Sonata per arpa – III

Paul Hindemith (16 novembre 1895 - 1963): Sonata per arpa (1939). Kateřina Englichová.

  1. Mäßig schnell
  2. Lebhaft [5:06]
  3. Sehr langsam [7:44]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Paul Hindemith: dall’Avanguardia provocatoria all’architettura della Nuova Tonalità

Paul Hindemith è stato una figura centrale della musica moderna tedesca (Neue Musik), un compositore, teorico e musicista universale la cui carriera fu segnata da un’evoluzione stilistica radicale e da una drammatica rottura con il regime nazista.

Vita e formazione giovanile
Nato a Hanau, Hindemith proveniva da una famiglia operaia (il padre Rudolf era imbianchino). Quando era bambino la sua famiglia si spostò, stabilendosi a Francoforte sul Meno nel 1905. Il padre, nonostante le umili origini, incoraggiò l’educazione musicale dei tre figli, Paul, Antonie e Rudolf, presentandoli poi al pubblico in un ensemble chiamato Frankfurter Kindertrio. Hindemith padre perse la vita al fronte nel settembre 1915. A partire dai nove anni, Paul studiò violino e, dal 1909, frequentò il Dr. Hoch’s Konservatorium, studiando con Adolf Rebner (violino), con Arnold Mendelssohn e Bernhard Sekles (composizione). Già nel 1913 fu ingaggiato come I violino (Konzertmeister) presso il Nuovo Teatro di Francoforte e, dal 1915 al 1923, mantenne la medesima posizione all’Opera di Francoforte. Nel 1918 prestò brevemente servizio militare come musicista reggimentale in Alsazia e poi in Francia e Belgio, esperienza che lo confrontò con gli orrori della guerra.

L’ascesa professionale e il ruolo nell’Avanguardia
Il 1921 segnò la sua definitiva affermazione con le prime dei suoi atti unici provocatori Mörder, Hoffnung der Frauen e Das Nusch-Nuschi. Pochi mesi dopo, la prima esecuzione del suo Terzo Quartetto per archi alle prime Giornate di musica di Donaueschingen lo consacrò come uno dei compositori di maggior successo della sua generazione. Suonò stabilmente la viola (dal 1923 al 1929) nel celebre Quartetto Amar, un ensemble di riferimento per la musica contemporanea. Tra il 1923 e il 1930 fu direttore artistico, insieme ad altri, delle Giornate di Donaueschingen, trasformandole in un forum vitale per la Nuova Musica. Era anche un compositore frequentemente eseguito ai festival della Società internazionale per la musica contemporanea (ISCM). Nel 1924 sposò Gertrud Rottenberg, figlia del Kapellmeister dell’Opera di Francoforte. Influenzato dal cognato Hans Flesch (pioniere della radio), Hindemith compose opere specifiche per la radio, inclusa l’opera radiofonica Der Lindberghflug (1929), una collaborazione con Kurt Weill e Bertolt Brecht. Nel 1927 fu nominato professore di composizione all’Accademia Musicale di Berlino. Ebbe anche un interesse per gli strumenti meccanici ed elettronici emergenti, come il Trautonium, di cui seguì lo sviluppo.

Il conflitto con il regime nazista e l’esilio
Già nel 1929, l’opera Neues vom Tage aveva suscitato le ire di Hitler. Con l’ascesa del nazismo, le opere di Hindemith furono etichettate come “bolscevismo culturale” e “arte degenerata” (entartete Kunst). Nel 1934 subirono un divieto di trasmissione radiofonica in Germania. La situazione degenerò quando il direttore Wilhelm Furtwängler tentò una pubblica difesa del compositore (“Il caso Hindemith”). Il ministro della propaganda Joseph Goebbels reagì definendo Hindemith un «rumorista atonale», portando al congedo di Hindemith dalla sua cattedra a Berlino e alle dimissioni di Furtwängler. In segno di solidarietà, Hindemith si esibì al violino in prigioni berlinesi (come Moabit, dove era detenuto il cognato Flesch) tra il 1933 e il 1934. Il divieto di esecuzione delle sue opere in Germania divenne totale nel 1936, una situazione aggravata anche dal fatto che la moglie Gertrud era di ascendenza ebraica. Dopo aver lavorato in Turchia (1935-37) per riformare il sistema di educazione musicale, Hindemith si dimise dalla sua cattedra a Berlino nel 1937. Nel 1938 emigrò in Svizzera e, all’inizio del 1940, si trasferì negli Stati Uniti, dove accettò la cattedra di teoria musicale alla Yale University. Ottenne la cittadinanza americana nel 1946.

La carriera internazionale e l’eredità
Dalla fine degli anni ’40, Hindemith sviluppò una notevole carriera come direttore d’orchestra, esibendosi a livello mondiale con un repertorio vastissimo, dal barocco fino ai contemporanei (dirigendo, ad esempio, i Wiener Philharmoniker e il New York Philharmonic). Dal 1951, iniziò a insegnare anche all’Università di Zurigo, finché nel 1953 lasciò definitivamente gli USA per stabilirsi in Svizzera (a Blonay). Continuò a comporre e dirigere fino alla fine: le sue ultime opere significative includono l’opera Die Harmonie der Welt (su Keplero, 1956-57) e la Messa per coro a cappella (1963), la sua composizione finale, che diresse personalmente a Vienna poco prima di ammalarsi.
Hindemith fu un insegnante molto selettivo e talvolta severo (ricevendo critiche, come quella di Adorno, per l’eccessiva rigidità del suo sistema teorico). Tuttavia, formò una lunga lista di compositori di fama internazionale e ricevette numerosi riconoscimenti, tra cui la laurea honoris causa dalla Freie Universität Berlin (1950) e il Premio Balzan per la Musica (1962). La sua eredità è gestita dalla Hindemith-Stiftung, fondata nel 1968 dalla vedova Gertrud, che sostiene l’Istituto Hindemith a Francoforte e il Centro musicale a Blonay. In suo onore sono stati istituiti due premi, uno dal Festival musicale dello Schleswig-Holstein e uno dalla città di Hanau. Il suo vasto corpus di composizioni è conservato e catalogato dall’Istituto Hindemith. È inoltre degna di nota l’influenza esercitata su altri compositori, come William Walton, autore di Variazioni su un tema di Hindemith.

Il profilo artistico e l’evoluzione stilistica
Nella sua prima fase creativa, Hindemith si guadagnò la reputazione di “Bürgerschreck (terrore dei borghesi) grazie a uno stile musicale deliberatamente scioccante, caratterizzato da ritmi aspri, dissonanze stridenti e l’inclusione di elementi jazz. Successivamente, il suo stile si evolse verso il Neoclassicismo, focalizzandosi su un nuovo approccio alle forme classiche (sinfonia, sonata, fuga). Hindemith rifiutò l’immagine romantica del genio ispirato, enfatizzando invece il primato della tecnica e dell’artigianato compositivo. Questa enfasi si riflesse nella sua teoria, in particolare nel fondamentale Unterweisung im Tonsatz. Il suo sistema teorico è definito come “tonalità libera”, un approccio che si distingue sia dalla tonalità tradizionale maggiore-minore sia dall’atonalità dodecafonica di Schönberg. Sostenne inoltre la Gebrauchsmusik (musica d’uso), considerando un dovere del compositore affrontare le sfide sociali e non comporre per mero fine a sé stesso.

