una rapida dissoluzione, lasciando l’armonia sospesa e aperta al brano successivo.
Il secondo blues è invece dedicato ad Andor Foldes, pianista particolarmente vicino al repertorio di Béla Bartók. Esso è un netto contrasto con il precedente, privilegiando un carattere intimo e malinconico.
L’indicazione Soft and languid (molle e languido) definisce immediatamente l’atmosfera. Il pezzo è prevalentemente tranquillo (mp legatissimo) e utilizza un tempo di 12/8 che crea una sensazione di dondolio lento e cullante, tipico di certe ballate blues. L’armonia è ricca di accordi estesi di nona e undicesima, contribuendo alla sensazione di “morbidezza”. La melodia è spesso nascosta o intrecciata nell’accompagnamento.
Il movimento introduce rapidi contrasti di dinamica e tessitura: l’indicazione rit. (rallentando) prepara una sezione in cui il ritmo del blues si distorce leggermente, con un passaggio breve e quasi aggressivo (mf). La musica poi accelera leggermente (a trifle faster) e la tessitura diventa quasi cameristica, con un gioco di botta e risposta tra le voci superiori e quelle inferiori, creando un effetto di call and response. Questa sezione è marcata pp e pp drammaticamente.
Il brano ritorna gradualmente al Tempo I, riprendendo il suo andamento languido iniziale, ma con una maggiore enfasi sulla melodia al basso. Il pezzo si conclude con una ripresa sognante (pp dreamily) che svanisce lasciando un senso di quiete sospesa.
Il terzo brano è dedicato a William Kapell, pianista di grande talento tragicamente scomparso in un incidente aereo pochi anni dopo la pubblicazione della raccolta. Si tratta del pezzo più espressivamente intenso e passionale della raccolta, con indicazioni di performance che sottolineano un carattere “smorzato e sensuale”.
Pervaso da un senso di moderato vigore e tensione armonica, l’indicazione mf sensuous suggerisce un tocco profondo, ma controllato. La struttura ritmica è più diretta e meno sincopata rispetto agli altri blues, ma l’armonia è complessa, ricca di dissonanze e progressioni cromatiche che generano un senso di attrazione e rilascio. Il brano sperimenta subito un crescendo drammatico, raggiungendo un culmine di intensità armonica e dinamica (ff). L’uso del pedale e degli ampi arpeggi nelle sezioni successive crea un’ondata sonora avvolgente.
Il contrasto ritorna con una sezione centrale marcata poco crescenso e un’esplosione dinamica, prima di calmarsi in una ripresa del materiale iniziale ma con un’indicazione As at first. Il brano si conclude con un’ultima ripresa del tema iniziale, molto smorzata e riflessiva, con dinamiche ridotte.
L’ultimo brano è dedicato a John Kirkpatrick, grande pianista e accademico americano, e conclude la raccolta con un’energia propulsiva e ottimistica. L’indicazione With bounce (Con slancio) imposta un ritmo di danza vigoroso e sincopato, con un tempo veloce (♩= 120). La tessitura è spessa e martellante, con un forte senso ritmico e un metro chiaro, mentre la melodia, pur mantenendo gli intervalli e gli accenti tipici del blues, è giocosa e incisiva, e le mani lavorano spesso in un registro medio-basso, conferendo robustezza all’insieme.
La sezione centrale mantiene l’energia, con progressioni armoniche rapide e un’indicazione di accelerazione (a trifle faster). Il pezzo presenta passaggi che richiedono precisione ritmica e un tocco deciso.
Dopo una sezione che rallenta drasticamente (molto ritardando, much slower), il brano si riafferma nel suo tempo iniziale (A tempo) con una dinamica mf legatissimo. L’energia ritmica riprende, costruendo verso la conclusione con l’ultima ripetizione sincopata che termina con un accordo secco e finale, lasciando l’ascoltatore con un senso di conclusione energica e definitiva.

Nel complesso, l’opera è un eccellente riassunto dell’approccio di Copland alla musica americana: il ciclo non solo esplora diverse sfumature emotive del blues (lirico, languido, sensuale, vivace), ma dimostra anche la capacità del compositore di integrare elementi jazz e popolari in una cornice modernista, utilizzando armonie complesse e dinamiche contrastanti per esprimere una gamma emotiva completa. I singoli brani sono formalmente brevi e concisi, ma ogni movimento contribuisce a un quadro generale di raffinatezza e profonda espressione americana.

Partita per flauto solo

Johann George Tromlitz (8 novembre 1725 - 1805): Partita V in mi minore per flauto solo. Mirjam Nastasi.

  1. Largo
  2. Allegro assai [2:28]
  3. Menuet con variationi [3:58]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’architetto del suono: Johann George Tromlitz e la rivoluzione del flauto a chiavi

Johann George Tromlitz è una figura a sé stante nel panorama musicale tedesco, distinguendosi come flautista, compositore e, soprattutto, innovatore nella costruzione di strumenti.

Biografia e formazione tra legge e musica
Figlio di un granatiere, egli nacque in Turingia e completò gli studi scolastici a Gera. La sua formazione superiore si concentrò inizialmente sul diritto: dal 1750 frequentò la facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Lipsia, conseguendo il titolo di Notarius publicus caesareus (notaio imperiale). La passione per la musica, presumibilmente sviluppata in età avanzata, lo portò nel 1754 a entrare come solista di flauto al Großes Konzert di Lipsia, precursore della celebre Orchestra del Gewandhaus. La sua carriera di solista lo vide impegnato in viaggi concertistici che lo condussero fino a San Pietroburgo. Nel 1776, Tromlitz scelse di ritirarsi dalla vita pubblica. Rilevante è la sua parentela con Clara Schumann, sua pronipote.

Il contributo rivoluzionario come costruttore di flauti
L’insoddisfazione per i limiti acustici e di intonazione del flauto a una sola chiave fu la molla che spinse Tromlitz a dedicarsi all’arte della fabbricazione di strumenti già durante gli anni universitari; in seguito esercitò tale attività anche commercialmente. Egli si adoperò per sviluppare il modello di flauto di Quantz, migliorandolo tramite l’aggiunta di chiavi. Dopo quasi quarant’anni di ricerca e costruzione, raggiunse l’apice della propria attività con la realizzazione di un flauto provvisto di otto chiavi: questo strumento è storicamente significativo in quanto è considerato l’antesignano diretto del flauto che Theobald Boehm avrebbe sviluppato in seguito, segnando un fondamentale passo evolutivo. Gli strumenti di Tromlitz erano molto costosi per l’epoca (venduti tra i 6 e i 40 ducati) e, a oggi, ne sono conservati sei in collezioni e musei, tra cui uno appartenuto al poeta Eduard Mörike.

Didattica, trattatistica e produzione compositiva
Oltre all’attività di esecutore e costruttore, Tromlitz fu un influente insegnante di flauto e autore di diverse opere didattiche. Il suo testo più importante, pubblicato nel 1791, è l’Ausführlicher und gründlicher Unterricht die Flöte zu spielen (Istruzioni dettagliate e approfondite su come suonare il flauto). Questo trattato è una delle fonti primarie e più autorevoli per la comprensione delle tecniche esecutive e della prassi del flauto storico, in particolare nel periodo di fine Settecento. Come compositore, Tromlitz ha invece lasciato un repertorio che comprende varie partite per flauto solo, concerti per flauto e sonate per flauto e strumento a tastiera. Dal punto di vista stilistico, la sua opera si colloca nell’ambito dei contemporanei come Johann Joachim Quantz e Carl Philipp Emanuel Bach.

La Partita V in mi minore
Questa composizione costituisce un esempio affascinante della musica per flauto solo del tardo Settecento, collocandosi stilisticamente tra il Barocco tardo e l’emergente Classicismo.

Il primo movimento, Largo, si presenta come un brano di grande espressività e profondità emotiva e si caratterizza per un’esecuzione lenta, contemplativa e molto ornamentata. La dinamica è attentamente variata, con l’uso frequente di salti tra piano e forte, tipico dello stile espressivo dell’epoca. Questa prima parte si struttura in una serie di frasi brevi e ben definite che si susseguono senza soluzione di continuità, spesso impiegando figure retoriche musicali (come i sospiri o i salti melodici drammatici) per evocare un senso di pathos.
Dapprima il flauto stabilisce subito il tono malinconico in mi minore: le prime frasi sono ricche di fioriture e appoggiature che arricchiscono la melodia, conferendo un carattere quasi improvvisatorio e libero, come da prassi esecutiva dell’epoca. Si introduce poi una sezione di passaggi rapidi e arpeggiati, che contrastano con il tempo lento di base. Questi momenti mettono in luce la padronanza tecnica richiesta al solista, pur mantenendo un sottile lirismo. Si notano cromatismi espressivi e un gioco di scale e contro-melodie implicite.
La linea melodica successivamente si sviluppa con maggiore complessità e si sentono contrasti dinamici netti e sequenze armoniche che esplorano tonalità vicine. Si nota anche l’ampio utilizzo di trilli e ornamenti. Il ritmo si fa più serrato, anche se il tempo complessivo rimane largo: vi è una progressione di fioriture intense e dinamiche che creano tensione, per poi rilassarsi in passaggi più ariosi e virtuosistici, tipici dello stile galante.
La conclusione del movimento ritorna al carattere iniziale. Si notano figure ascendenti e discendenti, spesso risolte con grazia, che portano a un finale lento e molto espressivo, dove le note si spengono in un lungo calando.
Il secondo movimento, Allegro assai, è invece il cuore virtuosistico e contrastante dell’opera, offrendo un vivace stacco dal Largo precedente. Questo movimento è eseguito con grande energia e un tempo notevolmente veloce. È una dimostrazione di abilità tecnica, caratterizzata da rapide corse, arpeggi dinamici e ampi salti intervallari. L’atmosfera è di gioia o di brio spensierato, in tonalità maggiore. Questa parte segue una struttura che ricorda l’allegro di sonata o una forma bipartita tipica del Classicismo nascente.
Il tema principale, rapido e giocoso, è introdotto immediatamente. La melodia è composta da figure chiare e ritmicamente propulsive. La sezione è breve e conclude su una cadenza energica.
Segue un intenso lavoro di sviluppo melodico e tecnico: Tromlitz sfrutta appieno le capacità dello strumento, con una serie di passaggi cromatici rapidissimi e sequenze in registro acuto. Il ritorno a elementi quasi di fanfara dà un senso di maggiore articolazione.
Si ripresentano infine le idee tematiche iniziali, spesso con variazioni e un rinnovato impeto ritmico. La seconda parte della ricapitolazione presenta lunghe scale e arpeggi che culminano in una serie di rapidi scambi e una chiusura brillante.
Il movimento finale è un Menuet con variationi, che combina l’eleganza formale della danza con la libertà e la creatività delle variazioni. Il tema è esposto con chiarezza e grazia, aderendo al ritmo ternario tipico del minuetto: è semplice e cantabile, fungendo da base solida per le successive elaborazioni.
La prima variazione introduce figure più veloci e figurali, mantenendo l’armonia del tema sottostante. Si notano sequenze ascendenti e discendenti eseguite in sedicesimi, aggiungendo leggerezza e slancio al movimento di danza.
La seconda variazione è invece caratterizzata da passaggi più vivaci e arpeggi ampi, che coprono una vasta estensione del flauto. La musica si sposta su registri acuti, creando un effetto brillante e virtuosistico: le figurazioni sono complesse e richiedono controllo assoluto sull’articolazione rapida.
Il carattere muta, tornando a un’espressività più dolce, quasi un’eco del Largo: il ritmo è moderato, e la melodia si arricchisce di abbellimenti e legature che ne sottolineano il lirismo. Si sentono salti melodici ampi e un uso drammatico del registro grave.
Ritorna poi la brillantezza, con una sezione dominata da terzine e passaggi scalari rapidi che incorniciano il tema. È una delle variazioni tecnicamente più esigenti, mantenendo un flusso costante di note e concludendosi con un’ulteriore conferma ritmica.
La quinta variazione è più estesa ed esplora una tessitura più complessa, utilizzando fioriture barocche e cadenze veloci, spesso su registri acuti. La musica è estremamente decorativa e piena di energia, alternando sezioni basate su arpeggi veloci a momenti di maggiore concentrazione melodica.
Segue un contrasto forte, con un carattere quasi marziale o di fanfara, pur mantenendo l’ossatura del minuetto. Successivamente, la musica si evolve in un dialogo ritmico serrato, caratterizzato da figure ascendenti e discendenti molto rapide, che spingono l’esecuzione al suo limite tecnico.
Il movimento conclude con una breve coda che riassume la vivacità dell’Allegro e delle variazioni. Vi è un’ultima esplosione di virtuosismo con scale e arpeggi velocissimi, portando l’opera a una risoluzione conclusiva e trionfante.

Nel complesso, la Partita V è un’opera emblematica del periodo classico per flauto solo e riflette chiaramente la transizione stilistica dal Barocco (evidente nella struttura per movimenti di danza e l’uso intensivo di ornamenti nel Largo) al Classicismo (osservabile nella chiarezza tematica del Minuetto e la propensione per il virtuosismo brillante nell’Allegro assai). La ricchezza espressiva dei movimenti lenti e l’agilità richiesta nelle sezioni più veloci offrono un ritratto fedele della musica per flauto di questo influente costruttore e didatta tedesco.

La giostra stregata

Daphne Tayo-Rességuier (2001): The Haunted Carousel per orchestra (2018). Wiener Kammerorchester, dir. Aleksej Igudesman. 🎃



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Daphne Tayo-Rességuier. Dalle Alpi Svizzere al Konzerthaus di Vienna: storia di un genio eclettico

Questa giovane compositrice svizzera si distingue per il suo stile eclettico e la sua visione profondamente filosofica della musica. Il suo percorso artistico è un intreccio precoce di talento per l’improvvisazione, formazione classica itinerante e un profondo impegno per la pedagogia e l’aiuto umanitario, con la missione dichiarata di «riconnettere il pubblico con la spensierata creatività dell’infanzia».

Le radici dell’improvvisazione: Gstaad e la natura
Tayo-Rességuier ha mostrato un istinto e una passione per l’improvvisazione fin dalla tenera età. A soli 4 anni ha iniziato le lezioni di piano nella sua città natale alpina, Gstaad. Ha subito sviluppato l’abitudine di chiedere temi ai suoi conoscenti per le sue improvvisazioni spontanee, traendo spesso ispirazione diretta dalla natura circostante: la fauna locale, l’imprevedibilità delle montagne e l’atmosfera drammatica del tramonto sono diventati temi ricorrenti nelle sue creazioni giovanili.

Dalle prime note all’orchestra: formazione e viaggi
All’età di soli 9 anni, Daphne ha lasciato la vita montana per studiare pianoforte al Conservatorio di Ginevra. Questo periodo le ha offerto maggiori opportunità di esibirsi e di collaborare con altri artisti, inclusi studenti di balletto. Le estati a Venezia sono state cruciali: qui ha iniziato a studiare composizione, culminando nella scrittura del suo primo brano orchestrale, Opening Wings. A 10 anni, nel 2012, ha invece preso la decisione autonoma e audace di trasferirsi alla rinomata Wells Cathedral School, in Inghilterra, una scuola specialistica di musica. Qui ha espanso le proprie abilità musicali, affiancando lo studio delle percussioni al pianoforte e imparando ad annotare le proprie improvvisazioni. Terminò questa fase di studio nel 2017, conseguendo eccellenti risultati accademici e il 1° Premio in pianoforte e composizione al Bristol Festival of Music.

Il balzo a Vienna e il debutto internazionale
Dopo un breve ritorno a Ginevra e il diploma di scuola superiore a soli 16 anni, la giovane compositrice ha preso un’altra decisione significativa: trasferirsi a Vienna per intraprendere un percorso musicale multidisciplinare e autogestito. Questa scelta è stata ispirata da una collaborazione con il duo viennese Igudesman & Joo in uno spettacolo con la pianista Yuja Wang. In Austria Tayo-Rességuier ha raggiunto rapidamente la notorietà: alla fine del suo primo anno a Vienna, ha composto il brano orchestrale The Haunted Carousel, eseguito al Concerto di Capodanno del Wiener Konzerthaus nel 2018. Un’altra composizione, New Horizons, è stata commissionata per la serie di concerti Meisterkonzerte a Kempten ed eseguita dalla Franz Liszt Symphonie Orchestra Sopron.

Stile musicale e filosofia
Lo stile musicale della compositrice è caratterizzato da elementi distintivi che riflettono la sua missione artistica. In primis, ella dimostra un grande interesse per i ritmi “mondiali” e unisce generi diversi all’interno di un contesto classico, creando un suono unico e moderno: la sua musica è stata descritta come «molto visiva», suggerendo un forte legame tra il suono e l’immaginazione o le immagini mentali. Ancora, la Tayo-Rességuier incoraggia l’impegno attivo del pubblico introducendo il concetto di «ascolto creativo», un approccio che considera il pubblico parte integrante del processo creativo, essenziale per la sua missione di riconnessione con l’infanzia.
La sua musica è stata lodata per la sua originalità e profondità: il monaco buddista Matthieu Ricard ha osservato che le sue opere combinano «la freschezza della gioventù e la profondità dell’esperienza», mentre la pianista e compositrice Gabriela Montero l’ha elogiata per il suo talento, immaginazione, sensibilità e curiosità, qualità che si riflettono chiaramente nelle sue composizioni eclettiche.

Oltre la musica: impegno umanitario e pedagogia
Gli interessi di Daphne si estendono ben oltre la composizione, abbracciando i campi dell’istruzione e dell’aiuto umanitario. Dopo il liceo, ha fatto volontariato in Ecuador per la ONG svizzera OneAction, lavorando presso la scuola INEPE, dove ha insegnato inglese e ha sviluppato un suo metodo di pedagogia musicale per studenti di età compresa tra i 5 e i 18 anni. Inoltre, ha introdotto lo studio della fitoterapia tra il personale e gli studenti per migliorare la salute familiare attraverso la conoscenza delle piante medicinali. Attualmente, Daphne Tayo-Rességuier risiede a Ginevra, dove continua gli studi di pianoforte e percussioni, componendo e collaborando attivamente con musicisti in tutta Europa.

The Haunted Carousel
Per la serata più spettrale dell’anno è necessario un pezzo adeguato che unisca silenzio, inquietudine e un pizzico di… terrore! The Haunted Carousel di Daphne Tayo-Rességuier calza proprio a pennello, rivelandosi un’opera energica e ricca di contrasti timbrici, un vero e proprio connubio di elementi di musica da film, marcia e valzer macabro. Il brano si struttura attraverso un’alternanza di sezioni, rappresentanti sia il movimento ciclico e inquietante della giostra (carousel) sia il suo carattere spettrale (haunted).
L’introduzione è dominata dagli archi, che presentano un motivo ciclico, rapido e in tonalità minore, eseguito in pianissimo. La tessitura è leggera, con un’articolazione rapida e staccata che suggerisce immediatamente un senso di movimento, rotazione, ma anche di ansia. Il tema è ossessivo e crea un’atmosfera di attesa, mentre un motivo ascendente nei violoncelli tenta di farsi strada, rafforzando la sensazione di ineluttabilità: la giostra sta iniziando a muoversi silenziosamente, quasi fosse un fantasma, trascinando con sé l’ascoltatore.
Il carattere muta con l’ingresso deciso delle percussioni, che stabiliscono un ritmo di marcia o di valzer distorto, conferendo una qualità più meccanica all’opera. La melodia si sposta ai legni, in particolare al clarinetto e al corno, con linee che ricordano la musica da circo o da luna park, ma filtrate da una malinconia oscura, come una risata agghiacciante. Le percussioni contribuiscono a un timbro secco, scintillante e spettrale, come uno “specchio deformante” della giostra, mentre l’arpa aggiunge sonorità eteree, ma inquietanti.
La musica entra poi in una fase di rapido sviluppo dinamico e ritmico: il tema degli archi torna in modo più incisivo e, sopra questa base, gli ottoni introducono un robusto motivo di marcia o fanfara, contrastando fortemente con l’agilità degli archi e creando una certa tensione che sfocia in un crescendo frenetico. Il flauto e l’oboe/clarinetto eseguono passaggi rapidi e quasi isterici, a mo’ di duetto schizofrenico, facendo percepire la giostra come in una rotazione fuori controllo.
Un momento di sospensione improvvisa è segnato da una breve cadenza dal sapore intimo e cameristico, in cui l’arpa e il vibrafono riprendono il motivo del carosello in modo isolato e quasi distorto: questo passaggio intimo e straniante interrompe l’impeto orchestrale, evocando l’immagine della giostra che si ferma cigolando.
Dopo una ripresa a dinamica ridotta, gli archi intonano una melodia completamente nuova: questo è il momento più lirico e tradizionale del brano, un valzer dal tono nobile e quasi nostalgico, che funge da contrasto emotivo. È una breve tregua dalla tensione, un elemento agrodolce e quasi un richiamo melodico all’innocenza perduta.
Il brano si avvia alla conclusione con una potente riesposizione degli elementi tematici: la giostra raggiunge il suo parossismo e gli ottoni tuonano in un tutti caotico e dissonante, sostenuti da possenti rulli di timpani. Questo è il culmine del “terrore” o del “fantasma” insito nel tema della giostra. Dal fortissimo estremo, l’orchestra si ritira improvvisamente e il movimento si dissolve lentamente, quasi a rallentatore. Le ultime frasi, date dagli ottoni gravi, chiudono il brano su una nota di risoluzione, ma non prima che la sensazione di inquietudine sia stata pienamente espressa.

