Zodiaco

Urmas Sisask (1960 - 17 dicembre 2022): Sodiaak per pianoforte op. 50 (1994). Lauri Väinmaa.

  1. Kaljukits – Mina kasutan – Meister (Capricorno – Io uso – Maestro)
  2. Veevalaja – Mina tean – Avastaja (Aquario – Io so – Scopritore)
  3. Kalad – Mina usun – Unistaja (Pesci – Io credo – Sognatore)
  4. Jäär – Mina olen – Alustaja (Ariete – Io sono – Iniziatore)
  5. Sõnn – Mina oman – Koguja (Toro – Io possiedo – Collezionista)
  6. Kaksikud – Mina mõtlen – Vahendaja (Gemelli – Io penso – Mediatore)
  7. Vähk – Mina tunnen – Hoolitseja (Cancro – Io sento – Custode)
  8. Lõvi – Mina tahan – Esineja (Leone – Io voglio – Esecutore)
  9. Neitsi – Mina kontrollin – Korrastaja (Vergine – Io controllo – Organizzatore)
  10. Kaalud – Mina kaalun – Harmoniseerija (Bilancia – Io peso – Armonizzatore)
  11. Skorpion – Mina loodan – Kirglik suhtleja (Scorpione – Io spero – Comunicatore appassionato)
  12. Ambur – Mina näen – Prohvet (Sagittario – Io vedo – Profeta)


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Urmas Sisask, il trascrittore di musica cosmica

Urmas Sisask non si considerava un compositore, bensì un «trascrittore di musica». La sua visione è profondamente radicata nell’amore universale e nella connessione cosmica, affermando che l’Universo fu creato con amore 13,7 miliardi di anni fa e che gli esseri umani esistono per percepirlo. Vedeva il pianeta Terra come una «calamita per la vita» e l’essere umano come un’entità nata dalle stelle e destinata a tornare ad esse.

Formazione e l’osservatorio di Jäneda
Intrapresi gli suoi studi di composizione presso la Scuola superiore di musica di Tallinn, Sisask si diplomò nel 1985 presso il Conservatorio statale di Tallinn. Dal 1985 al 2000 la sua attività fu strettamente legata alla piccola città estone di Jäneda, dove lavorò come direttore artistico della casa della cultura locale e come insegnante di musica. In questo contesto, nel 1994, fondò la Torre osservatorio musicale all’interno del maniero di Jäneda, dotata di un planetario autoprodotto (1996). Questa torre divenne il luogo centrale delle sue osservazioni astronomiche, della creazione della maggior parte delle sue composizioni e dell’organizzazione di numerosi concerti-conferenza.

L’astro-musica: metodo e ispirazione
L’interesse per l’astronomia fu sin dall’infanzia la sua principale fonte di ispirazione e si concretizzò nelle prime opere astro-musicali (ad esempio, il ciclo pianistico per bambini Cassiopeia).
L’astro-musica di Sisask si basa su due metodi distinti: il metodo intuitivo, per cui l’ispirazione è tratta dall’esperienza diretta, dalle osservazioni e dalle conoscenze astronomiche; e il metodo matematico, per cui le frequenze dei suoni sono determinate dalla conversione numerica dei movimenti dei corpi celesti. Il metodo matematico si basa sul principio che la rotazione dei corpi celesti può essere trattata come l’oscillazione di frequenze fisse, convertibili nel campo dell’udito umano.
Analizzando i moti planetari nel 1987, Sisask derivò una serie di cinque note (do diesis – re – fa diesis – sol diesis – la), che corrisponde esattamente alla scala pentatonica giapponese Kumayoshi. Questa struttura scalare costituisce la base melodica e armonica per un gran numero di sue opere, tra cui Gloria Patri. Le tematiche astronomiche sono particolarmente evidenti nelle sue opere strumentali, come i tre cicli per pianoforte Starry Sky e numerosi concerti dedicati a comete (The Hale Bopp Comet) o sciami meteorici (Concerto per violino n. 1 Perseids).

Ricchezza di generi e influenze culturali
L’opera di Sisask è ricca per generi e stili, spaziando dalla musica sacra (corale, messe, oratori) a composizioni popolari o persino rap-simili. Le sue opere più note includono il Requiem per coro maschile e orchestra sinfonica (1998) e la Messa n. 3 (Messa estone, 1992), la prima messa scritta in lingua estone. Ha ottenuto un vasto riconoscimento internazionale, soprattutto per la sua musica corale, caratterizzata da una trama chiara, armonia semplice, fluidità della conduzione vocale, e una sincera emotività (Gloria Patri, ciclo di 24 inni a cappella, 1988).
Oltre all’astronomia, il lavoro di Sisask è influenzato dalle culture sciamaniche, dai canti runici estoni, dalla tradizione della musica sacra europea, dal canto gregoriano, dalla polifonia vocale medievale e dall’armonia corale luterana.
Il suo idioma musicale è costantemente segnato dallo sviluppo variato di vivide melodie centrali, da un impulso ritmico estatico e da tecniche di stile della musica rituale (spesso richiamando i canti runici o i rituali sciamanici con l’uso di semplici ostinati). Egli stesso partecipa spesso all’esecuzione delle sue opere suonando il pianoforte o il tamburo sciamanico.

Riconoscimenti e pubblicazioni
Urmas Sisask ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio culturale della Repubblica estone (1990) e il Premio musicale del Consiglio musicale estone (2020).

Sodiaak
Questa suite appartiene al più ampio ciclo dei lavori di “astro-musica” del compositore. L’opera non è solo una semplice sequenza di brani, ma un vero e proprio viaggio sonoro attraverso i dodici segni zodiacali, ognuno associato a un’affermazione esistenziale e a un archetipo psicologico.
Il Capricorno, archetipo del Maestro, è associato alla determinazione, alla struttura e all’uso metodico delle risorse. Il movimento è caratterizzato da un’esposizione austera che bilancia momenti di stabilità e tensione. Sisask utilizza una trama complessa e serrata, dominata da intervalli stretti e progressioni che suggeriscono un’implacabile forza di volontà. La musica si sviluppa attraverso figure virtuosistiche e ascendenti nella mano destra, accompagnate da un movimento costante nella mano sinistra.
La musica riflette l’archetipo del Maestro non attraverso l’esuberanza, ma attraverso il controllo tecnico e la precisione strutturale. Il fraseggio è nitido e l’esecuzione richiede una notevole maestria per mantenere la chiarezza in mezzo alla densità armonica, evocando l’idea di una mente che pianifica e utilizza la sua conoscenza con rigore. La sezione centrale, più pacata, sembra rappresentare la solitudine o l’introspezione necessaria alla leadership, prima di tornare alla sua energia strutturata e finalistica.
L’Aquario, archetipo dello Scopritore, incarna invece la conoscenza intuitiva, l’innovazione e il distacco intellettuale. Questo movimento è notevolmente diverso dal precedente, introducendo una sonorità più eterea e dinamica. È strutturato con arpeggi rapidi e fluidi, che creano un senso di leggerezza e moto perpetuo. L’uso di scale ascendenti e discendenti a velocità vertiginosa suggerisce l’idea di scoperta e di navigazione attraverso nuove idee (l’“Io so” dell’Aquario). L’armonia rimane prevalentemente modale, ma l’uso del registro acuto e della dinamica leggera conferisce un carattere quasi impalpabile, simile all’aria.
La musica è una rappresentazione della mente in continuo movimento. L’energia incessante, ma non pesante, della musica simboleggia la curiosità intellettuale e la ricerca di nuove frontiere. La tessitura leggera e l’uso del pedale creano riverberi che evocano l’immensità dello spazio, campo d’azione prediletto dell’Aquario e di Sisask stesso.
I Pesci, archetipo del Sognatore, sono legati all’intuizione, alla fede e all’unione mistica. Il movimento si apre con una melodia semplice e toccante, trasportata su arpeggi lenti e sognanti. L’atmosfera è meditativa e profondamente emotiva, in netto contrasto con il rigore di Capricorno e l’attività intellettuale di Aquario. Sisask utilizza armonie dense e accordi arpeggiati che si dissolvono lentamente, creando un effetto quasi mistico. La melodia è centrale e trasmette una forte sensazione di credenza e speranza.
Questo brano è l’incarnazione del “Io credo”: la musica comunica una qualità onirica, un senso di trascendenza e di connessione con il non-visibile, tipico del segno dei Pesci. La dolcezza del fraseggio e l’uso di dinamiche sommesse (spesso pianissimo) riflettono la natura compassionevole e introspettiva del sognatore.
L’Ariete, archetipo dell’Iniziatore, rappresenta invece l’azione, l’identità e la forza primordiale del “Io sono”. Il movimento è audace, diretto e marcatamente ritmico, e si qualifica come una delle sezioni più energiche dell’opera, dominata da accordi staccati e un ostinato frenetico nella mano sinistra. L’uso della scala Kumayoshi (Do#-Re-Fa#-Sol#-La) è evidente, conferendo al brano un sapore esotico e una propulsione ritmica incalzante, un tratto distintivo dell’astro-musica di Sisask. L’andamento è veloce e assertivo.
Questo è l’esplosivo “Io sono”. La musica non lascia spazio a dubbi: è una dichiarazione di esistenza e di forza propulsiva. Il ritmo incessante simboleggia la natura impulsiva dell’Ariete, che inizia e apre la strada, riflettendo la forza primigenia e l’autoaffermazione.
Il Toro, archetipo del Collezionista, è legato alla stabilità, al possesso materiale e al godimento sensoriale. Il brano presenta un carattere più terroso e radicato, con la musica costruita su una melodia solida e ripetitiva, poggiata su un basso fermo e accordi ben scanditi. Meno frenetico dell’Ariete, ma con una densità maggiore, il pezzo evoca una sensazione di abbondanza e radicamento. Il tempo è moderato e il rubato espressivo assente, sottolineando la stabilità e la materialità.
Il concetto di “Io possiedo” è espresso attraverso la ricchezza della tessitura e la ripetizione ostinata delle figure. Questa stabilità musicale simboleggia l’amore del Toro per il confort e la sua natura di “Collezionista”, che accumula e apprezza ciò che è tangibile e duraturo.
I Gemelli, archetipo del Mediatore, simboleggiano la comunicazione, la dualità e l’attività mentale (l’“Io penso”). Il movimento è caratterizzato da un’estrema leggerezza e velocità, utilizzando cromatismi e figurazioni in entrambe le mani. La rapidità dell’esecuzione riflette la dualità e l’agilità mentale dei Gemelli. Il timbro è brillante e aereo, mentre l’escursione melodica è ampia e frammentata, suggerendo un flusso di pensieri che si muovono velocemente e in molteplici direzioni.
La musica è l’epitome del “Io penso”, esemplificato dal dialogo tra le mani che evoca la necessità di comunicazione e mediazione (il Mediatore). L’instabilità armonica rappresenta l’irrequietezza intellettuale e la costante elaborazione di informazioni.
Il Cancro, archetipo del Custode, è invece il segno associato alle emozioni profonde, alla casa e all’impulso di nutrire (“Io sento”). Qui l’atmosfera si fa più intima e nostalgica, con dinamiche più calde e un respiro più lento. Il movimento utilizza una melodia fluida e arpeggiata su armonie modali, spesso con un rubato che enfatizza il sentimento. La musica si sviluppa con profondità emotiva, riflettendo la natura legata all’acqua e all’emozione del Cancro. L’uso di intervalli che generano nostalgia e calore emotivo è prevalente.
Il Cancro si esprime attraverso l’“Io sento”. La musica agisce come una culla sonora, evocando sentimenti di protezione e nostalgia. La delicatezza del tocco e il flusso melodico continuo simboleggiano l’empatia e il ruolo di “Custode” che protegge il focolare emotivo.
Il Leone, archetipo dell’Esecutore, è sinonimo di regalità, creatività e affermazione della volontà (“Io voglio”). Questo brano è un’esplosione di energia e teatralità: Sisask fa ampio uso di ottave, triadi maggiori e dinamiche potenti, creando una sonorità ricca e imponente. Il ritmo è marziale e affermativo, con figurazioni che risalgono il pianoforte in maniera gloriosa. È il movimento più esuberante e apertamente virtuosistico, quasi un inno celebrativo.
L’“Io voglio” del Leone è manifestato in un brano che esige attenzione e riflette un ego forte e creativo. La musica è concepita per essere eseguita con grande pathos e convinzione, incarnando il ruolo dell’“Esecutore” che cerca il palcoscenico e il riconoscimento.
La Vergine, archetipo dell’Organizzatore, simboleggia infine l’analisi, il servizio e l’attenzione ai dettagli (“Io controllo”). Caratterizzato da un ritmo incalzante e ripetitivo, il movimento impiega la scala Kumayoshi, ma con una sensazione di maggiore controllo tecnico rispetto all’Ariete. Le linee sono precise e articolate, spesso con rapidi passaggi eseguiti con meticolosa chiarezza. La musica non è emotiva, ma è incentrata sulla meccanica e sulla pulizia delle esecuzioni.
Il brano evoca l’immagine di un meccanismo complesso e ben oliato. L’attenzione ai dettagli è tradotta in figurazioni tecniche che devono essere “controllate” perfettamente. L’archetipo dell’“Organizzatore” si manifesta nella precisione ossessiva e nell’efficienza ritmica della musica, riflettendo l’esigenza di ordine e analisi tipica della Vergine.
La Bilancia, archetipo dell’Armonizzatore, si apre con un’atmosfera sospesa e meditativa, stabilita subito da accordi eseguiti in un registro grave. L’armonia è modale e dissonante, creando un senso di mistero e profondità. La dinamica è invece contenuta, suggerendo una quiete interiore o una contemplazione e richiamando il concetto di “peso”, ma in senso riflessivo o karmico, come un bilanciamento di forze interiori.
La sezione centrale vede un aumento graduale della dinamica e della complessità ritmica. La melodia si fa più insistente, spesso ripetuta in sequenze ascendenti. L’accompagnamento diventa più attivo e frammentato, spesso con figure che suggeriscono un movimento pendolare o oscillatorio. Questo è l’apice del concetto di “Bilancia”, dove le forze in gioco tentano di trovare un equilibrio.
L’energia cresce fino a un picco emotivo e dinamico, dopo il quale si ha un rallentamento del tempo e una momentanea riduzione della dinamica. Questa sezione rappresenta l’azione dell’Armonizzatore, il processo attivo di mediazione. Si ritorna poi a maggiore chiarezza e meno dissonanze estreme, con melodie più convergenti e armonie più fluide. Il ritmo rallenta fino a raggiungere quasi l’immobilità e gli accordi finali vengono mantenuti, concludendo il brano in maniera quieta.
La Scorpione si apre invece con brillanti e veloci arpeggi acuti sostenuti da note lunghe od ottave ribattute nel registro grave. La dinamica è contenuta e l’armonia procede lentamente, basandosi su accordi modale che si susseguono senza una chiara risoluzione tonale tradizionale, enfatizzando il colore.
Seguono sezioni più movimentate e instabili che conducono a una coda dissolvente e a poche note isolate e distanziate. Questo finale così quieto e risonante rispecchia la profondità e l’esaurimento emotivo spesso associati a questo segno zodiacale.
L’ultimo brano si sviluppa infine attraverso una chiara giustapposizione di due sezioni contrastanti: la prima è virtuosistica e veloce, mentre la seconda è lenta e meditativa, seguita da una rapida ed energica ripresa. Questa struttura rappresenta il Sagittario che ritorna alla sua caccia dopo una sua visione.
Questo pezzo unisce il virtuosismo neoromantico con un linguaggio armonico del tutto originale, impiegando il pianoforte in modo sia percussivo (nelle sezioni veloci) che timbrico (nelle pause risonanti della sezione lenta). Il risultato è una composizione breve, ricca di contrasti emotivi e dinamici, che incarna con successo sia l’impulso fisico e viaggiatore del Sagittario (l’Arciere) sia la sua inclinazione mistica e intellettuale (il Profeta).
Nel complesso, l’opera è un eccellente esempio dell’approccio sincretico di Sisask, che fonde rigorosa struttura musicale (spesso matematica) con temi cosmici ed esistenziali. Attraverso l’uso sapiente della scala pentatonica (in particolare la Kumayoshi), egli conferisce all’intero ciclo una coerenza armonica, pur esplorando una vasta gamma di caratteri espressivi e tecnici. Ogni movimento funge da ritratto sonoro del segno zodiacale, utilizzando tessiture, ritmi e dinamiche specifiche per incarnare l’affermazione esistenziale e l’archetipo associato. Sodiaak si presenta come un tentativo di trascrivere le leggi cosmiche in un linguaggio accessibile e profondamente emotivo, consolidando la reputazione di Sisask non solo come compositore, ma come “trascrittore di musica” proveniente dalle armonie del cielo.

Nascita dell’impromptu

Jan Václav Voříšek (1791 - 19 novembre 1825): 6 Impromptus per pianoforte op. 7 (c1816-22). Tamae Kawai.

  1. Allegro
  2. Allegro moderato [5:18]
  3. Allegretto [11:30]
  4. Allegretto [17:40]
  5. Allegretto [24:36]
  6. Allegretto [33:55]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Jan Voříšek: Il “Beethoven boemo” e l’eredità incompiuta del Romanticismo

Origini e formazione del genio boemo
Jan Václav Hugo Voříšek è stato un compositore, pianista, organista e direttore d’orchestra ceco, noto anche con il soprannome onorifico di “Beethoven boemo”. Nacque a Vamberk, in Boemia, figlio del direttore della scuola locale, nonché maestro del coro e organista. Il padre stesso fu il suo primo insegnante di musica, incoraggiandolo nello studio del pianoforte e assicurandogli una borsa di studio che gli permise di proseguire gli studi presso l’Università Carlo Ferdinando di Praga. Sebbene ammirasse la produzione mozartiana, egli si sentì maggiormente attratto e ispirato dalle correnti del Romanticismo incarnate da Ludwig van Beethoven.

L’ascesa professionale a Vienna
Nel 1813, Voříšek si trasferì a Vienna, formalmente per studiare giurisprudenza, ma con l’obiettivo primario di incontrare il suo idolo. Il desiderio si realizzò nel 1814, quando il giovane compositore ebbe un incontro con il maestro. Nella capitale asburgica, strinse amicizie e collaborazioni con figure centrali del panorama musicale dell’epoca, tra cui Louis Spohr, Ignaz Moscheles, Johann Nepomuk Hummel e in particolare Franz Schubert, con il quale sviluppò una profonda amicizia.
Voříšek completò gli studi di diritto nel 1822, ottenendo successivamente un incarico come praticante presso il consiglio militare di corte. Parallelamente, la sua carriera musicale fiorì rapidamente: nel 1818, divenne direttore della prestigiosa Società degli amici della musica, mentre nel 1822 ottenne la posizione di secondo organista presso la corte imperiale. L’anno seguente fu infine promosso a primo organista. Tra l’altro, divenne un apprezzato insegnante di pianoforte, annoverando tra i suoi allievi personalità di spicco dell’alta società, incluso Napoleone II, figlio di Napoleone Bonaparte e Maria Luisa.

La morte prematura e la sepoltura storica
Nonostante la promettente carriera e il successo ottenuto come compositore di musica orchestrale, vocale e pianistica, Voříšek si ammalò di tubercolosi. Un soggiorno curativo a Graz (Štýrský Hradec) nel 1824 non sortì purtroppo gli effetti sperati e il compositore morì a Vienna l’anno successivo, all’età di soli 34 anni. Fu sepolto nel cimitero di Währing, luogo che accolse anche le spoglie di Beethoven e di Schubert.

Il repertorio e l’innovazione dell’Impromptu
Voříšek è ricordato per la sua produzione, sebbene limitata dalla sua breve vita, di alta qualità e precocemente romantica. Compose un’unica sinfonia, in re maggiore (1821), caratterizzata da una ricca inventiva melodica e considerata un capolavoro del primo Romanticismo, venendo talvolta paragonata alle prime due sinfonie di Beethoven. Durante il suo incarico di organista di corte, compose invece la Messa solenne in si bemolle maggiore op. 24, un’opera celebrativa di pregevole fattura.

L’innovazione dell’Impromptu
Uno dei maggiori contributi di Voříšek alla storia della musica risiede nella sua opera per pianoforte: il primo uso documentato del termine musicale impromptu (un pezzo caratteristico a forma libera che suggerisce l’improvvisazione) risale al 1817 ed è collegato a una sua composizione. Fu la rivista Allgemeine musikalische Zeitung a utilizzare per la prima volta questo termine per designare un suo brano per pianoforte. Fu grazie al compositore che il genere in questione poté vedere la luce ed essere sviluppato e reso famoso da compositori come Schubert e Chopin.

Eredità postuma
Nonostante la sua breve vita, lo stile di Voříšek, con la sua tipica cantabilità pastorale boema, lasciò un segno profondo, influenzando direttamente i futuri giganti della musica nazionale ceca, in particolare Bedřich Smetana e Antonín Dvořák.