La Sonata per arpa
Dedicata all’arpista italiana Clelia Gatti Aldrovandi, il brano si colloca nella fase matura e neoclassica del compositore tedesco del quale esemplifica i principi estetici: un rigoroso artigianato compositivo, il ritorno alle forme classiche e l’adesione a una “tonalità libera” che rifugge sia dal cromatismo tardo-romantico sia dalle radicalità atonali. Il risultato è un lavoro di razionalità compositiva, privo di eccessivo psicologismo e caratterizzato da uno stile asciutto e ben scandito, pur esaltando le particolari sonorità dello strumento.
Il primo movimento, indicato come Mäßig schnell (Moderatamente veloce), stabilisce immediatamente il tono neoclassico e strutturale della sonata. Nonostante l’indicazione di tempo, il movimento si sviluppa attraverso una chiara alternanza di due elementi distinti, quasi antitetici per funzione e carattere, sfruttando appieno la versatilità dell’arpa.
In primo luogo, si distingue una linea di carattere lirico e misurato, che si snoda con semplicità e chiarezza: questo tema, pur essendo moderno nell’armonia (che aderisce alla “tonalità libera” di Hindemith), mantiene una base strutturale salda. Secondariamente, si nota un materiale di movenze vivaci e veloci, simile a una tessitura clavicembalistica. Questo riferimento al Barocco è un chiaro omaggio al modello bachiano, fondamentale nell’estetica di Hindemith. Quest’elemento è caratterizzato da agilità, precisione e una robusta costruzione ritmica, evitando qualsiasi sentimentalismo.
Il movimento procede attraverso la dialettica e l’alternanza di questi due blocchi sonori, dove la melodia controllata è contrapposta alla propulsione ritmica e virtuosistica. La scrittura essenziale e la melodia chiara assicurano che il suono dell’arpa, spesso associato a toni eterei e impressionistici, venga impiegato qui per scopi costruttivi e razionali.
Il secondo movimento porta invece l’indicazione Lebhaft (Vivace), rivelandosi un brano dallo spirito affine allo Scherzo della tradizione classica. Qui, la componente ritmica, già evidente nel primo movimento, si manifesta in maniera ancora più robusta e affermativa, confermando la «salda padronanza tecnica di tipo artigianale» del compositore.
L’andamento è veloce e dinamico, focalizzato sul vigore costruttivo tipico di Hindemith: sebbene l’arpa sia uno strumento rinomato per i suoi effetti atmosferici, il compositore la impiega per creare sezioni energiche e ben definite, spesso attraverso figurazioni veloci e brillanti. La chiarezza armonica rimane fondamentale, con il linguaggio essenziale che evita di cadere nella complessità contrappuntistica fine a sé stessa, ma che si concentra piuttosto sulla funzionalità e sull’impatto ritmico-costruttivo. Questa parte rappresenta il culmine dell’energia e della motricità nell’opera, fungendo da netto contrasto con il carattere meditabondo del finale.
Il movimento finale, Sehr langsam (Molto lento), assume il carattere di un calmo Lied e si distingue per il suo lirismo profondo, ma sempre contenuto, offrendo un contrasto emotivo con i primi due tempi veloci. La caratteristica più notevole di questo finale è il suo diretto riferimento a un testo lirico di Friedrich Hölderlin (1770-1843), riportato nello spartito dal compositore: «Sei tu che riposi / nel verde suolo / sotto il cielo azzurro? / Sei tu che canti / tra gli alberi / al sole che tramonta?»
Sebbene il movimento sia strumentale e l’arpa non canti il testo, la musica è pensata per evocare l’atmosfera di questa poesia. L’arpa disegna linee melodiche contemplative e sospese, che riflettono la natura malinconica e meditativa della lirica di Hölty (nome con cui Hindemith indicava familiarmente Hölderlin).
Il rallentamento del tempo e la tessitura armonica, pur mantenendo l’assenza di retorica sentimentale tipica di Hindemith, permettono all’arpa di esprimere le sue qualità timbriche più delicate e riflessive. La conclusione del brano non cerca un trionfo drammatico, ma una pacata risoluzione intellettuale ed emotiva, in linea con l’etica compositiva che vedeva l’arte come una «scelta morale e intellettuale».

Nel complesso, l’opera è un esempio paradigmatico del Neo-classicismo di Paul Hindemith. Sebbene sia stata composta in un periodo turbolento (appena prima della sua emigrazione definitiva a causa del nazismo), essa rifiuta l’angoscia espressionista, optando per la chiarezza formale, l’onestà artigianale e l’efficacia musicale. Essa celebra la forma classica tripartita (veloce-scherzo-lento), utilizzando l’arpa non come veicolo per il romanticismo o l’impressionismo, ma come strumento di architettura sonora precisa e razionale. L’influenza di Bach e il principio di Gebrauchsmusik si riflettono nell’attenzione di Hindemith alla tecnica strumentale e nella sua capacità di costruire un linguaggio espressivo forte senza ricorrere a «velleità di musicare idee filosofiche o attività musicali sentimentalisticamente sovraeccitate», ma piuttosto attraverso «schiettezza, realismo e semplicità».

Šostakovič 1975-2025 – IV

Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Sonata per viola e pianoforte op. 147 (1975). Rémi Pelletier, viola; Philip Chiu, pianoforte.

  1. Aria: Moderato
  2. Scherzo: Allegretto [9:23]
  3. In ricordo del grande Beethoven: Adagio [16:32]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Sonata per viola e pianoforte op. 147

Si tratta dell’ultima, commovente dichiarazione artistica di Šostakovič: completata poche settimane prima della morte e dedicata al violista Fëdor Družinin, questa composizione è un profondo viaggio introspettivo che riassume una vita di lotte, ricordi e, infine, di trascendenza.

Il primo movimento – che il compositore descrisse come una “novella” – si apre in modo enigmatico e quasi spettrale: la viola introduce il discorso con un arpeggio pizzicato, solitario e interrogativo, che vaga nell’aria come un pensiero sospeso. Questa scelta timbrica, che evoca l’inizio del Concerto per violino di Alban Berg, stabilisce immediatamente un’atmosfera di introspezione e fragilità. L’entrata del pianoforte non offre conforto, ma piuttosto una linea austera e quasi scheletrica, che si muove in un contrappunto scarno con la viola. La sezione centrale del movimento vede un aumento dell’agitazione e il dialogo si fa più denso e serrato, quasi a rappresentare il riaffiorare di ricordi più turbolenti. Tuttavia, la tensione non esplode mai completamente, ma si ripiega su sé stessa, ritornando alla desolazione iniziale. Il movimento si conclude come era iniziato, con il ritorno del tema pizzicato della viola, lasciando l’ascoltatore con un senso di quiete rassegnata, ma non di piena risoluzione.
Il secondo movimento cambia radicalmente atmosfera, catapultandoci in una danza grottesca e sardonica, tipica dello stile del compositore: basato su materiale proveniente dalla sua opera incompiuta I giocatori, questo Allegretto è uno scherzo macabro, pieno di energia frenetica e tagliente ironia. La viola è protagonista di una serie di tecniche percussive e aspre, come il colpo d’arco secco e i passaggi veloci e scattanti, che conferiscono al suono un carattere quasi scheletrico. Il pianoforte risponde con un accompagnamento ostinato e martellante, creando un ritmo incalzante che non lascia respiro. L’interazione tra i due strumenti è un gioco di inseguimenti e scontri, una parodia di una danza popolare che sembra costantemente sul punto di deragliare: non è una musica gioiosa, ma una risata amara, un commento sarcastico sulle follie della vita, eseguito con una lucidità quasi spietata.
Il finale, un Adagio, è il cuore emotivo e testamentario dell’opera: Šostakovič lo definì “luminoso e chiaro”, un omaggio a Beethoven che si trasforma in una profonda meditazione sulla vita, la morte e la memoria musicale. Il movimento si apre in un’atmosfera rarefatta, quasi ultraterrena, con il pianoforte che stabilisce un tappeto sonoro di accordi distanziati e risonanti, mentre la viola intona una melodia lunga, cantabile e infinitamente triste. Poi, emerge inconfondibile il celebre arpeggio della Sonata al chiaro di luna di Beethoven, non come una citazione diretta, ma come un ricordo lontano, un fantasma sonoro che aleggia sulla composizione: questo riferimento non è solo un omaggio, ma un ponte tra due epoche e due anime tormentate.
Da questo punto, il movimento si evolve in un incredibile flusso di coscienza musicale: Šostakovič intreccia frammenti tematici dei due movimenti precedenti con una serie di auto-citazioni dalle sue quindici sinfonie, creando un collage di memorie della sua intera vita creativa. L’ascoltatore non ha bisogno di riconoscere ogni singolo riferimento per percepire la portata di questo gesto, in quanto si parla di un compositore al termine della sua vita che guarda indietro, ripercorrendo il proprio cammino artistico con una lucidità struggente. Il movimento si spegne lentamente, con la viola che sale verso il registro acuto, fino a svanire in un pianissimo etereo. Le ultime note, sospese nel silenzio, non rappresentano una fine tragica, ma una sorta di ascensione, un passaggio verso un’altra dimensione: è la conclusione perfetta di un’opera che non è solo l’ultimo lavoro del compositore, ma il suo epitaffio musicale, un addio sereno e profondo al mondo e alla musica stessa.