Nel complesso, il brano è un eccellente esempio di musica programmatica contemporanea; Daphne Tayo-Rességuier utilizza sapientemente l’orchestrazione per esprimere la narrazione di una giostra: il moto perpetuo degli archi rappresenta la rotazione meccanica della giostra, mentre l’alternanza tra il valzer allegro ma sinistro dei legni e il tema melodico e nostalgico degli archi evoca sia il divertimento infantile che la sua corruzione in qualcosa di inquietante. Infine, l’uso dinamico degli ottoni e delle percussioni, unito ai bruschi tutti orchestrali, crea un’opera di forte impatto viscerale e drammatico.

L’ultimo valzer

Johann Strauß figlio (25 ottobre 1825 - 1899): Klänge aus der Raimundzeit, valzer op. 479 (1898), composto per l’inaugurazione del monumento a Ferdinand Raimund. Berliner Symphoniker, dir. Robert Stolz.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Klänge aus der Raimundzeit, il testamento musicale di Johann Strauß figlio

Oggi ricorre il bicentenario della nascita di Johann Strauß figlio: il fascino e l’eleganza della sua musica continuano a definire l’anima di Vienna. Forse non saranno molti a sapere quale sia l’ultima delle sue composizioni: si tratta di un valzer non completamente originale, ma intriso di una nostalgia così profonda da suonare come un commovente e involontario addio, Klänge aus der Raimundzeit (Suoni dai tempi di Raimund) op. 479, un’opera che chiude il ciclo creativo del celebre compositore austriaco con una straziante premonizione.
Il brano non fu concepito per essere eseguito nelle sale da ballo imperiali, ma per una celebrazione d’arte e memoria: fu infatti commissionato in occasione dell’inaugurazione del monumento a Ferdinand Raimund (1790 - 1836), celebre drammaturgo e attore austriaco, svoltasi a Vienna il 1º giugno 1898.
Strauß, che all’epoca aveva 73 anni e sentiva il peso del tempo, scelse un approccio unico: invece di comporre un nuovo valzer, creò un magnifico arazzo sonoro tessuto con le melodie della sua giovinezza e della «buona vecchia Vienna». Inizialmente intitolato Reminiscenz. Aus der guten alten Zeit (Reminiscenze. Dai buoni vecchi giorni), l’opera si propose come un preludio musicale che evocasse il mondo in cui Raimund aveva vissuto e lavorato.
Questa scelta non fu casuale: trovandosi alla fine di una carriera trionfale, il compositore sentì il bisogno di guardare indietro, onorando le radici della musica viennese che egli stesso aveva portato all’apice.
L’opera è strutturata come un valzer-potpourri, un’intima conversazione tra il presente e il passato: Strauß non solo omaggiò Raimund, i cui drammi erano il fulcro della serata commemorativa al Deutsches Volkstheater, ma incluse intenzionalmente i suoi predecessori e maestri.
Lo spartito originale riportava a mano la lista delle fonti, che include figure cruciali della musica popolare viennese: Drechsler, Kreutzer, Lanner, Wenzel Müller, e, significativamente, Johann Strauß padre.
L’orchestrazione di questo valzer è sorprendentemente modesta e intima, come rivelò il compositore in una lettera al fratello Eduard: «Questo piccolo lavoro è scritto per una piccola orchestra che comprende 1 flauto, 1 oboe, 2 clarinetti 1 fagotto, 2 corni, 2 trombe e un quartetto d’archi». Lontano dalla grandiosità delle orchestre da concerto, questa strumentazione da camera accentua il carattere nostalgico e personale del brano.
La sequenza di temi scelti costituisce un vero e proprio viaggio nel tempo:
1. Introduzione: «Brüderlein fein» (Piccolo fratellino), l’“Addio alla gioventù” dal dramma Das Mädchen aus der Feenwelt di Joseph Drechsler;
2. Steyrische Tänze op. 165 di Joseph Lanner (il collega-rivale di Johann Strauß padre);
3. «So leb’ denn wohl, du stilles Haus» (Così addio, tu, casa quieta), da Der Alpenkönig und der Menschenfeind di Wenzel Müller;
4. Das Leben ein Tanz, oder Der Tanz ein Leben!, valzer op. 49 di Johann Strauß padre;
5. Die Schönbrunner, valzer op. 200 di Lanner;
6. «Hobellied» (La canzone della pialla) da Der Verschwender di Conradin Kreutzer;
7. Deutsche Lust, oder Donau-Lieder ohne Text, valzer op. 127 di Johann Strauß padre.
La critica dell’epoca colse immediatamente il fascino malinconico della composizione. Il Fremden-Blatt osservò il 10 giugno: «Con la sua famosa vecchia verve. Delizioso, caldo e malinconico, poi di nuovo allegro, risuonano quei vecchi motivi da Kreuzer, Lanner, Strauss padre e del caro, buono, semplice Wenzel Müller, il Mozart dei tempi in cui Vienna era circondata dai bastioni!»
Anche il pubblico fu tangibilmente commosso dalle reminiscenze musicali del maestro, accogliendo l’esecuzione con grandi applausi. L’acclamazione del pubblico si dimostrò però maggiore quando Strauß lo eseguì, con il titolo di Klänge aus der Raimundzeit, al concerto di beneficenza del fratello Eduard con l’Orchestra Strauss nella Sala dorata del Musikverein nel pomeriggio di domenica 27 novembre 1898.
Ciò che rende Klänge aus der Raimundzeit un vero e proprio testamento spirituale è la sua enfasi sui temi dell’addio e della separazione. Strauß, pur celebrando il passato di Vienna, sembrava consapevole che anche il suo tempo stava per finire.
I motivi centrali sono due canti di addio, sapientemente intrecciati nell’Introduzione e ripresi con enfasi nella coda finale del valzer: «Brüderlein fein» e «So leb’ denn wohl, du stilles Haus». Il testo del primo, che Strauß scelse come apertura e chiusura del suo ultimo lavoro, recita: «Anche se il Sole è splendente e brillante, prestò dovrà cedere il posto alla notte.» Questa scelta non fu un semplice tributo letterario, ma un profondo riflesso interiore.
Un anno dopo la prima esecuzione, Strauß morì di polmonite, il 3 giugno 1899. L’ultima scena della sua vita confermò, in maniera straziante, il significato profondo e personale del suo ultimo valzer.
Adèle Strauß, la moglie, ha lasciato una testimonianza indimenticabile di quegli istanti finali: «Il 1° giugno 1899, povero Jean (Johann), in un momento di delirio, continuava a chiamare me e mia figlia incessantemente… E mentre stava lottando per l’ultimo respiro, cantò una straziante canzone! Una vecchia canzone… Pronunciò con le sue labbra pallide solennemente delle parole che risuonarono in maniera spettrale nella stanza: “Brüderlein fein—einmal muss geschieden sein!” [Piccolo fratellino, un giorno ci dovremo dividere!]».
Quell’addio, che Strauß aveva messo al centro della sua ultima composizione, divenne il suo ultimo respiro.

L’introduzione stabilisce immediatamente l’atmosfera: si apre con un suono solenne, quasi cerimoniale, dominato da fiati e archi, un tono che evoca l’occasione formale per cui il valzer fu scritto. Il cuore emotivo di questa prima parte è rappresentato dal tema di «Brüderlein fein», presentato dapprima con un tono leggero e quasi sognante, con gli archi in evidenza, ma impostato sulla base di un sottotono malinconico, sottolineato dalla progressione armonica. Poco dopo, l’orchestra espande il tema, rendendolo più pieno e sentimentale. L’esposizione si conclude con una serie di scale ascendenti e armonie ricche, che sfociano in un momento drammatico e teso, prima di stabilizzarsi per la transizione verso il primo valzer.
Questo irrompe con una vivacità e un ritmo inequivocabilmente danzante, tipico del Ländler o dei balli contadini stiriani. Il tema è brillante e ritmicamente incisivo, scandito da un tempo moderato e allegro. Gli archi e i legni scambiano rapide frasi, mantenendo un umore spensierato e rustico, e riflettendo l’aspetto gioioso e folcloristico della vecchia Vienna, in netto contrasto con l’atmosfera meditativa dell’Introduzione.
Il secondo valzer introduce invece un cambiamento d’umore drastico e significativo: l’atmosfera si fa immediatamente più intima e toccante, mentre l’orchestrazione è più scura e gli archi conducono il tema con calore malinconico, sostenuti da armonie discrete. Questa parte è il primo vero segnale del tema d’addio che pervade l’intera composizione, inserendosi come un momento di profonda riflessione all’interno della cornice celebrativa. La sezione centrale mantiene la calma, anche se con un lieve aumento di intensità emotiva, prima di ritornare alla quiete iniziale.
Successivamente, la musica cambia registro, riportando la festa al centro della scena con il valzer paterno. Il tema è energico e vivace, con la tipica propulsione ritmica che caratterizza il valzer viennese. È un omaggio aperto del figlio al padre, in un contesto di gioia pura: l’orchestra è piena e gli ottoni emergono per dare enfasi al ritmo di danza, celebrando la vita, il ballo e l’età d’oro del valzer (come suggerisce il titolo stesso dell’opera originale). La sezione è caratterizzata da passaggi virtuosistici degli archi che danzano sopra la base ritmica stabile, culminando in un’energica cadenza.
Il quarto valzer ha una qualità meno frenetica del precedente, più lirica e scorrevole. La rielaborazione straussiana mostra il suo genio nell’arrangiamento e utilizza i fiati e i pizzicati degli archi per creare un effetto aereo e leggero. La melodia si sviluppa attraverso diverse tessiture orchestrali, passando da un’intimità cameristica a sezioni più orchestrate. Questo passaggio è un esempio del “dialogo” che il compositore austriaco intesse tra il suo stile e quello dei suoi predecessori.
Il quinto valzer introduce un tono di riflessione popolare: originariamente una canzone del falegname, il tema è schietto, melodico e immediato, ma trattato con grande espressione dagli archi. Si nota una progressione emotiva, che parte da una melodia semplice e si arricchisce in dinamiche e colori orchestrali, con enfasi sulle sezioni d’ottoni. La musica poi accelera momentaneamente, con trilli e passaggi veloci che portano a un culmine breve ma intenso, prima di dissolversi per preparare il ritorno dei temi più significativi.
La coda è la sezione più carica di significato emotivo e funge da vero e proprio epilogo personale: Strauß riporta in primo piano i due temi d’addio introdotti all’inizio, unendoli in un commovente congedo: «So leb’ denn wohl, du stilles Haus» ritorna con una sonorità delicata e dolcissima, affidata in gran parte agli archi acuti. Il sentimento è di rassegnazione pacifica, ma profonda. «Brüderlein fein» è invece ripreso dall’orchestra, trasformandolo in un lamento sussurrato. Il tema è associato alle parole che Strauß avrebbe cantato sul letto di morte («einmal muss geschieden sein!» – un giorno ci dovremo separare!), e risuona qui con una chiarezza emotiva schiacciante.
Gli ultimi momenti sono un’apoteosi malinconica che si basa sul secondo valzer paterno: la musica cresce in intensità, con l’intera orchestra che si unisce in un addio maestoso e solenne. Le armonie si espandono, portando il tema a una conclusione definitiva e toccante, lasciando l’ascoltatore con il senso di una chiusura definitiva, sia per l’omaggio a Raimund, sia per l’addio personale del compositore alla sua amata Vienna e alla vita stessa.

Nel complesso, Klänge aus der Raimundzeit è un capolavoro di citazione e rielaborazione, dove l’abilità di Strauß non risiede nella creazione di nuove melodie di valzer, ma nella loro sapiente tessitura narrativa e armonica. Utilizzando temi associati alla giovinezza di Vienna e carichi di significati d’addio, egli ha composto un’elegia mascherata da festeggiamento, un addio musicale che, sebbene scritto per una circostanza pubblica, si è rivelato essere il suo intimo, premonitore testamento.

Circles (Luciano Berio 100)

Luciano Berio (24 ottobre 1925 - 2003): Circles per voce femminile, arpa e due per­cus­sio­ni­sti (1960) su testi di e. e. cummings (n. 25, 76 e 221 dei Collected Poems). Anne-May Krüger, mezzosoprano; Estelle Costanzo, arpa; Dino Georgeton e Víctor Barceló, percussioni.

N. 25

stinging
gold swarms
upon the spires
silver

           chants the litanies the
great bells are ringing with rose
the lewd fat bells
                            and a tall

wind
is dragging
the
sea

with

dream

-S


N. 76

riverly is a flower
gone softly by tomb
rosily gods whiten
befall saith rain

anguish
and dream-send is
hushed
in

moan-loll where
night      gathers
morte carved smiles

cloud-gloss is at moon-cease
soon
verbal mist-flowers close
ghosts on prowl gorge

sly slim gods stare


N. 221

n(o)w

the
how
dis(appeared cleverly)world

iS Slapped:with;liGhtninG
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« Circles, scritto nel 1960 su domanda di Paul Fromm, fu eseguito per la prima volta nell’agosto di quello stesso anno al Berkshire Music Festival da Cathy Berberian e membri della Boston Symphony Orchestra. Circles elabora musicalmente tre poesie di e. e. cummings che, nell’ordine, presentano gradi diversi di complessità: il n. 25 stinging gold swarms… il n. 76 riverly is a flower… e il n. 221 n(o)w the how dis(appeared cleverly)world…, dai Collected Poems. In Circles i tre poemi appaiono nel seguente ordine: 25-76-221, (221)-76-25. La poesia n. 221 ritorna, a ritroso, su se stessa, mentre le poesie n. 25 e n. 76 appaiono due volte in diversi momenti dello sviluppo musicale.
« Non era certamente nelle mie intenzioni comporre una serie di pezzi vocali con accompagnamento di arpa e percussioni. Mi interessava invece elaborare circolarmente le tre poesie in un’unica forma ove i diversi livelli di significato, l’azione vocale e l’azione strumentale fossero strettamente condizionati e strutturati anche sul piano concreto delle qualità fonetiche. Gli aspetti teatrali dell’esecuzione sono inerenti alla struttura della composizione stessa che è, innanzi tutto, una struttura di azioni: da ascoltare come teatro e da vedere come musica » (Luciano Berio, 1961).



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Luciano Berio: l’architetto sonoro dell’Avanguardia italiana

Radici musicali e interruzione bellica
Nato a Oneglia (Imperia), Berio crebbe in un ambiente profondamente musicale, figlio e nipote di compositori e strumentisti. Ricevette la prima educazione pianistica sotto la guida del padre, Ernesto, sviluppando una solida conoscenza dei classici e tentando le prime composizioni. La sua gioventù fu drammaticamente segnata dall’8 settembre 1943: arruolato nella Repubblica di Salò, egli subì una grave ferita alla mano destra durante un’esercitazione, un evento che lo costrinse a rinunciare al sogno di una carriera da pianista concertista, spingendolo definitivamente verso la composizione. Dopo la fuga dall’ospedale e un periodo di clandestinità, si iscrisse al Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano nel 1945.

La formazione milanese e il ruolo dei mentori
A Milano, Berio si immerse in un ambiente culturale e musicale in pieno fermento post-bellico, scoprendo le avanguardie (Schönberg, Webern, Bartók) e le culture di confine (jazz, popolare). I suoi studi al Conservatorio furono decisivi, in particolare grazie all’eredità contrappuntistica di Giulio Cesare Paribeni e, soprattutto, alla guida di Giorgio Federico Ghedini, che gli trasmise una profonda coscienza storica e una maestria tecnica basata su Stravinskij, Bach e Monteverdi. Nonostante la prima produzione studentesca fosse di impronta artigianale (Concertino, Magnificat), il compositore sviluppò in questi anni cruciali la propria sensibilità per la voce umana e la relazione tra testo e musica, un interesse rafforzato dal matrimonio (1950) con la giovane e brillante studentessa armena Cathy Berberian. L’incontro con la sua futura musa, dotata di un “pluralismo vocale” unico, coincise con l’inizio della sua prima fervida stagione creativa.

La rivoluzione elettronica e l’invenzione dello studio di fonologia
La svolta radicale avvenne nel 1952 durante un soggiorno negli Stati Uniti, dove Berio scoprì la tape-music. Rientrato in Italia, strinse un sodalizio fondamentale con il compositore Bruno Maderna, insieme al quale, nel 1956, fondò lo Studio di fonologia musicale della Rai di Milano. Questo centro divenne un crogiolo di sperimentazione, lontano dalle rigide divisioni europee tra musica concreta ed elettronica. Il periodo milanese fu fecondato anche dall’incontro con Umberto Eco, che contribuì a definire la poetica dell’“opera aperta”, concetto che influenzò profondamente il compositore. Esempi di questa ricerca sulla relazione tra suono, voce ed elettronica sono Thema (Omaggio a Joyce) e il celebre Visage (1961), che utilizza l’elaborazione elettronica di una gamma estrema di gesti vocali non verbali di Berberian.

Il decennio americano e la virtuosità totale
All’inizio degli anni ’60, il compositore iniziò una lunga serie di incarichi didattici negli Stati Uniti (Tanglewood, Mills College, Juilliard School), dove insegnò per sei anni e fondò il Juilliard Ensemble. Nonostante la separazione dalla Berberian, il sodalizio artistico proseguì con opere fondamentali come i Folk songs e, soprattutto, la Sequenza III per voce sola. In questo periodo, Berio sviluppò il ciclo delle Sequenze, composizioni solistiche pensate per esplorare i limiti tecnici, gestuali ed espressivi di strumenti specifici (come la Sequenza I per flauto e la V per trombone, omaggio al clown Grock). Parallelamente, applicò il concetto di re-working e stratificazione, trasformando le Sequenze in opere per ensemble, i Chemins.
Il culmine di questa fase è Sinfonia (1968), un’opera monumentale per otto voci amplificate e orchestra. Celebre per il terzo movimento – un complesso collage sonoro e culturale costruito interamente sullo Scherzo della Seconda Sinfonia di Mahler – l’opera combina riferimenti testuali da Beckett e Lévi-Strauss, rappresentando la coscienza storica e l’eclettismo linguistico di Berio.

Il ritorno in Italia e il laboratorio europeo
Nel 1974 Berio rientrò in Italia, stabilendosi in Toscana, ma i suoi impegni internazionali si intensificarono. Fu chiamato da Pierre Boulez a fondare e dirigere il dipartimento elettroacustico dell’IRCAM a Parigi (1974-80), dove promosse la ricerca su sistemi di trasformazione del suono in tempo reale (come il 4X). Nel frattempo, la sua produzione si orientò verso visioni enciclopediche e antropologiche: Coro (1974-76) è un mosaico di testi e musiche provenienti da culture diverse, con una struttura orchestrale e corale rigorosamente disposta nello spazio. Il rinnovato interesse per il teatro musicale lo portò a collaborare nuovamente con Italo Calvino. Le opere di questo periodo, tra cui La vera storia (1982) e Un re in ascolto (1984), si concentrano sul rifiuto della trama lineare in favore di una narrazione frammentata, riflettendo sulla metafora dell’ascolto e sull’auto-riflessività del teatro stesso.

Istituzioni, memoria e l’eredità finale
Nel 1987 Berio fondò a Firenze Tempo Reale, un centro di ricerca musicale che gli permise di sviluppare ulteriormente la spazializzazione del suono attraverso il sistema multicanale TRAILS (esemplificato in Ofaním). Negli ultimi anni, l’attività creativa si affiancò a crescenti responsabilità pubbliche: tenne le prestigiose Charles Eliot Norton Lectures a Harvard (1993-94) e fu eletto presidente dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia (2000), seguendo attivamente la nascita dell’Auditorium Parco della musica di Roma.
La sua opera matura si caratterizzò per un continuo “dialogo con il passato”, evidente nel “restauro” di frammenti di Schubert in Rendering (1990) e nella controversa nuova conclusione per il terzo atto della Turandot di Puccini (2002). Il compositore concluse il suo lavoro con l’ultima della serie, Sequenza XIV per violoncello, e con Stanze (2002-03), opera per baritono, coro e orchestra terminata poche settimane prima della morte. L’opera, con i suoi richiami alla Shoah e la riflessione profonda sull’idea di Dio, si configura come il suo pacato e commovente congedo.