I Sei Impromptus op. 7
Contributo fondamentale al repertorio pianistico, queste brevi composizioni, scritte tra il 1816 e il 1822, non solo stabiliscono il genere dell’impromptu come pezzo caratteristico autonomo, ma rivelano anche un’originalità e una liricità che influenzeranno direttamente Schubert. L’intera raccolta è caratterizzata da una spiccata natura lirica, una ricchezza melodica di stampo boemo e una freschezza compositiva tipica dell’emergente sensibilità romantica.
Il primo brano, Allegro, in do maggiore, si presenta con una forma che ricorda il rondò o il tema con variazioni, ma con un carattere più libero e improvvisativo. Si apre con un tema principale energico e brillante, caratterizzato da accordi pieni e un ritmo vivace, tipico di una scrittura virtuosistica post-beethoveniana. L’uso di ampi arpeggi e figure scalari veloci stabilisce immediatamente un tono gioioso e tecnicamente impegnativo. Segue una prima sezione più lirica, in cui la melodia si addolcisce, pur mantenendo un accompagnamento ritmico serrato: questa parte, con i suoi salti di ottava e passaggi rapidi, mette in mostra l’agilità del pianista. Il ritorno del tema principale è subito seguito da un episodio contrastante, la cui tessitura più densa e le armonie più ricche richiamano esplicitamente il clima del primo Romanticismo viennese. Voříšek bilancia abilmente la chiarezza classica della forma con l’espressività romantica dell’armonia. La transizione verso la chiusura è rapida, riaffermando il carattere brillante e conclusivo del movimento.
Il secondo Impromptu, Allegro moderato, in sol maggiore, è lirico e sereno, e dimostra pienamente la predilezione di Voříšek per le melodie cantabili e le armonie raffinate. L’atmosfera è pastorale e sognante, evocata da una melodia dolce che si muove su ampi arpeggi e figure che creano un accompagnamento fluente. La scrittura è trasparente, quasi cameristica, e le dinamiche sono contenute. Si nota un uso frequente di fioriture e abbellimenti che aggiungono grazia alla linea melodica, mentre la progressione armonica è ricca, modulando verso tonalità correlate con facilità, mantenendo sempre la chiarezza strutturale. Una sezione centrale più energica introduce un contrasto drammatico attraverso un ritmo puntato e un registro più grave, sebbene la tensione non sia mai violenta. Questo momento di introspezione oscura offre un respiro prima del ritorno, purificato e intensificato, del tema iniziale. Il brano si conclude con una riaffermazione tranquilla del tema nella tonalità principale, svanendo progressivamente.
Il terzo Impromptu, Allegretto, in re maggiore, è di natura più drammatica e malinconica, sfruttando la malinconia intrinseca della tonalità. Voříšek esplora una tessitura più complessa, con figurazioni ritmiche ostinate che creano un senso di urgenza sottostante. La melodia, sebbene espressiva, è frammentata e più ritmica rispetto al pezzo precedente. Il ritorno del tema principale è trattato con maggiore intensità, mentre la coda finale è scura e rapida, concludendo il pezzo con energia e un senso di irrisolto.
Segue un Allegretto, in la maggiore, che ripristina l’atmosfera di brillantezza e leggerezza. Questo pezzo è marcatamente virtuosistico ed è caratterizzato da arpeggi rapidissimi che si estendono su tutta la tastiera, creando un effetto scintillante. L’abilità tecnica richiesta è notevole, con passaggi veloci e legati assai impegnativi. La struttura è basata sulla ripetizione e variazione di questo materiale brillante, mentre una sezione secondaria introduce un ritmo più incalzante e accordi leggermente più marcati, mantenendo il registro alto e luminoso. Il tema principale riappare, ma con fioriture virtuosistiche aggiunte, quasi a voler celebrare la libertà espressiva del pianista, mantenendo un’atmosfera decisamente positiva e serena. Il finale è un culminare di arpeggi che chiudono il pezzo con decisione.
Il quinto Impromptu, Allegretto, in mi maggiore, è forse il più profondamente lirico e schubertiano del gruppo. Il pezzo si distingue per la sua semplicità melodica e il calore armonico, focalizzandosi sull’espressione pura del sentimento. Il tema iniziale è un ampio canto affidato alla mano destra, sostenuto da un accompagnamento in arpeggi fluidi e legati che evocano tranquillità. La dinamica è spesso in piano, suggerendo un carattere intimo e contemplativo. Voříšek usa modulazioni armoniche sottili ma efficaci, che arricchiscono il flusso emotivo senza rompere l’equilibrio. Il contrasto centrale introduce un elemento di maggiore fervore, ma la velocità rimane moderata, mantenendo la musica concentrata sulla qualità espressiva piuttosto che sulla velocità. Il ritorno del tema è accompagnato da variazioni nella tessitura che ne intensificano la ricchezza emotiva. La conclusione è una dissolvenza progressiva, tipica del romanticismo nascente, lasciando un’impressione di quiete malinconica.
L’Impromptu finale, Allegretto, in si maggiore, è complesso e drammatico, fungendo da conclusione potente e meditativa per l’intera opera. Nonostante l’indicazione di tempo moderata, questo pezzo ha un peso emotivo significativo e inizia con un tema cupo e quasi marziale in do minore che mescola accordi potenti a passaggi veloci. La forma è elaborata, alternando sezioni drammatiche e lamentose con momenti di maggiore introspezione, mentre la mano sinistra gioca un ruolo cruciale nel definire il moto perpetuo e la tensione emotiva, spesso con ampi salti.
La modulazione alla sezione di contrasto porta un breve ma luminoso sollievo, con un tema che appare quasi come una preghiera. Tuttavia, il do minore torna presto con figure concitate. Un elemento distintivo del brano è il finale esteso e maestoso che costruisce la tensione armonica e dinamica in modo graduale. Invece di una conclusione puramente brillante, Voříšek offre un epilogo che combina la potenza del Classicismo (nell’uso delle scale complete e degli accordi) con la profondità emotiva del Romanticismo. L’Impromptu si conclude con un’ultima e decisa cadenza nella tonalità di impianto, lasciando un senso di drammaticità risolta.

I Sei Impromptus op. 7 di Voříšek rappresentano una tappa cruciale nella transizione stilistica tra Classicismo e Romanticismo. Il compositore mostra una padronanza della forma, ereditata da Mozart e Beethoven, ma la infonde con una vena melodico-armonica profondamente personale e lirica, che lo pone tra i precursori del linguaggio che Franz Schubert avrebbe poi esplorato ampiamente.
L’opera bilancia momenti di virtuosismo brillante con sezioni di profonda e malinconica interiorità, culminando nella gravità drammatica dell’ultimo pezzo. La sua influenza sul panorama musicale viennese dell’epoca, benché breve a causa della morte prematura, fu indiscutibile, consolidandone la fama di “Beethoven boemo”.

Four Piano Blues

Aaron Copland (14 novembre 1900 - 1990): Four Piano Blues (1926-48). Alan Marks, pianoforte.

  1. For Leo Smit
  2. For Andor Foldes
  3. For William Kapell
  4. For John Kirkpatrick


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Four Piano Blues: il mosaico ritmico di Aaron Copland

Four Piano Blues è una raccolta di quattro brevi brani per pianoforte composti dall’americano Aaron Copland. Sebbene l’opera sia stata pubblicata integralmente solo nel 1949, il materiale che la compone copre un ampio arco temporale nella carriera del compositore, essendo stato scritto in momenti diversi tra il 1926 e il 1948. L’opera rappresenta un assemblaggio eterogeneo di schizzi e melodie rielaborate, legati dal linguaggio e dall’atmosfera del blues.
La collezione è notevole per essere la fusione di due pezzi risalenti agli anni ’20 e due successivi scritti negli anni ’40, tutti originariamente concepiti per altri progetti o rimasti inediti.
I primi due brani risalgono al 1926 e furono inizialmente concepiti come movimenti separati di una suite per pianoforte mai completata, intitolata Five Sentimental Melodies, un lavoro che a sua volta prendeva spunto da melodie estratte dal Concerto per pianoforte di Copland.
Uno degli schizzi era originariamente destinato a far parte di un set di due blues, ma Copland ne pubblicò solo il primo, lasciando il secondo inedito. L’altro brano fu invece intitolato inizialmente Hommage à Milhaud e Copland lo revisionò nel 1934, utilizzandolo poi come base per la «Dove Dance» nel balletto Hear Ye! Hear Ye!
I rimanenti due brani furono infine composti tra il 1947 e il 1948, e questi nuovi schizzi melodici ebbero un ruolo fondamentale nel successivo Clarinet Concerto di Copland, anch’esso completato nel 1948.
Solo dopo aver terminato il Concerto per clarinetto, il compositore decise di rivedere i quattro schizzi per pianoforte, precedentemente rimasti separati e inediti, per unirli sotto il titolo Four Piano Blues. Il set completo fu pubblicato da Boosey & Hawkes nel 1949.

L’ordine dei movimenti nella pubblicazione finale non segue l’ordine cronologico della composizione, ma fu stabilito come segue: il brano del 1947, l’Hommage à Milhaud (1926-34), il brano del 1948 e il Blues No. 2 (il brano del 1926 rimasto inedito).
Nonostante ogni blues possegga un titolo (derivato dall’indicazione di tempo) e un sottotitolo (derivato dalla dedica), la raccolta non ha mai avuto una “prima” ufficiale, poiché è probabile che i singoli brani fossero eseguiti separatamente come intermezzi o bis.

Il primo brano è dedicato a Leo Smit, pianista e fotografo noto per essere stato un fervente sostenitore e interprete della musica di Copland. Esso si caratterizza per un’atmosfera che cerca l’equilibrio tra la libertà espressiva e un rigore strutturale sottostante. L’indicazione di tempo è Freely poetic, suggerendo un approccio lirico e flessibile, mentre la tonalità principale è re maggiore.
La sezione iniziale è dominata da una melodia nostalgica nella mano destra, spesso in terze o seste, con un accompagnamento arpeggiato e rarefatto nella mano sinistra. Indicazioni agogiche come hold back (rallentare) e move forward (accelerare) sottolineano l’intento poetico e non meccanico dell’esecuzione. Subito dopo, si introduce un elemento ritmico più vivace e sincopato, con una progressione cromatica ascendente, marcata mf e poco crescendo. Questa sezione, pur mantenendo l’armonia basata su accordi di settima tipici del blues, aggiunge tensione drammatica.
La musica poi torna a un’espressione più calda (warmly) e rilassata, pur conservando frammenti del precedente materiale ritmico. L’indicazione Tempo I (come sopra) riporta l’esecutore all’andamento iniziale, ma l’armonia si fa più densa e ricca di cluster. Il culmine dinamico e ritmico arriva con un fortissimo (ff con enfasi). L’uso aggressivo degli accordi sincopati in entrambe le mani crea una dichiarazione enfatica prima di una rapida dissoluzione, lasciando l’armonia sospesa e aperta al brano successivo.
Il secondo blues è invece dedicato ad Andor Foldes, pianista particolarmente vicino al repertorio di Béla Bartók. Esso è un netto contrasto con il precedente, privilegiando un carattere intimo e malinconico.
L’indicazione Soft and languid (molle e languido) definisce immediatamente l’atmosfera. Il pezzo è prevalentemente tranquillo (mp legatissimo) e utilizza un tempo di 12/8 che crea una sensazione di dondolio lento e cullante, tipico di certe ballate blues. L’armonia è ricca di accordi estesi di nona e undicesima, contribuendo alla sensazione di “morbidezza”. La melodia è spesso nascosta o intrecciata nell’accompagnamento.
Il movimento introduce rapidi contrasti di dinamica e tessitura: l’indicazione rit. (rallentando) prepara una sezione in cui il ritmo del blues si distorce leggermente, con un passaggio breve e quasi aggressivo (mf). La musica poi accelera leggermente (a trifle faster) e la tessitura diventa quasi cameristica, con un gioco di botta e risposta tra le voci superiori e quelle inferiori, creando un effetto di call and response. Questa sezione è marcata pp e pp drammaticamente.
Il brano ritorna gradualmente al Tempo I, riprendendo il suo andamento languido iniziale, ma con una maggiore enfasi sulla melodia al basso. Il pezzo si conclude con una ripresa sognante (pp dreamily) che svanisce lasciando un senso di quiete sospesa.
Il terzo brano è dedicato a William Kapell, pianista di grande talento tragicamente scomparso in un incidente aereo pochi anni dopo la pubblicazione della raccolta. Si tratta del pezzo più espressivamente intenso e passionale della raccolta, con indicazioni di performance che sottolineano un carattere “smorzato e sensuale”.
Pervaso da un senso di moderato vigore e tensione armonica, l’indicazione mf sensuous suggerisce un tocco profondo, ma controllato. La struttura ritmica è più diretta e meno sincopata rispetto agli altri blues, ma l’armonia è complessa, ricca di dissonanze e progressioni cromatiche che generano un senso di attrazione e rilascio. Il brano sperimenta subito un crescendo drammatico, raggiungendo un culmine di intensità armonica e dinamica (ff). L’uso del pedale e degli ampi arpeggi nelle sezioni successive crea un’ondata sonora avvolgente.
Il contrasto ritorna con una sezione centrale marcata poco crescenso e un’esplosione dinamica, prima di calmarsi in una ripresa del materiale iniziale ma con un’indicazione As at first. Il brano si conclude con un’ultima ripresa del tema iniziale, molto smorzata e riflessiva, con dinamiche ridotte.
L’ultimo brano è dedicato a John Kirkpatrick, grande pianista e accademico americano, e conclude la raccolta con un’energia propulsiva e ottimistica. L’indicazione With bounce (Con slancio) imposta un ritmo di danza vigoroso e sincopato, con un tempo veloce (♩= 120). La tessitura è spessa e martellante, con un forte senso ritmico e un metro chiaro, mentre la melodia, pur mantenendo gli intervalli e gli accenti tipici del blues, è giocosa e incisiva, e le mani lavorano spesso in un registro medio-basso, conferendo robustezza all’insieme.
La sezione centrale mantiene l’energia, con progressioni armoniche rapide e un’indicazione di accelerazione (a trifle faster). Il pezzo presenta passaggi che richiedono precisione ritmica e un tocco deciso.
Dopo una sezione che rallenta drasticamente (molto ritardando, much slower), il brano si riafferma nel suo tempo iniziale (A tempo) con una dinamica mf legatissimo. L’energia ritmica riprende, costruendo verso la conclusione con l’ultima ripetizione sincopata che termina con un accordo secco e finale, lasciando l’ascoltatore con un senso di conclusione energica e definitiva.

Nel complesso, l’opera è un eccellente riassunto dell’approccio di Copland alla musica americana: il ciclo non solo esplora diverse sfumature emotive del blues (lirico, languido, sensuale, vivace), ma dimostra anche la capacità del compositore di integrare elementi jazz e popolari in una cornice modernista, utilizzando armonie complesse e dinamiche contrastanti per esprimere una gamma emotiva completa. I singoli brani sono formalmente brevi e concisi, ma ogni movimento contribuisce a un quadro generale di raffinatezza e profonda espressione americana.

La Galante

Johann Nepomuk Hummel (1778 - 17 ottobre 1837): La Galante, rondò brillante in mi bemolle maggiore per pianoforte op. 120 (1831). Martin Galling.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Johann Nepomuk Hummel: il ponte musicale dimenticato tra Classicismo e Romanticismo

Johann Nepomuk Hummel fu un eminente compositore, direttore d’orchestra e pianista austriaco, figura di spicco nel panorama musicale tra l’epoca classica e l’emergente romanticismo. La sua vita, ricca di incontri illustri e innovazioni, lo ha reso un ponte cruciale tra le due epoche. La sua musica giacque nell’oblio per gran parte del XX secolo, per poi essere riscoperta solo di recente.

Infanzia e formazione da Wunderkind
Nato a Bratislava (allora Presburgo, nell’impero asburgico), era figlio di Josef Hummel, direttore della Scuola imperiale di musica militare a Vienna e dell’orchestra del Teatro Schikaneder. Il suo talento precoce fu evidente: a soli 8 anni, impressionò Wolfgang Amadeus Mozart, il quale decise di curare personalmente la sua istruzione musicale. All’età di 9 anni Hummel debuttò in pubblico interpretando uno dei concerti di Mozart; più tardi intraprese una tournée europea con il padre, soggiornando per quattro anni a Londra, dove studiò con Muzio Clementi. In questo periodo, nel 1791, Joseph Haydn compose una Sonata appositamente per lui, che l’eseguì alla presenza del maestro, ricevendo una ghinea come ringraziamento.

Il ritorno a Vienna e le grandi amicizie
Mentre Hummel era ancora in tournée, lo scoppio della Rivoluzione francese lo costrinse a rientrare a Vienna, dove riprese gli studi con Johann Georg Albrechtsberger, Joseph Haydn e Antonio Salieri. Nella capitale asburgica conobbe Beethoven, suo compagno di studi sotto Haydn e Albrechtsberger: la loro fu un’amicizia fondata sul rispetto reciproco, seppur con alti e bassi. Hummel visitò Beethoven sul letto di morte e, dopo la sua scomparsa, partecipò al concerto commemorativo improvvisando al pianoforte, come richiesto dal genio di Bonn. Fu in quest’occasione che strinse amicizia con Franz Schubert, che gli dedicò le sue ultime tre sonate per pianoforte; tuttavia, l’editore, dopo la morte di entrambi, modificò la dedica in favore di Robert Schumann.

Carriera professionale e l’età d’oro di Weimar
La carriera professionale di Hummel fu ricca di prestigiose nomine. Nel 1804 divenne Konzertmeister, poi nel 1809 succedette a Haydn come Kapellmeister presso il principe Nicola II Esterházy a Eisenstadt. Dopo sette anni fu licenziato per negligenza; intraprese allora una tournée in Russia e in Europa, e nel 1813 sposò la cantante d’opera Elisabeth Röckel, dalla quale ebbe due figli. Hummel fu poi Kapellmeister a Stoccarda dal 1816 al 1818 e, dal 1819 fino alla morte, a Weimar. Quest’ultimo incarico fu il più significativo: Hummel trasformò la città in una delle capitali musicali d’Europa, invitando i migliori musicisti dell’epoca; divenne inoltre amico di Goethe e Schiller. Fu un precursore nell’istituzione di programmi pensionistici per musicisti (organizzando concerti di beneficenza) e un convinto sostenitore dei diritti d’autore, battendosi contro la pirateria intellettuale.

Il didatta e l’influenza stilistica
L’influenza di Hummel si estese ben oltre le sue composizioni. Il suo trattato in tre volumi Ausführliche theoretisch-practische Anweisung zum Piano-Forte-Spiel (Istruzioni dettagliate teoriche e pratiche per suonare il pianoforte, 1828) vendette migliaia di copie e introdusse innovazioni nelle diteggiature e nell’esecuzione degli abbellimenti, influenzando profondamente la tecnica pianistica tardo ottocentesca. Ebbe allievi illustri come Carl Czerny, Friedrich Silcher, Ferdinand Hiller, Sigismond Thalberg, Felix Mendelssohn e Adolf von Henselt. Anche Franz Liszt avrebbe voluto studiare con lui, ma a causa di problemi finanziari si rivolse invece a Czerny. L’impronta di Hummel è altresì evidente nelle prime opere di Fryderyk Chopin e Robert Schumann. In particolare, le somiglianze tra i concerti per pianoforte di Hummel (il terzo in si minore e il secondo in la minore) e quelli di Chopin sono tali da far escludere la mera coincidenza, suggerendo che Chopin, avendolo ascoltato in tournée e avendone tenuto i concerti nel proprio repertorio, ne sia stato fortemente influenzato. Analogamente, si ipotizza un’influenza dei Preludi op. 67 di Hummel sui 24 Preludi op. 28 di Chopin. Anche Schumann studiò le opere di Hummel, in particolare la Sonata op. 81.

Lo stile musicale e la produzione artistica
La musica di Hummel, pur mantenendo un legame con il Classicismo, si apre alla modernità. Opere come la Sonata in fa diesis minore op. 81 e la Fantasia op. 18 mostrano una chiara rottura con le strutture armoniche classiche e un’espansione della forma-sonata, evidenziando un approccio innovativo e audace. La filosofia musicale di Hummel è riassunta nel motto «godere del mondo dando gioia al mondo», riflettendo un’estetica non iconoclasta.
Hummel fu uno dei più grandi virtuosi del suo tempo al pianoforte, strumento per il quale compose la maggior parte delle proprie opere: otto concerti, dieci sonate, otto trii, un quartetto, due quintetti e due settimini. La sua produzione include anche un ottetto per fiati, sonate per violoncello e viola, un concerto e una sonata per mandolino, e il celebre Concerto per tromba in mi bemolle maggiore, oltre a musica per pianoforte a quattro mani, 22 opere, Singspiele, messe e altro. È degna di nota l’assenza di sinfonie nel suo catalogo, forse a causa della sua predilezione per il pianoforte o dell’incapacità di seguire le innovazioni beethoveniane in quel genere. Le sue interessanti trascrizioni per pianoforte e orchestra di concerti e sinfonie di Mozart, come il Concerto n. 20 e la Sinfonia n. 40, hanno riscosso un recente successo, grazie a moderne incisioni discografiche.

Gli ultimi anni, l’oblio e la riscoperta
Negli ultimi anni della sua vita, Hummel assistette all’ascesa di una nuova scuola di compositori e virtuosi romantici. La sua musica, caratterizzata da una tecnica impeccabile e un equilibrato classicismo, cominciò a passare di moda, messa in ombra da figure come Liszt e Meyerbeer. Pur avendo ridotto la proria attività compositiva, rimase molto rispettato fino alla sua morte, avvenuta a Weimar nel 1837. Massone come Mozart, lasciò parte del suo famoso giardino alla sua loggia.
Nonostante fosse una celebrità al momento della morte e la sua fama postuma sembrasse garantita, la musica di Hummel fu rapidamente dimenticata, in quanto ritenuta ormai superata. Anche durante la riscoperta del Classicismo all’inizio del XX secolo, Hummel fu ignorato, oscurato da Mozart (a differenza di Haydn, rivalutato più tardi). Tuttavia, grazie alle registrazioni disponibili e ai numerosi concerti dal vivo che oggi si tengono in tutto il mondo, si assiste a una crescente riscoperta e rivalutazione della sua musica, che sta infine ottenendo il riconoscimento che merita come figura-chiave nella storia della musica europea.

Il Rondò brillante in mi bemolle maggiore La Galante
Esempio paradigmatico dello stile maturo di Hummel, questo brano fonde l’eleganza formale del Classicismo con l’emergente predilezione romantica per il virtuosismo e l’espressività pianistica.