Adagio e cantabile (Scarlatti K 208)


Domenico Scarlatti (1685 - 23 luglio 1757): Sonata in la maggiore K 208. Jean Rondeau, clavicembalo, e András Schiff, pianoforte.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Domenico Scarlatti: ritratto di un genio inafferrabile

Origini e formazione a Napoli: all’ombra del padre
Giuseppe Domenico Scarlatti, soprannominato Mimmo, nacque a Napoli in un ambiente straordinariamente musicale: sesto figlio del celebre compositore Alessandro Scarlatti, maestro della cappella reale, egli crebbe circondato da parenti musicisti. La sua formazione fu curata principalmente dal padre e non da altri maestri illustri come talvolta ipotizzato. Il suo talento precoce fu subito riconosciuto: a soli quindici anni, nel 1701, fu nominato organista e compositore della cappella reale di Napoli.
In questo periodo giovanile, Scarlatti si cimentò nei tre generi che avrebbero caratterizzato la sua intera produzione: la musica sacra (un mottetto), la musica per tastiera (tre sonate per organo, K 287, 288, 328) e la musica vocale profana (cantate da camera). Il padre – consapevole del genio del giovane – cercò attivamente di promuoverne la carriera, portandolo con sé a Firenze e Roma. In una famosa lettera, definì il figlio «un’aquila cui son cresciute l’ali», che non poteva rimanere in un “nido” come Napoli, ma doveva spiccare il volo. Dopo aver composto la sua prima opera, L’Ottavia ristituita al trono, fu mandato a Venezia nel 1705 per ampliare le proprie esperienze.

Gli anni romani: tra mecenatismo e carriera ecclesiastica
Stabilitosi a Roma nel 1708, Scarlatti entrò a far parte della vibrante scena musicale della città: qui si colloca il leggendario aneddoto di una “sfida” virtuosistica al clavicembalo e all’organo con il coetaneo Georg Friedrich Händel, promossa dal cardinale Ottoboni. Inizialmente assistente del padre, il compositore si affermò rapidamente, ottenendo il prestigioso incarico di maestro di cappella per la regina in esilio Maria Casimira di Polonia. Per il suo teatrino privato compose un oratorio e sette opere, tra cui Tolomeo et Alessandro e Tetide in Sciro, caratterizzate da uno stile elegante e patetico.
Dopo la partenza della regina, nel 1714 trovò un nuovo protettore nel marchese de Fontes, ambasciatore portoghese, un legame che si rivelerà decisivo per il suo futuro. Parallelamente, intraprese una brillante carriera ecclesiastica, diventando maestro della Cappella Giulia in San Pietro. Di questa intensa produzione sacra, che secondo un inventario comprendeva decine di opere, rimangono oggi poche tracce, tra cui il celebre Stabat Mater a 10 voci. A Roma continuò anche a comporre per i teatri, come l’opera Ambleto e gli intermezzi satirici La Dirindina, la cui rappresentazione fu inizialmente censurata.

La svolta iberica: il periodo portoghese
Nel 1719, Scarlatti lasciò Roma per Lisbona, assumendo l’incarico di compositore della cappella patriarcale e maestro di musica della famiglia reale di Giovanni V di Portogallo. Il suo ruolo principale divenne quello di insegnante per i due talentuosi allievi reali, l’infante don António e, soprattutto, la principessa Maria Barbara di Braganza. Con quest’ultima, eccellente clavicembalista, stabilì un rapporto artistico e didattico destinato a durare tutta la vita.
Il soggiorno portoghese fu intervallato da viaggi in Italia e a Parigi e, durante una sosta a Roma nel 1728, sposò la sedicenne Maria Caterina Gentili. A Lisbona compose un gran numero di opere vocali di grandi dimensioni, come serenate e cantate per le celebrazioni di corte, ma la maggior parte di questa produzione è andata perduta, probabilmente a causa del devastante terremoto del 1755. Anche le fonti delle sue sonate di questo periodo sono scarse, sebbene la sua fama come compositore per tastiera fosse già consolidata.

La maturità in Spagna: maestro della regina e compositore di sonate
Nel 1729, Scarlatti seguì l’allieva Maria Barbara in Spagna, dopo il suo matrimonio con l’erede al trono spagnolo, il futuro Fernando VI. Il suo status cambiò: da musicista con un ruolo pubblico a Lisbona, divenne il maestro di musica privato della principessa. Questo spiega la sua minore visibilità pubblica rispetto al celebre castrato Farinelli, che dominava la scena operistica di corte.
Fu in Spagna che la sua produzione di sonate per clavicembalo fiorì in modo straordinario. L’ispirazione proveniva da un insieme di fattori unici: la simbiosi artistica con la sua regale allieva, il contatto con le vivaci tradizioni musicali iberiche e la disponibilità di una ricca collezione di strumenti a tastiera (cembali, clavicordi e i primi pianoforti). La pubblicazione a Londra nel 1738 degli Essercizi per gravicembalo (K 1-30) gli conferì una vasta notorietà europea, tanto da meritargli il titolo di cavaliere dell’Ordine di Santiago da parte del re del Portogallo. Nell’ultima fase della sua carriera, su richiesta della regina Maria Barbara, supervisionò la copiatura delle sue sonate in quindici volumi manoscritti, oggi conservati principalmente a Venezia e Parma, che rappresentano il nucleo del suo lascito.

Gli ultimi anni e la sfera privata
Rimasto vedovo nel 1739, Scarlatti si risposò nel 1741 con Anastasia Ximenes, da cui ebbe altri quattro figli, oltre ai cinque del primo matrimonio. Negli ultimi anni, forse a causa di un’invalidità, condusse una vita ritirata, esprimendo in una lettera il proprio disprezzo per i «moderni teatristi compositori» ignoranti del contrappunto. Nonostante ciò, riconobbe di aver infranto egli stesso le regole nelle proprie sonate, con l’unico scopo di piacere all’udito. Le sue ultime composizioni, una Messa in stile antico e un commovente Salve regina in stile napoletano, testimoniano la sua versatilità fino alla fine.
Morì a Madrid il 23 luglio 1757. Contrariamente alla leggenda che lo voleva rovinato dal gioco, l’inventario dei suoi beni rivela una condizione agiata, assicurata anche dalle pensioni concesse dai sovrani di Spagna e Portogallo alla sua famiglia.

Eredità e fortuna critica: la sopravvivenza di un genio
L’eredità di Domenico Scarlatti è rimasta viva soprattutto attraverso le sue 555 sonate per tastiera. La loro fama si diffuse rapidamente in Europa grazie a musicisti come Thomas Roseingrave in Inghilterra e a edizioni stampate a Parigi. Nel corso dell’Ottocento, il suo ricordo fu perpetuato da collezionisti come l’abate Santini e da musicisti come Liszt, Czerny e Brahms. La riscoperta moderna iniziò con l’edizione completa di Alessandro Longo (1906) e culminò con la fondamentale monografia di Ralph Kirkpatrick (1953), che stabilì la catalogazione (K) tuttora in uso. Il suo stile ha influenzato profondamente anche compositori del Novecento come Stravinskij, Falla e Bartók.