Circles
Composizione fondamentale nel catalogo di Luciano Berio, Circles rielabora le scoperte sulle potenzialità della voce e del suono fatte dal compositore nel suo precedente lavoro elettronico, Thema (Omaggio a Joyce). Scritta per la sua musa e allora moglie, il mezzosoprano Cathy Berberian, l’opera esplora il legame inscindibile tra significato testuale, gesto vocale, e timbro strumentale, realizzando il concetto di «struttura di azioni: da ascoltare come teatro e da vedere come musica».
La composizione è costruita su un’architettura rigorosamente simmetrica in forma ad arco, A-B-C-B′-A′, che riflette il titolo stesso dell’opera. Berio utilizza tre poesie di e. e. cummings tratte dai Collected Poems (pubblicate con i numeri 25, 76 e 221 rispettivamente).
Grande importanza è data alla disposizione spaziale dei musicisti, un elemento prescritto dalla partitura che sottolinea il carattere teatrale dell’opera. Il mezzosoprano è posizionato al centro, affiancata dall’arpista e dai due percussionisti. La strumentazione è ricca e variegata, con una notevole enfasi su arpa e un esteso set di percussioni, tra cui gong, tam-tam, timpani, marimba, conga, wind chimes e oggetti in legno, tutti disposti in modo circolare attorno alla cantante. Il movimento della cantante sul palco è parte integrante della performance: i momenti di quiete sonora corrispondono a momenti di immobilità fisica, mentre le sezioni più concitate sono accompagnate da gesti ampi, quasi direttoriali, che spesso coinvolgono l’esecuzione di piccoli strumenti a percussione.
La prima sezione si apre con la voce del mezzosoprano in primo piano, che modula la poesia n. 25 con un canto melismatico e quasi operistico. L’arpa interviene con arpeggi eterei e il tono è lirico, sebbene pervaso da un senso di sospensione e attesa. Il ruolo della voce è di esplorare il timbro e le qualità fonetiche del testo di e. e. cummings. Le vocali lunghe sono sostenute, mentre le consonanti e le sibilanti vengono articolate in modo esagerato, talvolta raschiato.
L’entrata della percussione, con vibrazioni metalliche e colpi secchi, interrompe la linea lirica, introducendo una tensione crescente che riflette il significato implicito del testo. La cantante inizia a eseguire lei stessa piccole percussioni, unendo l’azione vocale a quella strumentale e diventando, di fatto, parte dell’ensemble. Il finale della prima sezione A si chiude in un gesto di enfatica sospensione, con il mezzosoprano che si muove al centro e le bacchette alzate in un gesto di direzione drammatica, culminando in un fragore di percussioni che dissolve l’atmosfera lirica.
La sezione B, basata sulla poesia n. 76, introduce un’atmosfera più frammentata e puntillistica: Berio utilizza una vocalità più espressionistica e rapida, in cui le parole vengono spezzate o allungate, e i suoni prendono il sopravvento sul significato letterale. Il mezzosoprano continua a utilizzare i microfoni posizionati sul palco per amplificare i suoi suoni non convenzionali: risate, suoni gutturali e sussurri si mescolano a un canto più tradizionale. La musica diventa densa, con texture timbriche complesse create da una varietà di percussioni esotiche e l’arpa a pedali illuminata. L’equilibrio tra i tre elementi (voce, arpa, percussione) è dinamico e instabile, riflettendo la natura “frammentata” del testo poetico. La sezione si chiude con l’esaurirsi graduale dei suoni.
La sezione centrale dell’arco formale e corrisponde alla poesia n. 221, la più destrutturata e visivamente circolare di e. e. cummings. In questa parte, l’azione scenica è enfatizzata. La performance vocale si concentra sul disfacimento della parola, con la cantante che manipola fisicamente i microfoni per creare effetti di spazializzazione del suono. Il testo, ricco di parentesi e sillabe spezzate, è reso attraverso un’esecuzione che è per metà parlato e per metà cantato, esplorando l’onomatopea e la pura qualità fonetica della lingua. La musica tocca i suoi apici di intensità sonora e teatrale, con esplosioni ritmiche della percussione e l’arpa che contribuisce a un denso sottofondo armonico. La cantante utilizza gesti teatrali ampi e si muove con le mani aperte, quasi a plasmare il suono. Berio infine introduce la ripetizione a ritroso di una parte del testo, un chiaro segnale dell’inizio della simmetria retrograda.
Le sezioni successive B′ e A′ ripropongono i testi delle sezioni precedenti, ma con nuove e diverse elaborazioni musicali.
L’attenzione torna sul testo B, ma in una veste più ritmica e giocosa. L’arpa e la percussione si fanno più virtuosistiche, con un’azione di battiti veloci e precisi che confermano la funzione ritmica e quasi meccanica degli strumenti. La cantante riprende i suoi gesti direttoriali e manipolativi, enfatizzando l’interazione tra i musicisti sul palco. Il mezzosoprano usa gli chimes con un gesto sonoro che chiude la sezione, lasciando il palco.
La parte finale riprende il primo testo in una forma ancora più ridotta e rarefatta. La musica si dissolve in suoni sottili e sospesi, con l’arpa che esegue figure di estrema delicatezza, mentre la cantante canta o sussurra il testo finale con un ritorno alla qualità lirica e meditativa, ma ora con un senso di fragilità estrema.
L’opera si conclude con una lunga dissolvenza sonora, in cui gli strumenti si quietano lentamente, realizzando l’idea del ciclo che si chiude. La performance si trasforma in un evento visivo di “musica vista” e di “teatro dell’ascolto”, dove la cantante, prima al centro dell’azione, alla fine si riunisce in un gesto di congedo con l’ensemble, sancendo il successo della sua esplorazione acustica della vocalità d’avanguardia.

Petite Symphonie

Charles Gounod (1818 - 18 ottobre 1893): Petite Symphonie per flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 corni e 2 fagotti (1885). The Saint Paul Chamber Orchestra, dir. Christopher Hogwood.

  1. Adagio – Allegretto
  2. Andante cantabile
  3. Scherzo: Allegro moderato
  4. Finale: Allegretto


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Charles Gounod: il maestro dalle molte anime, tra melodia sacra e trionfi lirici

Charles-François Gounod, figura eminente della musica francese del XIX secolo, ha lasciato un’impronta indelebile con un’opera vasta e variegata, che spazia dal sacro al profano, dall’opera al coro. La sua vita fu un percorso intenso di formazione, esplorazione spirituale e successi clamorosi, non senza aspre critiche.

Le origini e la formazione musicale (1818-42)
Nato a Parigi, fu il secondogenito del pittore François-Louis Gounod e di Victoire Lemachois. Rimasto orfano di padre all’età di cinque anni, fu la madre, insegnante di pianoforte, a impartirgli le prime lezioni, rivelando precocemente il suo talento. Dopo gli studi al Lycée Saint-Louis, Gounod si immerse nello studio musicale, perfezionando l’armonia con Antoine Reicha e poi, al Conservatorio di Parigi, con Jacques Fromental Halévy, e la composizione con Jean-François Lesueur. Il suo talento fu presto riconosciuto: nel 1839 vinse il prestigioso Grand Prix de Rome con la cantata Fernand. Il soggiorno a Villa Medici gli permise di approfondire la musica religiosa, in particolare quella di Palestrina. Nel 1842, a Vienna, ebbe l’opportunità di assistere a una rappresentazione del Flauto magico di Mozart, esperienza che lo segnò profondamente, e di far eseguire la sua seconda messa con orchestra.

Tra vocazione sacerdotale e debutto compositivo (1843-1860)
Tornato a Parigi nel 1843, Gounod assunse il ruolo di organista e maestro di cappella presso la Chiesa delle Missioni estere. Questo periodo fu caratterizzato da una profonda riflessione spirituale: nel 1847 ottenne il permesso di indossare l’abito ecclesiastico, frequentò corsi di teologia a Saint-Sulpice e ascoltò i sermoni di Lacordaire. Tuttavia, le giornate rivoluzionarie del 1848 lo portarono a rinunciare alla vocazione sacerdotale e a lasciare l’incarico. L’anno successivo, grazie all’appoggio della celebre Pauline Viardot, Gounod ottenne il libretto di Sapho da Émile Augier, la sua prima opera, che debuttò all’Opéra il 16 aprile 1851, senza riscuotere un grande successo. Nel 1852 sposò Anna Zimmerman. Parallelamente, presiedette gli Orphéons della Città di Parigi dal 1852 al 1860, componendo numerosi cori come Le Vin des Gaulois. Nel 1860, la sua dedizione alla musica sacra lo portò a partecipare al Congresso per la restaurazione del canto gregoriano.

L’apice dell’opera e le sfide della critica (1858-67)
Gli anni ’50 e ’60 segnarono l’apice della sua carriera operistica. Nel 1858, in occasione dell’anniversario della nascita di Molière, fu rappresentato con successo l’opéra-comique Le Médecin malgré lui, su libretto di Jules Barbier e Michel Carré, con cui avrebbe spesso collaborato. Ma fu il 1859 a consacrarlo: la sua opera Faust, basata sull’opera di Goethe, debuttò al Théâtre-Lyrique riscuotendo un successo clamoroso, con 70 repliche solo nel primo anno. Seguirono nel 1860 gli opéra-comiques Philémon et Baucis e La Colombe. Nonostante il trionfo di Faust, Gounod affrontò anche critiche feroci. La Reine de Saba, creata nel 1862, si fermò dopo sole quindici rappresentazioni e fu stroncata da Paul Scudo, critico della “Revue des deux Mondes”, che lo accusò di emulare i «cattivi musicisti della Germania moderna» come Liszt e Wagner, avvertendolo di essere «irrimediabilmente perduto» se avesse persistito. Nel marzo 1863, Gounod incontrò Frédéric Mistral, dal cui poema Mirèio (Mireille) avrebbe tratto un libretto. Si trasferì a Saint-Rémy-de-Provence, dove la musica si impregnò dell’atmosfera del Midi, un periodo di pace e ispirazione. L’opera Mireille fu creata a Parigi nel marzo 1864, ottenendo però un successo solo moderato. Il riscatto arrivò nel 1867, quando Roméo et Juliette, durante l’Esposizione universale, fu accolta con un successo entusiastico.

Gli anni britannici, il ritorno e il crepuscolo sacro (1870-93)
Nel 1870, fuggendo l’invasione tedesca della Francia, Gounod si trasferì in Inghilterra, dove instaurò una liaison di quattro anni con la cantante Georgina Weldon. Durante questo periodo, vide l’insuccesso di Les deux Reines de France (1872) e il successo patriottico di Jeanne d’Arc, un dramma storico che ravvivò lo spirito nazionale francese. Nel 1874 Gounod lasciò la Gran Bretagna e tornò in Francia, dove si stabilì a Parigi nel 1878 e vi rimase fino alla morte. Nella parte finale della sua vita, Gounod si dedicò prevalentemente alla musica religiosa, componendo un gran numero di messe e due oratori maggiori: La Rédemption (1882) e Mors et vita (1885). Morì il 18 ottobre 1893 a Saint-Cloud, appena dopo aver completato il Requiem in do maggiore, considerato il suo canto del cigno. I funerali, dieci giorni dopo, furono nazionali e si tennero nell’imponente Chiesa della Madeleine, con l’intervento di figure come Camille Saint-Saëns e Théodore Dubois all’organo, e Gabriel Fauré alla direzione della maîtrise che, secondo il desiderio di Gounod, eseguì la Messa gregoriana dei defunti.

L’impronta musicale: un catalogo vario e persistente
Gounod ha lasciato un patrimonio di circa 500 opere musicali, la cui influenza si estende ancora oggi. È celebre soprattutto per le sue opere liriche: Faust, la sua opera più iconica, con il grandioso valzer che conclude il I atto e con arie celebri come «Le Veau d’or» di Mefistofele, l’“aria dei gioielli di Marguerite” «Ah! je ris», il coro dei soldati «Gloire immortelle de nos aïeux», la musica di balletto della Notte di Valpurga e il coro finale degli angeli «Sauvée, Christ est ressuscité»; Roméo et Juliette: un altro grande successo, con la celebre valse di Giulietta «Je veux vivre» e l’aria del tenore «Ah! lève-toi, soleil!»; Mireille: basata sul poema provenzale di Frédéric Mistral; Cinq-Mars: un’opera storica, rielaborata più volte, che presenta arie come «Nuit resplendissante» e «Ô chère et vivante image».
Il catlogo delle opere di Gounod include anche altri lavori significativi: due sinfonie (1855) e una Petite Symphonie per nove strumenti a fiato (1885); cinque quartetti per archi; la celebre Ave Maria, basata sul primo preludio del Clavicembalo ben temperato di Bach (originariamente non destinato all’esecuzione liturgica), e il Requiem in do maggiore; composizioni strumentali quali la Marche funèbre d’une marionnette (1872), che divenne famosa globalmente come sigla del programma televisivo Alfred Hitchcock presenta, e la Marche pontificale (1869) che fu adottata nel 1949 come inno nazionale del Vaticano; e numerose e delicate mélodies, su testi di poeti quali Alfred de Musset, Alphonse de Lamartine, Théophile Gautier e Jean Racine, oltre a testi di sua stessa mano.

La Petite Symphonie
Dedicata alla Société de musique de chambre pour instruments à vent fondata da Paul Taffanel nel 1879, rappresenta un magnifico esempio della capacità del compositore francese di coniugare l’eleganza classica con la ricchezza melodica romantica, creando un’opera che è al contempo intima e virtuosistica. L’opera, eseguita per la prima volta il 30 aprile 1885 alla Salle Pleyel con Taffanel stesso al flauto, e pubblicata solo diciannove anni dopo, è una celebrazione delle sonorità e delle capacità espressive degli strumenti a fiato, offrendo un dialogo continuo e brillante tra le diverse voci.
La scelta di una formazione così specifica – flauto, due oboi, due clarinetti, due corni e due fagotti – permette a Gounod di esplorare una tavolozza timbrica ricca ma trasparente. L’attributo petite del titolo non si riferisce a una mancanza di sostanza musicale, ma piuttosto alla natura cameristica e all’eleganza leggera che pervade l’intera opera, lontana dalle massicce sonorità orchestrali di una sinfonia tradizionale.

Il primo movimento si apre con un Adagio, dove i due corni introducono un’atmosfera solenne e avvolgente con accordi sostenuti e caldi. Seguono le altre sezioni di fiati, aggiungendo strati armonici che costruiscono una breve ma intensa introduzione. Le dinamiche sono contenute, suggerendo un tono riflessivo e quasi contemplativo, che evoca l’aspetto più sacro della produzione di Gounod. L’espressività è palpabile, anche nella brevità di questa sezione.
Senza soluzione di continuità, il movimento si anima bruscamente con l’Allegretto. Il flauto emerge con una melodia agile, brillante e gioiosa, caratterizzata da rapide figurazioni e un piglio vivace. Subito dopo, gli oboi riprendono ed elaborano il tema, creando un dialogo serrato e spensierato. I clarinetti e i fagotti forniscono un accompagnamento ritmico e armonico dinamico, spesso con arpeggi gorgoglianti o passaggi saltellanti che aggiungono leggerezza. Il movimento è un vero e proprio tour de force di scrittura per fiati, con passaggi virtuosistici che si alternano a momenti di maggiore lirismo, ma sempre mantenendo un’energia contagiosa. L’interazione tra gli strumenti è costante: il tema passa agilmente da un flauto brillante a oboi cantabili, clarinetti arguti e fagotti giocosi. Le sezioni tutti sono incisive e dinamiche, contrastando con le tessiture più trasparenti dei passaggi solistici. Il movimento procede con una chiara forma sonata, con una ripresa espositiva evidente e uno sviluppo che esplora frammenti tematici e armonie più audaci, prima di tornare alla ricapitolazione che porta a una coda effervescente.
Il secondo movimento offre un netto contrasto, immergendosi in un’atmosfera di profonda liricità e dolcezza. Il carattere cantabile è immediatamente percepibile, con una melodia espressiva e distesa. In questa esecuzione, si nota chiaramente come gli oboi prendano il comando della melodia principale, con il flauto che spesso si unisce o raddoppia, aggiungendo brillantezza. I corni forniscono una base armonica stabile e calda, mentre clarinetti e fagotti tessono controcanti fluidi o un delicato accompagnamento. La musica si sviluppa con grazia, alternando momenti di melodia sostenuta a brevi fioriture che adornano le frasi. Le dinamiche sono attentamente calibrate, con crescendi e diminuendi che esaltano l’espressività intrinseca del movimento. Il movimento si conclude con una riproposizione del tema principale, sfumando dolcemente e lasciando un’impressione di serena bellezza.
Lo Scherzo irrompe con un’energia e un ritmo contagiosi, fedele al suo nome che suggerisce un carattere giocoso e vivace. Il tempo è veloce e il tema principale è frammentato, caratterizzato da staccati e passaggi rapidi che si scambiano tra flauto e clarinetti. I fagotti aggiungono un tocco di umorismo e leggerezza con i loro interventi puntuali. La sezione centrale, il trio, porta un cambiamento di umore, introducendo un tema più ampio e cantabile, con un sapore quasi rustico e una strumentazione più piena. Qui i corni e i fagotti sono particolarmente prominenti, creando un contrasto efficace con l’agilità dello scherzo. Dopo il trio, lo Scherzo torna nella sua forma iniziale, riprendendo il suo slancio ritmico e la sua tessitura vivace. La coda finale è un’accelerazione mozzafiato, che conduce il movimento a una conclusione scattante ed esaltante.
Il Finale si apre con un gesto grandioso e imponente, dove l’intero nonetto esegue un’affermazione forte e dichiarativa, stabilendo un carattere trionfale. Il tema principale, rapido e accattivante, è subito introdotto e presenta un’alternanza di scale veloci e arpeggi distribuiti tra i fiati. Si alternano momenti di tutti energici a sezioni più liriche o riflessive, che servono a costruire la tensione prima di nuove esplosioni di energia. Le modulazioni armoniche sono sapientemente gestite, ampliando la portata espressiva del pezzo. Verso la conclusione, il movimento si intensifica progressivamente, accumulando sonorità e virtuosismi fino a un finale enfatico e celebrativo.

Nel complesso, l’opera è molto più di un semplice esercizio di scrittura per fiati e dimostra la maestria del compositore nell’orchestrazione, la sua vena melodica inesauribile e la sua capacità di creare un’atmosfera coerente attraverso quattro movimenti distinti. Si tratta di una composizione che, pur mantenendo un respiro “piccolo” nel senso cameristico, offre una grande ricchezza musicale e un piacere d’ascolto duraturo, confermando il genio di Gounod ben oltre le sue opere liriche più celebri.

Gounod, Petite Symphonie

La Galante

Johann Nepomuk Hummel (1778 - 17 ottobre 1837): La Galante, rondò brillante in mi bemolle maggiore per pianoforte op. 120 (1831). Martin Galling.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Johann Nepomuk Hummel: il ponte musicale dimenticato tra Classicismo e Romanticismo

Johann Nepomuk Hummel fu un eminente compositore, direttore d’orchestra e pianista austriaco, figura di spicco nel panorama musicale tra l’epoca classica e l’emergente romanticismo. La sua vita, ricca di incontri illustri e innovazioni, lo ha reso un ponte cruciale tra le due epoche. La sua musica giacque nell’oblio per gran parte del XX secolo, per poi essere riscoperta solo di recente.

Infanzia e formazione da Wunderkind
Nato a Bratislava (allora Presburgo, nell’impero asburgico), era figlio di Josef Hummel, direttore della Scuola imperiale di musica militare a Vienna e dell’orchestra del Teatro Schikaneder. Il suo talento precoce fu evidente: a soli 8 anni, impressionò Wolfgang Amadeus Mozart, il quale decise di curare personalmente la sua istruzione musicale. All’età di 9 anni Hummel debuttò in pubblico interpretando uno dei concerti di Mozart; più tardi intraprese una tournée europea con il padre, soggiornando per quattro anni a Londra, dove studiò con Muzio Clementi. In questo periodo, nel 1791, Joseph Haydn compose una Sonata appositamente per lui, che l’eseguì alla presenza del maestro, ricevendo una ghinea come ringraziamento.

Il ritorno a Vienna e le grandi amicizie
Mentre Hummel era ancora in tournée, lo scoppio della Rivoluzione francese lo costrinse a rientrare a Vienna, dove riprese gli studi con Johann Georg Albrechtsberger, Joseph Haydn e Antonio Salieri. Nella capitale asburgica conobbe Beethoven, suo compagno di studi sotto Haydn e Albrechtsberger: la loro fu un’amicizia fondata sul rispetto reciproco, seppur con alti e bassi. Hummel visitò Beethoven sul letto di morte e, dopo la sua scomparsa, partecipò al concerto commemorativo improvvisando al pianoforte, come richiesto dal genio di Bonn. Fu in quest’occasione che strinse amicizia con Franz Schubert, che gli dedicò le sue ultime tre sonate per pianoforte; tuttavia, l’editore, dopo la morte di entrambi, modificò la dedica in favore di Robert Schumann.

Carriera professionale e l’età d’oro di Weimar
La carriera professionale di Hummel fu ricca di prestigiose nomine. Nel 1804 divenne Konzertmeister, poi nel 1809 succedette a Haydn come Kapellmeister presso il principe Nicola II Esterházy a Eisenstadt. Dopo sette anni fu licenziato per negligenza; intraprese allora una tournée in Russia e in Europa, e nel 1813 sposò la cantante d’opera Elisabeth Röckel, dalla quale ebbe due figli. Hummel fu poi Kapellmeister a Stoccarda dal 1816 al 1818 e, dal 1819 fino alla morte, a Weimar. Quest’ultimo incarico fu il più significativo: Hummel trasformò la città in una delle capitali musicali d’Europa, invitando i migliori musicisti dell’epoca; divenne inoltre amico di Goethe e Schiller. Fu un precursore nell’istituzione di programmi pensionistici per musicisti (organizzando concerti di beneficenza) e un convinto sostenitore dei diritti d’autore, battendosi contro la pirateria intellettuale.

Il didatta e l’influenza stilistica
L’influenza di Hummel si estese ben oltre le sue composizioni. Il suo trattato in tre volumi Ausführliche theoretisch-practische Anweisung zum Piano-Forte-Spiel (Istruzioni dettagliate teoriche e pratiche per suonare il pianoforte, 1828) vendette migliaia di copie e introdusse innovazioni nelle diteggiature e nell’esecuzione degli abbellimenti, influenzando profondamente la tecnica pianistica tardo ottocentesca. Ebbe allievi illustri come Carl Czerny, Friedrich Silcher, Ferdinand Hiller, Sigismond Thalberg, Felix Mendelssohn e Adolf von Henselt. Anche Franz Liszt avrebbe voluto studiare con lui, ma a causa di problemi finanziari si rivolse invece a Czerny. L’impronta di Hummel è altresì evidente nelle prime opere di Fryderyk Chopin e Robert Schumann. In particolare, le somiglianze tra i concerti per pianoforte di Hummel (il terzo in si minore e il secondo in la minore) e quelli di Chopin sono tali da far escludere la mera coincidenza, suggerendo che Chopin, avendolo ascoltato in tournée e avendone tenuto i concerti nel proprio repertorio, ne sia stato fortemente influenzato. Analogamente, si ipotizza un’influenza dei Preludi op. 67 di Hummel sui 24 Preludi op. 28 di Chopin. Anche Schumann studiò le opere di Hummel, in particolare la Sonata op. 81.