Si apre con un’introduzione pacata ma evocativa, caratterizzata da accordi arpeggiati che creano un’atmosfera sospesa, quasi un preludio alla vivacità che seguirà. È un momento di transizione che prepara l’ascoltatore all’entrata del tema.
Il tema principale, in mi bemolle maggiore, si caratterizza per la sua melodia aggraziata e la sua tessitura brillante. La mano destra è protagonista con fioriture e rapide scale ascendenti e discendenti, mentre la mano sinistra fornisce un accompagnamento ritmico e armonico costante, spesso arpeggiato, che sostiene la leggerezza del brano. Il carattere è allegro e “galante”, fedele al titolo, con un senso di eleganza salottiera tipica dell’epoca. Le dinamiche sono inizialmente moderate, suggerendo una conversazione musicale raffinata. Questa prima enunciazione è seguita da una ripetizione con lievi variazioni ornamentali, che ne rafforzano la memorabilità e il fascino, mantenendo la stessa vivacità e grazia.
Successivamente, il tema subisce una leggera elaborazione, con l’introduzione di figurazioni più complesse nella mano destra e un’armonia più ricca, sebbene ancora saldamente ancorata alla tonalità d’impianto. Questo sviluppo porta a una breve fase di transizione, che tocca fugacemente tonalità minori, aggiungendo un accenno di colore malinconico prima di preparare il terreno per l’episodio successivo.
Il primo episodio offre un contrasto melodico e tematico rispetto alla brillantezza del tema principale, con la melodia che diventa più cantabile e lirica, con frasi più distese e meno virtuosistiche, pur mantenendo un’eleganza intrinseca. La tonalità si sposta probabilmente verso la dominante (Si bemolle maggiore), creando un senso di apertura e serenità. La tessitura è leggermente più piena, con la mano sinistra che assume un ruolo più attivo, a volte presentando un contrappunto discreto o un accompagnamento più elaborato che dialoga con la mano destra. Questo episodio, sebbene meno “brillante” in termini di velocità, mostra la capacità di Hummel di creare momenti di squisita bellezza melodica. La ripetizione e lo sviluppo di questa sezione consolidano il suo carattere affabile e cantabile.
La musica quindi si anima nuovamente in una transizione energica, con passaggi scalari e arpeggi rapidi che ristabiliscono la tensione e l’anticipazione, culminando in un ritorno trionfale del tema principale. Questo è un momento chiave, in cui la melodia originale riappare con una vitalità rinnovata e un’ornamentazione ancora più ricca, quasi a riaffermare la sua centralità con maggiore enfasi.
Segue poi il secondo episodio, che rappresenta l’apice del “brillante” nel rondò. Questa sezione è spesso caratterizzata da un maggiore dinamismo, un’esplorazione armonica più audace e modulazioni che possono toccare tonalità più lontane, come la relativa minore (Do minore) o altre aree, per creare una maggiore tensione drammatica e un senso di avventura musicale. La tessitura si fa notevolmente più complessa: il pianista è chiamato a eseguire rapide successioni di scale, arpeggi estesi che coprono l’intera tastiera e passaggi a volte quasi improvvisati, che richiedono un’abilità tecnica eccezionale. È qui che il rondo dispiega appieno il suo carattere virtuosistico, con momenti di grande impatto sonoro e brillantezza esecutiva.
Dopo l’intenso sviluppo di quest’episodio, una transizione estesa e ben costruita prepara l’ascoltatore per l’ennesimo ritorno del tema principale, questa volta presentato con un’ulteriore amplificazione del virtuosismo, rendendolo ancora più sfarzoso e festoso.
A questo punto, Hummel introduce un’ulteriore sezione che funge da terzo episodio o sviluppo esteso. Questa sezione ha un carattere più esplorativo e quasi improvvisatorio, con intricate figurazioni che si snodano sulla tastiera, dimostrando la flessibilità della forma rondò nelle mani di Hummel. Il gioco dinamico e ritmico è sapientemente gestito per mantenere la narrazione musicale fluida e coinvolgente, con un crescendo di complessità tecnica e armonica.
Il culmine di questa fase culmina in una ripresa finale del tema principale, eseguita con la massima brillantezza e intensità, quasi a voler celebrare la melodia principale in tutta la sua gloria. Seguono poi passaggi di transizione che preparano per la coda finale del brano. Questa sezione conclusiva è caratterizzata da figurazioni virtuosistiche che consolidano la tonalità di impianto e da una serie di accordi finali che chiudono la composizione con un gesto energico e risoluto, lasciando un’impressione duratura di eleganza e bravura.

Nel complesso, il pezzo incarna pienamente la maestria del compositore nel genere, combinando melodie accattivanti, architettura formale chiara e un virtuosismo pianistico sfavillante. È un brano che, attraverso le sue sezioni contrastanti e la progressione della brillantezza, offre un viaggio musicale affascinante e una testimonianza del suo ruolo fondamentale nel passaggio tra il Classicismo e il primo Romanticismo.

vabenecosì
Carl Spitzweg (1808 - 1885):
Der Gutsherr (Der Hagestolz), c1847/49

Capriccioso

Camille Saint-Saëns (9 ottobre 1835 - 1921): Introduction et Rondo capriccioso in la minore per violino e orchestra op. 28 (1863). Itzhak Perlman, violino; New York Philharmonic orchestra, dir. Zubin Mehta.


Lo stesso brano nella trascrizione per due pianoforti di Claude Debussy. Jean-François Heisser e Georges Pludermacher.

Saint-SaënsCamille Saint-Saëns

DebussyClaude Debussy



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’Introduction et Rondo capriccioso in la minore per violino e orchestra è un’opera virtuosistica e profondamente espressiva che mette in risalto sia la bellezza melodica che la brillantezza tecnica del violino solista.
Originariamente, fu concepita come movimento finale di un’opera più ampia, ma poi divenne un pezzo autonomo, eseguito in “prima” assoluta a Parigi al Théâtre des Champs-Élysées il 4 aprile 1867. Primo esecutore e dedicatario del brano fu il violinista spagnolo Pablo de Sarasate, a quel tempo ancora agli inizi della sua carriera. Fu proprio a lui che il compositore si ispirò nella composizione del pezzo, inserendo al suo interno delle evidenti allusioni stilistiche spagnoleggianti.
Saint-Saëns aveva conosciuto il famoso compositore spagnolo già nel 1859, rimanendo subito stregato dal suo talento. In quell’anno, Sarasate gli aveva commissionato un concerto per violino, presentandolo al pubblico durante la prima dell’Introduction. Successivamente, il compositore francese dedicò al suo amico anche il Concerto n. 3 per violino e orchestra, il quale divenne uno dei più celebri pezzi del repertorio violinistico.

Il pezzo si articola in due sezioni principali: un’introduzione lenta e malinconica, seguita da un rondò vivace e capriccioso.
L’introduzione si apre con l’indicazione di tempo Andante malinconico e, fin dalle prime note, si percepisce un’atmosfera di profonda introspezione e tristezza.
Il violino solista entra quasi subito dopo il breve accordo d’orchestra, stabilendo la tonalità di impianto. La melodia è frammentata, con note lunghe e sospese, seguite da brevi, struggenti frasi discendenti. L’accompagnamento orchestrale, appena percettibile, è fornito dagli archi con accordi tenuti, creando un sottofondo etereo che non compete mai con la voce del solista.
La melodia si sviluppa con maggiore fluidità, introducendo passaggi con doppie corde che aggiungono densità e risonanza al suono del violino. L’orchestra rimane un tappeto sonoro, tessendo armonie che sostengono la linea melodica principale. Pur mantenendo il carattere malinconico e il tempo lento, iniziano ad apparire figure più complesse e arpeggiate: questi non sono ancora sfoggi di virtuosismo, ma piuttosto ornamentazioni espressive che arricchiscono il discorso musicale.
La musica raggiunge un punto culminante emotivo e la melodia si innalza a registri più acuti, con un aumento dinamico che passa dal piano al mezzoforte e oltre. I passaggi si fanno più densi e appassionati, caratterizzandosi per la presenza di rapide scale e arpeggi ascendenti e discendenti. L’orchestra risponde con maggiore partecipazione, fornendo un supporto armonico più robusto.
Dopo il climax, la musica si placa gradualmente. Il violino rallenta, scendendo a figure più sommesse e frammentate. Questo segmento funge da transizione, preparando l’ascoltatore per il contrasto netto che seguirà. La melodia si dissolve quasi in un sospiro, creando un’aspettativa risolutiva per l’ingresso del Rondò.
Quest’ultimo è caratterizzato dall’indicazione Allegro ma non troppo e segna un cambiamento radicale di atmosfera, con un’esplosione di energia e vivacità, spesso associata a ritmi spagnoleggianti.
Con un’entrata improvvisa e brillante, il violino attacca il tema principale, un motivo ritmico, incisivo e altamente virtuosistico in la minore. Il carattere “capriccioso” del titolo è immediatamente evidente e l’orchestra fornisce un accompagnamento staccato e ritmicamente propulsivo, supportando il violino senza mai offuscarlo. La dinamica è vivace, quasi ininterrottamente forte.
Segue un momento di leggero contrasto, sebbene l’energia generale rimanga alta. La melodia si fa più cantabile e si alternano scale rapide e frasi più ampie ed espressive, spesso con doppie corde e arpeggi veloci. La tonalità tende a spostarsi verso il maggiore, donando un carattere più brillante rispetto al tema principale.
Questo riappare, ancora più brillante e virtuosistico, seguito da un secondo episodio di marcato contrasto. Il tempo rallenta e la tonalità si sposta definitivamente verso il maggiore. La melodia è lirica e sentimentalmente romantica, quasi una serenata spagnola. L’orchestra crea un sottofondo caldo e armonioso.
Un breve passaggio ripristina l’energia e la tensione, con figure ascendenti e discendenti che conducono al ritorno del tema principale, il quale si ripresenta con rinnovato vigore, ulteriormente elaborato e più complesso. Segue il terzo episodio, una sezione di estremo virtuosismo che porta il solista al limite delle sue capacità. Si assiste a un moto perpetuo di scale rapidissime, arpeggi spezzati, salti di corda e picchettati volanti. Questa sezione è un vero tour de force per il violinista e l’orchestra accompagna con brevi e potenti staccati che sottolineano il ritmo frenetico.
Il tema principale del Rondò fa la sua ultima apparizione, più esaltante e trionfale che mai. Il ritmo accelera ulteriormente e la dinamica aumenta, portando la musica a una conclusione grandiosa. Seguono brevi e intense sezioni virtuosistiche, concludendo con una coda che rappresenta la celebrazione finale del virtuosismo e dell’energia. Il violino solista e l’orchestra si uniscono in una serie di passaggi brillanti, scale ascendenti e accordi potenti. Perlman conclude con una serie di note acute e fortissimo, terminando il pezzo con una sferzante e definitiva cadenza finale.

Nel complesso, la composizione non è solo un brano virtuosistico, ma anche un’opera di grande profondità emotiva e ricchezza melodica. La sua struttura contrastante, con un’apertura quasi meditativa che lascia il posto a una danza spagnola travolgente, lo rende un pezzo affascinante e un pilastro del repertorio violinistico.

Il rondeau del calumet

Jean-Philippe Rameau (25 settembre 1683 - 1764): Rondeau des sauvages (« Forêts paisibles »), dall’ultimo atto dell’opéra-ballet Les Indes galantes (1735). Patricia Petibon, soprano (Zima); Nicolas Rivenq, baritono (Adario); Les Arts Florissants, dir. William Christie.


Lo stesso brano eseguito alla bersagliera, in concerto, dai Musiciens du Louvre diretti da Marc Minkowski, con i cantanti Magali Léger e Laurent Naouri.

Zima, Adario :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Zima, Adario :

Dans nos retraites, dans nos retraites,
Grandeur, ne viens jamais
Offrir tes faux attraits!
Ciel, ciel, tu les as faites,
Pour l’innocence et pour la paix.

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Zima, Adario :

Jouissons dans nos asiles,
Jouissons des biens tranquilles!
Ah! peut-on être heureux,
Quand on forme d’autres vœux?

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.


Rameau: Les Sauvages, rondeau (dalla raccolta Nouvelles suites de pièces de clavecin, 1727). Grigorij Sokolov, pianoforte.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Il Rondeau des sauvages è uno dei numeri più celebri e iconici dell’«opéra-ballet» Les Indes galantes di Jean-Philippe Rameau, composto nel 1735. Inserito nell’atto IV, «Les Sauvages d’Amerique», ambientato nell’America del Nord, il brano incarna l’immaginario europeo dell’epoca riguardo ai “selvaggi” del Nuovo Mondo, combinando fascino esotico, ingenuità e una profonda connessione con la natura.
La musica si apre con un ritmo vigoroso e pulsante scandito dal tamburo: è una sonorità primaria, quasi tribale, che cattura immediatamente l’attenzione. Man mano che altri strumenti si uniscono si delinea una melodia vivace e sincopata in tonalità maggiore, che evoca un senso di festa e vitalità. Questo primo ritornello strumentale, con la sua melodia orecchiabile e il ritmo incalzante, stabilisce il carattere gioioso e selvaggio del pezzo. La musica, pur ripetendosi, introduce successivamente leggere variazioni orchestrali o dinamiche che mantengono l’interesse, culminando in un crescendo.
Successivamente, l’accompagnamento musicale si fa più sottile per lasciare spazio al canto. Le voci soliste, ricche e vibranti, portano in primo piano il messaggio di Rameau: la celebrazione della pace e dell’innocenza delle “foreste pacifiche”, dove i cuori non sono turbati da desideri vani e la felicità non dipende dalle ricchezze o dai favori della fortuna. Si unisce poi il coro dei selvaggi, amplificando il messaggio con un coro potente e armonioso.
Il tema del rondeau si ripresenta diverse volte, alternando i solisti con il coro, creando un’onda di suono e movimento che alterna momenti di intimità a esplosioni corali. La parte lirica, spesso accompagnata da movimenti più morbidi e ondeggianti, sottolinea ulteriormente il contrasto tra la purezza della vita dei sauvages e la corruzione del mondo civilizzato, un tropo tipico dell’Illuminismo. I solisti cantano con un’espressività crescente, mentre il coro li supporta, riempiendo la scena con la loro presenza vocale e coreografica.
Il brano si conclude con la ripresa da parte dell’intero ensemble del tema principale del rondeau, con un’energia crescente e un senso di trionfo gioioso.
Nel complesso, il pezzo è un esempio magistrale della capacità di Rameau di fondere musica e dramma. L’uso di ritmi vivaci e melodie accattivanti crea un’atmosfera di “esotismo” che era molto di moda all’epoca, mentre la giustapposizione delle sezioni strumentali danzate con quelle vocali cantate dai solisti e dal coro contribuisce a creare un opéra-ballet dinamico e visivamente ricco.

Composto come parte delle Nouvelles Suites de pièces de clavecin del 1727, Les Sauvages è un rondeau che cattura l’immaginazione con il suo carattere vivace, quasi esotico, ispirato ai “selvaggi” che Rameau vide esibirsi a Parigi. La forma del rondeau è chiaramente delineata, con un refrain ricorrente che incornicia episodi (couplets) contrastanti.
Il brano si apre con l’energico ritornello, stabilendo il carattere incisivo e “selvaggio” suggerito il titolo. La melodia è caratterizzata da figure arpeggiate ascendenti e discendenti rapide, spesso seguite da passaggi scalari virtuosistici e agili abbellimenti. Il compositore utilizza abbondantemente sincopi che conferiscono un impulso ritmico propulsivo e un senso di “sfida” o vivacità quasi selvaggia. La mano destra esegue la linea melodica principale con notevole chiarezza e leggerezza, mentre la mano sinistra fornisce un accompagnamento armonico e ritmico robusto, ma non invadente.
L’articolazione è prevalentemente staccata e nitida, specialmente nelle rapide semicrome, contribuendo alla brillantezza del suono. Ci sono anche brevi frasi legate che offrono un leggero contrasto, mentre la dinamica si mantiene su un mezzo forte generale, con lievi crescendo su passaggi ascendenti e diminuendo verso le cadenze, evidenziando la struttura fraseologica.
L’armonia è saldamente ancorata alla tonalità di impianto (sol minore), con progressioni diatoniche chiare e l’uso efficace di dominanti che rafforzano il centro tonale. La ripetizione della sezione ribadisce il tema principale con la stessa energia e precisione.
Dopo la ripetizione del refrain, il primo couplet introduce un marcato contrasto, sia timbrico che espressivo.
La tonalità si sposta verso la dominante (re maggiore) e la melodia si fa più lirica e meno angolare, con un andamento più scorrevole e legato. Sebbene mantenga la base ritmica generale, le sincopi aggressive del refrain sono attenuate, sostituite da un flusso più continuo di semicrome. La mano sinistra assume un ruolo più melodico e contrappuntistico in alcuni passaggi, creando un dialogo tra le due mani.
L’articolazione diventa più legata, con un suono più morbido e cantabile. La dinamica si sposta verso un mezzo piano che enfatizza il carattere più intimo e quasi meditativo di questa sezione, pur mantenendo un’eleganza intrinseca. Le progressioni armoniche sono fluide e contribuiscono alla sensazione di apertura e lirismo, portando dolcemente alla preparazione per il ritorno del refrain.
Viene ripreso il tema principale, ripristinando l’energia e il carattere “selvaggio” iniziale, per poi introdurre un nuovo contrasto con il secondo couplet, questa volta con una sfumatura più profonda e forse più drammatica.
La tonalità sembra modulare verso la sottodominante (do) o addirittura verso regioni minori prima di tornare alla tonalità principale. La melodia è ora più elaborata e a volte più “corposa”, con un maggior uso di accordi e passaggi che richiedono una maggiore pienezza di suono. Il ritmo rimane sostenuto, ma le figure sono spesso più complesse e intrecciate, quasi a creare un dialogo serrato tra le voci. Si notano passaggi che sembrano quasi delle scale discendenti o ascendenti in blocchi di accordi, dando un senso di grandezza.
L’articolazione è ancora precisa, ma con una tendenza a un legato più pronunciato in alcune frasi, permettendo al suono di sostenersi. Viene esplorata una gamma dinamica leggermente più ampia, con momenti di maggiore intensità (forte) che poi si risolvono in diminuendo prima del ritorno finale del refrain. Le progressioni armoniche si fanno più avventurose e creano una tensione che si risolve elegantemente nel ritorno del tema principale.
Il brano si conclude con l’ultima riaffermazione del refrain, seguito da una coda concisa, con una chiara cadenza nella tonalità principale, che termina su un accordo risonante, lasciando un senso di completezza e vivacità duratura.

Šostakovič 1975-2025 – IV

Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Sonata per viola e pianoforte op. 147 (1975). Rémi Pelletier, viola; Philip Chiu, pianoforte.

  1. Aria: Moderato
  2. Scherzo: Allegretto [9:23]
  3. In ricordo del grande Beethoven: Adagio [16:32]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Sonata per viola e pianoforte op. 147

Si tratta dell’ultima, commovente dichiarazione artistica di Šostakovič: completata poche settimane prima della morte e dedicata al violista Fëdor Družinin, questa composizione è un profondo viaggio introspettivo che riassume una vita di lotte, ricordi e, infine, di trascendenza.

Il primo movimento – che il compositore descrisse come una “novella” – si apre in modo enigmatico e quasi spettrale: la viola introduce il discorso con un arpeggio pizzicato, solitario e interrogativo, che vaga nell’aria come un pensiero sospeso. Questa scelta timbrica, che evoca l’inizio del Concerto per violino di Alban Berg, stabilisce immediatamente un’atmosfera di introspezione e fragilità. L’entrata del pianoforte non offre conforto, ma piuttosto una linea austera e quasi scheletrica, che si muove in un contrappunto scarno con la viola. La sezione centrale del movimento vede un aumento dell’agitazione e il dialogo si fa più denso e serrato, quasi a rappresentare il riaffiorare di ricordi più turbolenti. Tuttavia, la tensione non esplode mai completamente, ma si ripiega su sé stessa, ritornando alla desolazione iniziale. Il movimento si conclude come era iniziato, con il ritorno del tema pizzicato della viola, lasciando l’ascoltatore con un senso di quiete rassegnata, ma non di piena risoluzione.
Il secondo movimento cambia radicalmente atmosfera, catapultandoci in una danza grottesca e sardonica, tipica dello stile del compositore: basato su materiale proveniente dalla sua opera incompiuta I giocatori, questo Allegretto è uno scherzo macabro, pieno di energia frenetica e tagliente ironia. La viola è protagonista di una serie di tecniche percussive e aspre, come il colpo d’arco secco e i passaggi veloci e scattanti, che conferiscono al suono un carattere quasi scheletrico. Il pianoforte risponde con un accompagnamento ostinato e martellante, creando un ritmo incalzante che non lascia respiro. L’interazione tra i due strumenti è un gioco di inseguimenti e scontri, una parodia di una danza popolare che sembra costantemente sul punto di deragliare: non è una musica gioiosa, ma una risata amara, un commento sarcastico sulle follie della vita, eseguito con una lucidità quasi spietata.
Il finale, un Adagio, è il cuore emotivo e testamentario dell’opera: Šostakovič lo definì “luminoso e chiaro”, un omaggio a Beethoven che si trasforma in una profonda meditazione sulla vita, la morte e la memoria musicale. Il movimento si apre in un’atmosfera rarefatta, quasi ultraterrena, con il pianoforte che stabilisce un tappeto sonoro di accordi distanziati e risonanti, mentre la viola intona una melodia lunga, cantabile e infinitamente triste. Poi, emerge inconfondibile il celebre arpeggio della Sonata al chiaro di luna di Beethoven, non come una citazione diretta, ma come un ricordo lontano, un fantasma sonoro che aleggia sulla composizione: questo riferimento non è solo un omaggio, ma un ponte tra due epoche e due anime tormentate.
Da questo punto, il movimento si evolve in un incredibile flusso di coscienza musicale: Šostakovič intreccia frammenti tematici dei due movimenti precedenti con una serie di auto-citazioni dalle sue quindici sinfonie, creando un collage di memorie della sua intera vita creativa. L’ascoltatore non ha bisogno di riconoscere ogni singolo riferimento per percepire la portata di questo gesto, in quanto si parla di un compositore al termine della sua vita che guarda indietro, ripercorrendo il proprio cammino artistico con una lucidità struggente. Il movimento si spegne lentamente, con la viola che sale verso il registro acuto, fino a svanire in un pianissimo etereo. Le ultime note, sospese nel silenzio, non rappresentano una fine tragica, ma una sorta di ascensione, un passaggio verso un’altra dimensione: è la conclusione perfetta di un’opera che non è solo l’ultimo lavoro del compositore, ma il suo epitaffio musicale, un addio sereno e profondo al mondo e alla musica stessa.