L’arte della sonata: “lo scherzo ingegnoso” al gravicembalo
Nella prefazione agli Essercizi, Scarlatti descrive la propria musica non come un’opera di «profondo intendimento», ma come uno «scherzo ingegnoso dell’arte». Questa formula racchiude l’essenza delle sue sonate, che si fondano su tre pilastri:
– padronanza tecnica dissimulata: una profonda conoscenza del contrappunto e dell’armonia, nascosta sotto un’apparenza di eleganza e spontaneità;
– invenzione estrosa: un caleidoscopio di idee musicali, caratterizzato da contrasti improvvisi, passaggi repentini tra maggiore e minore, ripetizioni ossessive, ritmi di danza, imitazioni di chitarra, dissonanze audaci e modulazioni vertiginose;
– sfruttamento virtuosistico dello strumento: un uso spavaldo e completo delle potenzialità del clavicembalo, con arpeggi, salti, incroci di mani acrobatici e note ribattute che mettono a dura prova l’esecutore.

Un artista inclassificabile: ritratto di un musicista unico
Domenico Scarlatti sfida ogni semplice etichetta: il suo “splendido isolamento” nelle corti iberiche lo rende un artista unico, sospeso tra il contegno stilizzato del Barocco e l’inquietudine indagatrice dell’Illuminismo. Conteso tra le sue radici italiane e la sua assimilata “ispanitudine”, la sua musica continua a generare dibattiti appassionati tra interpreti e musicologi su questioni come la scelta dello strumento (cembalo o pianoforte), l’influenza del folklore spagnolo e la sua intrinseca teatralità. Le sue sonate, in particolare, esercitano ancora oggi un fascino irresistibile, confermandolo come un miracolo senza paragoni nella musica del suo secolo.

La Sonata K 208: analisi
Non un saggio di virtuosismo pirotecnico, ma un brano di straordinaria intimità, lirismo e bellezza pastorale: in questa Sonata Scarlatti dimostra di non essere solo un compositore di fuochi d’artificio, ma anche un poeta del suono, capace di dipingere con poche, essenziali pennellate un paesaggio sonoro di struggente bellezza.
Come la stragrande maggioranza delle sonate scarlattiane, anche la K 208 è strutturata in una forma bipartita, con due sezioni ciascuna delle quali viene ripetuta. L’equilibrio e la simmetria armonica sono i pilastri su cui si regge l’intera composizione.
La sonata si apre con un tema principale di una semplicità disarmante: è un arpeggio ascendente in la maggiore, suonato con delicatezza, che evoca l’immagine di un liuto o di una chitarra barocca. La melodia è limpida e si muove con grazia, stabilendo immediatamente un’atmosfera serena e pastorale. La mano sinistra fornisce un sostegno armonico essenziale e discreto. Il materiale tematico viene ripreso e variato con l’introduzione di figure melodiche discendenti, simili a “sospiri”, che aggiungono un tocco di dolce malinconia. Armonicamente, Scarlatti inizia un graduale percorso di allontanamento dalla tonica per preparare la modulazione alla tonalità della dominante. La prima sezione si conclude nella tonalità di mi maggiore (la dominante). Questa conclusione è preparata con grande maestria e segna il punto di arrivo armonico della prima parte, creando un senso di sospensione che richiede la prosecuzione nella seconda parte. La ripetizione della sezione permette di apprezzare nuovamente la perfezione di questo piccolo arco narrativo.
La seconda sezione ha inizio nella tonalità di mi maggiore, riprendendo il materiale tematico della prima parte ma trasfigurandolo armonicamente. L’atmosfera è leggermente più inquieta, come un’ombra che passa su un paesaggio soleggiato. Scarlatti si sposta poi brevemente verso tonalità minori: questo passaggio conferisce al brano la sua profondità patetica e malinconica, un momento di introspezione prima del ritorno alla luce, Attraverso un percorso armonico sapiente, la musica ritorna gradualmente alla tonalità originale. Il tema principale riappare nella sua veste originale, portando un senso di risoluzione e serenità ritrovata. La sonata si chiude con la stessa grazia con cui era iniziata, spegnendosi su un accordo finale che lascia l’ascoltatore in uno stato di pacata contemplazione. La ripetizione consolida questo senso di chiusura del cerchio.

In stil moderno

Dario Castello (1602 - 2 luglio 1631): Sonata prima a sopran solo e basso continuo (da Sonate concertate in stil moderno per sonar nel organo, overo clavicembalo con diversi instrumenti… Libro Secondo, 1629). Elizabeth Blumenstock, violino barocco; William Skeen, violoncello barocco; David Tayler, tiorba; Hanneke van Proosdij, clavicembalo.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Dario Castello: il pioniere della sonata nella Venezia barocca

Figura chiave del primo Barocco e tra i massimi esponenti della Scuola veneziana, Castello fu un compositore e violinista di straordinaria importanza, il cui contributo fu fondamentale per la nascita e lo sviluppo della sonata strumentale all’inizio del Seicento. Nonostante una vita tragicamente breve, la sua opera innovativa lasciò un’impronta indelebile nella storia della musica, definendo un nuovo modo di concepire il dialogo tra gli strumenti.

Una vita tra musica e fede nella Venezia del Seicento
Dario Domenico Castello nacque a Venezia e fu battezzato il 19 ottobre 1602. La sua formazione musicale avvenne in un ambiente familiare fertile: il padre, Giovanni Battista, era un suonatore di violino, mentre il fratello Francesco era un abile trombonista. Questa rete di relazioni musicali favorì senza dubbio la sua carriera. Parallelamente all’attività artistica, Castello intraprese un percorso ecclesiastico che lo portò a essere ordinato sacerdote nel 1627. La sua vita professionale si divise tra la guida di una «compagnia de musichi d’instrumenti da fiato», come si legge sui frontespizi delle sue opere e il prestigioso incarico ottenuto il 19 novembre 1624 come «sonador di violin» nella cappella della Basilica di San Marco, all’epoca sotto la direzione del leggendario Claudio Monteverdi. In quella stessa cappella, il fratello Francesco prestava già servizio. Purtroppo, la sua promettente carriera fu stroncata prematuramente, in quanto morì a Venezia il 2 luglio 1631, vittima della grande epidemia di peste che colpì la città.

Le opere: Le Sonate concertate in stile moderno
Di lui ci sono pervenute 29 sonate e un mottetto. La sua produzione è raccolta principalmente in due libri che testimoniano la sua visione artistica. Il primo fu pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1621 e ristampato con rielaborazioni nel 1629; questa raccolta comprende 12 sonate per diverse formazioni, tra cui doi Soprani, doi Soprani e Trombon overo Violeta e doi Violini e Fagotto. Il secondo, del 1629, contiene 17 sonate: dedicato all’imperatore Ferdinando II, presenta formazioni ancora più varie, da sonate per soprano solo a brani per quattro strumenti d’arco, fino a una suggestiva sonata In Ecco per 2 Cornetti e 2 Violini. Alle sonate si aggiunge il mottetto Exultate Deo per voce sola e basso continuo, incluso in una raccolta del 1625.
L’enorme successo delle sue sonate è confermato dalle numerose ristampe pubblicate fino al 1658 sia a Venezia che ad Anversa, segno del profondo interesse che i musicisti dell’epoca nutrivano per il suo lavoro. In un prezioso Avvertimento a Li Benigni Lettori, inserito nel primo libro, Castello si rivolge direttamente agli esecutori, mostrando piena consapevolezza della novità e della difficoltà del suo stile: «M’è parso, per dar satisfatione à quelli che si deletterano di sonar queste mie sonate, avisarli che se bene nella prima vista li pareranno difficili; tuttavia non si perdino d’animo nel sonarle più d’una volta: per che faranno prattica in esse & all’hora esse si renderano facilissime: perche niuna cosa è difficile a quello che si diletta».