Lo stile musicale e la produzione artistica
La musica di Hummel, pur mantenendo un legame con il Classicismo, si apre alla modernità. Opere come la Sonata in fa diesis minore op. 81 e la Fantasia op. 18 mostrano una chiara rottura con le strutture armoniche classiche e un’espansione della forma-sonata, evidenziando un approccio innovativo e audace. La filosofia musicale di Hummel è riassunta nel motto «godere del mondo dando gioia al mondo», riflettendo un’estetica non iconoclasta.
Hummel fu uno dei più grandi virtuosi del suo tempo al pianoforte, strumento per il quale compose la maggior parte delle proprie opere: otto concerti, dieci sonate, otto trii, un quartetto, due quintetti e due settimini. La sua produzione include anche un ottetto per fiati, sonate per violoncello e viola, un concerto e una sonata per mandolino, e il celebre Concerto per tromba in mi bemolle maggiore, oltre a musica per pianoforte a quattro mani, 22 opere, Singspiele, messe e altro. È degna di nota l’assenza di sinfonie nel suo catalogo, forse a causa della sua predilezione per il pianoforte o dell’incapacità di seguire le innovazioni beethoveniane in quel genere. Le sue interessanti trascrizioni per pianoforte e orchestra di concerti e sinfonie di Mozart, come il Concerto n. 20 e la Sinfonia n. 40, hanno riscosso un recente successo, grazie a moderne incisioni discografiche.

Gli ultimi anni, l’oblio e la riscoperta
Negli ultimi anni della sua vita, Hummel assistette all’ascesa di una nuova scuola di compositori e virtuosi romantici. La sua musica, caratterizzata da una tecnica impeccabile e un equilibrato classicismo, cominciò a passare di moda, messa in ombra da figure come Liszt e Meyerbeer. Pur avendo ridotto la proria attività compositiva, rimase molto rispettato fino alla sua morte, avvenuta a Weimar nel 1837. Massone come Mozart, lasciò parte del suo famoso giardino alla sua loggia.
Nonostante fosse una celebrità al momento della morte e la sua fama postuma sembrasse garantita, la musica di Hummel fu rapidamente dimenticata, in quanto ritenuta ormai superata. Anche durante la riscoperta del Classicismo all’inizio del XX secolo, Hummel fu ignorato, oscurato da Mozart (a differenza di Haydn, rivalutato più tardi). Tuttavia, grazie alle registrazioni disponibili e ai numerosi concerti dal vivo che oggi si tengono in tutto il mondo, si assiste a una crescente riscoperta e rivalutazione della sua musica, che sta infine ottenendo il riconoscimento che merita come figura-chiave nella storia della musica europea.

Il Rondò brillante in mi bemolle maggiore La Galante
Esempio paradigmatico dello stile maturo di Hummel, questo brano fonde l’eleganza formale del Classicismo con l’emergente predilezione romantica per il virtuosismo e l’espressività pianistica.

Si apre con un’introduzione pacata ma evocativa, caratterizzata da accordi arpeggiati che creano un’atmosfera sospesa, quasi un preludio alla vivacità che seguirà. È un momento di transizione che prepara l’ascoltatore all’entrata del tema.
Il tema principale, in mi bemolle maggiore, si caratterizza per la sua melodia aggraziata e la sua tessitura brillante. La mano destra è protagonista con fioriture e rapide scale ascendenti e discendenti, mentre la mano sinistra fornisce un accompagnamento ritmico e armonico costante, spesso arpeggiato, che sostiene la leggerezza del brano. Il carattere è allegro e “galante”, fedele al titolo, con un senso di eleganza salottiera tipica dell’epoca. Le dinamiche sono inizialmente moderate, suggerendo una conversazione musicale raffinata. Questa prima enunciazione è seguita da una ripetizione con lievi variazioni ornamentali, che ne rafforzano la memorabilità e il fascino, mantenendo la stessa vivacità e grazia.
Successivamente, il tema subisce una leggera elaborazione, con l’introduzione di figurazioni più complesse nella mano destra e un’armonia più ricca, sebbene ancora saldamente ancorata alla tonalità d’impianto. Questo sviluppo porta a una breve fase di transizione, che tocca fugacemente tonalità minori, aggiungendo un accenno di colore malinconico prima di preparare il terreno per l’episodio successivo.
Il primo episodio offre un contrasto melodico e tematico rispetto alla brillantezza del tema principale, con la melodia che diventa più cantabile e lirica, con frasi più distese e meno virtuosistiche, pur mantenendo un’eleganza intrinseca. La tonalità si sposta probabilmente verso la dominante (Si bemolle maggiore), creando un senso di apertura e serenità. La tessitura è leggermente più piena, con la mano sinistra che assume un ruolo più attivo, a volte presentando un contrappunto discreto o un accompagnamento più elaborato che dialoga con la mano destra. Questo episodio, sebbene meno “brillante” in termini di velocità, mostra la capacità di Hummel di creare momenti di squisita bellezza melodica. La ripetizione e lo sviluppo di questa sezione consolidano il suo carattere affabile e cantabile.
La musica quindi si anima nuovamente in una transizione energica, con passaggi scalari e arpeggi rapidi che ristabiliscono la tensione e l’anticipazione, culminando in un ritorno trionfale del tema principale. Questo è un momento chiave, in cui la melodia originale riappare con una vitalità rinnovata e un’ornamentazione ancora più ricca, quasi a riaffermare la sua centralità con maggiore enfasi.
Segue poi il secondo episodio, che rappresenta l’apice del “brillante” nel rondò. Questa sezione è spesso caratterizzata da un maggiore dinamismo, un’esplorazione armonica più audace e modulazioni che possono toccare tonalità più lontane, come la relativa minore (Do minore) o altre aree, per creare una maggiore tensione drammatica e un senso di avventura musicale. La tessitura si fa notevolmente più complessa: il pianista è chiamato a eseguire rapide successioni di scale, arpeggi estesi che coprono l’intera tastiera e passaggi a volte quasi improvvisati, che richiedono un’abilità tecnica eccezionale. È qui che il rondo dispiega appieno il suo carattere virtuosistico, con momenti di grande impatto sonoro e brillantezza esecutiva.
Dopo l’intenso sviluppo di quest’episodio, una transizione estesa e ben costruita prepara l’ascoltatore per l’ennesimo ritorno del tema principale, questa volta presentato con un’ulteriore amplificazione del virtuosismo, rendendolo ancora più sfarzoso e festoso.
A questo punto, Hummel introduce un’ulteriore sezione che funge da terzo episodio o sviluppo esteso. Questa sezione ha un carattere più esplorativo e quasi improvvisatorio, con intricate figurazioni che si snodano sulla tastiera, dimostrando la flessibilità della forma rondò nelle mani di Hummel. Il gioco dinamico e ritmico è sapientemente gestito per mantenere la narrazione musicale fluida e coinvolgente, con un crescendo di complessità tecnica e armonica.
Il culmine di questa fase culmina in una ripresa finale del tema principale, eseguita con la massima brillantezza e intensità, quasi a voler celebrare la melodia principale in tutta la sua gloria. Seguono poi passaggi di transizione che preparano per la coda finale del brano. Questa sezione conclusiva è caratterizzata da figurazioni virtuosistiche che consolidano la tonalità di impianto e da una serie di accordi finali che chiudono la composizione con un gesto energico e risoluto, lasciando un’impressione duratura di eleganza e bravura.

Nel complesso, il pezzo incarna pienamente la maestria del compositore nel genere, combinando melodie accattivanti, architettura formale chiara e un virtuosismo pianistico sfavillante. È un brano che, attraverso le sue sezioni contrastanti e la progressione della brillantezza, offre un viaggio musicale affascinante e una testimonianza del suo ruolo fondamentale nel passaggio tra il Classicismo e il primo Romanticismo.

vabenecosì
Carl Spitzweg (1808 - 1885):
Der Gutsherr (Der Hagestolz), c1847/49

Missa votiva de Sancta Maria

Adam Václav Michna z Otradovic (1600 - 16 ottobre 1675): Missa III (votiva de Sancta Maria) per coro misto a 4 voci, violini I e II, organo e basso continuo. Schola Gregoriana Pragensis, dir. David Eben; Societas Incognitorum, dir. Eduard Tomaštík.

  1. Introitus: Salve sancta parens
  2. Kyrie
  3. Gloria
  4. Alleluia: Post partum virgo
  5. Credo
  6. Offertorium: Diffusa est gratia in labiis
  7. Sanctus – Benedictus
  8. Agnus Dei
  9. Communio : Beata viscera
  10. Ite missa est


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’armonia sacra del Barocco boemo: Adam Michna, poeta e compositore

Adam Michna z Otradovic, conosciuto anche come Adam Václav Michna z Otradovic, è stato una figura emblematica del primo Barocco boemo. Poeta, compositore, maestro di coro e organista, egli firmava le sue opere come Adamus Michna de Otradowicz, adottando come secondo nome Václav solo negli ultimi anni di vita. La sua influenza fu immensa: è considerato uno dei più significativi artisti del XVII secolo in Boemia, un catalizzatore per lo sviluppo della cultura musicale barocca locale e una fonte d’ispirazione per generazioni future, contribuendo alla tradizione della musica nazionale boema.

La vita: tra nobiltà, fede e impegno civico
Michna proveniva da un’antica, sebbene non di primissimo piano, famiglia aristocratica di cavalieri. Suo padre, Michal Michna, era organista, castellano e, seguendo una tradizione familiare, anche trombettista.
Il contesto culturale della sua giovinezza fu vivace: la confraternita letteraria fu rinnovata nel secondo decennio del XVII secolo grazie al cancelliere Vilém Slavata, e l’attività del collegio gesuita locale contribuì significativamente allo sviluppo culturale della regione. Il compositore fu uno dei primi studenti della scuola della Compagnia di Gesù, frequentandola tra il 1611-12 e il 1615-17. Molte delle sue composizioni furono successivamente stampate proprio dai gesuiti nella loro casa editrice di Praga.
L’oppressione e il declino della vita nazionale e artistica ceca, seguiti alla battaglia della Montagna Bianca (1620), lo colpirono profondamente, spingendolo a comporre le sue opere più celebri. Della sua vita personale si sa poco, solo che si sposò due volte, ma non si hanno notizie sui suoi discendenti. Oltre alle sue attività artistiche, Michna gestiva un commercio di vino, era un cittadino molto rispettato e possedeva una casa in città.
Nel 1633, egli assunse il ruolo di organista e maestro di coro della chiesa prepositurale di Jindřichův Hradec, incarichi che mantenne per quasi tutta la vita. Divenne anche membro della confraternita letteraria menzionata e, dopo la fine della guerra dei trent’anni, della locale confraternita mariana, ricoprendo un ruolo nel consiglio degli anziani della confraternita letteraria dal 1648. Contribuì attivamente alla vita musicale locale. Nel 1673, diede vita alla Fondazione per l’educazione dei giovani musicisti, alla quale lasciò anche parte del proprio patrimonio.

L’opera musicale e poetica: un’eredità inestimabile
Michna fu un compositore estremamente prolifico, ma molte delle sue opere non sono giunte fino a noi. Si conoscono circa 230 delle sue composizioni, raccolte in cinque collezioni (tre boeme e due latine). Nello scrivere musica vocale e vocale-strumentale, egli utilizzava i propri testi poetici. Scrisse numerosi canti spirituali, alcuni dei quali, soprattutto quelli natalizi, sono popolari ancora oggi, come Vánoční noc (Notte di Natale), meglio conosciuta come Chtíc, aby spal, una delle carole più eseguite nella Repubblica Ceca. È probabile che il compositore conoscesse molto bene le tecniche compositive del primo Barocco italiano, e alcune delle sue opere mostrano anche reminiscenze del periodo rinascimentale.

Il corpus musicale: armonie sacre in latino e ceco
L’eredità musicale di Michna può essere suddivisa in due categorie principali: la musica sacra su testi liturgici latini e i pezzi su testi cechi.
La prima è caratterizzata da una melodia molto inventiva e articolata, che impiega la polifonia ed è scritta prevalentemente per organo, strumenti ad arco e strumenti a fiato. Le parti vocali si basano sul contrasto tra le sfumature timbriche delle voci soliste e corali. Le opere includono Obsequinum Marianum (1642), Officium vespertinum (1648), Psalmi (1648), Magnificant primi toni (1654), Sacra et litaniae (1654) – che comprende 5 messe, 2 litanie, un Te Deum e la Missa VI pro defunctis – e la Missa Sancti Wenceslai (circa 1669).
I secondi sono invece prevalentemente inni e canti omofonici con testi boemi propri, concepiti come poesia arrangiata musicalmente. Le opere più importanti sono Česká mariánská muzika (Musica mariana boema, 1647) e Loutna česká (Liuto boemo, 1653). Quest’ultimo è un ciclo di tredici canti dedicati al matrimonio mistico dello Sposo e della Sposa (Cristo e la Chiesa o Dio Padre e la Vergine Maria). Fino al 2014, era conosciuta solo frammentariamente, grazie a una parte d’organo conservata e a una particella di manoscritto semplificato, scoperta da Emilián Trolda negli anni ’20 del XX secolo. Negli anni ’80, Martin Horyna pubblicò un facsimile di una particella incompleta del 1653.
Nel febbraio 2014, il musicologo Petr Daněk scoprì la parte completa del violino della Loutna česká nella biblioteca storica del Museo regionale di Slaný. La scoperta permise di ricostruire meglio l’accompagnamento dei canti e di completare i ritornelli strumentali che li collegavano. L’opera, nella sua forma ricostruita, fu eseguita per la prima volta il 23 dicembre 2014 dall’orchestra Ensemble Inégal, sotto la direzione di Adam Viktora, nell’ambito del ciclo di concerti Barocco Musicale Ceco – Scoperte e sorprese, tenutosi nel Palazzo del Gran Priorato a Praga.
Si segnalano infine la raccolta Svatoroční muzika (Musica sacra annuale, 1661), nonché diverse composizioni minori non ancora catalogate.

La poetica di Michna: metafore, emozioni e riflessioni
La poesia del compositore si distingue per la sua “pittura sonora” del linguaggio (fonestetica), l’uso sapiente di rime e la natura metaforica dei testi. La sua immaginazione verbale è estremamente vivida ed emotivamente ricca. I suoi temi preferiti includono la battaglia interiore tra Dio e il diavolo nell’uomo, spaziando da immagini ideali del paradiso a terrificanti tormenti infernali. Il suo stile si caratterizza per una specifica nobiltà di espressione (pur impiegando spesso un linguaggio decisamente popolare), una prospettiva filosofica e, a volte, un delicato umorismo che rivela una visione critica ma tollerante della società. Altri temi ricorrenti sono le pittoresche descrizioni della natura e gli inni spirituali di lode. L’elenco delle sue poesie coincide praticamente con le raccolte di canti sopra menzionate.

La Missa III
Conosciuta anche come Missa votiva de Sancta Maria, pubblicata nel 1654 come parte della raccolta Sacra et litaniae – pars III, rappresenta un esempio significativo della musica sacra barocca boema. Riflette lo stile compositivo di Michna, caratterizzato dalla fusione di elementi barocchi con una profonda espressione spirituale. Il compositore era infatti influenzato dall’atmosfera controriformista e dalla rinascita della musica sacra, che vedeva nella messa una delle forme più elevate di espressione musicale.
La composizione segue la struttura tradizionale della messa latina, includendo i movimenti ordinari del rito cattolico romano, ma incorporando anche sezioni proprie del Proprium. L’inclusione di Introitus, Alleluia, Offertorium e Communio suggerisce che si tratta di una messa votiva ovvero di una messa specificamente legata a una festività mariana, come indicato anche dal titolo stesso.
L’organico dell’opera è tipico dell’epoca barocca e riflette l’uso di un ensemble cameristico in accompagnamento alle voci. Prevede: un coro misto con sezioni sia solistiche che corali (due soprani, contralto, tenore, basso); violini I e II, che forniscono l’accompagnamento melodico e armonico principale; l’organo, fondamentale per il supporto armonico e per la realizzazione del basso continuo; e il contrabbasso, che rafforza la linea di basso continuo, conferendo profondità al suono.
Questa strumentazione permette al compositore di esplorare diverse tessiture sonore, alternando passaggi più intimi e virtuosistici per le voci soliste a sezioni corali più dense e maestose, tipiche del concerto sacro. L’armonia è tipicamente barocca, con un uso funzionale degli accordi che crea tensione e risoluzione, contribuendo all’espressività complessiva dell’opera. L’organo e il contrabbasso giocano infine un ruolo cruciale nel fornire la base armonica.
Nel complesso, l’opera incarna pienamente lo spirito del Barocco ceco e, attraverso una sapiente combinazione di organico, struttura e stile, Michna dà vita a una composizione sacra che è, al tempo stesso, liturgicamente appropriata e artisticamente raffinata, capace di toccare profondamente l’ascoltatore.

Capriccioso

Camille Saint-Saëns (9 ottobre 1835 - 1921): Introduction et Rondo capriccioso in la minore per violino e orchestra op. 28 (1863). Itzhak Perlman, violino; New York Philharmonic orchestra, dir. Zubin Mehta.


Lo stesso brano nella trascrizione per due pianoforti di Claude Debussy. Jean-François Heisser e Georges Pludermacher.

Saint-SaënsCamille Saint-Saëns

DebussyClaude Debussy



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’Introduction et Rondo capriccioso in la minore per violino e orchestra è un’opera virtuosistica e profondamente espressiva che mette in risalto sia la bellezza melodica che la brillantezza tecnica del violino solista.
Originariamente, fu concepita come movimento finale di un’opera più ampia, ma poi divenne un pezzo autonomo, eseguito in “prima” assoluta a Parigi al Théâtre des Champs-Élysées il 4 aprile 1867. Primo esecutore e dedicatario del brano fu il violinista spagnolo Pablo de Sarasate, a quel tempo ancora agli inizi della sua carriera. Fu proprio a lui che il compositore si ispirò nella composizione del pezzo, inserendo al suo interno delle evidenti allusioni stilistiche spagnoleggianti.
Saint-Saëns aveva conosciuto il famoso compositore spagnolo già nel 1859, rimanendo subito stregato dal suo talento. In quell’anno, Sarasate gli aveva commissionato un concerto per violino, presentandolo al pubblico durante la prima dell’Introduction. Successivamente, il compositore francese dedicò al suo amico anche il Concerto n. 3 per violino e orchestra, il quale divenne uno dei più celebri pezzi del repertorio violinistico.

Il pezzo si articola in due sezioni principali: un’introduzione lenta e malinconica, seguita da un rondò vivace e capriccioso.
L’introduzione si apre con l’indicazione di tempo Andante malinconico e, fin dalle prime note, si percepisce un’atmosfera di profonda introspezione e tristezza.
Il violino solista entra quasi subito dopo il breve accordo d’orchestra, stabilendo la tonalità di impianto. La melodia è frammentata, con note lunghe e sospese, seguite da brevi, struggenti frasi discendenti. L’accompagnamento orchestrale, appena percettibile, è fornito dagli archi con accordi tenuti, creando un sottofondo etereo che non compete mai con la voce del solista.
La melodia si sviluppa con maggiore fluidità, introducendo passaggi con doppie corde che aggiungono densità e risonanza al suono del violino. L’orchestra rimane un tappeto sonoro, tessendo armonie che sostengono la linea melodica principale. Pur mantenendo il carattere malinconico e il tempo lento, iniziano ad apparire figure più complesse e arpeggiate: questi non sono ancora sfoggi di virtuosismo, ma piuttosto ornamentazioni espressive che arricchiscono il discorso musicale.
La musica raggiunge un punto culminante emotivo e la melodia si innalza a registri più acuti, con un aumento dinamico che passa dal piano al mezzoforte e oltre. I passaggi si fanno più densi e appassionati, caratterizzandosi per la presenza di rapide scale e arpeggi ascendenti e discendenti. L’orchestra risponde con maggiore partecipazione, fornendo un supporto armonico più robusto.
Dopo il climax, la musica si placa gradualmente. Il violino rallenta, scendendo a figure più sommesse e frammentate. Questo segmento funge da transizione, preparando l’ascoltatore per il contrasto netto che seguirà. La melodia si dissolve quasi in un sospiro, creando un’aspettativa risolutiva per l’ingresso del Rondò.
Quest’ultimo è caratterizzato dall’indicazione Allegro ma non troppo e segna un cambiamento radicale di atmosfera, con un’esplosione di energia e vivacità, spesso associata a ritmi spagnoleggianti.
Con un’entrata improvvisa e brillante, il violino attacca il tema principale, un motivo ritmico, incisivo e altamente virtuosistico in la minore. Il carattere “capriccioso” del titolo è immediatamente evidente e l’orchestra fornisce un accompagnamento staccato e ritmicamente propulsivo, supportando il violino senza mai offuscarlo. La dinamica è vivace, quasi ininterrottamente forte.
Segue un momento di leggero contrasto, sebbene l’energia generale rimanga alta. La melodia si fa più cantabile e si alternano scale rapide e frasi più ampie ed espressive, spesso con doppie corde e arpeggi veloci. La tonalità tende a spostarsi verso il maggiore, donando un carattere più brillante rispetto al tema principale.
Questo riappare, ancora più brillante e virtuosistico, seguito da un secondo episodio di marcato contrasto. Il tempo rallenta e la tonalità si sposta definitivamente verso il maggiore. La melodia è lirica e sentimentalmente romantica, quasi una serenata spagnola. L’orchestra crea un sottofondo caldo e armonioso.
Un breve passaggio ripristina l’energia e la tensione, con figure ascendenti e discendenti che conducono al ritorno del tema principale, il quale si ripresenta con rinnovato vigore, ulteriormente elaborato e più complesso. Segue il terzo episodio, una sezione di estremo virtuosismo che porta il solista al limite delle sue capacità. Si assiste a un moto perpetuo di scale rapidissime, arpeggi spezzati, salti di corda e picchettati volanti. Questa sezione è un vero tour de force per il violinista e l’orchestra accompagna con brevi e potenti staccati che sottolineano il ritmo frenetico.
Il tema principale del Rondò fa la sua ultima apparizione, più esaltante e trionfale che mai. Il ritmo accelera ulteriormente e la dinamica aumenta, portando la musica a una conclusione grandiosa. Seguono brevi e intense sezioni virtuosistiche, concludendo con una coda che rappresenta la celebrazione finale del virtuosismo e dell’energia. Il violino solista e l’orchestra si uniscono in una serie di passaggi brillanti, scale ascendenti e accordi potenti. Perlman conclude con una serie di note acute e fortissimo, terminando il pezzo con una sferzante e definitiva cadenza finale.