Šostakovič 1975-2025 – I

Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Trio per violino, violoncello e pianoforte n. 1 in do minore op. 8 (1923). Zsolt-Tihamér Visontay, violino; Mats Lidström, violoncello; Vladimir Aškenazij, pianoforte.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Trio con pianoforte n. 1 in do minore op. 8

Scritta nel 1923 – quando l’autore, sedicenne, era un allievo del Conservatorio di Leningrado – e originariamente intitolata Poème, la composizione si rivela matura e premonitrice; dedicata al primo amore di Šostakovič, Tat’jana Glivenko, fu eseguita privatamente nel 1924, ma rimase inedita per quasi sessant’anni, venendo pubblicata solo negli anni ’80.
Il brano si apre in un’atmosfera di profonda malinconia e introspezione: è il violoncello a inaugurare il discorso musicale, da solo, con un tema ampio, lirico e lamentoso in do minore. Questa melodia, caratterizzata da ampi intervalli e da un andamento rapsodico, diventerà la cellula generatrice dell’intera opera. La dinamica è estremamente sommessa (pianissimo), creando un senso di intimità e vulnerabilità. Poco dopo, il violino entra imitando il tema del violoncello a un’ottava superiore, creando un canone che intensifica il carattere dialogico e dolente della musica. L’intreccio contrappuntistico tra i due archi è delicato e trasparente.
Il pianoforte fa infine il suo ingresso, non come protagonista, ma con accordi arpeggiati e rarefatti nel registro acuto, quasi a creare uno sfondo sonoro spettrale e vasto. Il suo ruolo è inizialmente atmosferico: da questo momento, i tre strumenti iniziano a sviluppare il materiale tematico, con un crescendo che porta a un climax, dove il pianoforte assume un ruolo più assertivo. La sezione si conclude con un ritorno alla calma iniziale, conducendo senza soluzione di continuità alla sezione successiva.
Qui il cambiamento è repentino e radicale: il pianoforte introduce un tema secco, ritmico e grottesco, caratterizzato da un andamento motorio e da accenti sardonici. Questo tema – secondo una lettera dello stesso Šostakovič alla Glivenko – fu recuperato da una sua precedente Sonata per pianoforte in si minore, andata parzialmente perduta. È un primo, chiaro esempio di quello stile “scherzoso” e tagliente che diventerà un marchio di fabbrica del compositore. Gli archi entrano in pizzicato, sottolineando il carattere percussivo e quasi demoniaco della sezione. Il dialogo tra gli strumenti diventa serrato e conflittuale, con brevi frammenti melodici scambiati rapidamente. La musica acquista una tensione crescente, raggiungendo un culmine di energia frenetica: qui, la scrittura diventa densa e virtuosistica per tutti e tre gli strumenti, con il violino che si lancia in passaggi acuti e stridenti. La sezione si dissolve con la stessa rapidità con cui era iniziata.
Nella terza sezione, la musica precipita in un abisso di disperazione, assumendo il carattere di una marcia funebre: il pianoforte scandisce accordi gravi, pesanti e solenni e, su questo tappeto sonoro, il violino e il violoncello intonano all’unisono un nuovo tema, un canto tragico e declamatorio. L’uso dell’unisono conferisce alla melodia una forza straordinaria, come se fosse la voce di un coro dolente. Questa sezione rappresenta il cuore emotivo del trio, culminando in un’espressione di dolore devastante prima di placarsi gradualmente.
Riemerge il tema lirico dell’inizio, ma completamente trasformato: non è più una melodia sommessa, ma un’affermazione potente e angosciata, suonata dal pianoforte in ottave fortissimo: questa non è una semplice ricapitolazione, ma una rivisitazione del passato alla luce delle esperienze tragiche e grottesche delle sezioni centrali. La nostalgia iniziale si è trasformata in un grido di dolore.
La conclusione del brano è tanto inaspettata quanto geniale: la musica scatta in un Allegro finale, una danza sfrenata e delirante che riprende l’energia motoria dello scherzo, portandola a un livello estremo. Questo vortice sonoro culmina in una serie di accordi potenti, dopo i quali la musica subisce un crollo improvviso.
Il tempo rallenta drasticamente e ritornano frammenti del tema iniziale, ora come un ricordo lontano e spettrale: è interessante notare che le ultime 22 battute della parte pianistica andarono perdute e furono ricostruite decenni dopo dall’allievo di Šostakovič, Boris Tiščenko, per consentirne la pubblicazione. Il pezzo si conclude in un pianissimo etereo, con il violino che tiene un armonico acuto e cristallino, mentre il pianoforte e il violoncello si spengono su un accordo finale in do minore, sigillato da un ultimo, secco pizzicato. Il finale non offre risoluzione, ma una sorta di rassegnazione esausta, chiudendo il cerchio emotivo del brano.

Preludio e Fuga in sol minore

Maria Giacchino Cusenza (1898 - 6 agosto 1979): Preludio e Fuga in sol minore per pianoforte [la Fuga ha inizio a 6:15]. Calogero Di Liberto.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Maria Giacchino Cusenza: l’anima musicale di Palermo

Maria Giacchino Cusenza è stata una figura poliedrica e fondamentale nel panorama musicale italiano del Novecento. Artista di eccelse qualità, ha lasciato un’impronta indelebile come pianista, compositrice, didatta e animatrice culturale, diventando un punto di riferimento per la vita artistica della sua città e non solo.

Un talento nato in famiglia
La sua vocazione musicale affonda le radici in un ambiente familiare di antiche e solide tradizioni musicali: il padre Gaetano era trombettista al prestigioso Teatro Massimo di Palermo e anche i suoi fratelli e sorelle intrapresero carriere di successo: Carmelo fu contrabbassista e direttore d’orchestra, fondò il Coro della Conca d’oro, portandolo a riscuotere grandi successi in tutta Europa; Oreste fu invece violinista e violista eclettico, svolgendo la propria attività in Europa e negli Stati Uniti, fino a stabilirsi a Milano nelle orchestre della Rai e della Scala. Ancora, Maria Antonietta fu pianista e violoncellista e, infine, Livia fu anch’ella pianista, ma pure rinomata didatta.

Formazione e carriera concertistica
Dopo essere diventata alunna interna del Conservatorio di Palermo, la giovane si diplomò brillantemente a soli 17 anni sotto la guida di Alice Ziffer Baragli; si perfezionò poi con Alfredo Casella e Alberto Fano. Dotata di un vastissimo repertorio, intraprese una brillante carriera concertistica in Italia e all’estero. Oltre all’attività solistica, si dedicò con passione alla musica da camera, collaborando in duo con la sorella Livia, in trio con G. Martorana e T. Porcelli, e fondando il Quintetto femminile palermitano: quest’ultimo – che includeva anche la sorella violoncellista Maria Antonietta – rappresenta il primo esempio in Italia di una formazione stabile interamente femminile e debuttò al Teatro Massimo di Palermo il 7 maggio 1933.

La composizione e i riconoscimenti
Parallelamente alla carriera pianistica, Maria Giacchino coltivò lo studio della composizione con Antonio Scontrino, Alberto Favara e Mario Pilati, ricevendo incoraggiamenti da illustri contemporanei come Cilea, Pizzetti e Guerrini. Il suo talento compositivo le valse numerosi e importanti riconoscimenti: il Preludio e Fuga per pianoforte fu premiato dall’Accademia d’Italia nel 1937, mentre il Canto notturno fu insignito del primo premio al Concorso «Ada Negri» nel 1942. Ancora, il Corale e Variazioni fu premiato dal Sindacato nazionale musicisti nel 1955 e, infine, la Sonata in un tempo fu segnalata al concorso Premio Barbera nel 1946. Tra le sue oltre quaranta composizioni, spiccano anche opere come Il viandante, Aria e Danza, Sei personaggi in cerca d’esecutore e Tre Canzoni per Mariolina.

L’eccellenza nella didattica
La compositrice fu anche una straordinaria insegnante: come docente di pianoforte principale al Conservatorio di Palermo, diede vita a una vera e propria scuola pianistica che formò generazioni di musicisti e musicologi, tra cui Eliodoro Sollima e la nipote Anna Maria Giacchino. Il suo metodo – che fondeva le tecniche dei grandi maestri come Cortot e Rosenthal – fu apprezzato persino dal celebre pianista e pedagogo sovietico Heinrich Neuhaus, con cui era in contatto.

Impegno culturale e sociale
La sua influenza si estese attivamente a tutta la vita culturale siciliana. Fu una figura promotrice e instancabile, ricoprendo ruoli chiave in diverse istituzioni: fondò la sezione di Palermo dell’UCAI (Unione cattolica artisti italiani) e fu una delle cinque fondatrici del Club Soroptimist di Palermo. Inoltre, collaborò con giornali d’arte come “Aretusa” e “Peregrina”. Nel 1922, invece, fu socio fondatore dell’Associazione palermitana concerti sinfonici e nel 1944 della Società dei concerti del Conservatorio, per promuovere l’attività concertistica in città.

Eredità e riconoscimenti postumi
L’impatto di Maria Giacchino sulla cultura palermitana e nazionale è stato ufficialmente riconosciuto anche dopo la sua morte: nel maggio del 2003, un’aula del Conservatorio «V. Bellini» di Palermo è stata intitolata a suo nome, mentre nel 2004 l’Amministrazione comunale di Palermo le ha dedicato una via, consacrando per sempre il suo ruolo di protagonista della storia musicale della città.

Preludio e Fuga in sol minore
Questa composizione rappresenta uno dei vertici della produzione di Maria Giacchino Cusenza. Si configura come un dittico di grande impatto, in cui la libertà rapsodica e la drammaticità post-romantica del Preludio trovano il loro perfetto contrappeso nell’architettura rigorosa e intellettuale della Fuga. Si tratta di un lavoro che dimostra non solo una profonda conoscenza della tradizione, ma anche una spiccata capacità di reinterpretarla con un linguaggio novecentesco denso e personale.
Il Preludio si apre con un carattere di toccata-fantasia, impetuoso e quasi improvvisativo. L’influenza della grande tradizione virtuosistica tardo-romantica è evidente: si avvertono echi del pianismo monumentale di Liszt e della densità armonica e tessiturale di Rachmaninov e Skrjabin. La scrittura è prevalentemente drammatica, caratterizzata da un’ampia gamma dinamica e da una costante tensione emotiva.
Il brano inizia ex abrupto con una cascata vorticosa di arpeggi discendenti nella mano destra, sostenuta da accordi potenti e minacciosi nella sinistra: questa apertura stabilisce immediatamente la tonalità di sol minore e un’atmosfera cupa e agitata. La scrittura è virtuosistica e richiede grande agilità e controllo. A questa sezione di arpeggi segue una fase più declamatoria, con accordi massicci e linee melodiche cromatiche che aumentano la tensione.
In netto contrasto con l’impeto iniziale, emerge una seconda idea tematica dal carattere lirico e cantabile: la melodia, nobile e malinconica, si dispiega su un accompagnamento arpeggiato, fitto ma trasparente. Qui Cusenza esplora armonie più complesse e cangianti, tipiche del linguaggio del primo Novecento, che arricchiscono la tonalità di base senza mai abbandonarla del tutto. Questa sezione dimostra la sua capacità di creare momenti di intensa espressività e introspezione.
La fase di sviluppo vede l’intensificarsi e l’intrecciarsi delle due idee principali: le figurazioni virtuosistiche dell’inizio ritornano con ancora più veemenza, mentre frammenti del tema lirico vengono rielaborati in un contesto sempre più teso. La scrittura si fa progressivamente più densa, sfruttando l’intera estensione della tastiera. La tensione culmina in una serie di accordi martellanti e passaggi in ottave che portano il brano al suo apice dinamico ed emotivo, un vero e proprio muro sonoro di straordinaria potenza.
Dopo il climax, una spettacolare cadenza virtuosistica, di chiara matrice lisztiana, occupa la scena. Scale cromatiche rapidissime, arpeggi spezzati e passaggi funambolici richiedono all’esecutore una tecnica trascendentale: la cadenza funge da ponte verso la coda, dove l’energia iniziale viene riaffermata con accordi tonanti nel registro grave del pianoforte, che chiudono il Preludio in modo perentorio e definitivo sulla tonica sol minore.
Se il Preludio era il regno della libertà espressiva, la Fuga è un capolavoro di rigore costruttivo e profondità intellettuale: si tratta di una fuga a quattro voci, complessa e dal carattere severo.
Il soggetto – esposto nella voce di contralto – è il cuore pulsante dell’intera costruzione ed è una linea melodica spigolosa, dal ritmo incisivo (caratterizzato da note puntate) e dal profilo marcatamente cromatico. La sua natura inquieta e quasi tormentata definisce il carattere austero di tutta la Fuga.
L’esposizione segue le regole tradizionali, presentando il soggetto in tutte e quattro le voci: questo, come anticipato, viene presentato nel registro medio (contralto) in sol minore, mentre la risposta (reale) entra nel soprano in re minore (dominante). Contemporaneamente, la prima voce introduce un controsoggetto fluido e sinuoso, basato su semicrome, che crea un perfetto contrasto ritmico con il soggetto. Il soggetto riappare poi nel basso, nuovamente in sol minore, conferendo peso e profondità alla trama polifonica e, infine, la risposta conclude l’esposizione nel tenore, in re minore. A questo punto, il tessuto contrappuntistico a quattro voci è completamente stabilito.
Terminata l’esposizione, inizia la sezione di sviluppo, in cui Cusenza dimostra maestria contrappuntistica: brevi episodi (divertimenti), basati su frammenti del soggetto e del controsoggetto, modulano verso tonalità vicine, alternandosi a nuove entrate del tema principale. La compositrice fa uso di tecniche complesse per aumentare la densità e la tensione: in diversi punti, le entrate del soggetto si sovrappongono, con una voce che inizia prima che la precedente abbia terminato e questo crea un effetto di accumulazione e di incalzante intensità drammatica. Il soggetto viene inoltre presentato con varianti armoniche e inserito in contesti sempre nuovi, mantenendo viva l’attenzione dell’ascoltatore.
La Fuga culmina in una coda monumentale. La scrittura si trasforma: la polifonia lineare lascia il posto a una potente affermazione accordale del soggetto. Il tema viene esposto con accordi pieni e ottave ribattute, assumendo una dimensione quasi orchestrale. La tensione raggiunge il suo massimo, per poi risolversi in una serie di accordi finali che ribadiscono con forza la tonalità d’impianto, chiudendo il dittico con una simmetria potente e una sensazione di ineluttabile conclusione.

In sintesi, il Preludio e Fuga di Maria Giacchino Cusenza è un’opera di grande spessore che fonde magistralmente il virtuosismo post-romantico con la sapienza costruttiva barocca, dimostrando una personalità compositiva matura, originale e di altissimo livello.

Adagio e cantabile (Scarlatti K 208)


Domenico Scarlatti (1685 - 23 luglio 1757): Sonata in la maggiore K 208. Jean Rondeau, clavicembalo, e András Schiff, pianoforte.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Domenico Scarlatti: ritratto di un genio inafferrabile

Origini e formazione a Napoli: all’ombra del padre
Giuseppe Domenico Scarlatti, soprannominato Mimmo, nacque a Napoli in un ambiente straordinariamente musicale: sesto figlio del celebre compositore Alessandro Scarlatti, maestro della cappella reale, egli crebbe circondato da parenti musicisti. La sua formazione fu curata principalmente dal padre e non da altri maestri illustri come talvolta ipotizzato. Il suo talento precoce fu subito riconosciuto: a soli quindici anni, nel 1701, fu nominato organista e compositore della cappella reale di Napoli.
In questo periodo giovanile, Scarlatti si cimentò nei tre generi che avrebbero caratterizzato la sua intera produzione: la musica sacra (un mottetto), la musica per tastiera (tre sonate per organo, K 287, 288, 328) e la musica vocale profana (cantate da camera). Il padre – consapevole del genio del giovane – cercò attivamente di promuoverne la carriera, portandolo con sé a Firenze e Roma. In una famosa lettera, definì il figlio «un’aquila cui son cresciute l’ali», che non poteva rimanere in un “nido” come Napoli, ma doveva spiccare il volo. Dopo aver composto la sua prima opera, L’Ottavia ristituita al trono, fu mandato a Venezia nel 1705 per ampliare le proprie esperienze.

Gli anni romani: tra mecenatismo e carriera ecclesiastica
Stabilitosi a Roma nel 1708, Scarlatti entrò a far parte della vibrante scena musicale della città: qui si colloca il leggendario aneddoto di una “sfida” virtuosistica al clavicembalo e all’organo con il coetaneo Georg Friedrich Händel, promossa dal cardinale Ottoboni. Inizialmente assistente del padre, il compositore si affermò rapidamente, ottenendo il prestigioso incarico di maestro di cappella per la regina in esilio Maria Casimira di Polonia. Per il suo teatrino privato compose un oratorio e sette opere, tra cui Tolomeo et Alessandro e Tetide in Sciro, caratterizzate da uno stile elegante e patetico.
Dopo la partenza della regina, nel 1714 trovò un nuovo protettore nel marchese de Fontes, ambasciatore portoghese, un legame che si rivelerà decisivo per il suo futuro. Parallelamente, intraprese una brillante carriera ecclesiastica, diventando maestro della Cappella Giulia in San Pietro. Di questa intensa produzione sacra, che secondo un inventario comprendeva decine di opere, rimangono oggi poche tracce, tra cui il celebre Stabat Mater a 10 voci. A Roma continuò anche a comporre per i teatri, come l’opera Ambleto e gli intermezzi satirici La Dirindina, la cui rappresentazione fu inizialmente censurata.

La svolta iberica: il periodo portoghese
Nel 1719, Scarlatti lasciò Roma per Lisbona, assumendo l’incarico di compositore della cappella patriarcale e maestro di musica della famiglia reale di Giovanni V di Portogallo. Il suo ruolo principale divenne quello di insegnante per i due talentuosi allievi reali, l’infante don António e, soprattutto, la principessa Maria Barbara di Braganza. Con quest’ultima, eccellente clavicembalista, stabilì un rapporto artistico e didattico destinato a durare tutta la vita.
Il soggiorno portoghese fu intervallato da viaggi in Italia e a Parigi e, durante una sosta a Roma nel 1728, sposò la sedicenne Maria Caterina Gentili. A Lisbona compose un gran numero di opere vocali di grandi dimensioni, come serenate e cantate per le celebrazioni di corte, ma la maggior parte di questa produzione è andata perduta, probabilmente a causa del devastante terremoto del 1755. Anche le fonti delle sue sonate di questo periodo sono scarse, sebbene la sua fama come compositore per tastiera fosse già consolidata.

La maturità in Spagna: maestro della regina e compositore di sonate
Nel 1729, Scarlatti seguì l’allieva Maria Barbara in Spagna, dopo il suo matrimonio con l’erede al trono spagnolo, il futuro Fernando VI. Il suo status cambiò: da musicista con un ruolo pubblico a Lisbona, divenne il maestro di musica privato della principessa. Questo spiega la sua minore visibilità pubblica rispetto al celebre castrato Farinelli, che dominava la scena operistica di corte.
Fu in Spagna che la sua produzione di sonate per clavicembalo fiorì in modo straordinario. L’ispirazione proveniva da un insieme di fattori unici: la simbiosi artistica con la sua regale allieva, il contatto con le vivaci tradizioni musicali iberiche e la disponibilità di una ricca collezione di strumenti a tastiera (cembali, clavicordi e i primi pianoforti). La pubblicazione a Londra nel 1738 degli Essercizi per gravicembalo (K 1-30) gli conferì una vasta notorietà europea, tanto da meritargli il titolo di cavaliere dell’Ordine di Santiago da parte del re del Portogallo. Nell’ultima fase della sua carriera, su richiesta della regina Maria Barbara, supervisionò la copiatura delle sue sonate in quindici volumi manoscritti, oggi conservati principalmente a Venezia e Parma, che rappresentano il nucleo del suo lascito.

Gli ultimi anni e la sfera privata
Rimasto vedovo nel 1739, Scarlatti si risposò nel 1741 con Anastasia Ximenes, da cui ebbe altri quattro figli, oltre ai cinque del primo matrimonio. Negli ultimi anni, forse a causa di un’invalidità, condusse una vita ritirata, esprimendo in una lettera il proprio disprezzo per i «moderni teatristi compositori» ignoranti del contrappunto. Nonostante ciò, riconobbe di aver infranto egli stesso le regole nelle proprie sonate, con l’unico scopo di piacere all’udito. Le sue ultime composizioni, una Messa in stile antico e un commovente Salve regina in stile napoletano, testimoniano la sua versatilità fino alla fine.
Morì a Madrid il 23 luglio 1757. Contrariamente alla leggenda che lo voleva rovinato dal gioco, l’inventario dei suoi beni rivela una condizione agiata, assicurata anche dalle pensioni concesse dai sovrani di Spagna e Portogallo alla sua famiglia.

Eredità e fortuna critica: la sopravvivenza di un genio
L’eredità di Domenico Scarlatti è rimasta viva soprattutto attraverso le sue 555 sonate per tastiera. La loro fama si diffuse rapidamente in Europa grazie a musicisti come Thomas Roseingrave in Inghilterra e a edizioni stampate a Parigi. Nel corso dell’Ottocento, il suo ricordo fu perpetuato da collezionisti come l’abate Santini e da musicisti come Liszt, Czerny e Brahms. La riscoperta moderna iniziò con l’edizione completa di Alessandro Longo (1906) e culminò con la fondamentale monografia di Ralph Kirkpatrick (1953), che stabilì la catalogazione (K) tuttora in uso. Il suo stile ha influenzato profondamente anche compositori del Novecento come Stravinskij, Falla e Bartók.