L’architetto del suono: stile e innovazione
Castello occupa un posto di primo piano nel panorama della musica strumentale italiana. Come scrisse lo storico della musica Hans Joachim Moser, tra i violinisti della cerchia di Monteverdi, Castello «possedeva senza dubbio la tecnica più agile e la più straordinaria capacità di rappresentazione». La sua musica, piena di maestria inventiva e caratterizzata da una tecnica brillante, si distingue per diverse innovazioni cruciali.
Fu il primo compositore a pubblicare raccolte interamente dedicate a composizioni chiamate “sonate concertate”, dunque consapevole del fatto che lo “stile moderno” consiste esattamente nello “stile concertante”, ovvero nel far dialogare tra loro le diverse parti strumentali in modo paritario e virtuosistico.
Le sonate sono strutturate in più sezioni o movimenti contrastanti per metro, tempo e carattere stilistico. Sezioni polifoniche complesse, che riecheggiano la vecchia forma della canzone, si alternano a passaggi che assomigliano a recitativi drammatici, sostenuti dal basso continuo.
Di particolare rilevanza è l’abilità di Castello nella strumentazione: il musicista sfrutta la varietà degli strumenti, indicati con precisione all’inizio di ogni brano, per ottenere particolari effetti di contrasto e impasto timbrico, dimostrando una sensibilità quasi pittorica.
Da eccellente violinista, Castello seppe sfruttare al massimo le possibilità tecniche ed espressive del proprio strumento; allo stesso tempo, affidò a strumenti come il trombone e il fagotto brevi ma impegnativi passaggi solistici, elevandoli da un ruolo di mero accompagnamento a protagonisti del dialogo musicale.
Castello fu inoltre fra i primi a menzionare esplicitamente strumenti a tastiera come il clavicembalo o la spinetta come alternative all’organo per la realizzazione del basso continuo, ampliando le possibilità esecutive della sua musica.

La Sonata Prima del II Libro: analisi
Si tratta di un manifesto ideale dei principi dello “stil moderno”, il quale si contrappone a quello antico (lo stile polifonico rinascimentale di Palestrina) e promuove un linguaggio musicale basato su:
drammaticità e affetti: la musica strumentale deve esprimere le emozioni umane (gli “affetti”) con la stessa intensità di quella vocale;
virtuosismo strumentale: gli strumenti non sono più considerati semplici sostituti delle voci, ma ne vengono esplorate le loro capacità tecniche specifiche (idiomatiche);
contrasti: l’uso di bruschi cambiamenti di tempo, metro, dinamica e carattere crea un effetto di “chiaroscuro” sonoro;
basso continuo: una solida base armonica e ritmica su cui il solista poteva costruire complesse improvvisazioni e passaggi virtuosistici.

La Sonata non segue una forma predefinita come quelle del periodo classico, ma è organizzata in sezioni contrastanti, ciascuna con un proprio “affetto”.
Il brano si apre con una sezione lenta e solenne: non è una melodia, ma una successione di accordi maestosi eseguiti dal solo basso continuo. La tiorba arpeggia gli accordi, creando un’atmosfera di attesa e grandiosità, quasi un portale d’ingresso. Senza preavviso, il violino irrompe con una straordinaria esplosione di virtuosismo. Questa sezione è un esempio perfetto di “passaggi” seicenteschi: scale veloci, arpeggi, salti d’ottava e figurazioni che coprono l’intera estensione dello strumento. Il basso continuo è energico e propulsivo. Questa non è scrittura vocale, ma puramente strumentale, pensata per stupire l’ascoltatore. La sezione si conclude con una cadenza che rallenta e prepara il cambio di scena.
Il tempo cambia radicalmente: siamo in un metro ternario (simile a una sarabanda lenta o a un’aria). L’atmosfera è lirica, cantabile e malinconica. Il violino disegna una melodia espressiva, quasi vocale, ricca di abbellimenti delicati. Il basso continuo si fa più rarefatto, con la tiorba che sottolinea la dolcezza del momento. Il violoncello sviluppa una propria linea melodica contrappuntistica (un «basso che cammina») creando un dialogo intimo con il violino e dando vita a un momento di pura espressione affettiva.
Si ritorna poi a un metro binario, ma il carattere è ancora diverso. Questa sezione ha la natura di un recitativo operistico: il violino sembra “parlare”, con frasi brevi e interrogative, separate da pause cariche di tensione. Castello utilizza armonie audaci e dissonanze per creare un senso di dramma e instabilità. È la sezione più teatrale del brano, dove la musica segue la logica della retorica parlata.
Un altro cambio repentino ci riporta a un tempo veloce: questa sezione è caratterizzata dallo stile “concitato” (agitato), teorizzato da Monteverdi, con note rapide e ribattute che evocano un’atmosfera quasi guerresca. La scrittura è concertata, ovvero basata sul dialogo imitativo tra le parti. Si può sentire chiaramente un motivo energico che viene scambiato tra il violino solista e la linea del basso continuo. È un dialogo serrato e brillante, in cui le due voci si inseguono e si sovrappongono in un fitto contrappunto.
La sonata si avvia alla conclusione tornando a un tempo lento. Ha inizio con una sezione quasi improvvisativa, che ricorda l’apertura ma con un carattere più risolutivo. La tensione accumulata si scioglie gradualmente. Le frasi si allargano e il pezzo si chiude con una cadenza finale solenne e affermativa, che riporta la stabilità dopo le turbolenze emotive del brano.

Nel complesso, questa Sonata è un’opera straordinaria che racchiude in cinque minuti un intero universo di emozioni e tecniche strumentali. La sua struttura a sezioni contrastanti, l’audacia armonica, il virtuosismo sfrenato e la profonda espressività la rendono un capolavoro dello “stil moderno” e un punto di svolta nella storia della musica strumentale.

refrain – brisants – airs

Éric Gaudibert (1936 - 29 giugno 2012): Sonata per pianoforte (1978-82). Hajk Melikjan.

  1. refrain
  2. brisants [7:18]
  3. airs [13:20]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Éric Gaudibert: l’architetto sonoro svizzero tra tradizione e avanguardia

L’opera di Gaudibert, personalità di spicco nel panorama musicale svizzero, ha tracciato un percorso distintivo attraverso l’innovazione e un profondo dialogo con diverse forme d’arte. La sua vita, dedicata alla musica come pianista, compositore e docente, riflette una continua ricerca sonora e filosofica.

Formazione d’eccellenza e primi passi artistici
Nato a Vevey, Gaudibert intraprese i suoi studi musicali iniziali presso il Conservatorio di Losanna, dove si dedicò al pianoforte e alla composizione sotto la guida di insegnanti come Denise Bidal e Hans Haug. La sua sete di conoscenza lo portò successivamente a Parigi, un centro nevralgico per la musica del XX secolo. Qui, si perfezionò all’École normale de musique, avendo il privilegio di studiare con personalità leggendarie del calibro di Alfred Cortot (pianoforte), Henri Dutilleux e Nadia Boulanger (composizione). Fino al 1969 Gaudibert mantenne una proficua doppia attività, distinguendosi sia come pianista concertista che come compositore, risiedendo nella capitale francese fino al 1972.

L’Immersione nell’Avanguardia e il ritorno in patria
Il periodo parigino culminò con un’importante esperienza nell’ambito dell’avanguardia musicale francese. Tra il 1972 e il 1975, Gaudibert assunse la direzione delle attività musicali della prestigiosa Maison de la culture di Orléans, un ruolo che gli permise di confrontarsi direttamente con le correnti più innovative del tempo. Al suo ritorno in Svizzera, mise a frutto questa esperienza collaborando attivamente con la Radio e la Televisione svizzera romanda. In questo contesto, si dedicò alla creazione di musiche elettroacustiche e alla realizzazione di trasmissioni volte all’iniziazione e alla divulgazione musicale, dimostrando un impegno costante verso la diffusione della cultura sonora.