Nel complesso, la composizione non è solo un brano virtuosistico, ma anche un’opera di grande profondità emotiva e ricchezza melodica. La sua struttura contrastante, con un’apertura quasi meditativa che lascia il posto a una danza spagnola travolgente, lo rende un pezzo affascinante e un pilastro del repertorio violinistico.

Remedium animae

Ottavio Vernizzi (1569 - 28 settembre 1649): O Domine Jesu Christe, mottetto a 6 voci (da Motectorum Specimen… Liber primus, 1603). Dina König, contralto; Susanna Defendi, Adam Jakab, Phillip Boyle, Adrian King e Constantin Meyer, tromboni.

O Domine Jesu Christe,
adoro te in cruce vulneratum
felle et aceto potatum:
te deprecor ut tua vulnera
sint remedium animae meae
morsque tua sit vita mea.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Ottavio Vernizzi: poliedrico organista e compositore bolognese

Ottavio Vernizzi (conosciuto anche come Vernici, Vernitio o Invernizzi) è una figura emblematica del panorama musicale bolognese a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la cui carriera si estese per oltre cinquant’anni. La sua vita fu un intreccio di servizio ecclesiastico, attività accademica, insegnamento e persino controversie legali, il tutto mentre sviluppava uno stile compositivo che fungeva da ponte tra la polifonia tardorinascimentale e le nuove tendenze concertate del primo Barocco.

Origini e contesto familiare
Vernizzi nacque a Bologna il 27 novembre 1569. La sua famiglia non era di nobili origini, come testimonia il ruolo del padre, Pier Jacopo, bidello presso il Collegio degli artisti, e quello dei suoi fratelli, Ugo e Pier Jacopo, anch’essi bidelli nello Studio bolognese. Questa modesta provenienza, tuttavia, fu in qualche modo riscattata nel Settecento, quando un discendente, Filippo Vernizzi, acquisì il titolo di conte. Ciononostante, storici come Giuseppe Guidicini (1872) hanno espresso scetticismo su presunte antiche nobili ascendenze, suggerendo che la famiglia avesse radici più umili, con il padre di Ottavio descritto come un lavoratore agricolo dei Boncompagni, proprietario di terreni e di un’osteria (“la Cestarella”) fuori Porta Strada Maggiore.

Una prestigiosa carriera di organista
Le informazioni sulla formazione giovanile del compositore sono lacunose, ma è certo che la sua carriera professionale si concentrò presto sulla musica ecclesiastica, in particolare come organista. Già prima del 1596, egli esercitava occasionalmente la professione di organista presso la Basilica di San Petronio a Bologna. Nel febbraio di quell’anno, in seguito alla richiesta di pensionamento del titolare Vincenzo Bertalotti, Vernizzi presentò la sua candidatura ufficiale, forte delle sue «benemerenze acquisite quale supplente» e di «patronati illustri». Insieme a lui si candidò Giovanni Battista Mecchi, un allievo di Bertalotti raccomandato dal cardinale Alessandro Peretti Damasceni. La Fabbriceria della basilica prese una decisione innovativa: il 15 febbraio 1596, entrambi furono assunti con la clausola di essere «equales et equaliter ellecti ad ipsa duo organa». Questo implicava un’alternanza mensile sugli organi e l’obbligo di sostituirsi a vicenda. Questa disposizione fu facilitata dalla contemporanea costruzione del secondo organo della basilica (completato nel 1597 da Baldassarre Malamini), che permise di allineare l’ampliamento dell’organico musicale con la pratica della polifonia a doppio coro.
Nonostante la parità iniziale, Vernizzi ricevette presto un riconoscimento speciale. Oltre a uno stipendio di 13 lire, 6 soldi e 8 denari e un alloggio (successivamente convertito in un’indennità annuale), fu gratificato con due donativi nel 1597 e 1598, un’elargizione vitalizia dal 1625 e aumenti salariali che portarono la sua paga mensile a 22 lire entro il 1641. Vernizzi mantenne il suo incarico a San Petronio per ben cinquantatré anni, fino alla sua morte, avvenuta il 28 settembre 1649. Gli succedette il suo allievo Giulio Cesare Arresti, a testimonianza del suo duraturo impatto. Oltre a San Petronio, ricoprì incarichi di organista anche in San Procolo (1629-32) e presso l’Arciconfraternita di Santa Maria della Vita, luoghi dove molti musicisti della cappella di San Petronio erano attivi.

Didatta e accademico rinomato
Vernizzi non fu solo un esecutore e compositore, ma anche un didatta stimato. I suoi legami familiari con lo Studio pubblico di Bologna gli garantirono rapporti privilegiati con gli studenti universitari, specialmente quelli della natio germanica. A partire dal 1615, contravvenendo alle normative ecclesiastiche, impartì lezioni di musica alle monache camaldolesi di Santa Cristina della Fondazza, dove ebbe tra le sue allieve Lucrezia Orsina Vizzani. Queste lezioni clandestine furono interrotte d’autorità nel 1623.
Fu un membro attivo delle vivaci accademie musicali bolognesi. Aggregato come “Indefesso” all’Accademia dei Floridi, fondata nel 1615 da Adriano Banchieri e successivamente rifondata come Accademia dei Filomusi nel 1623 da Girolamo Giacobbi, la sua influenza è attestata da menzioni in opere di Banchieri, che lodò la sua abilità organistica, incluse un suo mottetto (Quæsivi quem diligit) in una raccolta e gli dedicò una lettera nelle Lettere armoniche. Partecipò anche all’Accademia dei Ravvivati, probabilmente introdotto dal poeta Silvestro Branchi, con cui collaborò in diverse produzioni.

Vita personale e controversie legali
La vita privata di Vernizzi non fu esente da complessità. Nel 1614 ebbe un figlio naturale, Francesco, da Lucrezia Tabarelli, vedova. Gli assicurò un vitalizio per la madre e una donazione di beni per il figlio, e un lascito testamentario a suor Samaritana Valisani (figlia di primo letto della Tabarelli) suggerisce un possibile matrimonio successivo con Lucrezia. Tuttavia, nei suoi testamenti (del 1639 e 1645), il figlio Francesco non è menzionato. Questi documenti invece dettagliano i beneficiari del suo patrimonio, tra cui la seconda moglie Francesca Tegli, la sua serva, i nipoti (figli del fratello Ugo), il suo allievo Giulio Cesare Arresti (a cui destinò l’intera biblioteca musicale e gli strumenti), e altre persone. Vernizzi richiese di essere sepolto senza pompa nella chiesa di Sant’Andrea degli Ansaldi.
Fu anche protagonista di alcune vicende legali. Nel 1634, fu coinvolto in una causa a Roma, ma nobili bolognesi attestarono la sua impossibilità di viaggiare per motivi di età e scarse risorse. Ancora più curiosa fu la controversia del 1636 con il nipote Marcantonio Scavazzoni, che lo citò in giudizio per una scommessa persa a seguito di una testimonianza favorevole di Vernizzi in un processo. La disputa si protrasse per anni, risolvendosi a favore del compositore solo nel 1641.

L’opera musicale: un ponte tra epoche
La virtù compositiva di Vernizzi è attestata da cinque raccolte a stampa superstiti di mottetti, fondamentali per comprendere lo sviluppo della musica sacra bolognese del primo Seicento. La sua opera prima, Motectorum specimen (1603), dedicata al cardinale Peretti, contiene ventidue composizioni da 5 a 10 voci. Queste opere sono espressione dello stile a cappella florido e sontuoso tipico dell’ultima stagione del mottetto polifonico cinquecentesco. I suoi modelli di riferimento erano compositori come Andrea Rota e Girolamo Giacobbi, ma Vernizzi si distinse per un uso più “artificioso” dei procedimenti compositivi, in particolare nell’uso espressivo delle dissonanze e della concatenazione degli esacordi.
Le sue altre musiche a stampa sono prevalentemente in stile concertato, a eccezione di un responsorio. L’Armonia ecclesiasticorum concertuum (1604) include alcuni dei primi esempi di mottetto concertato nell’area bolognese, dedicato alla natio germanica. Seguirono gli Angelici concentus (1606) e i Caelestium applausus (1612), nei quali Vernizzi sviluppa lo stile concertato principalmente attraverso duetti, trii e quartetti vocali di natura contrappuntistica, piuttosto che attraverso il recitativo sillabico o melodizzato. Solo il Caelestium applausus introduce tre mottetti a voce sola, mentre le opere precedenti si concludono con mottetti a quattro voci in stile antico che mostrano un’audace cromatismo. L’opera quinta, Concerti Octavii Vernitii a 5.6.8. cum basso (1613), è nota solo dal titolo. Dopo una lunga pausa, nel 1648, pubblicò la sua opera sesta, i Concerti spirituali, che mostrano un notevole sviluppo in termini di forma, proporzioni e varietà stilistiche rispetto alle sue precedenti composizioni concertate.
Oltre alla musica sacra, Vernizzi compose anche musiche teatrali, tra cui intermedi per tragedie e commedie rappresentate nelle accademie bolognesi, ma purtroppo queste opere sono andate perdute. La sua musica fu riconosciuta anche all’estero, con ristampe di alcuni suoi mottetti in importanti antologie tedesche. Attraverso la sua prolifica attività e la sua capacità di innovare pur mantenendo un legame con la tradizione, Vernizzi si affermò come una figura chiave nella transizione musicale del suo tempo.

Il mottetto O Domine Jesu Christe
Tratto dalla sua raccolta Motectorum Specimen del 1603, è un esempio sublime del passaggio tra la polifonia rinascimentale e l’emergente sensibilità barocca.
Il brano si apre con un’introduzione maestosa e riverente. Le voci entrano gradualmente, tessendo linee melodiche interconnesse che creano una ricca trama polifonica. I tromboni accompagnano le voci, spesso raddoppiandole o fornendo un contrappunto morbido ma solido, mentre l’organo tiene salda la base armonica. La melodia è caratterizzata da passaggi melismatici, specialmente sulla frase «O Domine Jesu Christe», che conferiscono un senso di “floridezza” e grandezza, come descritto nella biografia di Vernizzi per la sua prima raccolta. La dinamica è controllata, ma con una pienezza sonora che evoca solennità. Si percepisce già l’uso di armonie complesse e di “dissonanze espressive” che arricchiscono il tessuto sonoro senza turbarne la devozione.
La musica poi si approfondisce nel descrivere le sofferenze di Cristo, con frasi come «in cruce vulneratum felle et aceto potatum»: qui, il tono si fa più intimo e a tratti più doloroso. Le linee vocali si muovono spesso con moto discendente, suggerendo il peso del sacrificio. Le dissonanze diventano più evidenti e cariche di significato emotivo, risolvendosi poi in consonanze appaganti, un tratto distintivo della musica del primo Barocco che cerca di esprimere gli affetti del testo. I tromboni qui assumono un ruolo ancora più prominente, a volte quasi vocalico, dialogando con i cantanti e rinforzando le armonie più intense.
L’ultima sezione del mottetto si concentra sulla supplica e la speranza, con la musica che riflette questo passaggio emotivo con una maggiore intensità e un senso di risoluzione. Le voci si uniscono in passaggi omoritmici che enfatizzano la chiarezza del messaggio, alternando ancora momenti di intricata polifonia. La dinamica cresce gradualmente verso un climax finale, sottolineando la potenza delle parole. La conclusione è caratterizzata da accordi ricchi e sostenuti, che emanano un senso di pace e fede incrollabile. Le armonie finali sono profondamente consonanti, stabilendo un senso di compimento e di speranza eterna. Il ruolo degli strumenti è fondamentale nell’arricchire questa sonorità sontuosa, creando un tappeto sonoro ampio e avvolgente che culmina in una chiusura piena e risonante.
Nel complesso, il pezzo mostra un equilibrio tra la tradizione polifonica del Cinquecento e l’innovazione armonica e strumentale del Barocco nascente. L’uso espressivo delle dissonanze, la tessitura ricca e florida, e la capacità di tradurre emotivamente il testo in musica, ne fanno un’opera di grande bellezza e profondità devozionale, fedele allo stile descritto per il Motectorum Specimen e al contempo proiettata verso le nuove sonorità del suo tempo.

Fearful symmetry

Béla Bartók (1881 - 26 settembre 1945): Musica per archi, percussione e celesta Sz 106, BB 114 (1936; lavoro commissionato da Paul Sacher per celebrare il 10° anniversario dell’en­semble Basler Kammer­orchester). RIAS-Symphonie-Orchester, dir. Ferenc Fricsay (registrazione del 1953).

  1. Andante tranquillo
  2. Allegro
  3. Adagio
  4. Allegro molto


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

La Musica per archi, percussione e celesta di Béla Bartók, composta nel 1936, è un capolavoro che esemplifica la maestria del compositore ungherese nell’uso del contrappunto, delle architetture formali simmetriche e di un linguaggio armonico innovativo. L’opera, commissionata da Paul Sacher, è divisa in quattro movimenti, ciascuno con un carattere e una struttura distinti.

Il primo movimento è un perfetto esempio di fuga, in una forma rivisitata dal compositore con la sua personale sensibilità e linguaggio armonico. Il tema d’apertura è introdotto da un’unica viola con la sordina, creando un’atmosfera misteriosa e intimistica. Il carattere “tranquillo” è evidente nella dinamica pianissimo e nell’andamento lento. La sordina, specificata per gli archi, contribuisce a un timbro velato e soffuso, enfatizzando il carattere etereo dell’introduzione.
Il soggetto, chiaramente esposto dalla prima viola, è caratterizzato da intervalli di seconda minore e di tritono, che immediatamente introducono la sonorità dissonante e tesa tipica di Bartók: questi intervalli saranno elementi cardine che genereranno tensione e condurranno lo sviluppo armonico del movimento. Successivamente, il soggetto viene presentato da altri strumenti, ciascuno che entra sul tritono della nota precedente, creando una sensazione di espansione e tensione crescente.
Questo approccio non convenzionale alla fuga, con le voci che entrano su intervalli così distanti, disorienta l’ascoltatore rispetto al tradizionale contrappunto barocco, creando un’atmosfera sospesa e quasi metafisica.
Si assiste poi a un infittirsi delle entrate e un graduale arricchimento della tessitura sonora, con ogni gruppo di archi che presenta il soggetto o una sua risposta, contribuendo a un’espansione del registro e della complessità armonica. La dinamica resta prevalentemente bassa, ma la crescente densità delle voci suggerisce una tensione latente. Segue una progressione in cui le viole e i violini, con le viole prima e il violoncello poi, entrano in maniera contrappuntistica, creando un intarsio di voci che si sovrappongono e si rispondono.
Bartók utilizza un’orchestra di soli archi divisa in gruppi distinti, ma anche all’interno di questi gruppi gli strumenti mantengono una certa individualità timbrica, dando risalto a ogni linea melodica anche quando la tessitura è molto fitta.
Man mano che il movimento si avvicina al suo punto culminante, Bartók inizia a sciogliere le sordine e a incrementare la dinamica con un costante crescendo. L’effetto è un’intensificazione graduale del suono, che da velato diventa sempre più aperto e brillante. L’utilizzo di glissandi negli archi e nel pianoforte aggiunge un senso di movimento inarrestabile e di vertigine, accentuando il pathos emotivo.
Il crescendo culmina in un fortissimo, con l’ingresso di piatti e timpani che rinforzano l’attacco finale, conferendo un’energia dirompente alla coda del movimento. L’impiego delle percussioni in questa fase è cruciale per marcare il climax e per introdurre un elemento di contrasto timbrico.
Dopo il culmine drammatico, il movimento rallenta progressivamente, riducendo la dinamica e ritornando gradualmente alla sonorità con la sordina. La tessitura si dirada e il ritmo si allarga, preparando l’ascoltatore alla conclusione più riflessiva.
La sezione finale è caratterizzata da una sorta di “smaterializzazione” del suono, dove le voci degli archi si attenuano e il timpano suona un ritmo cadenzato ma molto morbido, quasi un battito cardiaco lontano. Questo porta a un finale in pianississimo e poco rallentando con le note, che sembrano dissolversi nell’aria.

Il secondo movimento contrasta nettamente con l’atmosfera introspettiva e severa del primo, ed è caratterizzato da una vitalità ritmica intensa, un’orchestrazione vivace e un costante senso di urgenza.
Esso si apre con un’esplosione di energia, data dall’ingresso percussivo del timpano, con una dinamica in forte e una scansione ritmica quasi ossessiva. A questo si aggiungono immediatamente il pianoforte che presenta il tema principale in un registro acuto e gli archi che entrano con rapide figurazioni pizzicate. Il tema è ritmicamente molto incisivo, il pizzicato degli archi accentua l’effetto ritmico e secco del pianoforte.
Il movimento si sviluppa con un contrappunto serrato e una tessitura orchestrale densa. Qui Bartók prescrive un’esecuzione leggera e giocosa, ma che mantiene comunque una certa vivacità. Vengono utilizzati effetti come gli staccati e i pizzicati negli archi per creare un dialogo serrato tra le diverse sezioni.
Il compositore divide ulteriormente le sezioni degli archi, permettendo a ciascun sottogruppo di contribuire con linee melodiche distinte, creando un effetto di stratificazione sonora. La dinamica rimane robusta, con passaggi in fortissimo e le figurazioni ritmiche si fanno sempre più complesse.
Come nel primo movimento, Bartók costruisce un climax dinamico e strutturale. Gli archi intensificano il suono e si raggiunge l’apice con l’intervento dei piatti e del timpano che martellano ritmi energici, mentre gli archi continuano con figurazioni virtuose e veloci. Segue poi un graduale rallentamento e una diminuzione della dinamica, con gli strumenti che perdono progressivamente la loro intensità, preparando il terreno per la transizione verso il movimento successivo.

Il terzo movimento è un ritorno all’atmosfera meditativa e profonda, ma con un’intensità emotiva ancora maggiore. Presenta un’architettura a ponte o a specchio, tipica di Bartók, dove il centro del movimento è il punto di massima densità e complessità emotiva.
Esso si apre con il ticchettio sinistro del timpano che stabilisce immediatamente un’atmosfera carica di mistero e presagio. Lo xilofono entra subito dopo, esponendo un motivo frammentato e dissonante. Bartók sfrutta l’intera gamma delle percussioni, creando una trama sonora estremamente delicata e suggestiva. Gli archi, anch’essi con la sordina, si uniscono in una progressione ascendente lenta e quasi spettrale, con dinamiche sempre basse.
Il motivo dello xilofono si ripresenta, stavolta in una versione amplificata, con le viole e i violoncelli che tessono un contrappunto denso e intricato. Bartók qui accentua l’uso degli intervalli di tritono e di seconda minore, che rendono l’armonia incerta e ricca di tensione latente. Questa sezione si chiude con un ritorno al registro basso e a dinamiche sommesse.
Il movimento si espande liricamente e Bartók impiega temi più melodici, anche se sempre caratterizzati da una certa malinconia e inquietudine. Le sonorità “con sordina” degli archi continuano a dominare, creando un effetto di suono ovattato e remoto.
Qui il contrappunto si fa più elaborato, con le voci che si imitano e si intrecciano, esplorando l’intera gamma espressiva degli archi. La dinamica subisce variazioni sottili, dal pianissimo al mezzoforte, delineando un paesaggio emotivo in costante cambiamento ma sempre controllato. La celesta e l’arpa, con i loro suoni scintillanti e cristallini, aggiungono un tocco di colore e un senso di magia, come un flebile raggio di luce nell’ombra. Le loro entrate sono spesso associate a glissandi e arpeggi rapidi, che contribuiscono a questa dimensione eterea.
La sezione successiva rappresenta il climax emotivo, dove la tensione raggiunge il suo apice. Qui il tema si espande in tutta la sua potenza, con accordi densi e dissonanti che creano una sensazione di profonda angoscia o, per contro, di liberazione. Il pianoforte e le percussioni (in particolare i piatti) tornano a rinforzare il suono, sottolineando l’importanza di questo passaggio.
Il ritmo poi si frammenta e la musica si avvia verso una sorta di collasso. Vengono impiegati pizzicati violenti e dissonanti, uniti a glissandi che creano un effetto di discesa vertiginosa e di caos. Questa fase, altamente drammatica, prepara il ritorno alla calma.
Si ha una ripresa del materiale tematico della seconda sezione, ma con una veste orchestrale e dinamica ridotta. Il suono torna gradualmente al “con sordino” e le dinamiche si abbassano, mentre gli archi elaborano il tema in modo più intimo e frammentato, creando un’atmosfera di distacco e rassegnazione.
La sezione seguente ripresenta il ticchettio del timpano e i frammenti melodici iniziali, ma con una dinamica ancora più tenue. La musica si dissolve lentamente, con le ultime note degli archi che svaniscono nel silenzio, lasciando un senso di vuoto e di sospensione. Il movimento si conclude come è iniziato, in un’atmosfera misteriosa, ma ora arricchita dall’esperienza emotiva di tutto il percorso.