L’arte della sonata: “lo scherzo ingegnoso” al gravicembalo
Nella prefazione agli Essercizi, Scarlatti descrive la propria musica non come un’opera di «profondo intendimento», ma come uno «scherzo ingegnoso dell’arte». Questa formula racchiude l’essenza delle sue sonate, che si fondano su tre pilastri:
– padronanza tecnica dissimulata: una profonda conoscenza del contrappunto e dell’armonia, nascosta sotto un’apparenza di eleganza e spontaneità;
– invenzione estrosa: un caleidoscopio di idee musicali, caratterizzato da contrasti improvvisi, passaggi repentini tra maggiore e minore, ripetizioni ossessive, ritmi di danza, imitazioni di chitarra, dissonanze audaci e modulazioni vertiginose;
– sfruttamento virtuosistico dello strumento: un uso spavaldo e completo delle potenzialità del clavicembalo, con arpeggi, salti, incroci di mani acrobatici e note ribattute che mettono a dura prova l’esecutore.

Un artista inclassificabile: ritratto di un musicista unico
Domenico Scarlatti sfida ogni semplice etichetta: il suo “splendido isolamento” nelle corti iberiche lo rende un artista unico, sospeso tra il contegno stilizzato del Barocco e l’inquietudine indagatrice dell’Illuminismo. Conteso tra le sue radici italiane e la sua assimilata “ispanitudine”, la sua musica continua a generare dibattiti appassionati tra interpreti e musicologi su questioni come la scelta dello strumento (cembalo o pianoforte), l’influenza del folklore spagnolo e la sua intrinseca teatralità. Le sue sonate, in particolare, esercitano ancora oggi un fascino irresistibile, confermandolo come un miracolo senza paragoni nella musica del suo secolo.

La Sonata K 208: analisi
Non un saggio di virtuosismo pirotecnico, ma un brano di straordinaria intimità, lirismo e bellezza pastorale: in questa Sonata Scarlatti dimostra di non essere solo un compositore di fuochi d’artificio, ma anche un poeta del suono, capace di dipingere con poche, essenziali pennellate un paesaggio sonoro di struggente bellezza.
Come la stragrande maggioranza delle sonate scarlattiane, anche la K 208 è strutturata in una forma bipartita, con due sezioni ciascuna delle quali viene ripetuta. L’equilibrio e la simmetria armonica sono i pilastri su cui si regge l’intera composizione.
La sonata si apre con un tema principale di una semplicità disarmante: è un arpeggio ascendente in la maggiore, suonato con delicatezza, che evoca l’immagine di un liuto o di una chitarra barocca. La melodia è limpida e si muove con grazia, stabilendo immediatamente un’atmosfera serena e pastorale. La mano sinistra fornisce un sostegno armonico essenziale e discreto. Il materiale tematico viene ripreso e variato con l’introduzione di figure melodiche discendenti, simili a “sospiri”, che aggiungono un tocco di dolce malinconia. Armonicamente, Scarlatti inizia un graduale percorso di allontanamento dalla tonica per preparare la modulazione alla tonalità della dominante. La prima sezione si conclude nella tonalità di mi maggiore (la dominante). Questa conclusione è preparata con grande maestria e segna il punto di arrivo armonico della prima parte, creando un senso di sospensione che richiede la prosecuzione nella seconda parte. La ripetizione della sezione permette di apprezzare nuovamente la perfezione di questo piccolo arco narrativo.
La seconda sezione ha inizio nella tonalità di mi maggiore, riprendendo il materiale tematico della prima parte ma trasfigurandolo armonicamente. L’atmosfera è leggermente più inquieta, come un’ombra che passa su un paesaggio soleggiato. Scarlatti si sposta poi brevemente verso tonalità minori: questo passaggio conferisce al brano la sua profondità patetica e malinconica, un momento di introspezione prima del ritorno alla luce, Attraverso un percorso armonico sapiente, la musica ritorna gradualmente alla tonalità originale. Il tema principale riappare nella sua veste originale, portando un senso di risoluzione e serenità ritrovata. La sonata si chiude con la stessa grazia con cui era iniziata, spegnendosi su un accordo finale che lascia l’ascoltatore in uno stato di pacata contemplazione. La ripetizione consolida questo senso di chiusura del cerchio.

Allegretto capriccioso

Carl Engel (21 luglio 1883 - 1944): Triptych per violino e pianoforte (c1920). William Kroll, violino; Frank Sheridan, pianoforte.

  1. Liberamente (ben sostenuto)
  2. Allegretto capriccioso [9:40]
  3. Allegro, ma non troppo [14:32]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Carl Engel, architetto della scena musicale americana

Carl Engel ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo delle istituzioni musicali statunitensi durante la prima metà del XX secolo. Benché noto principalmente come compositore, la sua eredità risiede soprattutto nel suo ruolo di manager culturale, musicologo, editore e organizzatore, che lo rese uno dei principali artefici della moderna vita musicale americana.

Le origini e la formazione europea
Nato a Parigi, ricevette una solida educazione musicale nel cuore dell’Europa. Studiò composizione presso le Università di Strasburgo e di Monaco di Baviera, dove ebbe come mentore Ludwig Thuille, importante esponente della Scuola musicale di Monaco. Questa formazione gli fornì le basi tecniche e culturali che avrebbe poi portato con sé nel Nuovo Mondo.

L’ascesa professionale negli Stati Uniti
Nel 1905 Engel si trasferì negli Stati Uniti, dove il suo talento organizzativo e la sua profonda conoscenza musicale gli permisero una rapida ascesa. Nel 1909 divenne direttore artistico della Boston Music Company, ruolo che mantenne con successo fino al 1922. Nel 1917 ottenne la cittadinanza statunitense. Il passo successivo fu ancora più prestigioso: nel 1922 assunse la direzione del dipartimento di musica della Library of Congress di Washington. Durante i suoi dodici anni di mandato (fino al 1934), trasformò il dipartimento in un centro di ricerca e conservazione di caratura internazionale. Parallelamente, la sua influenza si estese al mondo dell’editoria: verso la fine degli anni Venti divenne direttore della celebre rivista “The Musical Quarterly” e nel 1929 fu nominato presidente della storica Casa editrice musicale G. Schirmer.

Un’eredità poliedrica: musicologia, editoria e composizione
Engel fu anche un pioniere nel campo della musicologia accademica americana. Nel 1934, dopo aver lasciato la direzione attiva alla Library of Congress (di cui rimase consulente onorario), insieme con Oscar Sonneck, Otto Kinkeldey e altri fondò l’American Musicological Society, la più importante associazione di musicologi del Paese, di cui fu anche presidente tra il 1937 e il 1938. Accanto a questi impegni istituzionali, fu un prolifico saggista, pubblicando numerosi articoli e scritti su varie riviste di settore. La sua attività di compositore, sebbene meno centrale nella sua carriera pubblica, non fu trascurabile: la sua produzione si concentrò principalmente sulla musica da camera, con brani per violino, pianoforte e per canto, riflettendo il suo gusto raffinato e la sua solida formazione europea.

Triptych per violino e pianoforte: analisi
Come suggerisce il titolo, il brano è concepito come un’opera d’arte in tre pannelli, ognuno con un carattere emotivo distinto, ma legati da un linguaggio armonico ricco e da una scrittura strumentale superbamente bilanciata.
Il primo movimento funge da preludio atmosferico e rapsodico, un’esplorazione libera e profondamente espressiva del materiale tematico. La sua struttura è fluida e organica, guidata più dalle onde emotive che da uno schema formale rigido.
Si apre con il violino solo che espone una melodia solitaria e interrogativa nel suo registro acuto: la linea è cantabile, quasi improvvisata, intrisa di una dolce malinconia. Subito, il pianoforte entra con accordi arpeggiati, delicati e sospesi, creando un tappeto sonoro tipicamente impressionista che avvolge il suono del violino senza mai sovrastarlo. L’armonia è ambigua e fluttuante, ricca di settime e none che evitano una chiara risoluzione tonale, evocando un’atmosfera sognante.
Gradualmente, la musica acquista slancio: il dialogo tra i due strumenti si intensifica, con il pianoforte che assume un ruolo più ritmico e il violino che risponde con frasi sempre più ardenti e l’uso di ricche doppie corde. La dinamica cresce costantemente, culminando in una sezione potente e drammatica. Qui il linguaggio di Engel si tinge di un cromatismo più denso e di una passione tardo-romantica, prima di placarsi nuovamente in una transizione riflessiva.
Emerge una nuova idea tematica, più serena e lirica: il pianoforte crea un’atmosfera quasi pastorale con un accompagnamento cullante, mentre il violino canta una melodia tenera e introspettiva. Questa sezione offre un contrasto di pace e contemplazione, prima che l’agitazione ritorni con passaggi più veloci e un nuovo crescendo emotivo.
Il movimento si conclude tornando all’atmosfera misteriosa dell’inizio. Il tema principale del violino riappare frammentato, arricchito da effetti timbrici come il pizzicato e gli armonici eterei che suonano come campane lontane. Il pianoforte si dirada, lasciando solo accordi cristallini nel registro acuto. La musica non termina con una cadenza decisa, ma si dissolve lentamente nel silenzio, lasciando l’ascoltatore in uno stato di sospensione.
Il secondo movimento è un cambiamento radicale di umore: è uno scherzo vivace e spiritoso, pieno di arguzia e leggerezza, che segue una chiara struttura tripartita ABA.
Il violino introduce subito il carattere capriccioso con un tema saltellante, dominato dal pizzicato e da veloci scale staccate, mentre il pianoforte risponde con accordi secchi e ritmicamente incisivi, creando un dialogo scoppiettante e giocoso. L’atmosfera è elfica e scherzosa, quasi una danza impertinente.
Il cuore del movimento è un trio contrastante, più lento e cantabile: il violino abbandona il pizzicato per una melodia lunga e appassionata, piena di calore e nostalgia. L’accompagnamento del pianoforte si fa più morbido e armonioso, sostenendo la linea lirica con accordi pieni. Questa sezione è un’oasi di romanticismo sognante, un ricordo dolce in mezzo al gioco vivace.
Il tema iniziale ritorna, riportando l’energia e la malizia della prima parte. Il dialogo tra gli strumenti è ora ancora più fitto e ironico. Il movimento si chiude con una breve coda che gioca con frammenti del tema dello scherzo, accelerando verso una conclusione improvvisa e quasi comica, affidata a un ultimo, secco pizzicato del violino. È una fine che svanisce con un sorriso.
Il finale è un movimento grandioso, eroico e affermativo, che funge da culmine emotivo dell’intero trittico: la sua scrittura è densa e virtuosistica, e la sua struttura si avvicina a quella di una forma-sonata, con temi contrastanti e uno sviluppo drammatico.
Il pianoforte apre il movimento con un’introduzione potente e ritmica, stabilendo un tono epico. Il violino poi entra con il primo tema: una melodia ampia, passionale e trascinante, dal sapore quasi sinfonico. La scrittura è ricca di slancio e di un’intensità drammatica che non si era ancora sentita. Segue un secondo tema, più lirico e dolce, che offre un momento di tregua e di tenerezza, creando un perfetto equilibrio emotivo.
Lo sviluppo è la sezione più turbolenta e complessa del brano: Engel frammenta e rielabora i motivi dei due temi principali, creando un tessuto musicale denso e carico di tensione. Entrambi gli strumenti sono spinti ai limiti del loro virtuosismo: il pianoforte con accordi massicci e arpeggi impetuosi, il violino con scale vertiginose e doppie corde potenti. La musica attraversa una serie di climax e momenti di calma, in un continuo crescendo di energia.
Il primo tema eroico ritorna con ancora più forza e grandiosità, confermando il carattere trionfante del finale. Anche il secondo tema lirico viene ripreso, prima che il brano si lanci in una coda travolgente. Il ritmo accelera, la dinamica raggiunge il suo apice e l’opera si conclude con una serie di accordi potenti e una brillante affermazione finale, portando a compimento il viaggio emotivo del pezzo con una risoluzione potente e catartica.

Allegro con fuoco – II

Luise Adolpha Le Beau (1850 - 17 luglio 1927): Trio in re minore per violino, violoncello e pianoforte op. 15 (1877). Helga Wähdel, violino; Dietrich Panke, violoncello; Viola Mokrosch, pianoforte.

  1. Allegro con fuoco
  2. Andante [7:44]
  3. Scherzo: Allegro [13:19]
  4. Finale: Allegro molto [15:50]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Il talento ostinato di una pioniera: vita e arte di Luise Adolpha Le Beau

Pianista virtuosa, compositrice prolifica, insegnante e critico musicale, Luise Adolpha Le Beau lottò per affermarsi in un mondo dominato dagli uomini, lasciando un’eredità di opere significative e una testimonianza di tenacia intellettuale.

La formazione iniziale e i primi passi (1850-73)
Nata a Rastatt, nel granducato di Baden, Luise Le Beau ricevette la sua prima educazione direttamente dai genitori, dopo che il padre, Wilhelm, si era ritirato dalla carriera militare. Fu proprio il padre, anch’egli musicista, a impartirle le prime lezioni di pianoforte dall’età di cinque anni. A sedici anni, dopo aver completato la sua istruzione generale, decise di dedicarsi interamente alla musica.
Si perfezionò poi a Karlsruhe, dove studiò con Wilhelm Kalliwoda (pianoforte) e con Anton Haizinger (canto). Il suo talento emerse rapidamente: già nel 1868, a diciotto anni, debuttò come pianista eseguendo concerti di Beethoven e Mendelssohn. Su raccomandazione del celebre direttore Hermann Levi, studiò per un’estate con la leggendaria pianista Clara Schumann.

Il periodo di Monaco: apice creativo e riconoscimenti (1874-85)
Il trasferimento della famiglia a Monaco segnò l’inizio del periodo più fertile e di successo per Le Beau. Grazie a una lettera di raccomandazione di Hans von Bülow, fu ammessa come allieva privata del rinomato compositore e organista Josef Gabriel Rheinberger, dopo avergli presentato la sua Sonata per violino op. 10. Parallelamente, approfondì il contrappunto e l’armonia con Ernst Melchior Sachs.
In questi anni Le Beau non solo si dedicò alla composizione, ma si affermò attivamente sulla scena musicale come concertista: intraprese una tournée in Baviera nel 1877, eseguendo le proprie opere; dal 1878 collaborò come critico per la rivista «Allgemeine deutsche Musikzeitung»; fondò inoltre un corso privato di musica e teoria «per figlie di ceti colti», dimostrando una forte vocazione pedagogica.
Il suo spirito indipendente la portò a distaccarsi progressivamente dall’influenza di Rheinberger, studiando autonomamente le opere di compositori come Berlioz e Wagner, fino alla rottura del rapporto didattico nel 1880. Questo periodo culminò con la composizione e la prima esecuzione trionfale del suo oratorio Ruth op. 27 nel 1883 a Monaco. Nello stesso anno il suo Quartetto con pianoforte op. 28 venne eseguito nel prestigioso Gewandhaus di Lipsia. Gli anni di Monaco portarono a Le Beau vari riconoscimenti ufficiali, come il primo premio in un concorso di composizione per la Sonata per violoncello op. 17, nonché incontri cruciali con musicisti quali Franz Liszt e Johannes Brahms.

Una vita itinerante: le tappe di Wiesbaden e Berlino (1885-93)
Nel 1885, la famiglia si trasferì a Wiesbaden: qui Le Beau continuò a comporre, insegnare e vedere le sue opere eseguite. Tra le composizioni di questo periodo spiccano l’oratorio Hadumoth op. 40 e il Concerto per pianoforte op. 37. La sua fama divenne internazionale: il Quartetto con pianoforte fu eseguito a Sydney e l’oratorio Ruth a Costantinopoli. Un successivo trasferimento a Berlino nel 1890 le offrì nuove opportunità: sfruttò le vaste risorse della Biblioteca reale per approfondire i suoi studi e qui emerse il suo interesse per la musicologia: condusse ricerche sulle compositrici del passato e pubblicò nel 1890 un saggio pionieristico, Compositrici del secolo precedente, con particolare attenzione per Marianna von Martines, contemporanea di Haydn.

L’ultimo capitolo a Baden-Baden: opere della maturità e anni finali (1893-1927)
Nel 1893 la famiglia si stabilì definitivamente a Baden-Baden; qui furono eseguiti l’oratorio Hadumoth e la Sinfonia per grande orchestra op. 41. La sua vita fu però segnata da lutti personali: il padre morì nel 1896 e la madre nel 1900. Nonostante le difficoltà, la sua creatività non si arrestò: compose il poema sinfonico Hohenbaden op. 43 e, nel 1902, la sua unica opera lirica, Der verzauberte Kalif op. 55, basata su una fiaba di Wilhelm Hauff; difficoltà burocratiche ne impedirono la messa in scena. Continuò a comporre musica da camera, brani per pianoforte e corali fino agli ultimi anni. Scrisse la sua autobiografia, Memorie di una compositrice (1910) e continuò a viaggiare, insegnare e scrivere critiche per il giornale locale. Morì a Baden-Baden nel 1927 e oggi la città la ricorda con una targa commemorativa e intitolandole la Biblioteca musicale.

La ricezione critica: una voce nel dibattito musicale
La critica del suo tempo riconobbe il talento di Le Beau, pur inquadrandolo spesso attraverso la lente del pregiudizio di genere. Una recensione del 1878 loda i suoi duetti per la loro semplicità e piacevolezza, definendoli «vocalmente naturali»; il Riemann Musiklexikon (1882) descrive l’oratorio Ruth come un’opera piena di «calore del sentimento, senso per la melodia gradevole e gioia per le armonie ben suonanti», lodandola per aver evitato pretenziosità e per aver sviluppato con naturalezza le proprie doti; un altro critico, Alfred Christlieb Kalischer, sottolinea esplicitamente il suo ruolo nel «frantumare il radicato pregiudizio contro le creazioni musicali nate da mente femminile», riconoscendole il merito di contribuire a una battaglia culturale più ampia.

Trio con pianoforte in re minore: analisi
Composto nel 1877, durante il fertile e acclamato periodo di Monaco, questo lavoro rappresenta uno dei vertici della produzione cameristica di Luise Le Beau. L’opera, di stampo tardo-romantico, rivela una profonda padronanza della forma e un’ispirazione melodica e armonica che la colloca a pieno titolo nella tradizione di grandi maestri come Schumann e Brahms. L’interazione fra i tre strumenti è gestita con superba abilità, alternando momenti di impeto drammatico, lirismo cantabile e leggerezza virtuosistica.

Il primo movimento è un esempio magistrale di forma-sonata, caratterizzato da un forte contrasto tematico e da una scrittura densa e passionale. Il movimento si apre “con fuoco” e in fortissimo con un tema principale vigoroso e drammatico in re minore. Tutti e tre gli strumenti entrano all’unisono con una figura potente, seguita da accordi arpeggiati e possenti del pianoforte che ne sottolineano l’impeto. Questa introduzione stabilisce immediatamente un’atmosfera di urgenza e passione. Una sezione di transizione agitata, dominata da veloci passaggi del pianoforte, modula abilmente verso la tonalità relativa. In netto contrasto, emerge un secondo tema lirico e cantabile in fa maggiore. Viene introdotto dal violoncello con una melodia calda e sognante, cui risponde poco dopo il violino, mentre il pianoforte abbandona i risonanti accordi iniziali per fornire un accompagnamento più morbido e ondulato. Il dialogo tra gli archi crea un’oasi di serenità. L’esposizione si chiude con una ripresa dell’energia iniziale, utilizzando frammenti del primo tema per concludere con forza in fa maggiore.
Nello sviluppo, Le Beau rivela la propria maestria nel contrappunto: i due temi vengono frammentati, rielaborati e passati abilmente da uno strumento all’altro. Si attraversano diverse tonalità, prevalentemente minori, aumentando la tensione armonica. La scrittura pianistica diventa particolarmente virtuosistica, con scale rapide e arpeggi complessi che dialogano con le linee melodiche degli archi. Il primo tema ritorna con tutta la forza originaria nella tonalità d’impianto. La transizione viene modificata per rimanere nella tonalità principale e il secondo tema lirico riappare nella tonalità parallela (re maggiore), che dà un senso di speranza e trionfo sulla drammaticità iniziale. Il movimento si conclude con una coda estesa e travolgente. Il tempo accelera, spingendo la tensione al massimo. Frammenti del primo tema vengono portati a un culmine di intensità, chiudendo il movimento in modo deciso e inequivocabilmente drammatico nella tonalità iniziale.
Il movimento successivo rappresenta il cuore lirico e introspettivo del Trio: scritto in si bemolle maggiore, offre un profondo contrasto con la passione del movimento precedente. Si apre con una melodia semplice e meravigliosamente cantabile, introdotta dal violoncello su un delicato accompagnamento accordale del pianoforte. La melodia, dal carattere quasi di romanza senza parole, viene poi ripresa e arricchita dal violino, creando un dialogo intimo e toccante tra i due archi. La sezione centrale cambia drasticamente carattere: la tonalità si sposta (in sol minore) e la musica diventa più agitata e inquieta. Il pianoforte assume un ruolo più turbolento con arpeggi densi, mentre gli archi suonano con maggiore intensità e con l’indicazione marcato, creando un’onda di passione contenuta che spezza la serenità iniziale. Il tema principale ritorna, ma variato e impreziosito. L’atmosfera si rasserena nuovamente, portando il movimento a una conclusione estremamente delicata e pacifica, spegnendosi in pianissimo.
Il terzo movimento è uno Scherzo vivace e ritmicamente arguto in re minore, che ricorda la leggerezza di Mendelssohn. Esso inizia con un motivo leggero e giocoso in pizzicato per violino e violoncello, cui il pianoforte risponde con accordi staccati. Questa sezione è caratterizzata da una spiccata energia ritmica e da improvvisi contrasti dinamici che le conferiscono un carattere spiritoso e imprevedibile. Nella sezione centrale, in re maggiore, l’atmosfera cambia completamente. Il tempo rallenta leggermente in un sostenuto, e la musica assume un andamento più lirico e aggraziato, simile a un valzer sognante. Questa melodia fluida e cantabile offre un perfetto momento di contrasto prima del ritorno dell’energia dello Scherzo. Come da tradizione, la prima sezione viene ripetuta, per poi concludersi con una breve e scattante coda.
Il Finale è un movimento di grande impeto e complessità strutturale, costruito in una forma che unisce elementi del rondò e della sonata. Si inizia in re minore con un tema principale energico e martellante, caratterizzato da note staccate e da una spinta ritmica inarrestabile. Viene presentato prima dal pianoforte e poi ripreso con forza dagli archi. A questo tema principale si alternano episodi contrastanti: il primo, in fa maggiore, è più lirico e offre un breve respiro. Il tema principale ritorna per poi condurre a una sezione centrale più elaborata che funge da vero e proprio sviluppo. Qui, i motivi del tema principale vengono frammentati e rielaborati in un complesso intreccio contrappuntistico, dimostrando ancora una volta la grande abilità compositiva di Le Beau. Il Finale culmina in una coda spettacolare. Il tempo accelera progressivamente e l’intensità cresce in un vortice di virtuosismo: scale rapide del pianoforte e accordi potenti di tutti gli strumenti portano l’opera a una conclusione trionfale e affermativa in un brillante re maggiore, risolvendo definitivamente la drammaticità del re minore che aveva caratterizzato gran parte del Trio.