Carriera accademica, sviluppo stilistico e ricerca sonora
Nel 1975, Gaudibert si stabilì a Ginevra, città che divenne un punto di riferimento cruciale per la sua carriera. Intraprese un’intensa attività didattica, insegnando armonia al pianoforte, analisi e composizione presso il Conservatorio di Ginevra (dal 1975) e in quello di Neuchâtel. La sua pedagogia si radicava in una profonda comprensione della tradizione musicale, influenzata da giganti come Bartók, Schoenberg e Messiaen. Partendo da queste solide basi, Gaudibert seppe evolvere un linguaggio compositivo estremamente personale e originale. La sua musica si distingue per una peculiare indagine sugli aspetti spaziali, timbrici e filosofici del suono. Abbracciò con entusiasmo le potenzialità offerte dall’elettronica e dai nuovi media, integrandoli nel proprio processo creativo. La sua ispirazione attingeva da molteplici fonti, tra cui la poesia, la letteratura e, in modo significativo, le arti figurative, con una predilezione particolare per l’opera di Paul Klee.

Riconoscimenti ed eredità duratura
L’originalità e la profondità del lavoro di Éric Gaudibert non passarono inosservate. Nel 1989, l’Associazione dei musicisti svizzeri gli conferì il prestigioso Prix de composition per l’insieme della sua opera, un riconoscimento alla sua intera carriera. Successivamente, nel 1995, la città di Ginevra lo onorò con il Prix quadriennal de musique, attestando ulteriormente il suo impatto sul panorama culturale.
Il suo impegno nel mondo musicale si estese anche all’organizzazione di eventi di rilievo: a partire dal 2001, infatti, assunse la presidenza della commissione artistica del rinomato Concours de Genève, uno dei concorsi musicali internazionali più importanti. Gaudibert si spense a Confignon, in Svizzera, all’età di 75 anni, lasciando un’eredità di composizioni innovative, una profonda riflessione sulla natura della musica e un modello di integrità artistica per le generazioni future.

La Sonata per pianoforte di Gaudibert: analisi
La Sonata per pianoforte rappresenta un’opera significativa nel repertorio pianistico contemporaneo svizzero.
Il primo movimento non si presenta con un tema melodico tradizionale che ritorna ciclicamente, quanto piuttosto con un’idea gestuale e timbrica che funge da perno attorno al quale si sviluppa il discorso musicale. Esso si apre in un’atmosfera rarefatta e quasi spettrale. Note singole, acute e risonanti, emergono dal silenzio, creando un senso di attesa e introspezione. Gaudibert esplora qui le qualità percussive e risonanti del pianoforte, con un uso sapiente del pedale per prolungare la vibrazione delle corde. Il silenzio stesso assume un ruolo strutturale, non come semplice assenza di suono, ma come spazio attivo che dialoga con le note.
L’elemento refrain si manifesta come una serie di brevi cellule motiviche, spesso costituite da poche note ripetute o leggermente variate, che interrompono la staticità iniziale. Queste cellule, pur nella loro concisione, acquistano progressivamente peso e intensità. Si alternano momenti di quiete quasi immobile a improvvise accensioni dinamiche, con l’esplorazione di registri estremi del pianoforte – dai rimbombi gravi e profondi a sonorità acute e cristalline. La scrittura è spesso puntillistica, ricordando per certi versi la lezione weberniana, ma con un calore e una risonanza che evocano anche certe atmosfere di Messiaen.
Emerge poi una sezione leggermente più lirica, seppur frammentata. Piccoli arabeschi melodici si intrecciano, suggerendo un canto sommesso e interrogativo. Questa parentesi lirica viene progressivamente intensificata, portando a un culmine espressivo dove il refrain ritorna con maggiore forza e complessità armonica, utilizzando accordi più densi e dissonanti. Dopo il culmine, il movimento gradualmente si placa. Si assiste a una ricapitolazione variata del materiale iniziale, con un ritorno alle sonorità rarefatte e all’importanza del silenzio. Figure veloci e leggere si alternano a note tenute, creando un gioco di luci e ombre. Il refrain si ripresenta in forma più eterea, quasi un eco, prima che il movimento si dissolva nel silenzio da cui era emerso, lasciando una sensazione di sospensione.
Questo primo movimento stabilisce il linguaggio atonale e la sensibilità timbrica di Gaudibert. L’uso del refrain non è meccanico, ma organico, fungendo da punto di riferimento in un flusso sonoro in continua trasformazione.
Il secondo movimento contrasta nettamente con l’atmosfera contemplativa del precedente, scatenando un’energia quasi tellurica e una scrittura pianistica marcatamente virtuosistica. L’attacco è immediato e violento, con grappoli di note (cluster), accordi percussivi e scale rapidissime che percorrono l’intera tastiera. Il titolo è perfettamente incarnato: la musica evoca la forza impetuosa delle onde che si infrangono sugli scogli.
La dinamica è prevalentemente forte, con accenti marcati e un senso di urgenza implacabile. Il movimento prosegue alternando episodi di estrema agitazione a momenti di relativa, seppur tesa, calma. Gaudibert sfrutta tutte le risorse del pianoforte: tremoli, ribattuti velocissimi, ampi arpeggi dissonanti, salti improvvisi tra registri acuti e gravi. Non c’è spazio per un lirismo tradizionale; anche le sezioni meno dense mantengono un’inquietudine latente. La scrittura è ritmicamente complessa e irregolare, contribuendo al senso di instabilità e forza bruta.
Il movimento si sviluppa verso un culmine parossistico (intorno a 11:30), dove la densità sonora e la velocità raggiungono l’apice. L’energia sembra incontenibile. La conclusione è altrettanto drammatica e improvvisa, con una serie di accordi potenti e secchi che lasciano l’ascoltatore quasi senza fiato, senza una vera e propria risoluzione, ma piuttosto un’affermazione di potenza. Brisants è un tour de force pianistico che mette in luce la capacità di Gaudibert di creare immagini sonore vivide e potenti. È un movimento che richiede all’interprete non solo abilità tecnica, ma anche una grande resistenza fisica ed emotiva.
Il terzo e ultimo movimento si apre con una citazione poetica che ne illumina il carattere: «J’écoute… Le bruit des ailes du silence Qui vole dans l’obscurité. Saint-Amant, poète du XVII siècle». Dopo la tempesta di brisants, airs introduce un’atmosfera di profonda introspezione e lirismo rarefatto. Il movimento inizia con sonorità estremamente delicate e sospese, quasi un respiro. Frammenti melodici, spesso melismatici e di carattere quasi vocale, emergono e si dissolvono nel silenzio. L’uso del pedale è nuovamente cruciale per creare aloni sonori e prolungare la risonanza delle note, evocando «le ali del silenzio».
Si percepiscono echi del primo movimento, in particolare nelle sonorità acute e cristalline, quasi campaniformi, e nell’importanza data alle pause. Tuttavia, qui il linguaggio sembra più cantabile, seppur sempre all’interno di un’estetica moderna. Le arie non sono melodie chiuse e definite, ma piuttosto allusioni, frammenti di canto che si librano nell’aria. C’è un senso di ricerca, di contemplazione malinconica. Il movimento si dirige verso una conclusione eterea. Le dinamiche si affievoliscono progressivamente, le tessiture si diradano ulteriormente. Le ultime note, isolate e risonanti, sembrano perdersi nell’oscurità evocata dalla citazione di Saint-Amant. Il finale è di una bellezza struggente, lasciando una profonda impressione di pace e mistero. Questo movimento finale, con la sua poetica del silenzio e la sua cantabilità frammentata, chiude la sonata in modo circolare, ritornando alla rarefazione del refrain ma arricchita dall’esperienza drammatica di brisants. La citazione letteraria offre una chiave di lettura importante, sottolineando la dimensione filosofica e poetica della musica di Gaudibert.