Con il quarto movimento si ritorna all’energia e alla brillantezza del secondo, ma con un carattere ancora più concitato e virtuosistico. Costituisce la parte più vivace dell’opera, caratterizzata da rapide figurazioni e un contrappunto serrato.
L’apertura è affidata agli archi che eseguono figurazioni in pizzicato, creando un effetto percussivo e scattante. Il timpano e il pianoforte si uniscono immediatamente, rinforzando il ritmo propulsivo e aggiungendo un elemento di energia. Il tema è basato su cellule ritmiche brevi e ripetute, che generano un senso di urgenza e ininterrotto movimento.
Il movimento sviluppa poi il suo carattere virtuosistico attraverso un intricato contrappunto fugato. Le diverse sezioni degli archi si inseguono con grande velocità e precisione, mentre il pianoforte e le percussioni forniscono un sostegno ritmico inarrestabile. La dinamica rimane costantemente alta, con frequenti indicazioni di fortissimo per sottolineare la potenza e la brillantezza dell’esecuzione. Bartók qui utilizza la sua tecnica di “notte della natura”, con suoni quasi selvaggi e primordiali che si mescolano con passaggi di grande chiarezza e trasparenza orchestrale.
Si raggiunge l’apice con un’esplosione di virtuosismo: tutte le sezioni degli archi suonano all’unisono o in densi cluster, creando un suono imponente e massiccio, mentre il pianoforte e le percussioni intervengono con forza, sottolineando gli accenti ritmici e contribuendo a un grande senso di strepitio. Il finale è estremamente rapido, con una scrittura virtuosistica che spinge gli esecutori al limite delle loro capacità.
La cadenza conclusiva è una sintesi di tutto il materiale tematico precedente, con i temi che si ripresentano in un’ultima, grandiosa affermazione. La musica si conclude con un fortissimo secco e deciso, che lascia nell’ascoltatore un senso di potente risoluzione.

Nel complesso, l’opera si distingue per la sua straordinaria forza e originalità. In essa, Bartók riesce a fondere elementi della tradizione contrappuntistica barocca con il suo linguaggio armonico moderno, caratterizzato da dissonanze audaci e strutture simmetriche. L’uso innovativo della strumentazione, in particolare l’integrazione delle percussioni e della celesta con gli archi, crea un universo sonoro unico e affascinante.
Il primo movimento, con la sua forma fugata e la progressione per tritoni, stabilisce immediatamente l’approccio intellettuale e la tensione emotiva dell’opera, mentre il secondo movimento offre un contrappunto ritmico e scherzando. Il terzo, Adagio, approfondisce l’esplorazione emotiva, creando un climax di grande intensità, e infine l’Allegro molto è un trionfo di energia e virtuosismo che riassume e chiude l’opera con una forza travolgente. In conclusione, la capacità del compositore di creare un’architettura formale così coerente e allo stesso tempo così ricca di contrasti emotivi è ciò che rende questa musica un pilastro del repertorio del XX secolo.

Il rondeau del calumet

Jean-Philippe Rameau (25 settembre 1683 - 1764): Rondeau des sauvages (« Forêts paisibles »), dall’ultimo atto dell’opéra-ballet Les Indes galantes (1735). Patricia Petibon, soprano (Zima); Nicolas Rivenq, baritono (Adario); Les Arts Florissants, dir. William Christie.


Lo stesso brano eseguito alla bersagliera, in concerto, dai Musiciens du Louvre diretti da Marc Minkowski, con i cantanti Magali Léger e Laurent Naouri.

Zima, Adario :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Zima, Adario :

Dans nos retraites, dans nos retraites,
Grandeur, ne viens jamais
Offrir tes faux attraits!
Ciel, ciel, tu les as faites,
Pour l’innocence et pour la paix.

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Zima, Adario :

Jouissons dans nos asiles,
Jouissons des biens tranquilles!
Ah! peut-on être heureux,
Quand on forme d’autres vœux?

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.


Rameau: Les Sauvages, rondeau (dalla raccolta Nouvelles suites de pièces de clavecin, 1727). Grigorij Sokolov, pianoforte.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Il Rondeau des sauvages è uno dei numeri più celebri e iconici dell’«opéra-ballet» Les Indes galantes di Jean-Philippe Rameau, composto nel 1735. Inserito nell’atto IV, «Les Sauvages d’Amerique», ambientato nell’America del Nord, il brano incarna l’immaginario europeo dell’epoca riguardo ai “selvaggi” del Nuovo Mondo, combinando fascino esotico, ingenuità e una profonda connessione con la natura.
La musica si apre con un ritmo vigoroso e pulsante scandito dal tamburo: è una sonorità primaria, quasi tribale, che cattura immediatamente l’attenzione. Man mano che altri strumenti si uniscono si delinea una melodia vivace e sincopata in tonalità maggiore, che evoca un senso di festa e vitalità. Questo primo ritornello strumentale, con la sua melodia orecchiabile e il ritmo incalzante, stabilisce il carattere gioioso e selvaggio del pezzo. La musica, pur ripetendosi, introduce successivamente leggere variazioni orchestrali o dinamiche che mantengono l’interesse, culminando in un crescendo.
Successivamente, l’accompagnamento musicale si fa più sottile per lasciare spazio al canto. Le voci soliste, ricche e vibranti, portano in primo piano il messaggio di Rameau: la celebrazione della pace e dell’innocenza delle “foreste pacifiche”, dove i cuori non sono turbati da desideri vani e la felicità non dipende dalle ricchezze o dai favori della fortuna. Si unisce poi il coro dei selvaggi, amplificando il messaggio con un coro potente e armonioso.
Il tema del rondeau si ripresenta diverse volte, alternando i solisti con il coro, creando un’onda di suono e movimento che alterna momenti di intimità a esplosioni corali. La parte lirica, spesso accompagnata da movimenti più morbidi e ondeggianti, sottolinea ulteriormente il contrasto tra la purezza della vita dei sauvages e la corruzione del mondo civilizzato, un tropo tipico dell’Illuminismo. I solisti cantano con un’espressività crescente, mentre il coro li supporta, riempiendo la scena con la loro presenza vocale e coreografica.
Il brano si conclude con la ripresa da parte dell’intero ensemble del tema principale del rondeau, con un’energia crescente e un senso di trionfo gioioso.
Nel complesso, il pezzo è un esempio magistrale della capacità di Rameau di fondere musica e dramma. L’uso di ritmi vivaci e melodie accattivanti crea un’atmosfera di “esotismo” che era molto di moda all’epoca, mentre la giustapposizione delle sezioni strumentali danzate con quelle vocali cantate dai solisti e dal coro contribuisce a creare un opéra-ballet dinamico e visivamente ricco.

Composto come parte delle Nouvelles Suites de pièces de clavecin del 1727, Les Sauvages è un rondeau che cattura l’immaginazione con il suo carattere vivace, quasi esotico, ispirato ai “selvaggi” che Rameau vide esibirsi a Parigi. La forma del rondeau è chiaramente delineata, con un refrain ricorrente che incornicia episodi (couplets) contrastanti.
Il brano si apre con l’energico ritornello, stabilendo il carattere incisivo e “selvaggio” suggerito il titolo. La melodia è caratterizzata da figure arpeggiate ascendenti e discendenti rapide, spesso seguite da passaggi scalari virtuosistici e agili abbellimenti. Il compositore utilizza abbondantemente sincopi che conferiscono un impulso ritmico propulsivo e un senso di “sfida” o vivacità quasi selvaggia. La mano destra esegue la linea melodica principale con notevole chiarezza e leggerezza, mentre la mano sinistra fornisce un accompagnamento armonico e ritmico robusto, ma non invadente.
L’articolazione è prevalentemente staccata e nitida, specialmente nelle rapide semicrome, contribuendo alla brillantezza del suono. Ci sono anche brevi frasi legate che offrono un leggero contrasto, mentre la dinamica si mantiene su un mezzo forte generale, con lievi crescendo su passaggi ascendenti e diminuendo verso le cadenze, evidenziando la struttura fraseologica.
L’armonia è saldamente ancorata alla tonalità di impianto (sol minore), con progressioni diatoniche chiare e l’uso efficace di dominanti che rafforzano il centro tonale. La ripetizione della sezione ribadisce il tema principale con la stessa energia e precisione.
Dopo la ripetizione del refrain, il primo couplet introduce un marcato contrasto, sia timbrico che espressivo.
La tonalità si sposta verso la dominante (re maggiore) e la melodia si fa più lirica e meno angolare, con un andamento più scorrevole e legato. Sebbene mantenga la base ritmica generale, le sincopi aggressive del refrain sono attenuate, sostituite da un flusso più continuo di semicrome. La mano sinistra assume un ruolo più melodico e contrappuntistico in alcuni passaggi, creando un dialogo tra le due mani.
L’articolazione diventa più legata, con un suono più morbido e cantabile. La dinamica si sposta verso un mezzo piano che enfatizza il carattere più intimo e quasi meditativo di questa sezione, pur mantenendo un’eleganza intrinseca. Le progressioni armoniche sono fluide e contribuiscono alla sensazione di apertura e lirismo, portando dolcemente alla preparazione per il ritorno del refrain.
Viene ripreso il tema principale, ripristinando l’energia e il carattere “selvaggio” iniziale, per poi introdurre un nuovo contrasto con il secondo couplet, questa volta con una sfumatura più profonda e forse più drammatica.
La tonalità sembra modulare verso la sottodominante (do) o addirittura verso regioni minori prima di tornare alla tonalità principale. La melodia è ora più elaborata e a volte più “corposa”, con un maggior uso di accordi e passaggi che richiedono una maggiore pienezza di suono. Il ritmo rimane sostenuto, ma le figure sono spesso più complesse e intrecciate, quasi a creare un dialogo serrato tra le voci. Si notano passaggi che sembrano quasi delle scale discendenti o ascendenti in blocchi di accordi, dando un senso di grandezza.
L’articolazione è ancora precisa, ma con una tendenza a un legato più pronunciato in alcune frasi, permettendo al suono di sostenersi. Viene esplorata una gamma dinamica leggermente più ampia, con momenti di maggiore intensità (forte) che poi si risolvono in diminuendo prima del ritorno finale del refrain. Le progressioni armoniche si fanno più avventurose e creano una tensione che si risolve elegantemente nel ritorno del tema principale.
Il brano si conclude con l’ultima riaffermazione del refrain, seguito da una coda concisa, con una chiara cadenza nella tonalità principale, che termina su un accordo risonante, lasciando un senso di completezza e vivacità duratura.

Ouverture francese

Anthony Ritchie (18 settembre 1960): French Overture op. 138 (2009). New Zealand Symphony Orchestra, dir. Tecwyn Evans.

Il brano è stato ispirato da un soggiorno parigino del compositore neozelandese. Il titolo fa riferimento dunque, in primo luogo, a Parigi, ma allude anche alla forma musicale tipicamente barocca detta appunto «ouverture francese», così chiamata perché affermatasi nell’ambito della musica transalpina della seconda metà del Seicento, con le ouvertures dei balletti di Lully, e per distinguerla dalla coeva «ouverture italiana», che ha struttura differente: l’ouverture francese consta di due sezioni, la prima di andamento lento, la seconda vivace; l’italiana è tripartita, rapide la prima e l’ultima sezione, lenta quella centrale.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Anthony Ritchie: un maestro neozelandese tra accademia e innovazione

Anthony Damian Ritchie è un eminente compositore e accademico neozelandese, la cui prolifica carriera include oltre 200 opere che spaziano da sinfonie e opere liriche a concerti, lavori corali, musica da camera e pezzi solisti.

Primi anni e formazione musicale
Nato a Christchurch, Anthony Ritchie ha ereditato il talento musicale dai genitori: suo padre, John Ritchie, era professore di composizione e orchestrazione all’Università di Canterbury, mentre sua madre era una solista soprano. Anthony ha iniziato a studiare il pianoforte all’età di nove anni, mostrando subito una notevole predisposizione per l’improvvisazione. La sua educazione musicale è proseguita presso il St Bede’s College a Christchurch, dove ha iniziato a comporre, per poi conseguire il Bachelor of Music con lode all’Università di Canterbury nel 1981. Un’esperienza significativa per la sua formazione è stata la permanenza in Ungheria nel 1983, dove ha studiato l’influenza della musica popolare in alcune opere di Béla Bartók e ha approfondito la composizione con Attila Bozay e Zsolt Serei. Ha infine completato il dottorato di ricerca sulla musica di Bartók nel 1987.

Carriera iniziale e commissioni rilevanti
Nello stesso anno, il compositore ha ricoperto il ruolo di Composer-in-Schools a Christchurch; tra il 1988 e il 1989 è stato Mozart Fellow presso l’Università di Otago. Successivamente, ha intrapreso la carriera di compositore freelance, accettando una serie di prestigiose commissioni. Tra queste figurano Theme and Variations – the search, presentata in anteprima a Dunedin nel giugno 1998; From the Southern Marches, commissionata da George Griffiths di Otago Heritage Books e presentata nel marzo 1998; Revelation commissionata e eseguita dalla New Zealand Symphony Orchestra a Christchurch e Wellington nel 1998; un Concerto per chitarra commissionato dalla Auckland Philharmonia ed eseguito dal chitarrista Matthew Marshall, e le danze Shoal Dance e Leaf. Ha composto per numerosi altri artisti di spicco, tra cui Michael Houstoun e Wilma Smith.

Collaborazioni e opere liriche
Ritchie ha collaborato con diversi scrittori e librettisti di talento. Con Stuart Hoar ha creato un primo lavoro teatrale, Star Fire (1995), un’opera futuristica con un tema fantascientifico e richiami ambientali e maori, commissionata dalla Class Act Opera di Auckland per essere rappresentata nelle scuole. Un’altra collaborazione con Hoar ha dato vita a Quartet (2004), un’operetta comica che esplora la vita dei musicisti classici in tournée in Nuova Zelanda, con un quartetto d’archi in scena. Ha anche lavorato con la romanziera Keri Hulme per l’opera Ahua (2000), una storia sull’antenato Ngāi Tahu Moki, commissionata dal Christchurch City Choir. Nel 2004, ha collaborato con Jeremy Commons per The God Boy, un’opera basata sul romanzo di Ian Cross, rappresentata da Opera Otago per l’Otago Festival of the Arts. Ha infine musicato poesie della poetessa di Dunedin Elena Poletti, creando Lullabies (2015), originariamente commissionate ed eseguite dalla Auckland Choral Society.

Sperimentazione e influenze musicali
Pur non essendo un suonatore di gamelan, Ritchie è stato affascinato dalle sonorità di questo ensemble strumentale e ha adottato le caratteristiche scale della musica gamelan nella sinfonia Boum (1993) e nei 24 Preludi per pianoforte (2002). Questi ultimi rivelano una vasta gamma di influenze musicali, spaziando da compositori neoromantici a diverse firme ritmiche, stili contrappuntistici e armonici, tecniche di clavicembalo e organo, nonché sonorità di celesta. Qui Ritchie ha anche sperimentato l’uso del concetto matematico del quadrato magico, già impiegato da compositori come Peter Maxwell Davies e Gillian Whitehead.

Opere riconosciute e ritorno all’accademia
Una delle sue opere più significative è l’oratorio Gallipoli to the Somme, che ha commemorato il centenario della battaglia della Somme. L’oratorio è basato sull’omonimo libro di Alexander Aitken, un soldato del battaglione di Otago e successivamente professore di matematica all’Università di Edimburgo. L’opera è stata presentata in anteprima a Dunedin nel 2016 e ha avuto la sua prima rappresentazione europea, con Anna Leese come solista, allo Sheldonian Theatre di Oxford nel giugno 2018. Nel 2020 è stata votata l’opera di musica classica più popolare della Nuova Zelanda nel sondaggio Settling the Score di RNZ Concert. Nel 2018, dopo diciotto anni di insegnamento della composizione, Ritchie è diventato professore di composizione presso il Dipartimento di musica, teatro e arti performative dell’Università di Otago. Nel 2020, ha infine assunto il ruolo di capo della School of Performing Arts, una posizione della durata di tre anni. In riconoscimento dei suoi significativi successi nel campo della composizione, il compositore ha ricevuto un premio dal Trust Fund della Composers Association of New Zealand nel 1998.

La French Overture op. 138
La composizione si apre con un’introduzione lenta e maestosa, un tratto distintivo del genere. Fin da subito, l’orchestra, dominata da ottoni e percussioni, stabilisce un’atmosfera grandiosa e quasi cerimoniale. Le trombe e i tromboni pronunciano incisivi ritmi puntati, conferendo al brano un senso di peso e solennità. Gli archi, con lunghe note sostenute, creano un tappeto sonoro denso che supporta la potenza degli ottoni. L’armonia, ricca e stratificata, presenta momenti di tensione che si risolvono in accordi pieni e risonanti, suggerendo un’imminente narrazione musicale. La dinamica iniziale è un forte incisivo, che sottolinea il carattere dichiarativo di questa prima sezione.
Dopo l’affermazione iniziale, la musica si trasforma bruscamente in una sezione allegra e dinamica: il tempo si accelera, introducendo un carattere più leggero e virtuosistico. I violini prendono il comando, presentando un tema veloce e caratterizzato da figurazioni rapide, scale e arpeggi, tipiche di una scrittura fugata. Le entrate successive degli altri archi e poi dei legni tessono una trama contrappuntistica complessa e fitta, creando un senso di continuo sviluppo e movimento. L’orchestrazione si arricchisce progressivamente, con gli ottoni che si uniscono per aggiungere brillantezza e potenza alla crescente energia del brano. Questa sezione è un esempio di come Ritchie mantenga la struttura classica dell’ouverture francese, rielaborando il tradizionale fugato con una sonorità orchestrale moderna e un impeto ritmico incalzante.
La composizione poi introduce nuovi elementi tematici, variando il paesaggio sonoro. Emerge un tema più ritmico e diretto, con un carattere quasi marziale o di fanfara, spesso affidato agli ottoni e accompagnato da timpani che scandiscono un’andatura decisa. Questa sezione offre un contrasto stilistico con la precedente complessità contrappuntistica, presentando una tessitura più omoritmica. Tuttavia, Ritchie introduce anche passaggi di grande lirismo, affidando a strumenti come l’oboe e il flauto melodie cantabili e più delicate. Questi momenti creano un dialogo affascinante tra la forza perentoria delle fanfare e la morbidezza espressiva dei legni, dimostrando la capacità del compositore di gestire ampi spettri emotivi. La tensione si accumula gradualmente, portando a un climax intermedio di grande impatto, che coinvolge l’intera orchestra in un’esplosione di suono e ritmo, prima di un’improvvisa decelerazione.
Segue un breve ma intenso interludio, dove il tempo rallenta nuovamente e l’atmosfera si fa più riflessiva. Sebbene non sia una riproposizione esatta dell’introduzione, questa sezione ne evoca il carattere maestoso attraverso ritmi puntati e sonorità più pacate. I corni e gli archi sostenuti dominano la scena, creando una sonorità calda e pensosa. È un momento di pausa, quasi una meditazione prima della ripresa del movimento, che offre all’ascoltatore un respiro emotivo e una preparazione per la successiva fase dinamica.
La sezione finale riprende con rinnovata energia il carattere allegro, fondendo e rielaborando i temi precedentemente introdotti. Elementi fugati e frammenti delle fanfare si intrecciano in una tessitura orchestrale densa e complessa, che dimostra la maestria del compositore nel gestire il materiale tematico. Il dialogo tra le diverse sezioni dell’orchestra diventa più serrato e virtuosistico, con un’accelerazione progressiva e un aumento della dinamica. La musica costruisce una serie di crescendo potenti, guidando l’ascoltatore verso un climax finale di straordinaria grandezza. L’intera orchestra si unisce in un’esplosione sonora che è sia energica che profondamente affermativa, culminando in una serie di accordi finali risonanti e decisi che chiudono il pezzo con un senso di completezza e trionfo.

In sintesi, la French Overture è un’opera affascinante che onora le sue radici barocche pur esplorando nuove direzioni. Attraverso una sapiente orchestrazione, un’abile gestione dei contrasti dinamici e una chiara progressione tematica, Ritchie crea un brano coinvolgente che bilancia potenza, virtuosismo e momenti di riflessione, lasciando un’impressione indelebile di grandezza e forza espressiva.

Un giro di valzer

Un collage di scene tratte da diversi film, più o meno famosi, realizzato sulla base del valzer di Šostakovič (n. 7 della Suite per orchestra di varietà, c1956) reso celebre da Kubrick. L’autore del montaggio, VidMak, non ha specificato i nomi degli interpreti musicali.

Il blog entra in pausa: buone vacanze!

Brengaz

Šostakovič 1975-2025 – IV

Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Sonata per viola e pianoforte op. 147 (1975). Rémi Pelletier, viola; Philip Chiu, pianoforte.

  1. Aria: Moderato
  2. Scherzo: Allegretto [9:23]
  3. In ricordo del grande Beethoven: Adagio [16:32]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Sonata per viola e pianoforte op. 147

Si tratta dell’ultima, commovente dichiarazione artistica di Šostakovič: completata poche settimane prima della morte e dedicata al violista Fëdor Družinin, questa composizione è un profondo viaggio introspettivo che riassume una vita di lotte, ricordi e, infine, di trascendenza.