Andante desolato

Antonio Veretti (1900 - 13 luglio 1978): Concerto per pianoforte e orchestra (1949). Sergio Perticaroli, pianoforte; Orchestra sinfonica della Rai di Torino, dir. Mario Rossi.

  1. Lento misterioso [0:17]
  2. Allegro appassionato e impetuoso [3:31]
  3. Andante desolato [14:42]
  4. Allegretto estroso [19:17]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Antonio Veretti: un viaggio musicale tra neoclassicismo, dodecafonia e impegno civile

Veretti è stato un compositore dal percorso artistico complesso e sfaccettato che ha attraversato le principali correnti musicali del Novecento – dal neoclassicismo alla dodecafonia – passando per un profondo legame con la tradizione e un significativo impegno nel panorama culturale del suo tempo.

Gli inizi e la formazione
Nato a Verona, Antonio Veretti intraprese gli studi musicali nella sua città natale, per poi perfezionarsi al Liceo musicale di Bologna sotto la guida di Guglielmo Mattioli e Franco Alfano, conseguendo il diploma in composizione nel 1921. I suoi primi lavori di rilievo, come le raccolte di brani per voce e pianoforte Tre Liriche e il Cantico dei cantici, rivelarono presto il suo talento, tanto da attirare l’attenzione del critico Giannotto Bastianelli che ne intuì la vocazione per il teatro musicale.

L’adesione al neoclassicismo e le prime opere teatrali
Dopo il diploma, Veretti si allontanò dall’influenza di Alfano per avvicinarsi allo stile di Ildebrando Pizzetti e abbracciare gli ideali di ritorno alla classicità promossi dalla rivista letteraria “La Ronda”. Questo orientamento si concretizzò nella sua prima opera teatrale, Il medico volante (1923-24), su libretto dell’amico Riccardo Bacchelli. Quest’opera, sebbene mai rappresentata, segnò la sua piena adesione allo stile neoclassico e ottenne un riconoscimento nel 1928, vincendo ex aequo un concorso indetto dal quotidiano “Il Secolo-Sera”.

Il periodo milanese e la svolta eclettica
Trasferitosi a Milano nel 1926, Veretti lavorò come critico musicale per la “Fiera letteraria” e si esibì come pianista. In questi anni, la sua produzione si arricchì di nuove composizioni da camera e del suo primo importante lavoro sinfonico, la Sinfonia italiana (1929), dedicata a Benito Mussolini. Il suo percorso teatrale proseguì con Il favorito del re (1930), opera rappresentata alla Scala di Milano nel 1932. Questo lavoro segnò un netto distacco dal neoclassicismo, proponendo uno stile eclettico che fondeva elementi antichi, accenni jazz e blues e melodie popolari, suscitando reazioni contrastanti nel pubblico.

L’impegno a Roma e la musica per il cinema
Nel 1933 Veretti si stabilì a Roma, dove fondò e diresse l’Accademia di musica della Gioventù italiana del littorio. Durante questo periodo, divenne membro di prestigiose istituzioni come l’Accademia di Santa Cecilia e compose opere significative come il balletto Il galante tiratore e l’azione mimo-sinfonica Una favola di Andersen. Parallelamente, si dedicò con successo alla musica per film, collaborando in particolare con il regista Augusto Genina per pellicole come Squadrone bianco (1936) e Bengasi (1942).

La svolta religiosa e l’avvicinamento alla dodecafonia
Gli anni della guerra videro un orientamento della sua produzione verso composizioni di ispirazione religiosa, come l’oratorio Il figliuol prodigo (1942) e la Sinfonia sacra (1947). Successivamente, Veretti si accostò gradualmente alla tecnica dodecafonica, inizialmente in modo parziale in opere come il Concerto per pianoforte e orchestra (1949), per poi adottarla come principio compositivo fondamentale in lavori come l’Ouverture della campana (1952). La sua dodecafonia si caratterizzò per la ricerca di un equilibrio tra il rigore formale e l’espressività tradizionale, in modo simile a quanto fatto da Luigi Dallapiccola.

Gli ultimi anni e l’eredità
Negli anni Cinquanta e Sessanta, Veretti ricoprì importanti incarichi come direttore dei conservatori di Pesaro, Cagliari e Firenze. In questo periodo compose capolavori come I sette peccati (1956), un mistero musicale coreografico basato su una serie dodecafonica che elabora i vizi capitali. Continuò a comporre opere dodecafoniche di rilievo, come le Elegie (1964) e la Prière pour demander une étoile (1967), mostrando una crescente influenza dello stile di Anton Webern. Sebbene oggi le sue musiche siano eseguite raramente, egli è considerato uno dei maggiori esponenti della “generazione di mezzo”, capace di fare da ponte tra l’eredità della “generazione dell’Ottanta” e le nuove frontiere dell’idioma dodecafonico.

Il Concerto per pianoforte e orchestra di Veretti: analisi
Opera di grande fascino e complessità, getta un ponte tra la tradizione e le nascenti avanguardie del secondo dopoguerra.

Il primo movimento si apre in un’atmosfera sospesa e cupa, introdotta da un dialogo sommesso tra il pianoforte e gli archi gravi. Il solista esplora le profondità della tastiera con accordi scuri e arpeggi lenti, creando un senso di attesa e di mistero. L’orchestra interviene con brevi frasi frammentate, quasi dei sussurri, che accentuano l’inquietudine generale. La scrittura pianistica si fa via via più densa e virtuosistica, con scale cromatiche ascendenti e discendenti che si intrecciano con gli interventi orchestrali. Emerge una melodia malinconica, quasi un lamento, che viene sviluppata e variata nel corso del movimento. Il dialogo tra solista e orchestra si fa più serrato, con momenti di grande tensione drammatica seguiti da improvvisi squarci di lirismo.
Il secondo movimento irrompe con un’energia travolgente: il pianoforte attacca con una serie di accordi martellanti e scale vertiginose, sostenuto da un’orchestra potente e ritmica. Si delinea un tema principale dal carattere eroico e passionale, che viene sviluppato in un crescendo di intensità. La scrittura pianistica è estremamente virtuosistica, con passaggi di grande difficoltà tecnica che mettono in luce le capacità del solista. L’orchestra dialoga costantemente con il pianoforte, ora sostenendolo, ora contrapponendosi con frasi incisive e taglienti. Non mancano momenti di maggiore lirismo, in cui la tensione si allenta per lasciare spazio a melodie più cantabili e sognanti, ma è l’impeto ritmico a dominare l’intero movimento, che si conclude in un finale travolgente e affermativo.
Con il terzo movimento, l’atmosfera cambia radicalmente: il pianoforte introduce una melodia desolata e introspettiva, di una bellezza struggente. L’orchestra interviene con sonorità rarefatte, quasi cameristiche, creando un tappeto sonoro su cui si staglia il canto solitario del solista. La scrittura pianistica è qui più intima e riflessiva, con un’attenzione particolare al timbro e alla cantabilità. Il movimento si sviluppa come un lungo monologo del pianoforte, interrotto da brevi interventi orchestrali che ne amplificano il senso di solitudine e di malinconia.
Il concerto si conclude con un finale brillante e ricco di inventiva: il pianoforte attacca con un tema vivace e giocoso, dal ritmo saltellante, che viene subito ripreso dall’orchestra. Il movimento è caratterizzato da un continuo alternarsi di episodi brillanti e virtuosistici e momenti più lirici e cantabili. La scrittura pianistica è di nuovo estremamente virtuosistica, con scale, arpeggi e passaggi di bravura che esaltano le doti del solista. L’orchestra partecipa attivamente a questo gioco di contrasti, dialogando con il pianoforte in un crescendo di energia e di vitalità. La conclusione è un’esplosione di gioia, ottimismo e trionfo.

Largo maestoso – II

Sigismund von Neukomm (10 luglio 1778 - 1858): Grand Concerto in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 12 (1804). Riko Fukuda, pianoforte; Kölner Akademie, dir. Michael Alexander Willens.

  1. Largo maestoso – Allegro non troppo
  2. Larghetto espressivo assai [13:23]
  3. Allegro assai [18:56]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Sigismund von Neukomm, compositore-viaggiatore tra due epoche

Sigismund Ritter von Neukomm fu una delle figure più poliedriche e cosmopolite della musica a cavallo tra il Classicismo e il Romanticismo. Compositore, pianista virtuoso, direttore d’orchestra, diplomatico e massone, la sua vita fu un incessante viaggio attraverso le corti e i salotti culturali d’Europa e del Nuovo Mondo. La sua influenza, un tempo considerevole, è oggi quasi dimenticata, ma la sua storia rivela un artista profondamente connesso ai grandi maestri del suo tempo e ai tumultuosi eventi storici che ne definirono l’epoca, tanto da attirare persino i sospetti di spionaggio del cancelliere Metternich.

Formazione e l’ombra dei grandi maestri a Vienna
Nato a Salisburgo, Neukomm dimostrò un talento prodigioso fin dall’infanzia: a quattro anni sapeva già leggere e a cinque scrivere. La sua formazione musicale iniziò presto sotto la guida dell’organista del duomo Franz Xaver Weissauer e, in seguito, per la teoria e l’armonia, con Michael Haydn, la cui moglie era imparentata con la madre di Neukomm. A soli 16 anni, divenne organista titolare presso la chiesa dell’Università di Salisburgo. Il punto di svolta della sua carriera avvenne nel 1797, quando, su raccomandazione di Michael Haydn, si trasferì a Vienna per studiare con il leggendario Joseph Haydn. Il rapporto tra i due divenne presto molto più di quello tra maestro e allievo: Haydn, riconoscendo le eccezionali capacità del giovane, gli affidò compiti di cruciale importanza, come la stesura delle riduzioni per pianoforte dei suoi grandi oratori La creazione e Le stagioni, l’arrangiamento dell’oratorio Il ritorno di Tobia e la trascrizione di numerose canzoni scozzesi. Nei suoi ultimi anni, Haydn trovò in Neukomm un amico devoto che lo visitava quotidianamente e che, a testimonianza di questa profonda stima, fece erigere la lapide sulla prima tomba di Haydn, incidendovi un canone enigmatico a cinque voci basato sulle parole di Orazio Non omnis moriar (Non morirò del tutto). Durante i suoi sette anni a Vienna, Neukomm fu anche un apprezzato insegnante di pianoforte e canto, annoverando tra i suoi allievi la celebre soprano Anna Milder-Hauptmann e Franz Xaver Wolfgang Mozart, il figlio minore di Wolfgang Amadeus.

Un ambasciatore della musica in Europa e nel mondo
La vita di Neukomm fu caratterizzata da un nomadismo quasi perpetuo: lasciata Vienna nel 1804, fu direttore d’orchestra a San Pietroburgo fino al 1809. Successivamente, si trasferì a Parigi, dove divenne pianista personale del potente ministro Talleyrand e strinse amicizia con compositori come Grétry e Cherubini. La sua avventura più esotica iniziò tuttavia nel 1816, quando si recò a Rio de Janeiro al seguito del duca di Lussemburgo. Lì divenne maestro di cappella alla corte dell’imperatore Giovanni VI del Portogallo, rimanendovi fino al 1821. Il suo contributo alla vita musicale brasiliana fu tale che, nel 1945, l’Academia Brasileira de Música gli dedicò una cattedra. Dopo il 1820, pur mantenendo Parigi come base principale, intraprese lunghi viaggi in Italia, Svizzera, Paesi Bassi e, soprattutto, in Gran Bretagna. Qui, negli anni ’30 dell’Ottocento, raggiunse l’apice della sua fama. I suoi oratori, come Mount Sinai e David (quest’ultimo composto appositamente per il Festival di Birmingham del 1834), ottennero un successo strepitoso. Tuttavia, la sua popolarità fu rapidamente eclissata da quella del suo amico Felix Mendelssohn, il cui oratorio Paulus trionfò al festival del 1837.

Opere, eredità e riconoscimenti
La sua produzione musicale è monumentale, annoverando oltre 1300 composizioni, tra le quali si ricordano 10 opere, 8 oratori, 48 messe, circa 200 Lieder, 2 sinfonie e una vasta quantità di musica da camera, per pianoforte e per organo. La sua musica era spesso legata a grandi eventi storici: sue composizioni risuonarono durante l’ingresso solenne del re Luigi XVIII a Parigi dopo la caduta di Napoleone e, soprattutto, durante la cerimonia funebre per Luigi XVI tenutasi a Vienna durante il Congresso del 1815. Per quest’ultima occasione, commissionata da Talleyrand, compose il suo celebre Requiem in do minore, che gli valse da parte del re di Francia il titolo di cavaliere della Legion d’Onore, onorificenza che Neukomm esibì con orgoglio per il resto della sua vita. Profondamente devoto ai suoi predecessori, Neukomm non si limitò a onorare Haydn: grande ammiratore di Mozart, che non conobbe mai di persona, compose un responsorio, Libera me, per completare il Requiem mozartiano in occasione della sua prima esecuzione a Rio de Janeiro. Nel 1842 ebbe anche un ruolo di primo piano durante l’inaugurazione del monumento a Mozart a Salisburgo, tenendo il discorso celebrativo e dirigendo la Messa dell’Incoronazione e il Requiem.

Gli ultimi anni e l’oblio
Neukomm continuò a viaggiare instancabilmente fino alla fine, dividendo il suo tempo principalmente tra Londra e Parigi. Morì nella capitale francese il 3 aprile 1858, all’età di 79 anni, e fu sepolto nel cimitero di Montmartre. Nonostante la sua enorme produzione e la fama internazionale di cui godette in vita, la sua musica, radicata nella tradizione classica ma con chiare aperture innovative verso il Romanticismo, cadde presto nell’oblio. La sua figura rimane quella di un testimone e protagonista eccezionale di un’epoca di profonde trasformazioni, un ponte musicale tra due mondi e due secoli.

Il Grand Concerto in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 12: analisi
Questo lavoro si colloca perfettamente nel crocevia tra il Classicismo maturo e il primo Romanticismo. Essendo stato allievo prediletto di Joseph Haydn e contemporaneo dell’ascesa di Beethoven, Neukomm assorbì la lezione formale e la chiarezza strutturale dei suoi maestri, infondendole però con un’energia drammatica, una libertà espressiva e un virtuosismo pianistico che guardano decisamente al nuovo secolo. Quale Grand Concerto, la composizione ambisce a una monumentalità e a una ricchezza sonora che la distinguono dai modelli più contenuti del Settecento.

Il primo movimento segue la tradizionale forma-sonata con doppia esposizione, tipica del concerto classico, ma preceduta da un’introduzione lenta e imponente che definisce fin da subito un carattere grandioso e un’atmosfera drammatica e solenne. L’orchestra attacca con accordi potenti e ritmi puntati, creando un’atmosfera di attesa quasi tragica che ricorda da vicino l’inizio delle sinfonie di Haydn (come la n. 104, Londra) o del Quinto Concerto op. 73, Imperatore, di Beethoven. Successivamente, il pianoforte fa il suo ingresso con una serie di arpeggi e scale virtuosistiche, quasi una cadenza improvvisata, che stabilisce immediatamente il suo ruolo di protagonista eroico e passionale. Il dialogo tra gli austeri accordi orchestrali e le fioriture pianistiche prosegue, costruendo una tensione che si risolve magistralmente nell’Allegro non troppo. L’orchestra introduce il primo tema, un motivo energico e marziale in do maggiore, dal carattere positivo e affermativo, pienamente nello stile classico. Segue una transizione che conduce al secondo tema in sol maggiore (la dominante), più cantabile e delicato, affidato principalmente agli archi e ai legni.
Il pianoforte riprende il primo tema, non limitandosi a ripeterlo ma arricchendolo con brillanti ornamentazioni e passaggi di bravura. La scrittura pianistica è densa e tecnicamente impegnativa, con scale, arpeggi e ottave spezzate che riempiono lo spazio tra le frasi tematiche. Il pianoforte presenta la sua versione del secondo tema, rendendolo ancora più intimo ed espressivo. Segue una sezione caratterizzata da maggiore instabilità armonica e drammaticità: Neukomm esplora frammenti dei temi principali, trasponendoli in tonalità minori e creando un intenso dialogo tra il solista e l’orchestra. Il virtuosismo pianistico si fa qui ancora più audace, con passaggi tempestosi che esprimono un’inquietudine tipicamente protoromantica. L’orchestra e il pianoforte riaffermano con forza i temi principali nella tonalità d’impianto. Lasciato solo, il pianoforte si lancia in una cadenza estesa e complessa: basandosi sui temi del movimento, il solista esplora tutte le potenzialità tecniche ed espressive dello strumento, alternando momenti di lirismo a passaggi di straordinaria agilità. Il lungo trillo finale annuncia il ritorno dell’orchestra. Il movimento si conclude con una coda brillante e trionfale, in cui l’orchestra e il pianoforte sigillano l’atmosfera affermativa del do maggiore.
Il secondo movimento è un’oasi di lirismo e introspezione, come suggerisce la sua indicazione agogica. La tonalità si sposta a la bemolle maggiore, una tonalità calda e distante da quella del primo movimento. Il pianoforte introduce da solo il tema principale, una melodia cantabile, intima e riccamente ornata, che ricorda un’aria operistica per la sua grazia e il suo pathos. L’orchestrazione è delicata, con gli archi che forniscono un tappeto sonoro discreto e i legni che dialogano dolcemente con il solista. Il movimento evolve verso una sezione centrale più inquieta e modulante, con la musica che si tinge di colori più scuri e con passaggi in tonalità minori che creano un contrasto drammatico con la serenità iniziale. La scrittura pianistica si fa più densa e appassionata. Il tema principale ritorna, ancora più abbellito e trasfigurato dall’esperienza della sezione centrale. Il dialogo tra pianoforte e orchestra si intensifica, raggiungendo un culmine espressivo prima di dissolversi in una coda tranquilla e sognante, che chiude il movimento in un’atmosfera di pace contemplativa.
Il finale è un rondò brillante e pieno di slancio, che conclude il concerto con energia e virtuosismo. Il pianoforte espone immediatamente il tema principale, un motivo vivace, danzante e scherzoso in do maggiore, caratterizzato da un ritmo saltellante e da una scrittura pianistica scintillante. Il primo episodio, invece, introduce un’idea musicale più lirica e modulante. Dopo il ritornello, il secondo episodio rappresenta il cuore del movimento: la musica si sposta in la minore e assume un carattere “alla turca” o zingaresco, un elemento esotico molto in voga all’epoca. Questa sezione è ritmicamente incisiva e armonicamente audace, creando un forte contrasto con la gaiezza del tema principale. Dopo l’ultimo ritorno del tema principale, il movimento si lancia in una coda travolgente: il tempo accelera progressivamente e il dialogo tra pianoforte e orchestra diventa un turbine di scale, arpeggi e passaggi virtuosistici che spingono la musica verso una conclusione trionfale, enfatica e piena di luce.

A mai più rivederci!

Gustav Mahler (7 luglio 1860 - 1911): Nicht wiedersehen!, Lied per voce e pianoforte (c1887-90); testo tratto dalla raccolta Des Knaben Wunderhorn. Dietrich Fischer-Dieskau, baritono; Leonard Bernstein, pianoforte.

Und nun ade, mein herzallerliebster Schatz,
Jetzt muß ich wohl scheiden von dir,
Bis auf den andern Sommer,
Dann komm ich wieder zu dir! Ade!

Und als der junge Knab heimkam,
Von seiner Liebsten fing er an:
„Wo ist meine Herzallerliebste,
Die ich verlassen hab?“

„Auf dem Kirchhof liegt sie begraben,
Heut ists der dritte Tag.
Das Trauern und das Weinen
Hat sie zum Tod gebracht.“

Jetzt will ich auf den Kirchhof gehen,
Will suchen meiner Liebsten Grab,
Will ihr all’weile rufen,
Bis daß sie mir Antwort gab!

Ei du mein allerherzliebster Schatz,
Mach auf dein tiefes Grab!
Du hörst kein Glöcklein läuten,
Du hörst kein Vöglein pfeifen,
Du siehst weder Sonne noch Mond!
Ade, mein herzallerliebster Schatz! Ade!

«E ora addio, mio tesoro,
mi tocca partire e devo lasciarti,
fino alla prossima estate
non potrò tornare da te. Addio.»

E quando il giovane tornò a casa,
della sua amata chiese:
«Dov’è la mia adorata
che avevo dovuto lasciare?»

«Giace sepolta nel cimitero,
oggi è il terzo giorno.
Il dolore e le lacrime
l’hanno portata alla morte.»

«Voglio andare subito al cimitero
a cercare la tomba della mia amata,
la invocherò senza sosta
finché non mi risponderà.

Orsù, mia adorata,
apri questa tua tomba!
Non senti più le campane suonare,
non senti più gli uccelli cantare,
non vedi il sole né la luna!
Addio, mia adorata, addio!»