Nel complesso, la Sonata per pianoforte di Gaudibert è un’opera che riflette pienamente le tendenze della musica colta della seconda metà del XX secolo. Il linguaggio è prevalentemente atonale, con un’attenzione meticolosa al timbro, alla dinamica e all’articolazione. L’influenza di compositori come Messiaen (per l’uso del colore e delle risonanze) e della Seconda scuola viennese (per la frammentazione e l’atonalità) è palpabile, ma rielaborata in uno stile personale. Il pezzo si qualifica come un viaggio sonoro affascinante che esplora un’ampia gamma di emozioni e stati d’animo, dalla contemplazione rarefatta alla violenza tellurica, fino a un lirismo intimo e poetico. È un’opera che richiede un ascolto attento e ricompensa con la scoperta di un universo sonoro complesso e profondamente umano.

Alcune Sonate dell’op. IX di Leclair

Jean-Marie Leclair (10 maggio 1697 - 1764): 4 Sonate per violino e continuo, dall’op. IX (1743). Simon Standage, violino; Nicholas Parle, clavicembalo.

– Sonata in la maggiore op. IX n. 1

  1. Adagio
  2. Allegro assai [4:32]
  3. Andante [7:50]
  4. Minuetto: Allegro moderato [10:38]

– Sonata in re maggiore op. IX n. 3, Tombeau

  1. Un poco andante [16:15]
  2. Allegro – Adagio [19:58]
  3. Sarabande: Largo [16:15]
  4. Tambourin: Presto [25:34]

– Sonata in la minore op. IX n. 5

  1. Andante [29:16]
  2. Allegro assai [35:27]
  3. Adagio [39:42]
  4. Allegro ma non troppo [43:03]

– Sonata in do maggiore op. IX n. 8

  1. Andante ma non troppo [45:19]
  2. Allegro assai [49:01 ]
  3. Andante [54:28]
  4. Tempo di ciaccona [57:20]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Jean-Marie Leclair: virtuoso del violino barocco tra fama e mistero

Figura centrale nel panorama musicale francese del XVIII secolo, Leclair è oggi ricordato come un eminente violinista e compositore del periodo barocco. Considerato il fondatore della scuola violinistica francese, la sua musica è celebre per la fusione unica tra l’eleganza e la grazia dello stile francese e la brillantezza tecnica e la cantabilità dello stile italiano, in particolare quello di Corelli.

Gli inizi: dalla danza al violino
Nacque a Lione nella famiglia del musicista e passamanaro (chi decorava o rifiniva abiti od oggetti) Antoine Leclair, il quale lo introdusse presto nell’ambiente musicale e operistico della città. Distintosi fin dall’adolescenza come eccellente violinista, intraprese la sua carriera artistica come danzatore, prima a Lione e poi a Rouen. Fu a Torino che ebbe l’opportunità di perfezionare sia la danza — diventando maestro di balletto — sia la tecnica violinistica con Giovanni Battista Somis.

Affermazione a Parigi e in Europa
Trasferitosi a Parigi nel 1723, Leclair iniziò a farsi conoscere pubblicando le sue prime sonate per violino ed esibendosi come virtuoso al Concert spirituel. Nel 1733 entrò al servizio di Luigi XV come “ordinaire de la musique“, ma lasciò l’incarico quattro anni dopo a seguito di un disaccordo, preferendo dedicarsi a tournée concertistiche. Tra il 1738 e il 1743, all’Aia, fu ingaggiato per diversi mesi ogni anno presso la corte di Anna di Hannover, principessa d’Orange, musicista essa stessa ed ex allieva di Händel.

Compositore riconosciuto e opere principali
Rientrato a Parigi nel 1743 e forte dei guadagni ottenuti con lezioni private all’Aia, Leclair si dedicò alla composizione della sua unica opera lirica, Scylla et Glaucus, rappresentata per la prima volta il 4 ottobre 1746 all’Académie royale de musique. Dal 1748 fu al servizio del duca Antonio VII di Gramont, per il quale curava gli intrattenimenti musicali nel teatro privato di Puteaux, componendo musiche di scena. Nonostante l’impegno teatrale, Leclair rimase celebre soprattutto per le sue composizioni strumentali — in particolare sonate e concerti per violino — che consolidarono la sua fama come il più eminente violinista francese del suo tempo. La sua grandezza fu riconosciuta anche dalla critica coeva, come testimonia un articolo del «Mercure de France» del 1753 che elogiava una sua nuova raccolta di ouvertures e sonate a tre, definendolo «l’artista più celebre che la Francia abbia avuto per la musica puramente strumentale». Leclair scrisse anche per altri strumenti, come dimostra un Concerto in do maggiore per flauto traverso o oboe, apprezzato per l’audacia armonica e la ricchezza inventiva.

Gli ultimi anni e la morte misteriosa
La vita di Leclair ebbe una svolta drammatica nel 1758 quando, dopo una brusca separazione dalla seconda moglie, acquistò una piccola casa nel malfamato quartiere parigino del Temple. Fu qui che venne assassinato nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 1764, in circostanze mai chiarite.

Analisi generale dell’opera
L’Opus IX — pubblicata nel 1743 e dedicata alla principessa Anna d’Orange — rappresenta un punto culminante della sua maturità artistica. Queste sonate per violino e basso continuo sono note per la loro notevole difficoltà tecnica, richiedendo una padronanza avanzata dell’arco, delle doppie corde, delle posizioni elevate e dell’ornamentazione. Allo stesso tempo, mostrano una profonda espressività melodica e una solida scrittura contrappuntistica.
Molte sonate seguono lo schema della sonata da chiesa italiana (lento-veloce-lento-veloce), ma Leclair introduce alcune varianti, includendo danze come minuetti, sarabande, ciaccone e tambourin, tipiche della suite francese.
Vi è un equilibrio costante tra la raffinatezza armonico-ritmica francese e il virtuosismo e l’espansività melodica italiana. I movimenti lenti sono spesso carichi di pathos e ornati con delicatezza, mentre i movimenti veloci sono energici e richiedono grande agilità.
Leclair spinge i limiti tecnici del violino dell’epoca, con passaggi complessi, ampio uso di doppie corde (spesso usate tematicamente e non solo per riempimento armonico) e scrittura che esplora l’intera estensione dello strumento, con salti e abbellimenti arditi. Il basso continuo non funge solo da mero accompagnamento, ma partecipa attivamente al dialogo musicale.