Il primo movimento – che il compositore descrisse come una “novella” – si apre in modo enigmatico e quasi spettrale: la viola introduce il discorso con un arpeggio pizzicato, solitario e interrogativo, che vaga nell’aria come un pensiero sospeso. Questa scelta timbrica, che evoca l’inizio del Concerto per violino di Alban Berg, stabilisce immediatamente un’atmosfera di introspezione e fragilità. L’entrata del pianoforte non offre conforto, ma piuttosto una linea austera e quasi scheletrica, che si muove in un contrappunto scarno con la viola. La sezione centrale del movimento vede un aumento dell’agitazione e il dialogo si fa più denso e serrato, quasi a rappresentare il riaffiorare di ricordi più turbolenti. Tuttavia, la tensione non esplode mai completamente, ma si ripiega su sé stessa, ritornando alla desolazione iniziale. Il movimento si conclude come era iniziato, con il ritorno del tema pizzicato della viola, lasciando l’ascoltatore con un senso di quiete rassegnata, ma non di piena risoluzione.
Il secondo movimento cambia radicalmente atmosfera, catapultandoci in una danza grottesca e sardonica, tipica dello stile del compositore: basato su materiale proveniente dalla sua opera incompiuta I giocatori, questo Allegretto è uno scherzo macabro, pieno di energia frenetica e tagliente ironia. La viola è protagonista di una serie di tecniche percussive e aspre, come il colpo d’arco secco e i passaggi veloci e scattanti, che conferiscono al suono un carattere quasi scheletrico. Il pianoforte risponde con un accompagnamento ostinato e martellante, creando un ritmo incalzante che non lascia respiro. L’interazione tra i due strumenti è un gioco di inseguimenti e scontri, una parodia di una danza popolare che sembra costantemente sul punto di deragliare: non è una musica gioiosa, ma una risata amara, un commento sarcastico sulle follie della vita, eseguito con una lucidità quasi spietata.
Il finale, un Adagio, è il cuore emotivo e testamentario dell’opera: Šostakovič lo definì “luminoso e chiaro”, un omaggio a Beethoven che si trasforma in una profonda meditazione sulla vita, la morte e la memoria musicale. Il movimento si apre in un’atmosfera rarefatta, quasi ultraterrena, con il pianoforte che stabilisce un tappeto sonoro di accordi distanziati e risonanti, mentre la viola intona una melodia lunga, cantabile e infinitamente triste. Poi, emerge inconfondibile il celebre arpeggio della Sonata al chiaro di luna di Beethoven, non come una citazione diretta, ma come un ricordo lontano, un fantasma sonoro che aleggia sulla composizione: questo riferimento non è solo un omaggio, ma un ponte tra due epoche e due anime tormentate.
Da questo punto, il movimento si evolve in un incredibile flusso di coscienza musicale: Šostakovič intreccia frammenti tematici dei due movimenti precedenti con una serie di auto-citazioni dalle sue quindici sinfonie, creando un collage di memorie della sua intera vita creativa. L’ascoltatore non ha bisogno di riconoscere ogni singolo riferimento per percepire la portata di questo gesto, in quanto si parla di un compositore al termine della sua vita che guarda indietro, ripercorrendo il proprio cammino artistico con una lucidità struggente. Il movimento si spegne lentamente, con la viola che sale verso il registro acuto, fino a svanire in un pianissimo etereo. Le ultime note, sospese nel silenzio, non rappresentano una fine tragica, ma una sorta di ascensione, un passaggio verso un’altra dimensione: è la conclusione perfetta di un’opera che non è solo l’ultimo lavoro del compositore, ma il suo epitaffio musicale, un addio sereno e profondo al mondo e alla musica stessa.

Šostakovič 1975-2025 – III

Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Dalla poesia popolare ebraica, ciclo di canzoni per soprano, mezzosoprano o contralto, tenore e orchestra op. 79a (1948-63). Anna Aglatova, soprano; Svetlana Šilova, mezzosoprano; Michail Gubskij, tenore; Orchestra Filarmonica di Stato di Mosca, dir. Vladimir Spivakov.

  1. Lamento per un bimbo morto: Moderato

    Il sole e la pioggia, la luce e l’ombra, la nebbia è scesa, la luna è impallidita.
    – Ha partorito?
    – È un maschio, un maschio.
    – E come si chiama?
    – Mojšele, Mojšele.
    – E dove è stato cullato, Mojšele?
    – In una culla.
    – E che cosa gli hanno dato da mangiare?
    – Pane e cipolle.
    – E dove è stato sepolto?
    – In una fossa.
    Oh! Il piccolo in una fossa, in una fossa.
    Mojšele in una fossa.

  2. Mamma e zia premurose: Allegretto [2:35]

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci una mela,
    così che non ci facciano male gli occhietti!
    Ciao!

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci un pollo,
    così che non ci facciano male i dentini!
    Ciao!

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci un’anatra,
    così che non ci faccia male il petto!
    Ciao!

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci un’oca,
    così che non ci faccia male il pancino!
    Ciao!

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci dei semi,
    così che non ci faccia male la testolina!
    Ciao!

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci un coniglietto,
    così che non ci facciano male i ditini!
    Ciao!

  3. Ninna-nanna: Andante [4:46]

    Il mio bambino è il più bello del mondo –
    una luce nell’oscurità.
    Tuo padre è in catene in Siberia,
    Lo zar lo tiene in prigione!
    Dormi, lju-lju, lju-lju!

    Dondolando la tua culla
    la mamma piange.
    Quando sarai grande capirai
    che cosa le brucia il cuore.

    Tuo padre è nella lontana Siberia,
    io nella miseria.
    Ma ora dormi senza preoccupazioni, ah,
    lju-lju, lju-lju, lju-lju!

    Il mio dolore è più nero della notte,
    Tu dormi, io non posso.
    Dormi, mio caro, dormi, figlio mio, dormi,
    lju-lju, lju-lju, lju-lju!

  4. Prima di una lunga separazione: Adagio [7:41]

    – Ah! Abraham, come vivrò senza di te? Io senza di te, tu senza di me, come faremo a vivere lontani?

    – Ricordi, vicino al portico, che cosa mi dicevi in segreto? Ah! Rivočka, dammi le tue labbra, bambina!

    – Ah! Abraham, come vivremo adesso? Io senza di te, tu senza di me, ah, come una porta senza maniglia!

    – Ricordi, quando camminavamo insieme, che cosa mi dicevi sul viale? Ah! Rivočka, dammi le tue labbra, bambina!

    – Ah! Abraham, come vivrò senza di te?

    – Ah! Rivočka, come vivrò senza di te?

    – Ricordi? Indossavo una gonna rossa. Ah, com’ero bella!

    – Io senza di te, tu senza di me: come vivremo senza felicità?

    – Ah! Abraham!

    – Ah! Rivočka, dammi le tue labbra, bambina!

  5. Avvertimento: Allegretto [10:07]

    Ascolta, Chasja!
    Non devi uscire, ti proibisco di uscire con la prima persona che incontri.
    Fa’ attenzione!
    Uscirai, starai fuori fino all’alba, ah!, e dopo piangerai.
    Chasja!
    Ascolta! Chasja!

  6. Il padre abbandonato: Moderato [11:29]

    Ele il rigattiere indossò il cappotto.
    Sua figlia, dicono, è andata via con un poliziotto.

    – Cirele, figlia mia, torna da tuo padre, ti darò abiti eleganti per le tue nozze.
    Cirele, figlia mia, ti comprerò orecchini e anelli.
    Cirele, figlia mia, e per di più sposerai un bell’uomo.
    Cirele, figlia mia.

    – Non ho bisogno di abiti, non ho bisogno di anelli.
    E sposerò soltanto il mio poliziotto.

    – Signor poliziotto, caccia via questo vecchio ebreo quanto prima.

    – Cirele, figlia mia, torna da tuo padre!
    Ah… torna da tuo padre! Cirele! Figlia mia!

  7. Canto sulla miseria: Allegro [13:29]

    Il tetto dorme dolcemente,
    in soffitta, sotto la paglia.
    Nella culla dorme un bambino,
    nudo, senza fasce.

      Hop, hop, più in alto, più in alto!
      La capra mangia la paglia del tetto.
      Hop, hop, più in alto, più in alto!
      La capra mangia la paglia del tetto, oh!

    La culla è nella soffitta,
    nella culla un ragno tesse la mia infelicità.
    Succhia tutta la mia gioia
    e mi lascia solo miseria.

      Hop, hop, più in alto…

    C’è un gallo in soffitta,
    la cresta rosso vivo.
    Oh, moglie mia, prendi in prestito, per i piccoli,
    un pezzetto di pane nero.

      Hop, hop, più in alto…

  8. Inverno: Adagio [14:58]

    La mia Šejndl è costretta a letto
    e con lei giace il nostro bambino malato.
    Nella capanna non c’è nulla per riscaldarla
    e fuori ulula il vento.

    Ah…

    Il freddo e il vento sono tornati,
    non c’è più la forza di soffrire in silenzio.
    Gridate e piangete, bambini,
    l’inverno è tornato.

    Ah…

  9. Una bella vita: Allegretto [18:00]

    Dei vasti campi, miei cari amici,
    non ho cantato durante gli anni bui.
    Non è per me che i campi sono diventati verdi,
    non per me la rugiada ha iniziato a scorrere.

    In una stretta cantina, nell’umida oscurità,
    vivevo un tempo, sfinito dalla miseria.
    E dalla cantina saliva un triste canto
    di dolore, della mia incomparabile sofferenza.

    Fiume del kolchoz, scorri gioioso,
    porta subito i miei saluti ai miei amici.
    Di’ loro che la mia casa ora è nel kolchoz
    e un albero in fiore sta sotto la mia finestra.

    Ora i campi fioriscono per me,
    mi nutrono di latte e miele.
    Sono felice, e tu di’ ai miei fratelli:
    d’ora in poi canterò i campi del kolchoz.

  10. Canto della fanciulla: Allegretto [19:40]

    Nei prati, vicino al bosco
    che è sempre così pensoso,
    pascoliamo dall’alba al tramonto
    le mandrie del kolchoz.

    E io siedo sulla collina
    con il mio piccolo flauto,
    e non mi stanco di contemplare
    la bellezza del mio paese.

    Gli alberi, coperti di fogliame rilucente,
    si ergono con grazia e delicatezza.
    Nei campi il grano matura
    colmo di bellezza.

    Oj-oj, lju-lju!

    A volte un ramo mi sorride,
    una spiga ammicca all’improvviso.
    Un sentimento di grande gioia
    brilla nel mio cuore.

    Canta, piccolo flauto!
    È così facile per noi cantare insieme!
    Montagne e valli ascoltano
    la gioia del nostro canto.

    Non piangere, piccolo flauto!
    Dimentica la tristezza di un tempo.
    Lascia che le tue melodie scorrano
    nella dolce lontananza.

    Oj-oj, lju-lju!

    Sono felice nel mio kolchoz,
    non senti? La mia vita è piena!
    Più allegro, più allegro
    devi cantare, piccolo flauto!

  11. Felicità: Allegretto [22:20]

    Ho preso coraggiosamente mio marito per un braccio,
    anche se sono vecchia, e vecchio è il mio cavaliere.
    L’ho portato a teatro con me
    e abbiamo comprato due biglietti per la platea.

    Seduti là con mio marito fino a tarda notte,
    ci siamo abbandonati a sogni gioiosi –
    quali benedizioni circondano
    la moglie di un calzolaio ebreo.

    E voglio raccontare a tutto il paese
    della mia gioiosa e luminosa sorte:
    i nostri figli sono diventati dottori –
    una stella brilla sopra le nostre teste!



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Dalla poesia popolare ebraica op. 79

Non si tratta di un semplice ciclo di canzoni, ma della testimonianza di un profondo atto di coraggio artistico e umano. Composto nel 1948, Dalla poesia popolare ebraica nasce in uno dei periodi più bui per Šostakovič e per l’intera Unione sovietica. Appena denunciato dal Decreto Ždanov per “formalismo” e costretto a una pubblica umiliazione, il compositore si trovava in una posizione di estrema vulnerabilità: in questo clima, segnato da una crescente ondata di antisemitismo di Stato che sarebbe culminata nella “congiura dei medici”, la scelta del compositore di musicare testi della tradizione ebraica fu un gesto di solidarietà tanto audace quanto pericoloso. Il fatto che l’opera, specialmente nella sua versione orchestrale, abbia dovuto attendere fino al 1964 per una prima esecuzione pubblica, sottolinea l’enorme rischio politico che essa rappresentava.
Lo stesso Šostakovič descrisse il fascino che la musica ebraica esercitava su di lui come «una melodia allegra su intonazioni tristi», una capacità di «ridere attraverso le lacrime»: questa dualità è il cuore pulsante dell’op. 79 e si manifesta fin dalle prime note.
L’organico orchestrale – pur essendo completo – viene spesso utilizzato con la delicatezza della musica da camera. Strumenti come il clarinetto, il flauto e l’ottavino emergono con inflessioni che ricordano chiaramente la musica klezmer: scale modali caratteristiche, glissandi lamentosi e ritmi saltellanti. Questi elementi creano un’atmosfera immediatamente riconoscibile. Tuttavia, Šostakovič non si limita a una semplice imitazione stilistica, ma integra questi idiomi nel suo linguaggio sinfonico, creando un tessuto sonoro che è allo stesso tempo folklorico e profondamente personale.
Il ciclo è diviso in undici canzoni, ma la sua struttura narrativa può essere interpretata come un dittico, diviso tra le prime otto canzoni (il nucleo originale) e le ultime tre (aggiunte per superare la censura).
Il ciclo si apre con un Lamento per un bimbo morto, instaurando subito un’atmosfera cupa e straziante. La voce è carica di disperazione contenuta, mentre l’orchestra – con il violoncello solista in primo piano – crea uno sfondo sonoro desolato: è un’elegia che trascende la singola storia per diventare un lamento universale per le vittime innocenti.
Canzoni come Mamma e zia premurose e la Ninna-nanna esplorano la vita familiare, ma sempre con un’ombra di precarietà e tristezza: la seconda, in particolare, è un capolavoro di ambiguità, con una melodia dolce, ma un’armonia sottostante inquieta, suggerendo che il sonno del bambino sia una fuga temporanea da un mondo ostile.
Il duetto Prima di una lunga separazione è uno dei momenti più toccanti: le voci si intrecciano in un dialogo di dolore e rassegnazione, descrivendo la separazione forzata imposta dalle leggi zariste. La musica qui è incredibilmente espressiva, dipingendo un quadro di sofferenza intima ma storicamente radicata. I brani successivi, Avvertimento, Il padre abbandonato e Canto sulla miseria, continuano a esplorare temi di perdita, povertà e ingiustizia, e trovano il culmine nella desolazione di Inverno.
Con la nona canzone, Una bella vita, il tono cambia bruscamente: le ultime tre canzoni – aggiunte da Šostakovič per placare le autorità – descrivono la presunta felicità e libertà di cui godevano gli ebrei sotto il regime sovietico. La musica diventa marcatamente più ottimistica, con ritmi marziali e melodie in tonalità maggiore.
Tuttavia, è proprio qui che emerge il genio sardonico del compositore, poiché questa “felicità” suona spesso esagerata, quasi caricaturale: il Canto della ragazza e Felicità risuonano con un’energia quasi teatrale e una gioia forzata, sostenute da un’orchestrazione bandistica e pomposa. Questo contrasto con l’autenticità emotiva delle prime otto canzoni è stridente e non può essere casuale: è come se il compositore, costretto a inserire un lieto fine propagandistico, lo avesse fatto con un’ironia così tagliente da trasformarlo in una critica. La vera sofferenza suona reale e profonda, mentre la “felicità” ufficiale suona vuota e artificiale.

Šostakovič 1975-2025 – II

Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Quartetto per archi n. 3 in fa maggiore op. 73 (1946). Quartetto Borodin.

  1. Allegretto
  2. Moderato con moto [6:50]
  3. Allegro non troppo [12:13]
  4. Adagio [16:35]
  5. Moderato [23:06]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Quartetto per archi n. 3 in fa maggiore op. 73

Composto nel 1946, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e prima delle nuove purghe staliniste del 1948, l’opera rivela una straordinaria profondità psicologica e complessità strutturale. La tonalità è spesso instabile, riflettendo un mondo che ha perso le proprie certezze. La suddivisione in cinque movimenti, anziché i tradizionali quattro, permette a Šostakovič di costruire un arco narrativo epico: per la prima esecuzione – per evitare accuse di “formalismo” – il compositore diede ai movimenti dei sottotitoli programmatici che tracciano una sorta di “storia di guerra”.
Il Quartetto si apre in un’atmosfera di ingannevole serenità: il primo violino introduce un tema principale quasi infantile, una melodia spensierata e saltellante in una chiara tonalità di fa maggiore. Il dialogo tra il primo violino e il violoncello è giocoso, quasi una conversazione amichevole. La forma-sonata è chiaramente delineata: dopo il primo tema, emerge un secondo tema più lirico e cantabile, ma ancora immerso in un’aura di innocenza.
Lo sviluppo introduce le prime ombre: l’armonia si fa più complessa e cromatica, e il tema principale viene frammentato e trattato in modo più aspro, passando attraverso tonalità minori. La ripresa riporta il tema iniziale, ma la sua innocenza è ormai perduta e suona quasi come un ricordo forzato di una felicità passata. La coda accelera in un crescendo frenetico e si conclude con una serie di accordi secchi e perentori, che spazzano via ogni traccia della spensieratezza iniziale. La catastrofe non è ancora arrivata, ma la sua ombra si è proiettata in modo inequivocabile.
Il secondo movimento cambia radicalmente atmosfera: è uno scherzo spettrale, costruito su un ostinato della viola, sommesso e meccanico, che il violista esegue con una precisione glaciale, quasi disumana. Su questo tappeto sonoro, il violoncello introduce un pizzicato che suona come una minaccia in punta di piedi. L’inquietudine è palpabile e i violini entrano con melodie acute e lamentose, suonate “sul ponticello” per ottenere un suono vitreo e snervante.
La dinamica rimane per lunghi tratti in un pianissimo carico di tensione, che il quartetto gestisce con un controllo magistrale del suono: questa quiete è spezzata da improvvisi scoppi di violenza (fortissimo), brontolii che squarciano il silenzio. Il movimento non offre alcuna risoluzione e l’anticipazione della tragedia cresce costantemente, fino a dissolversi nel nulla, lasciando l’ascoltatore in uno stato di profonda ansia.
Senza alcuna pausa, il terzo movimento esplode con una violenza inaudita: tutti e quattro gli strumenti all’unisono martellano un tema brutale, dissonante e dal ritmo motoristico. Questa è la rappresentazione sonora della guerra: una macchina inarrestabile di distruzione. Le frasi sono brevi, spezzate e il tessuto musicale è saturo di dissonanze stridenti.
In un momento tipicamente šostakoviciano, il primo violino emerge con una melodia quasi banale, quasi una marcetta da circo, suonata sopra il caos implacabile degli altri strumenti: questo crea un effetto grottesco e terrificante, come se la follia della guerra avesse cancellato ogni logica. Il movimento culmina in un climax assordante, un collasso sonoro totale che rappresenta l’apice della devastazione. Lentamente, dalle macerie, emerge il tema della passacaglia del movimento successivo, introdotto prima dalla viola e dal violoncello.
Il quarto movimento, collegato attacca al precedente, è il cuore emotivo del Quartetto: è una passacaglia, una serie di variazioni su un basso ostinato. Il tema, esposto dal violoncello con un suono profondo e dolente, è una melodia di lutto e desolazione. Sopra questo tema ripetuto, gli altri strumenti intessono i loro lamenti: prima la viola con una melodia nuda e sofferente, poi il secondo violino e infine il primo, il quale si spinge al registro sovracuto, suonando pianissimo, come un pianto lontano e disperato. La musica è rarefatta, piena di silenzi che pesano quanto le note. È un vasto paesaggio di rovina e perdita, un requiem per le vittime della catastrofe. Il movimento non si conclude, ma si dissolve in un etereo armonico del primo violino, una nota fragile e sospesa che ci conduce direttamente al finale.
L’ultimo movimento s’inizia con una ripresa del tema apparentemente innocente del primo movimento, ma ora suonato dalla viola e dal violoncello in modo scarno, quasi scheletrico. L’innocenza è stata completamente prosciugata dalla tragedia e la domanda “perché?” è implicita in questa melodia svuotata.
Questo movimento è una sintesi e una riflessione sull’intero percorso del Quartetto: i temi dei movimenti precedenti riaffiorano come frammenti di memoria. Questi ricordi si scontrano, si interrompono a vicenda, senza trovare una sintesi o una risposta. Il primo violino tenta più volte di ristabilire la melodia iniziale, ma viene sempre interrotto o la sua melodia si dissolve. La lotta per trovare un senso è vana. Nell’ultima pagina, il tema del primo movimento ritorna per l’ultima volta, ma suonato pizzicato, come un fragile ricordo che si sta spegnendo. L’opera si conclude su un accordo di fa maggiore, ma è una conclusione ambigua, priva di trionfo: è una pace vuota, la pace di un cimitero e le ultime note pizzicate del violoncello suonano come l’eco finale dell’eterna domanda, lasciata senza risposta.