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Un canto dalla tomba: il “teatro sonoro” di Mahler

Nicht wiedersehen! è uno dei Lieder più intensi e drammatici di Mahler, tratti dalla raccolta di poesie popolari tedesche Des Knaben Wunderhorn, pubblicata in tre volumi, fra il 1805 e il 1808, da Clemens Brentano e Achim von Arnim.
Composto tra il 1887 e il 1890, il brano è molto più di una semplice canzone: è una scena operistica concentrata in cinque minuti, un vero e proprio dramma che esplora i temi mahleriani per eccellenza, ossia l’amore, la separazione, la morte e la trascendenza. Il Lied si articola in quattro strofe che corrispondono a quattro scene emotive distinte: Mahler adotta una forma strofica variata, in cui il materiale musicale ritorna ma viene costantemente trasformato per riflettere l’evoluzione della tragedia.

Ha inizio con accordi solenni e pesanti in do minore. La tessitura è semplice, quasi corale, evocando l’atmosfera di una canzone popolare, ma il tempo lento e il modo minore la caricano di una tristezza ineluttabile. Non è un addio sereno, ma un presagio. La melodia iniziale è relativamente semplice, quasi sillabica, aderendo al carattere popolare del testo. Tuttavia, sulla parola scheiden, Mahler inserisce un cromatismo discendente che esprime il dolore intrinseco della separazione. La promessa di ritorno (Dann komm’ ich wieder) è segnata da un momentaneo passaggio a mi bemolle maggiore (la relativa maggiore), un barlume di speranza subito spento. Il culmine della strofa arriva con le ripetizioni della parola Ade!, su cui Mahler costruisce un crescendo devastante:
– il primo Ade! è interrogativo;
– il secondo è più affermativo e disperato;
– il terzo, sulla frase mein Herzallerliebster Schatz, è un grido di pura angoscia. La voce qui si fa estremamente potente, sostenuta da accordi pianistici fragorosi che suonano quasi orchestrali. La canzone popolare è già diventata un dramma.

Successivamente, la musica cambia radicalmente. Il pianoforte attacca con un ritmo ostinato di marcia funebre, caratterizzato da un andamento puntato e implacabile. Questo è un elemento tipicamente mahleriano, che trasforma la scena in un corteo funebre. Lo strumento non è più solo accompagnamento, ma un narratore onnisciente che rivela la tragedia. La linea vocale perde la sua iniziale liricità per diventare più declamatoria e spezzata, quasi un recitativo angosciato. Canta con un tono più scuro, come se stesse leggendo l’epitaffio con orrore. L’armonia rimane ancorata alla tonalità di impianto, ma si fa più instabile e cromatica. Il momento della presa di coscienza (So ist’s meine Herzallerliebste) è sottolineato da un’armonia sospesa e dolorosa che culmina nella frase sussurrata e straziante die dich verlassen hat, dove la musica si placa in un pianissimo carico di colpa e rimpianto.
Il ritmo di marcia funebre persiste, eseguito in modo ancora più lento e pesante (Sehr langsam, schleppend: Molto lento, trascinato), evocando un dolore che paralizza. La linea vocale è un lamento e sulle parole das Trauern und das Weinen, la melodia scende con figure che mimano dei singhiozzi. L’invocazione all’amata (will ihr allweile wohl rufen) è un crescendo drammatico di straordinaria intensità. La voce sale al registro acuto, piena di disperazione, mentre il pianoforte risponde con tremoli agitati che aumentano la tensione fino a un punto quasi insostenibile. La richiesta di una risposta (bis dass sie mir Antwort gab) rimane sospesa nel vuoto: la risposta del pianoforte non è una melodia, ma una serie di accordi secchi e isolati che rappresentano il silenzio gelido e definitivo della tomba.
Nell’ultima strofa, la musica si trasforma completamente e il pianoforte si sposta nel registro acutissimo, suonando con un tocco cristallino, quasi vitreo (pianissimissimo, senza pedale). L’armonia passa alla parallela maggiore, dando vita a un’atmosfera eterea e spettrale. La linea vocale si adatta, abbandonando ogni calore e vibrato, cantando con un filo di voce (pianissimo), quasi un suono bianco, disincarnato: è la perfetta rappresentazione sonora di uno spirito.
La musica imita i suoni del mondo perduto:
Du hörst kein Glöcklein läuten: il pianoforte suona delle note staccate e dissonanti nel registro acuto, come il rintocco distorto di una campana lontana;
kein Vöglein pfeifen: lo strumento esegue un trillo scheletrico e gelido, l’ombra del canto di un uccello.
Il culmine emotivo arriva sulla menzione del sole e della luna (Sonnen und auch Mond). Per un istante, la voce dello spirito si incrina di dolore, ricordando la bellezza della vita. La voce reintroduce un’intensità straziante, prima di tornare al tono spettrale per l’ultimo e definitivo Ade!. Le ultime note del pianoforte, nella tonalità di impianto, sono come la terra che ricopre la tomba, spegnendosi in un silenzio assoluto e terrificante.

Nel complesso, Nicht wiedersehen! è un capolavoro di narrazione musicale. Mahler trascende la forma del Lied per creare un mondo sonoro completo, dove ogni elemento ha un significato drammatico. L’unione della voce – con la sua ineguagliabile intelligenza del testo e il suo prodevole controllo – con il pianoforte che dipinge scenari, evoca atmosfere e diventa una forza drammatica autonoma, riesce a rivelare la natura “sinfonica” del pensiero di Mahler anche nella musica da camera.

Mazurek in fa minore

Władysław Szpilman (1911 - 6 luglio 2000): Mazurek in fa minore per pianoforte (1942). Daniel Vnukowski.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Władysław Szpilman: la melodia della sopravvivenza

Władysław Szpilman, noto anche con lo pseudonimo Al Legro, è stato una figura centrale nella vita musicale e culturale polacca del XX secolo. La sua esistenza, segnata da un talento precoce, dalla tragedia della Shoah e da una straordinaria rinascita artistica, è diventata un simbolo universale di resilienza e del potere salvifico dell’arte.

Gli inizi di un talento: la carriera prima della guerra
Nato a Sosnowiec in una famiglia ebrea di musicisti, Szpilman mostrò fin da giovane un eccezionale talento per il pianoforte. Dopo gli studi al Conservatorio di Varsavia, il suo potenziale fu riconosciuto con una borsa di studio che lo portò alla prestigiosa Accademia delle Arti di Berlino nel 1931. Qui perfezionò la sua tecnica sotto la guida di maestri come Artur Schnabel e compose le sue prime opere importanti, come la suite Życie maszyn (La vita delle macchine). Tuttavia, l’ascesa del nazismo in Germania lo costrinse a tornare in Polonia nel 1933. A Varsavia, la sua carriera decollò rapidamente e, due anni più tardi, divenne il pianista ufficiale della Radio polacca, un ruolo che gli conferì grande visibilità. Parallelamente, si affermò come un prolifico compositore di musica leggera e colonne sonore per film come Wrzos (1937) e Dr Murek (1939), diventando una celebrità nazionale amata dal pubblico.

Sopravvivenza tra le rovine: gli anni della guerra e del ghetto
L’invasione tedesca della Polonia nel settembre 1939 interruppe bruscamente la sua carriera. Il 23 settembre, Szpilman eseguì l’ultimo concerto dal vivo trasmesso dalla Radio polacca, suonando brani di Chopin mentre Varsavia era sotto bombardamento. Poco dopo, la radio fu messa a tacere. Nel novembre 1940, la famiglia Szpilman fu costretta a trasferirsi nel Ghetto di Varsavia e, per mantenere i genitori, il fratello e le due sorelle, iniziò a suonare il pianoforte nei caffè del ghetto, come il Nowoczesna e lo Sztuka, diventando una figura nota anche in quel contesto disperato.
L’estate del 1942 segnò l’inizio della Grande Operazione, la deportazione di massa degli ebrei dal Ghetto di Varsavia verso il campo di sterminio di Treblinka. Durante una selezione all’Umschlagplatz (il punto di raccolta per le deportazioni), mentre veniva caricato su un treno insieme a tutta la sua famiglia, fu riconosciuto da un poliziotto ebreo che lo spinse fuori dal cordone, salvandogli la vita. Non rivide mai più i suoi cari. Rimasto solo, sopravvisse come operaio, ma nel febbraio 1943 riuscì a fuggire dal ghetto grazie all’aiuto di amici polacchi, tra cui l’attore Andrzej Bogucki. Per oltre un anno visse nascosto in vari appartamenti nella “parte ariana” di Varsavia, in costante pericolo di essere scoperto.
Con lo scoppio della Rivolta di Varsavia nell’agosto 1944, rimase completamente isolato. Si nascose tra le rovine della città devastata, sopravvivendo in condizioni estreme. Fu in questo periodo che, scoperto in un edificio abbandonato, incontrò l’ufficiale della Wehrmacht Wilm Hosenfeld. Colpito dal suo talento dopo averlo sentito suonare un pianoforte trovato tra le macerie, Hosenfeld decise di aiutarlo, portandogli cibo e permettendogli di sopravvivere fino alla liberazione della città nel gennaio del 1945. Dopo la guerra Szpilman cercò invano di far liberare Hosenfeld, che morì in un gulag sovietico nel 1952.

La rinascita nel dopoguerra: musica, radio e il Quintetto di Varsavia
Finita la guerra, Szpilman tornò immediatamente alla Radio polacca, dove divenne direttore del dipartimento di musica leggera, incarico che mantenne fino al 1963. La sua influenza fu enorme: compose il celebre segnale del cinegiornale polacco (Polska Kronika Filmowa), fondò l’Unione degli autori e compositori polacchi (ZAKR) e nel 1961 ideò il prestigioso Festival internazionale della canzone di Sopot. La sua attività concertistica riprese con vigore, sia come solista che in formazioni di musica da camera. Nel 1963 fondò il Quintetto di Varsavia, con cui tenne oltre 2000 concerti in tutto il mondo fino al 1986. Parallelamente, compose più di 500 canzoni di successo, diventate parte integrante della cultura popolare polacca, oltre a musical, musiche per bambini e opere sinfoniche.

Il Pianista: dalla memoria al grande schermo
Nel 1946 Szpilman pubblicò le proprie memorie di guerra nel libro Śmierć miasta (Morte di una città). L’opera, tuttavia, fu pesantemente censurata dal regime comunista e pubblicata in tiratura limitata, poiché la sua narrazione onesta (la quale includeva il ruolo di collaborazionisti polacchi e l’aiuto ricevuto da un ufficiale tedesco) non si conformava alla storiografia ufficiale. Fu solo nel 1998 che suo figlio Andrzej riuscì a far pubblicare una versione integrale e non censurata del libro in Germania e poi nel resto del mondo con il titolo Il pianista. Il libro divenne un bestseller internazionale, tradotto in circa 40 lingue. Nel 2002, il regista Roman Polański ne trasse l’omonimo film, capolavoro premiato con la Palma d’oro a Cannes e tre Premi Oscar, che consacrò la storia di Szpilman a livello globale.

Eredità, riconoscimenti e controversie
Sposato nel 1950 con Halina Grzecznarowska, ebbe due figli, Andrzej e Krzysztof. La sua figura non è stata esente da controversie: nel 2010, un libro riportò le accuse della cantante Wiera Gran, che sosteneva che Szpilman avesse collaborato con la polizia ebraica del ghetto. La famiglia Szpilman intentò una causa per diffamazione e, dopo un lungo iter legale, la Corte suprema polacca diede loro ragione, ordinando la rimozione delle accuse da future edizioni del libro e le scuse formali alla famiglia per aver leso la memoria di un uomo giusto. Szpilman, scomparso a Varsavia nel 2000, ha ricevuto in vita e postumi i più alti onori dello stato polacco: la sua eredità è celebrata attraverso intitolazioni di strade, piazze e studi di registrazione, a testimonianza del suo impatto indelebile sulla musica e sulla coscienza collettiva, non solo in Polonia ma nel mondo intero.

Mazurek in fa minore: analisi
Composta durante la permanenza di Szpilman nel Ghetto di Varsavia, la Mazurek in fa minore non è una semplice danza, ma un’opera di profonda introspezione, una testimonianza sonora di rara potenza emotiva. Utilizzando la forma più iconica della musica polacca, resa celebre da Chopin, Szpilman non evoca la spensieratezza rustica, ma la trasforma in un veicolo per la nostalgia, il dolore e la fragile speranza.

Il brano si apre in un’atmosfera sospesa e malinconica. La forma è una classica ternaria (ABA′) con coda, una struttura che dona ordine a un contenuto emotivo altrimenti caotico. L’inizio è esitante, quasi un ricordo che affiora con difficoltà. La mano sinistra stabilisce immediatamente il caratteristico ritmo puntato della mazurka, ma con un accompagnamento arpeggiato e cromatico che lo priva di ogni vigore, rendendolo più simile a un battito cardiaco affaticato. La mano destra introduce il tema principale piano, una melodia che sospira più che cantare. È frammentaria, costruita su piccole frasi ascendenti che sembrano porre una domanda senza risposta, per poi ricadere su loro stesse. L’armonia in fa minore è arricchita da un cromatismo sottile e dolente, che evoca chiaramente l’influenza di Chopin, ma con una sfumatura più cupa e rassegnata. Non è una danza per ballare, ma una danza per ricordare in solitudine. Il tema viene ripetuto e leggermente variato, con la melodia si fa lievemente più fluida, ma l’atmosfera generale di contenuta tristezza permane. L’uso di accordi più densi nella mano sinistra aggiunge profondità, ma senza mai rompere l’intimità del discorso musicale.
Successivamente, il brano si sposta verso tonalità maggiori, offrendo un netto contrasto emotivo. Questa sezione rappresenta un rifugio, il ricordo di un tempo più felice e sereno. La melodia diventa più cantabile, ampia e consolatoria. Le frasi sono più lunghe e connesse, suggerendo un flusso di pensiero più sereno. Il ritmo della mazurka è sempre presente, ma ora sostiene un canto nostalgico e affettuoso. Questa è la memoria del “prima”: i salotti di Varsavia, la vita, l’amore. Le armonie si fanno più calde e luminose, con progressioni che infondono un senso di speranza, seppur fugace. Questa sezione funziona come il cuore emotivo del brano, un’isola di luce circondata dall’oscurità delle sezioni esterne. È un momento di pura bellezza che rende il ritorno alla realtà ancora più toccante.
L’oasi di pace viene gradualmente erosa da un’inquietudine crescente, che culmina in un breve ma intenso climax. Il cromatismo si intensifica, le armonie diventano più ambigue e tese. Il ritmo della mazurka si fa più marcato e quasi zoppicante, suggerendo ansia e agitazione. La dinamica cresce gradualmente da piano a mezzoforte, come un’emozione che non può più essere contenuta. Qui la musica raggiunge il suo apice di tensione: gli accordi sono più pieni e le dissonanze più aspre. Non è un climax di potenza, ma di angoscia. È il momento in cui la realtà del presente irrompe con forza nel ricordo. Subito dopo il climax, un poco ritardando spezza la tensione: è un crollo, un sospiro di sfinimento che prepara il ritorno inevitabile alla malinconia iniziale.
Il ritorno della prima sezione non è una semplice ripetizione. Dopo il viaggio emotivo della sezione centrale, il tema iniziale appare ora gravato da un nuovo peso. La sua malinconia è ora più profonda, quasi rassegnata e viene percepito diversamente, con la consapevolezza del contrasto con la felicità perduta della sezione precedente e dell’angoscia dello sviluppo. La coda è la chiave di volta dell’intero brano. La musica si dissolve letteralmente nel silenzio e un diminuendo costante porta la dinamica al pianissimo. La mano sinistra suona accordi arpeggiati e radi, mentre la destra si spegne su poche, isolate note. Gli ultimi accordi, tenuti a lungo dal pedale, non offrono una vera conclusione. Sono un’eco che si perde, un ricordo che svanisce definitivamente, lasciando solo un senso di vuoto e di perdita irreparabile.

Nel complesso, il pezzo è un capolavoro di sintesi emotiva, qualificandosi come un’opera profondamente polacca nel suo linguaggio, ma universale nel suo messaggio di dolore e resilienza. Attraverso la struttura familiare di una danza, Szpilman ci conduce in un viaggio straziante attraverso i paesaggi della sua anima, trasformando una forma tradizionale in un requiem personale e indimenticabile.

Soirée de Vienne

Alfred Grünfeld (4 luglio 1852 - 1924): Soirée de Vienne, «Konzertparaphrase über Johann Straußsche Walzermotive» per pianoforte op. 56. Rudolf Buchbinder.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Alfred Grünfeld: il virtuoso dei salotti e pioniere della registra­zione del suono

Alfred Grünfeld, importante pianista e compositore austriaco, ha segnato la scena musicale viennese tra il XIX e il XX secolo, diventando non solo una celebrità dei concerti ma anche una figura chiave nella storia della registrazione sonora.

Origini e formazione di un talento precoce
Nato a Praga nella famiglia del commerciante di pellami Moritz Grünfeld, visse fin da piccolo in un ambiente intriso di musica. Diversi suoi fratelli intrapresero carriere musicali, come il celebre violoncellista Heinrich Grünfeld. Il talento di Alfred fu evidente fin dall’età di quattro anni. Iniziò la sua formazione musicale con Julius Theodor Hoeger e tenne il suo primo concerto pubblico a Praga nel 1865. Proseguì gli studi al Conservatorio di Praga con maestri del calibro di Bedřich Smetana, per poi perfezionarsi a Berlino presso la Neue Akademie der Tonkunst di Theodor Kullak.

Il re dei salotti viennesi e la fama internazionale
Nel 1873, Grünfeld si trasferì a Vienna, dove visse per il resto della sua vita. In breve tempo, divenne il più celebre e richiesto pianista da salotto della città, esibendosi regolarmente per l’alta società e nelle più prestigiose sale da concerto come il Großer Musikvereinssaal e il Bösendorfersaal. La sua abilità non si limitava alle performance solistiche: collaborò spesso con rinomati quartetti d’archi (Quartetto Rosé, Quartetto Hellmesberger) e intraprese con il fratello Heinrich lunghe tournée che lo portarono in tutta Europa e negli Stati Uniti, consolidando la propria fama internazionale. Fu insignito di numerose onorificenze, titoli e ordini cavallereschi da parte delle corti di Prussia, Romania, Serbia e Sassonia. Fu amico di Johann Strauß figlio, che gli dedicò il suo celebre valzer Frühlingsstimmen.

Un pioniere della registrazione sonora
Grünfeld detiene un posto di rilievo nella storia della musica per essere stato il primo pianista di fama a realizzare registrazioni commerciali. Già nel 1889 registrò su cilindri di cera per il fonografo di Edison, durante una dimostrazione in Europa. Una di queste prime incisioni, la sua Ungarische Rhapsodie, è stata riscoperta e restaurata nel 2012. Tra il 1899 e il 1915, incise ben 94 dischi di musica classica e romantica (Chopin, Grieg, Schumann) e 50 dischi con le sue stesse composizioni. Fu anche attivo nel campo dei rulli per pianoforti automatici, registrando per i sistemi Welte-Mignon e Phonola, dimostrando un notevole interesse per le nascenti tecnologie di riproduzione musicale.

L’attività di compositore: tra salotto e palcoscenico
Parallelamente alla sua carriera di interprete, Grünfeld fu un prolifico compositore: scrisse circa 100 pezzi per pianoforte, principalmente nello stile della musica da salotto, tra cui la sua opera più famosa, la Kleine Serenade (1888). Compose anche parafrasi e trascrizioni virtuosistiche di grande successo, come quelle sui valzer di Strauss (Soirée de Vienne, Kaiser-Walzer), sebbene molte di queste non furono pubblicate e sopravvivono oggi solo grazie alle sue registrazioni. Si cimentò anche nel teatro musicale, componendo l’operetta Der Lebemann (1903) e l’opera comica Die Schönen von Fogaras (1907); non ottennero successo duraturo, ma alcuni brani dell’una e dell’altra divennero molto popolari.

Soirée de Vienne: analisi
Non si tratta di una semplice trascrizione, bensì di una Konzertparaphrase (parafrasi da concerto), un genere virtuosistico portato alla sua massima espressione da Franz Liszt. Grünfeld non si limita a riproporre alcune melodie tratte dalla celebre operetta Die Fledermaus, ma le smonta, le adorna e le ricompone in un’esplosione di fuochi d’artificio pianistici. Il brano è concepito come un grande potpourri, una fantasia che guida l’ascoltatore attraverso i momenti salienti dell’operetta, evocando l’atmosfera di una sfarzosa festa viennese.

L’inizio è affidato a un’introduzione libera e rapsodica che funge da preludio, caratterizzata da scale cromatiche discendenti e arpeggi scintillanti che percorrono l’intera tastiera. Le armonie sono ricche e instabili, con un uso sapiente di accordi di settima diminuita che generano tensione.
Senza soluzione di continuità, emerge il primo, celeberrimo tema di valzer dell’operetta. La mano sinistra non si limita al classico accompagnamento accordale, ma lo arricchisce con arpeggi ampi e bassi profondi, mentre la destra adorna la melodia con abbellimenti, trilli e rapidissime fioriture. È qui che si manifesta il caratteristico Schwung viennese: una leggera enfasi sul secondo tempo di battuta e una lieve esitazione prima del terzo. La sezione culmina in una transizione virtuosistica dove la melodia si dissolve in cascate di note cristalline, una vera e propria cadenza che mette in luce la padronanza tecnica dell’esecutore.
Il vortice brillante si placa per lasciare spazio a un episodio più lirico e cantabile. Il tema, sempre tratto dall’operetta, è più raccolto e sognante. La melodia, spesso collocata nel registro centrale, viene esposta con grande sensibilità e un fraseggio quasi vocale. Questa sezione offre un contrasto fondamentale, rappresentando il lato più intimo e sentimentale della festa, probabilmente un dialogo tra due amanti appartati dalla folla danzante. L’atmosfera sognante viene gradualmente interrotta da una transizione che riaccende l’energia. Sequenze ascendenti e arpeggi sempre più veloci preparano il ritorno al clima festoso.
Segue l’apoteosi del brano: Grünfeld scatena tutto l’arsenale della tecnica pianistica tardo-romantica. I temi vengono presentati con una tessitura densissima e la melodia passa alla mano sinistra, mentre la destra si lancia in complessi passaggi di terze e seste. Particolarmente notevole è il passaggio con le mani incrociate, dove linee melodiche e accompagnamenti si scambiano di posto a velocità vertiginosa, creando un effetto sonoro straordinariamente ricco e complesso. L’uso dell’intera estensione della tastiera, dai bassi tonanti agli acuti cristallini, dona al brano una dimensione quasi orchestrale.
La coda è un accelerando inarrestabile verso la conclusione. Frammenti dei temi principali vengono lanciati in un turbine sonoro che evoca l’euforia del celebre «Champagne-Lied» della Fledermaus. Lo strumento è spinto al limite con ottave martellanti e accordi potenti, per poi concludere con una scala vertiginosa che svanisce in un accordo secco e trionfante. È la conclusione perfetta, che lascia l’ascoltatore euforico e quasi senza fiato, come al termine di una notte di balli sfrenati.