Analisi delle singole sonate
La Sonata n. 1 si apre in un’atmosfera di serena contemplazione. La melodia, affidata al violino, è ornata e lirica, con un andamento calmo e misurato. La forma è una sorta di aria, con una melodia principale che si sviluppa e si orna nel corso del movimento. L’armonia è prevalentemente diatonica, incentrata sulla tonalità di impianto, ma con occasionali deviazioni verso tonalità relative per aggiungere colore e interesse. L’uso di abbellimenti è fondamentale per il carattere espressivo del movimento. Leclair sfrutta molto il registro acuto del violino per creare momenti di particolare brillantezza. Segue un secondo movimento contrastante, più energico e virtuosistico. Il ritmo è incalzante e la melodia è ricca di passaggi rapidi e arpeggi. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con una chiara esposizione, sviluppo e ripresa. L’armonia è più dinamica, con modulazioni frequenti e un uso più accentuato del cromatismo. La scrittura virtuosistica per il violino è al centro dell’attenzione, con passaggi di scale e arpeggi che mettono in mostra l’abilità dell’esecutore. Il terzo movimento, invece, offre un momento di respiro tra i due movimenti più vivaci. Il carattere è lirico e cantabile, con una melodia fluente e un accompagnamento delicato. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si ripete e si varia nel corso del movimento. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sulla bellezza della melodia. Il finale elegante e spensierato, con un ritmo di minuetto e un andamento più vivace del solito. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza.
La Sonata n. 3 s’inizia in modo malinconico e introspettivo, con una melodia elegante e ornata. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si sviluppa e si varia nel corso del movimento. L’armonia è cromatica e modulante, riflettendo l’instabilità emotiva del movimento. L’uso di dissonanze e di passaggi cromatici contribuisce al carattere espressivo e malinconico del movimento. Il secondo movimento è diviso in due sezioni contrastanti: l’Allegro è energico e virtuosistico, mentre l’Adagio è lento e contemplativo. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, ma con un’interruzione nella sezione di sviluppo per un Adagio. L’armonia è dinamica, con modulazioni frequenti e un uso accentuato del cromatismo. Il terzo movimento è lento e solenne e ha un ritmo di sarabanda, una danza di origine spagnola, ma con un andamento molto lento e contemplativo. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sulla bellezza della melodia. L’uso di pause e di silenzi contribuisce al carattere solenne e contemplativo del movimento. Il finale è vivace e spensierato, con un ritmo di tambourin, una danza popolare francese, con un andamento molto rapido e brillante. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza. L’uso di note ribattute e di passaggi rapidi contribuisce al carattere vivace e brillante del movimento.
La Sonata n. 5 si apre in un’atmosfera di malinconia e introspezione, la quale domina l’intero movimento. La tonalità minore e una melodia ornata contribuiscono a creare un’espressione di pathos. La forma è quella di un’aria, con la melodia principale che si sviluppa attraverso variazioni e abbellimenti. L’armonia, pur rimanendo salda in la minore, esplora modulazioni verso tonalità relative, intensificando il senso di struggimento. L’uso espressivo di appoggiature e trilli, unito a un registro medio-grave del violino, conferisce al movimento un’aura di intimità e sofferenza. Il secondo movimento è in netto contrasto con il precedente ed è un’esplosione di energia e virtuosismo. Il ritmo incalzante e le figurazioni rapide creano un’impressione di urgenza. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con esposizione, sviluppo e ripresa ben definiti. L’armonia è dinamica e modulante, con un’alternanza di sezioni in tonalità maggiore e minore per aggiungere colore. Leclair sfrutta appieno le capacità tecniche del violino, con scale, arpeggi e passaggi di doppia corda che mettono alla prova l’abilità dell’esecutore. Il terzo movimento fa ritorno a un’atmosfera più contemplativa, sebbene intrisa di una sottile inquietudine. La melodia è espressiva e lirica, ma con un velo di malinconia. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si ripete e si varia nel corso del movimento. L’armonia è cromatica e modulante, creando un senso di instabilità emotiva. L’uso di silenzi e di dinamiche contrastanti contribuisce al carattere espressivo del movimento. Il finale è vivace e spensierato, allentando la tensione emotiva dei movimenti precedenti. Il ritmo è incalzante e la melodia è orecchiabile. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con esposizione, sviluppo e ripresa ben definiti. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza. L’uso di note ribattute e di passaggi rapidi contribuisce al carattere vivace e brillante del movimento.
La Sonata n. 8 si apre in un’atmosfera serena e contemplativa. La melodia, affidata al violino, è fluente e cantabile, con un andamento misurato. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si sviluppa e si varia nel corso del movimento. L’armonia è semplice e diatonica, incentrata sulla tonalità di do maggiore. L’uso espressivo di abbellimenti e di dinamiche contrastanti contribuisce al carattere lirico del movimento. Segue un movimento energico e virtuosistico, che contrasta con la serenità dell’Andante. Il ritmo è incalzante e la melodia è ricca di passaggi rapidi e arpeggi. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con esposizione, sviluppo e ripresa ben definiti. L’armonia è più dinamica rispetto alla parte iniziale, con modulazioni frequenti e un uso più accentuato del cromatismo. La scrittura virtuosistica per il violino è al centro dell’attenzione, con scale, arpeggi e passaggi di doppia corda che mettono alla prova l’abilità dell’esecutore. Il terzo movimento è lento e solenne e offre un momento di respiro tra i due movimenti più vivaci. Il carattere è lirico e cantabile, con una melodia fluente e un accompagnamento delicato. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si ripete e si varia nel corso del movimento. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sulla bellezza della melodia. Il finale è maestoso e solenne. Il ritmo è quello di una ciaccona, una danza di origine spagnola, con un andamento lento e misurato. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza. L’uso di pause e di silenzi contribuisce al carattere solenne e contemplativo del movimento.

Sonata accademica

Francesco Maria Veracini (1° febbraio 1690 - 1768): Sonata in sol minore per violino e basso continuo, n. 5 delle 12 Sonate accademiche op. 2 (1744). Luigi Mangiocavallo, violino; Claudio Ronco, violoncello; Marco Mencoboni, clavicembalo.

  1. Capriccio con due soggetti: Allegro assai – Adagio assai
  2. Allegro assai [5:44]
  3. Giga: Allegro [8:28]

Sonata a due di Rosenmüller

Johann Rosenmüller (24 agosto 1619 - 1684): Sonata in sol minore per due violini e basso continuo (pubblicata in Sonatae à 2, 3, 4 e 5 stromenti da arco et altri, 1682, n. 1). Capella Lanensis: Josef Höhn, violino e direzione; Andrea Ferroni, violino; Francesco Maria Cataldo, viola da gamba; Alessandro Baldessarini, chitarrone; Simon Brandlechner, organo.

  1. Adagio
  2. Allegro [0:32]
  3. Adagio [1:42]
  4. Prestissimo [3:21]
  5. Adagio [4:09]

Sonata a quattro mani

Ignaz Anton Ladurner (1° agosto 1766 - 1839): Sonata in do minore per pianoforte a 4 mani op. 6 (c1800). Ayami Ikeba e Marlies Nussbaumer.

Introduzione :

– Grave
– Pastorale: Andantino [0:55]

Sonata :

– Allegro brillante [1:42]
– Polac[c]a [7:12]
– Pastorale: Allegretto [12:41]

Ladurner era nato a Aldino (oggi in provincia di Bolzano) e visse a lungo in Francia, dove arrivò alla vigilia della Rivoluzione e per qualche tempo fece parte fra l’altro, come organista, dell’orchestra di corte di Napoleone. Pare che fosse un formidabile didatta, capace di tener lezione anche per quindici ore al giorno. Elaborò uno stile compositivo personale, e questa Sonata ne dà la misura.

Sonata in sol maggiore – II

Domenico Gabrielli (1650 - 10 luglio 1690): Sonata n. 1 in sol maggiore per violoncello e basso continuo (pubblicata in Ricercari, canoni e sonate per violoncello, 1689). Hermine Horiot Bellini, violoncello; Giovanni Bellini, tiorba.

Grave – Allegro [1:10] – Largo [3:03] – Prestissimo [4:54]

Tre per una

Albert Dietrich (1829 - 1908), Robert Schumann (1810 - 1856) e Johannes Brahms (1833 - 1897): F.A.E., sonata per violino e pianoforte (1853). Isabelle Faust, violino; Aleksandr Mel’nikov, pianoforte.
Composta sopra F - A - E, che nella nomenclatura anglosassone corrispondono a FA - LA - MI, venne dedicata al violinista, direttore e compositore Joseph Joachim (28 giugno 1831 - 1907), al quale fu chiesto di indovinare i nomi degli autori. Il titolo è costituito dall’acronimo della frase Frei aber Einsam (Libero ma solo), che Joachim aveva scelto quale motto personale.

  1. Allegro (Dietrich)
  2. Intermezzo (Schumann) [11:52]
  3. Scherzo (Brahms) [14:16]
  4. Finale (Schumann) [19:00]