Šostakovič 1975-2025 – I

Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Trio per violino, violoncello e pianoforte n. 1 in do minore op. 8 (1923). Zsolt-Tihamér Visontay, violino; Mats Lidström, violoncello; Vladimir Aškenazij, pianoforte.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Trio con pianoforte n. 1 in do minore op. 8

Scritta nel 1923 – quando l’autore, sedicenne, era un allievo del Conservatorio di Leningrado – e originariamente intitolata Poème, la composizione si rivela matura e premonitrice; dedicata al primo amore di Šostakovič, Tat’jana Glivenko, fu eseguita privatamente nel 1924, ma rimase inedita per quasi sessant’anni, venendo pubblicata solo negli anni ’80.
Il brano si apre in un’atmosfera di profonda malinconia e introspezione: è il violoncello a inaugurare il discorso musicale, da solo, con un tema ampio, lirico e lamentoso in do minore. Questa melodia, caratterizzata da ampi intervalli e da un andamento rapsodico, diventerà la cellula generatrice dell’intera opera. La dinamica è estremamente sommessa (pianissimo), creando un senso di intimità e vulnerabilità. Poco dopo, il violino entra imitando il tema del violoncello a un’ottava superiore, creando un canone che intensifica il carattere dialogico e dolente della musica. L’intreccio contrappuntistico tra i due archi è delicato e trasparente.
Il pianoforte fa infine il suo ingresso, non come protagonista, ma con accordi arpeggiati e rarefatti nel registro acuto, quasi a creare uno sfondo sonoro spettrale e vasto. Il suo ruolo è inizialmente atmosferico: da questo momento, i tre strumenti iniziano a sviluppare il materiale tematico, con un crescendo che porta a un climax, dove il pianoforte assume un ruolo più assertivo. La sezione si conclude con un ritorno alla calma iniziale, conducendo senza soluzione di continuità alla sezione successiva.
Qui il cambiamento è repentino e radicale: il pianoforte introduce un tema secco, ritmico e grottesco, caratterizzato da un andamento motorio e da accenti sardonici. Questo tema – secondo una lettera dello stesso Šostakovič alla Glivenko – fu recuperato da una sua precedente Sonata per pianoforte in si minore, andata parzialmente perduta. È un primo, chiaro esempio di quello stile “scherzoso” e tagliente che diventerà un marchio di fabbrica del compositore. Gli archi entrano in pizzicato, sottolineando il carattere percussivo e quasi demoniaco della sezione. Il dialogo tra gli strumenti diventa serrato e conflittuale, con brevi frammenti melodici scambiati rapidamente. La musica acquista una tensione crescente, raggiungendo un culmine di energia frenetica: qui, la scrittura diventa densa e virtuosistica per tutti e tre gli strumenti, con il violino che si lancia in passaggi acuti e stridenti. La sezione si dissolve con la stessa rapidità con cui era iniziata.
Nella terza sezione, la musica precipita in un abisso di disperazione, assumendo il carattere di una marcia funebre: il pianoforte scandisce accordi gravi, pesanti e solenni e, su questo tappeto sonoro, il violino e il violoncello intonano all’unisono un nuovo tema, un canto tragico e declamatorio. L’uso dell’unisono conferisce alla melodia una forza straordinaria, come se fosse la voce di un coro dolente. Questa sezione rappresenta il cuore emotivo del trio, culminando in un’espressione di dolore devastante prima di placarsi gradualmente.
Riemerge il tema lirico dell’inizio, ma completamente trasformato: non è più una melodia sommessa, ma un’affermazione potente e angosciata, suonata dal pianoforte in ottave fortissimo: questa non è una semplice ricapitolazione, ma una rivisitazione del passato alla luce delle esperienze tragiche e grottesche delle sezioni centrali. La nostalgia iniziale si è trasformata in un grido di dolore.
La conclusione del brano è tanto inaspettata quanto geniale: la musica scatta in un Allegro finale, una danza sfrenata e delirante che riprende l’energia motoria dello scherzo, portandola a un livello estremo. Questo vortice sonoro culmina in una serie di accordi potenti, dopo i quali la musica subisce un crollo improvviso.
Il tempo rallenta drasticamente e ritornano frammenti del tema iniziale, ora come un ricordo lontano e spettrale: è interessante notare che le ultime 22 battute della parte pianistica andarono perdute e furono ricostruite decenni dopo dall’allievo di Šostakovič, Boris Tiščenko, per consentirne la pubblicazione. Il pezzo si conclude in un pianissimo etereo, con il violino che tiene un armonico acuto e cristallino, mentre il pianoforte e il violoncello si spengono su un accordo finale in do minore, sigillato da un ultimo, secco pizzicato. Il finale non offre risoluzione, ma una sorta di rassegnazione esausta, chiudendo il cerchio emotivo del brano.

Sinfonia in mi minore

Adolf Busch (8 agosto 1891 - 1952): Sinfonia in mi minore (1927). Nordwestdeutsche Philharmonie, dir. Georg Fritzsch.

  1. [24:09]
  2. [27:23]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’arco, la bacchetta e la coscienza: vita e arte di Adolf Busch

Adolf Busch non fu soltanto un musicista di statura eccezionale, ma anche un uomo di incrollabili principi morali. La sua vita, un intreccio di virtuosismo, innovazione musicale e ferma opposizione alla tirannia, ha lasciato un’eredità che trascende le sole registrazioni, definendo un modello di artista e di cittadino.

Formazione e primi passi
Nato a Siegen, in Germania, Adolf Georg Wilhelm Busch manifestò fin da giovane un talento straordinario. La sua formazione avvenne al prestigioso Conservatorio di Colonia, dove ebbe come insegnanti personalità del calibro di Willy Hess e Bram Eldering (violino), nonché Fritz Steinbach e Hugo Grüters (composizione), il quale sarebbe poi diventato suo suocero. Questo solido percorso accademico pose le basi per una carriera poliedrica come violinista, direttore d’orchestra e compositore.

L’innovatore della musica da camera
Il nome di Busch è indissolubilmente legato alla musica da camera, di cui fu un interprete di riferimento. Già nel 1912 fondò a Vienna il Konzertverein Quartett, formato dalle prime parti dell’omonima orchestra. Tuttavia, fu dopo la prima guerra mondiale che diede vita al suo ensemble più celebre: il Quartetto Busch. A partire dalla stagione 1920-21, questo quartetto divenne un punto di riferimento mondiale, noto per la sua coesione e profondità interpretativa, e rimase attivo, con diverse formazioni, fino al 1951.
Un’altra figura chiave nella sua vita artistica e personale fu il pianista Rudolf Serkin: divenuto partner di Busch in duo a soli 18 anni, Serkin entrò a far parte della famiglia sposandone la figlia Irene. L’unione artistica tra il Quartetto Busch e Serkin portò alla creazione dei Busch Chamber Players, considerati precursori delle moderne orchestre da camera.

L’opposizione al nazismo e l’esilio
La grandezza di Busch non fu solo musicale, ma anche morale: con l’ascesa di Hitler al potere – pur non essendo ebreo e godendo di grande popolarità in Germania – prese una posizione netta e intransigente contro il nazismo. Già nel 1927, fiutando il clima politico, decise di emigrare a Basilea, in Svizzera, per una scelta di pura coscienza.
Il 1° aprile 1933 ripudiò ufficialmente la Germania e, di fronte ai tentativi del regime di convincerlo a tornare, dichiarò che sarebbe rientrato con gioia «il giorno in cui Hitler, Goebbels e Göring saranno impiccati pubblicamente». Nel 1938 estese il boicottaggio anche all’Italia fascista. Durante gli anni svizzeri, fu co-fondatore del prestigioso Festival di Lucerna (insieme ad Arturo Toscanini e a suo fratello, il direttore d’orchestra Fritz Busch) e si dedicò all’insegnamento, avendo tra i suoi allievi anche il giovane Yehudi Menuhin. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, nel 1939 emigrò negli Stati Uniti, stabilendosi nel Vermont dove, insieme a Serkin, fondò la Marlboro Music School and Festival, un’altra istituzione musicale di fama mondiale.

L’interprete e l’eredità discografica
Come esecutore, Busch è celebrato per il suo suono unico e la sua tecnica impeccabile: il Quartetto Busch è passato alla storia per le sue interpretazioni di Brahms, Schubert e, soprattutto, Beethoven, lasciando una serie di registrazioni negli anni ’30 che sono ancora oggi considerate di riferimento. Anche come solista, Busch eccelleva: esistono registrazioni dal vivo dei concerti di Beethoven, Brahms, Dvořák e Busoni. In studio, ha inciso magistralmente i Concerti brandeburghesi di Bach, contribuendo in modo decisivo a riportarli alla popolarità dopo un lungo periodo di oblio. La sua incisione dei Concerti grossi op. 6 di Händel è altrettanto notevole.

Il compositore e la dinastia musicale
Sebbene la sua fama di interprete abbia messo in ombra la sua attività di compositore, Busch fu un autore prolifico, influenzato dallo stile di Max Reger. Fu tra i primi a scrivere un concerto per orchestra (1929) e lasciò un catalogo significativo che include un concerto per violino, opere per sestetto e quintetto d’archi, sonate e diverse composizioni per organo, strumento che amava al punto da affermare che, se fosse potuto rinascere, avrebbe voluto essere un organista.
Infine, la musica era il Dna della sua famiglia: figlio del liutaio Wilhelm Busch, era fratello del direttore d’orchestra Fritz Busch, del violoncellista Hermann Busch e del pianista Heinrich Busch. Fu anche suocero del pianista Rudolf Serkin e nonno materno di altri due celebri musicisti: il pianista Peter Serkin e la violoncellista Judith Serkin. Una vera e propria dinastia dedicata all’arte dei suoni.

Sinfonia in mi minore: analisi
Composta in un’epoca di ferventi avanguardie musicali, la Sinfonia in mi minore si erge come un monumento al post-romanticismo tedesco: lungi dallo sperimentare con la dodecafonia di Schoenberg o il neoclassicismo di Stravinsky, Busch guarda ai grandi maestri del passato, in particolare Brahms e il suo mentore Max Reger, forgiando un linguaggio personale denso, appassionato e di straordinaria profondità emotiva.
Il primo movimento si apre senza preamboli con un impeto drammatico e severo: l’orchestra intera presenta un tema principale energico e spigoloso, caratterizzato da ampi salti e un ritmo ostinato che infonde fin da subito un clima di lotta e tensione. L’influenza di Max Reger è immediatamente percepibile nel tessuto contrappuntistico fitto e nella complessa scrittura armonica. Busch non è un rivoluzionario che vuole abbattere la tonalità, ma la spinge ai suoi limiti con un cromatismo continuo che genera un’instancabile sensazione di urgenza.
L’orchestrazione è ricca e sapiente, tipica della grande tradizione tedesca: gli archi forniscono una base corposa e passionale, i legni dialogano con frasi incisive e malinconiche, mentre gli ottoni intervengono con squarci potenti che sottolineano i momenti di massima tensione. Il secondo tema, pur essendo più cantabile, non offre un vero e proprio rilassamento e mantiene un’inquietudine di fondo, quasi un presagio oscuro. Lo sviluppo è un vortice di elaborazione tematica, dove i motivi vengono frammentati, sovrapposti e trasformati in un denso dialogo polifonico. È un movimento che non cerca la bellezza facile, ma esprime un conflitto interiore vigoroso, una lotta titanica che si placa solo nelle battute finali, lasciando l’ascoltatore in uno stato di sospensione carica di attesa.
Con l’inizio del secondo movimento, il mondo cambia radicalmente: dopo la tempesta del primo, ci troviamo in un’oasi di lirismo malinconico e profonda introspezione. Esso si apre con una melodia dolente e meravigliosamente lunga, affidata ai legni (in particolare l’oboe e il corno inglese) su un tappeto sommesso di archi. È qui che emerge con più chiarezza l’eredità di Brahms: il pathos è contenuto, nobile, e la scrittura melodica è di una bellezza struggente.
Il movimento si sviluppa attraverso un crescendo di grande intensità emotiva: la trama orchestrale si infittisce gradualmente, il suono diventa più caldo e avvolgente, fino a raggiungere un culmine appassionato in cui l’intera orchestra sembra cantare con un’unica, grande voce. Questo apice di passione, tuttavia, è effimero: con la stessa naturalezza con cui è cresciuto, il discorso musicale si placa, ritornando alla quiete contemplativa dell’inizio. Le ultime battute si spengono in un sussurro, lasciando una scia di commossa e serena tristezza. È il cuore pulsante della sinfonia, un momento di pura e toccante confessione.
Il finale si lancia con un carattere energico e incalzante, quasi a voler scacciare la malinconia precedente: non si tratta però di una conclusione spensierata o giocosa, ma di una marcia determinata e a tratti rabbiosa, con un ritmo implacabile che spinge costantemente in avanti. La scrittura ritorna a essere densamente contrappuntistica, con sezioni fugate e un dialogo serrato tra le varie sezioni dell’orchestra.
Busch dimostra qui la sua maestria nel costruire architetture sonore complesse e imponenti. I temi dei movimenti precedenti vengono sottilmente richiamati e trasformati, conferendo all’intera sinfonia una solida unità ciclica. Il percorso è costellato di scoppi improvvisi e momenti di grande potenza orchestrale, alternati a episodi più sommessi ma sempre carichi di tensione. Il finale non è una risoluzione serena nel tradizionale mi maggiore, ma una conclusione grandiosa e affermativa che mantiene la tonalità minore. Le ultime battute sono perentorie, quasi una dichiarazione di sfida: è la conclusione perfetta per un’opera che non offre facili consolazioni, ma che testimonia la forza di uno spirito che, pur radicato nella tradizione, affronta le inquietudini del suo tempo con serietà, passione e una straordinaria padronanza artigianale.

AB

Prometeo liberato

Sir Granville Bantock (7 agosto 1868 - 1946): Prometheus Unbound, preludio sinfonico per ottoni (1933), da Shelley. Black Dyke Mills Band, dir. Geoffrey Brand.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Granville Bantock tra esotismo e tradizione

Sir Granville Bantock è una figura centrale nella musica inglese del primo Novecento, noto per il suo stile eclettico e il suo ruolo fondamentale nello sviluppo musicale di Birmingham.

Gli inizi inattesi di un musicista
Granville Ransome Bantock nacque a Londra, figlio di un eminente chirurgo scozzese. Nonostante le aspirazioni della famiglia – che lo vedevano destinato a una carriera nel servizio civile indiano – la sua salute cagionevole lo portò inizialmente a studiare ingegneria chimica. La svolta decisiva avvenne all’età di 20 anni: frequentando la biblioteca del South Kensington Museum, rimase affascinato dallo studio dei manoscritti dei grandi compositori, scoprendo così la sua vera vocazione. Intraprese gli studi musicali prima al Trinity College of Music con Gordon Saunders e successivamente, dal 1888, alla prestigiosa Royal Academy of Music, dove studiò armonia e composizione sotto la guida di Frederick Corder, distinguendosi fin da subito e vincendo il Macfarren Prize al suo primo anno.

L’affermazione professionale e gli anni di Birmingham
La carriera di Bantock decollò rapidamente: dopo le prime esperienze come direttore d’orchestra in giro per il mondo con una compagnia di commedie musicali, divenne una figura di spicco nel panorama musicale britannico. Nel 1897 assunse la direzione dei concerti della New Brighton Tower, dove si impegnò attivamente a promuovere le opere di compositori contemporanei come Joseph Holbrooke, Hubert Parry e Charles Villiers Stanford. Fu anche direttore della Liverpool Orchestral Society, con la quale diresse la prima esecuzione di Brigg Fair di Delius nel 1908. Il legame più profondo e duraturo fu però con la città di Birmingham: nel 1900 divenne preside della scuola di musica del Birmingham and Midland Institute e, dal 1908 al 1934, ricoprì la cattedra di Peyton Professor of Music all’Università di Birmingham, succedendo a sir Edward Elgar. Il compositore fu anche un pilastro fondamentale nella fondazione della City of Birmingham Orchestra, di cui diresse il concerto inaugurale nel 1920, eseguendo la propria ouverture Saul. Per il suo contributo alla musica, fu nominato cavaliere nel 1930.

Stile musicale: tra Wagner, esotismo e canti popolari
La sua produzione musicale è caratterizzata da una notevole varietà di influenze: da un lato risentì fortemente del linguaggio armonico e orchestrale di Richard Wagner, dall’altro fu profondamente ispirato dal canto popolare, in particolare quello delle Ebridi, come dimostra la Hebridean Symphony (1915). Un altro elemento distintivo del suo stile è un marcato gusto per l’esotismo, che trova la sua massima espressione nell’epopea corale Omar Khayyám (1906–09). Tra le sue altre opere celebri si annoverano l’ouverture The Pierrot of the Minute (1908), il poema sinfonico The Witch of Atlas (1902) e la Pagan Symphony (1928). Sebbene per un certo periodo la sua musica sia stata meno eseguita, ha conosciuto una significativa riscoperta grazie a numerose registrazioni commerciali a partire dagli anni Novanta.

Riconoscimenti, legami illustri e vita privata
L’influenza di Bantock è testimoniata dai suoi legami con altri giganti della musica: fu un grande sostenitore della musica di Jean Sibelius, il quale gli dedicò la sua Terza Sinfonia e anche Edward Elgar gli rese omaggio, dedicandogli la seconda delle sue celebri marce Pomp and Circumstance.
Poco dopo la sua morte, avvenuta a Londra, fu fondata la Bantock Society, con Sibelius come primo presidente. Sul piano personale, nel 1898 sposò Helena von Schweitzer, che divenne anche sua librettista. La tradizione artistica di famiglia continuò con il figlio Raymond, che sposò la compositrice Margaret More, e con il nipote, Gavin Bantock, divenuto un affermato poeta.

Prometheus Unbound: analisi
Questo preludio sinfonico è un’opera di rara potenza evocativa. Scritta per un complesso di soli ottoni, trae ispirazione dall’omonimo dramma lirico di Percy Bysshe Shelley; Bantock non si limita a illustrare la narrazione, ma ne cattura l’essenza spirituale e filosofica: il passaggio dalle tenebre della tirannia e della sofferenza alla luce trionfale della libertà e della conoscenza. L’uso esclusivo degli ottoni conferisce al brano un carattere monumentale, quasi architettonico, perfetto per dipingere la statura mitica e la lotta cosmica del titano Prometeo.

Il preludio si apre in un’atmosfera di desolazione cosmica: i primi accordi – affidati ai registri più gravi dell’ensemble (tube e tromboni bassi) – sono lenti, solenni e carichi di un peso ineluttabile. La musica evoca un’immagine di oscurità e immobilità: è la rappresentazione sonora di Prometeo incatenato alla roccia del Caucaso, condannato a un’eterna sofferenza.
Le note lunghe e gli accordi cupi, costruiti su armonie che tendono al minore, dipingono un paesaggio vasto e spoglio: u potente accordo dissonante squarcia brevemente il silenzio, come un grido di dolore o un sussulto di sfida soffocato. Si percepisce una tensione statica, il peso di una condanna che si protrae da secoli.
La musica prosegue con un andamento processionale e funereo: le linee melodiche sono frammentate e si muovono lentamente, quasi con fatica, suggerendo il peso fisico e psicologico delle catene. Bantock utilizza magistralmente il timbro scuro degli ottoni gravi per creare un senso di oppressione e grandiosità tragica.
Senza una vera e propria transizione, un improvviso squillo di trombe e corni introduce un elemento nuovo: non è ancora un trionfo, ma un primo, deciso impulso di ribellione. Questo momento segna l’inizio di una fase più dinamica, in cui alla sofferenza passiva si sostituisce un lamento più articolato, quasi un discorso musicale.
Emerge una linea melodica più definita, un tema dolente ma nobile, spesso affidato ai corni: questo può essere interpretato come il lamento di Prometeo, che ricorda il suo amore per l’umanità o medita sulla sua ingiusta punizione. Sebbene la tonalità rimanga prevalentemente cupa, la musica acquista un carattere più narrativo e meno statico. Si avverte un barlume di speranza, la consapevolezza che la condizione di sofferenza non è l’unica realtà possibile.
La musica diventa poi più agitata, ritmicamente complessa e dinamica: Bantock costruisce la tensione attraverso un dialogo serrato tra i diversi gruppi di ottoni, creando un vero e proprio campo di battaglia sonoro.
Un crescendo incalzante, sostenuto da figure ritmiche ripetute, scatena l’azione: brevi e incisivi squilli di fanfara delle trombe vengono contrastati dalle risposte potenti dei tromboni e delle tube. L’armonia si fa più aspra e dissonante, rappresentando lo scontro titanico tra le forze dell’oppressione (simboleggiate da Giove) e la volontà indomita di Prometeo. Questo passaggio è l’apice della lotta, il momento cruciale in cui le catene vengono spezzate.
Con un cambiamento tonale netto e luminoso, la musica esplode in un tema eroico e maestoso: la lotta è vinta, e Prometeo è finalmente “sciolto”. Questa sezione finale è un’apoteosi di luce e potenza, una celebrazione della libertà riconquistata.
Il tema principale, ora in una tonalità maggiore, è ampio, solenne e trionfale: le trombe svettano con una melodia ascendente e radiosa, mentre l’intero ensemble fornisce un supporto armonico ricco e compatto. La musica acquista un respiro grandioso, evocando l’immagine del Titano che si erge libero, guardando a un futuro di speranza per l’umanità.
Il preludio si conclude con una coda potente e affermativa: gli accordi finali, sostenuti e risonanti, sigillano la vittoria in modo definitivo. L’ultima nota, tenuta a lungo da tutto l’ensemble, si dissolve lasciando un’eco di maestosità e di compimento epico.

In sintesi, Prometheus Unbound è un capolavoro di scrittura per ottoni in cui Bantock dimostra una profonda comprensione del potenziale drammatico e timbrico di questo organico. Attraverso un sapiente arco narrativo-musicale, ci conduce dalle profondità della disperazione alla vetta del trionfo, traducendo perfettamente lo spirito rivoluzionario e umanistico del poema di Shelley in un’esperienza sonora indimenticabile.

Granville Bantock