Nel complesso, la Soirée de Vienne di Grünfeld si rivela come la quintessenza del virtuosismo viennese: un omaggio affettuoso e al contempo spettacolare al “re del Valzer”, capace di trasportare l’ascoltatore direttamente nelle sfarzose sale da ballo della Vienna imperiale.

Érik Satie 1925-2025 – IV

Érik Satie (1866 - 1° luglio 1925): Sonatine bureaucratique per pianoforte (1917). Pascal Rogé.

  1. Allegro
  2. Andante [1:03]
  3. Vivache [2:38]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’ironia in frac: Satie e la dissacrazione della forma nella Sonatine bureaucratique

L’opera fu scritta in pieno fermento delle avanguardie e durante la prima guerra mondiale e, anch’essa, è un manifesto dell’estetica satieana. L’obiettivo polemico del pezzo è incredibilmente preciso: la Sonatina in do maggiore op. 36 n. 1 di Muzio Clementi, ancora oggi un caposaldo della didattica pianistica, un pezzo che generazioni di studenti di pianoforte hanno suonato fino allo sfinimento. Satie prende quest’icona della pedanteria accademica e la sottopone a un processo di corrosione sottile e geniale, trasformandola nella colonna sonora della giornata di un mediocre impiegato.

Il brano si apre con una citazione quasi letterale del primo movimento di Clementi. Le scale ascendenti, gli arpeggi spezzati (il cosiddetto “basso albertino”), tutto è riconoscibile. Qui però s’inizia il gioco di Satie: già dopo poche battute, egli introduce delle “note sbagliate”, delle dissonanze sottili che incrinano la levigatezza classica. È come ascoltare un allievo diligente ma non troppo dotato, o un impiegato che esegue i suoi compiti in modo meccanico, con qualche occasionale e goffa sbavatura. Nelle note a margine della partitura, Satie descrive la scena: «Egli si alza di buon umore… Va in ufficio… Cammina per strada…». La musica diventa programmatica, ma in modo parodistico. La banalità del tema di Clementi si sposa perfettamente con la banalità della routine quotidiana.
Il secondo movimento, basato sull’Andante di Clementi, è il cuore malinconico e surreale della Sonatina. La melodia, già di per sé semplice e un po’ leziosa nell’originale, viene qui avvolta in armonie più ambigue e persino toccanti. Le dissonanze si fanno più espressive, suggerendo una sorta di nostalgia o un vago sogno. Le annotazioni di Satie recitano: «Sopra una vecchia canzone peruviana… Egli la rimpiange… sogna una promozione…». Satie non si limita a deridere; esplora la tristezza intrinseca della mediocrità. L’impiegato, nella sua pausa, sogna qualcosa di più grande, ma il suo sogno è espresso attraverso il linguaggio musicale più convenzionale e limitato possibile.
Il finale è dove la farsa burocratica raggiunge il suo apice. Il Vivace di Clementi, un pezzo brillante e veloce, viene trasformato in una corsa frenetica e insensata. Satie accelera il ritmo, introduce interruzioni brusche, scale cromatiche che sembrano inciampare su sé stesse e accordi fuori posto che suonano come un gesto di stizza. Le annotazioni descrivono la fine della giornata lavorativa: «Egli è molto zelante… È tutto… Ae ne va tutto contento…». La “gioia” dell’impiegato è rappresentata da una musica meccanica, quasi nevrotica, che corre verso una conclusione tanto attesa quanto priva di un vero appagamento. Il finale è secco, quasi troncato, come se si fosse timbrato il cartellino d’uscita.

Nel complesso, il brano è molto più di un semplice scherzo musicale: è una critica pungente alla cultura del suo tempo, una presa in giro della seriosità con cui veniva trattata la “grande musica” e della sua funzione educativa, spesso ridotta a un esercizio meccanico. Satie ci dimostra che si può essere profondi e provocatori usando i materiali più semplici e “bassi”. Indossando il “frac” della forma-sonatina, Satie ne rivela le cuciture, gli strappi e la polvere accumulata.

Érik Satie 1925-2025 – III

Érik Satie (1866 - 1° luglio 1925): Sports et Divertissements per pianoforte (1914). Eve Egoyan.

  1. Choral inappétissant
  2. Le Yachting [0:47]
  3. Le Traîneau [1:31]
  4. Le Tango – perpétuel [1:57]
  5. Le Carnaval [3:19]
  6. Le Réveil de la Mariée [3:44]
  7. Le Golf [4:06]
  8. La Pêche [4:37]
  9. La Pieuvre [5:22]
  10. Le Tennis [5:45]
  11. Le Pique-nique [6:21]
  12. Les Courses [6:45]
  13. Le Bain de mer [7:07]
  14. La Chasse [7:35]
  15. La Balançoire [7:51]
  16. Le Water-chute [8:38]
  17. Colin-Maillard [9:12]
  18. Les Quatre-Coins [9:55]
  19. La Comédie italienne [10:31]
  20. Le Feu d’Artifice [11:01]
  21. Le Flirt [11:23]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’arte della miniatura e dell’ironia in Sports et Divertissements

La raccolta per pianoforte Sports et Divertissements è probabilmente l’esempio più puro e distillato della visione artistica di Satie, rivelandosi un microcosmo dove musica, calligrafia e testo surreale si fondono in un’opera d’arte totale in miniatura.
L’opera fu commissionata per accompagnare le illustrazioni dell’artista Charles Martin in un lussuoso album in edizione limitata. Satie, con la sua tipica irriverenza, non si limitò a comporre musica “di sottofondo”, ma creò un’opera che dialoga e spesso contraddice sia il titolo di ogni brano che l’illustrazione stessa. Il video ci offre un privilegio unico: vedere la partitura come Satie la concepì, con la sua elegante calligrafia, dove le indicazioni, le legature e le note stesse diventano elementi di un design grafico. Questa fusione di arti anticipa le correnti d’avanguardia del Dadaismo e del Surrealismo, posizionando Satie come un precursore indiscusso.
La raccolta è composta da 20 brevissimi brani, incorniciati da un Choral inappétissant e da un corale implicito non scritto. Ogni pezzo è un’istantanea, un aforisma sonoro che cattura un’idea con un’economia di mezzi sconcertante. Satie rifiuta lo sviluppo tematico tradizionale, la tensione armonica e la risoluzione tipiche della musica tonale. Al contrario, adotta lo stile che lui stesso definirà musique d’ameublement, ossia una musica che semplicemente esiste nello spazio e che non chiede di essere ascoltata con devozione.
Il testo visibile nella partitura non è un programma descrittivo, ma un commento parallelo, spesso assurdo e umoristico. Satie avverte di «non leggere il testo ad alta voce durante l’esecuzione»: è il suo paradosso più grande, un invito a considerare il testo come parte integrante dell’esperienza visiva e concettuale, ma separata da quella puramente uditiva, creando così un cortocircuito percettivo.

Il Choral inappétissant è una perfetta parodia: armonicamente denso e dissonante, con accordi che non seguono alcuna logica funzionale, si muove con una lentezza Grave. È l’antitesi di un preludio accattivante. Come Satie scrive nella prefazione: «L’ho scritto per coloro che non mi amano. E mi ritiro». È un filtro, un avvertimento che ciò che seguirà non è per i palati tradizionali.
Le Yachting, invece, evoca il movimento delle onde non con un descrittivismo impressionista, ma con figure arpeggiate e ostinate, meccaniche e leggermente instabili. L’uso di accordi paralleli e armonie bitonali crea un senso di dondolio quasi nauseante, che si sposa perfettamente con il testo: La mer est démontée.
Le Traîneau è un pezzo brillante e gelido: le note acute e staccate nel registro alto del pianoforte imitano il suono dei campanelli, mentre gli accordi dissonanti e i grappoli di note nel basso suggeriscono il freddo pungente. È un esempio magistrale di onomatopea musicale.
Le Tango – perpétuel non è un tango sensuale, ma una versione goffa, meccanica e ripetitiva. Il ritmo è stilizzato e quasi caricaturale. Il testo lo definisce «la danza del Diavolo», rafforzando la sua natura perversa e non convenzionale.
Le Carnaval è un’esplosione di caos controllato, con frammenti melodici veloci, accordi bitonali e un ritmo incalzante che dipingono una scena di carnevale non gioiosa, ma quasi febbrile e surreale, come suggerito dal testo che parla di una «maschera malinconica».
Le Réveil de la Mariée è un’altra parodia. Invece di una dolce serenata, abbiamo una fanfara sgangherata e dissonante (Appels). Il testo menziona «chitarre fatte con vecchi cappelli», confermando l’atmosfera da Commedia dell’arte stravolta.
Le Golf presenta melodie spigolose e ritmi secchi descrivono i movimenti del golfista. Il momento culminante, Le doigt qui assure le coup!, è seguito da un accordo potente e un arpeggio discendente che simboleggia il volo della palla, che, come dice il testo, «vola via in schegge».
La Pêche è un momento di calma quasi impressionista, con figure mormoranti (Murmures de l’eau). La staticità armonica crea un senso di attesa. Il testo descrive l’arrivo di un pesce, poi un altro, e infine un pescatore, ma la musica rimane impassibile, quasi indifferente.
La Pieuvre è un pezzo sinistro nel registro grave. Il movimento cromatico e l’uso della scala esatonale evocano i tentacoli striscianti della piovra. È uno dei brani più cupi e modernisti della raccolta.
Le Tennis è una simulazione perfetta di una partita di tennis, con i suoi botta e risposta tra le mani destra e sinistra. Il ritmo è serrato, energico e spigoloso. La musica si conclude con un secco accordo che corrisponde al Game! del testo.
Le Pique-nique è un valzer dansant, ma con le tipiche armonie “sbagliate” di Satie che lo rendono bizzarro. Il testo è un dialogo assurdo su cosa portare al picnic, che si conclude con un banale Ma non, c’est un orange.
Les Courses è un moto perpetuo che evoca il galoppo dei cavalli. Il pezzo è quasi interamente costruito su un ritmo ostinato e incalzante che crea una grande tensione motoria.
Le Bain de mer è dominato da figure ondulatorie e arpeggi delicati descrivono il bagno in mare. La musica ha una qualità trasparente e fredda, che si sposa con il testo: La mer est large… elle est aussi profonde.
La Chasse evoca corni da caccia con intervalli di quarta e quinta, resi grotteschi da armonie dissonanti. Il testo è un capolavoro di surrealismo: il coniglio canta, l’usignolo è nella tana e il cinghiale si sposa.
La Balançoire è la quintessenza della semplicità: una melodia infantile oscilla dolcemente su un ostinato di due note. È un pezzo ipnotico e malinconico, che incarna l’idea di “musica d’arredamento”.
Le Water-chute presenta scale cromatiche discendenti e glissandi che danno una vertiginosa sensazione di caduta, come suggerito dal testo.
Colin-Maillard presenta una musica frammentata, esitante e disorientata. Brevi frasi si interrompono bruscamente, dipingendo perfettamente l’immagine di qualcuno che si muove a tentoni, alla cieca.
Les Quatre-Coins fa riferimento al gioco infantile dei quattro cantoni, rappresentato da una musica estremamente semplice, quasi una filastrocca. Il finale, dove Le chat est glacé, è reso con accordi statici e immobili.
La Comédie italienne fa ritorno al mondo teatrale, con gesti esagerati e un sapore alla napoletana che viene costantemente sovvertito. È una caricatura della teatralità stessa.
Le Feu d’Artifice s’inizia con un’energia Rapide, con arpeggi e figure scintillanti che salgono verso l’alto. Il gran finale, Le Bouquet!, è un’altra beffa di Satie: invece di un’esplosione, si conclude con un accordo delicato e pianissimo.
Le Flirt, infine, mima un linguaggio più romantico, con melodie più cantabili, ma le armonie restano ambigue e sfuggenti, proprio come un flirt.

Nel complesso, Sports et Divertissements non è una semplice raccolta di pezzi umoristici, ma un vero e proprio manifesto estetico: attraverso queste venti istantanee sonore, Satie compie un’operazione radicale, liberando la musica dalla sua funzione narrativa ed emotiva, spogliandola di ogni retorica e presentandola come un oggetto sonoro puro, da osservare (nella sua veste grafica), leggere (nei suoi commenti surreali) e ascoltare (nella sua essenza sonora).
Rifiutando la magniloquenza del tardo Romanticismo, Satie anticipa il Neoclassicismo nella sua ricerca di chiarezza e forma, il Surrealismo nel suo gusto per l’assurdo e l’accostamento incongruo e persino il Minimalismo nella sua ossessiva ripetizione di piccole cellule. Quest’opera, più di ogni altra, ci mostra perché Satie rimane una delle figure più influenti e attuali del XX secolo: un artista che ha capito che, a volte, la più grande rivoluzione si compie con un sorriso ironico e un gesto di elegante, geniale brevità.

Érik Satie 1925-2025 – II

Érik Satie (1866 - 1° luglio 1925): Première Gymnopédie per pianoforte (1888). Khatia Buniatishvili.


Lo stesso brano nell’orchestrazione di Claude Debussy (1897). London Promenade Orchestra, dir. Eric Hammerstein.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’eleganza del vuoto: Satie e la Première Gymnopédie tra luce e ombra

Per comprendere la portata di questo brano, dobbiamo fare riferimento al suo titolo: Gymnopédie fa riferimento a un’antica festività spartana nel corso della quale giovani nudi (o, sempliicemente, senza armi) danzavano lentamente in una sorta di rito solenne, eseguendo anche canti ed esercizi ginnici. Con ciò, Satie intende evocare un’immagine di purezza arcaica, di nudità formale e di austerità, in netto contrasto con l’opulenza decorativa della sua epoca.
In metro 3/4, definirla un valzer sarebbe profondamente sbagliato, poiché manca della spinta e della leggerezza tipiche della danza. L’accompagnamento della mano sinistra – che alterna una nota bassa al primo tempo con un accordo sui due tempi successivi – è implacabile e ipnotico. Non è una pulsazione che invita al movimento, ma un battito lento e ritualistico, quasi un respiro o un passo cerimoniale. La sua regolarità monotona crea una sorta di stasi, un tempo circolare che non progredisce ma semplicemente è . La struttura del brano è altrettanto elementare, riconducibile a una forma A-B-A, dove sezioni quasi identiche si alternano, rafforzando la sensazione di un’esperienza meditativa più che di una narrazione musicale.
La melodia della mano destra, descritta dall’indicazione di Satie come Lent et douloureux (Lento e doloroso) fluttua sopra l’accompagnamento con una grazia malinconica e distaccata. È una melodia semplice, quasi spoglia, ma incredibilmente evocativa. Non ha lo slancio passionale romantico, ma è piuttosto una linea vocale introversa, un canto solitario.
Anche qui Satie abbandona quasi completamente le regole dell’armonia funzionale classica, secondo cui gli accordi devono seguire una progressione logica di tensione e risoluzione. Al contrario, gli accordi sono trattati come blocchi di colore, giustapposti per creare un’atmosfera.
L’esempio più celebre è l’apertura, con il succedersi di due accordi di settima maggiore, rispettivamente su sol e su re: questa successione, priva di un legame tonale tradizionale, crea un effetto fluttuante e onirico. Non c’è un “percorso” da seguire, solo una contemplazione di sonorità. L’uso di accordi di settima e nona, non come dissonanze da risolvere ma come colori stabili e autosufficienti, anticipa di decenni le innovazioni armoniche dell’Impressionismo (Debussy, che era amico di Satie e orche­strò la prima e la terza Gymnopédie, ne fu profondamente influenzato) e persino del jazz.

Nel complesso, anche questa composizione è un manifesto, elevandosi come rappre­sen­tante di quella musique d’ameublement che non pretende di essere al centro dell’at­ten­zione, ma che ha il potere di modificare l’ambiente e lo sato d’animo di chi ascolta.

Érik Satie 1925-2025 – I

Érik Satie (1866 - 1° luglio 1925): Ogives per pianoforte (1886). Reinbert de Leeuw.

  1. Première Ogive
  2. Deuxième Ogive [2:26]
  3. Troisième Ogive [6:26]
  4. Quatrième Ogive [8:55]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Cattedrali sonore: l’architettura mistica delle Ogives di Satie

Nel 1886 Satie è un compositore di vent’anni che ha da poco abbandonato, per la seconda volta e con disprezzo, il Conservatorio di Parigi, un’istituzione che considera soffocante e reazionaria. In questo periodo, immerso nell’atmosfera bohémienne e avanguardistica di Montmartre e del cabaret Le Chat Noir, il giovane musicista sviluppa un profondo interesse per il misticismo, l’esoterismo (in particolare la Rosacroce) e l’arte medievale. Le quattro Ogives nascono proprio da questa fascinazione, rappre­sen­tan­do uno dei primi e radicali tentativi di Satie di creare un linguaggio musicale completamente nuovo, in aperta rottura con la tradizione romantica e wagneriana che domina il mondo musicale dell’epoca. Il titolo stesso è un riferimento diretto all’arco a sesto acuto, elemento architettonico fondamentale dello stile gotico, svelando l’inten­zio­ne del compositore di creare un’architettura sonora.

Prima di analizzare ogni brano singolarmente, è fondamentale comprendere gli ele­menti che uniscono le quattro Ogives, rendendole un ciclo coerente e un vero e proprio manifesto estetico:
struttura binaria: ogni brano si basa su una struttura bipartita, presentando un’idea musicale dapprima esposta con dinamica forte o fortissimo e poi ripetuta identica con dinamica piano o pianissimo. Questo crea un effetto di eco, di risonanza all’interno di un grande spazio vuoto, come quello di una cattedrale;
assenza di metro: Satie abolisce la barra di misura e la segnatura di tempo: questa scelta rivoluzionaria libera la musica da una pulsazione ritmica regolare, conferendole un carattere fluttuante, sospeso e senza tempo, che ricorda da vicino la declamazione libera e solenne del canto gregoriano;
armonia statica e parallela: l’elemento più innovativo è l’armonia: Satie abbandona la tonalità funzionale (il sistema di tensioni e risoluzioni tonica-dominante) in favore di un’armonia modale e statica. Gli accordi non hanno una funzione propulsiva, ma sono “colori” sonori, blocchi monolitici. Utilizza massicciamente il movimento di accordi paralleli, una tecnica che evoca l’organum medievale e il suono dell’organo da cattedrale;
tempo e carattere: Tutte e quattro le Ogives hanno come indicazione di movimento Très lent (molto lento). Questo, unito all’armonia ieratica e alla ritmica libera, crea un’at­mo­sfera di profonda contemplazione, quasi un rito mistico o una meditazione.

La prima Ogive (dedicata al poeta spagnolo José Patrice Contamine de Latour) presenta una linea melodica è di una semplicità disarmante. Si muove per gradi congiunti, disegnando un arco ascendente e poi discendente. È diatonica e ha un sapore arcaico, quasi liturgico. La melodia viene sostenuta da accordi maestosi e pieni che si muovono inesorabilmente in parallelo. L’armonia è solenne, quasi austera, costruita su quarte e quinte che rafforzano il sapore medievale.
La seconda Ogive (dedicata al compositore francese Charles-Gaston Levadé) presenta un linguaggio più complesso e misterioso, con una melodia più cromatica caratterizzata da alterazioni che creano una sottile tensione e un’atmosfera più inquieta ed esoterica rispetto alla prima. Gli accordi seguono la melodia, generando dissonanze più aspre e sonorità più enigmatiche. L’effetto è meno grandioso e più introspettivo, quasi un rito segreto. La struttura formale viene mantenuta, ma il contenuto emotivo è più oscuro e interrogativo. Si percepisce chiaramente l’influenza del misticismo rosacrociano che tanto affascinava Satie.
La terza Ogive (dedicata a Madame Clément Le Breton) presenta la melodia più lirica e cantabile dell’intero ciclo. Pur mantenendo la sua semplicità, possiede una grazia quasi pastorale, con un andamento che suggerisce una maggiore serenità. Gli accordi che la sostengono sono meno severi di quelli della prima e meno tesi di quelli della seconda: Satie esplora qui sonorità più dolci, con un uso di accordi che, pur nel loro parallelismo, sfiorano una sensibilità più vicina al mondo modale di Debussy. Il cambiamento di dinamica assume qui i contorni di un ricordo dolce, di una contemplazione serena.
La quarta Ogive (dedicata al fratello Conrad) ha un carattere conclusivo e riflessivo. La melodia è prevalentemente discendente, come un lento ripiegarsi su sé stessa. L’ar­mo­nia è forse la più spoglia e minimale del ciclo: gli accordi sono scarni, quasi scheletrici, e il movimento parallelo è portato alle sue estreme conseguenze. L’im­pres­sione è quella di una quiete definitiva, di uno spazio sonoro che si svuota pro­gres­si­va­mente. La ripetizione in pianissimo è appena un sussurro, un’ombra sonora che si dissolve nel silenzio, suggellato da un lungo accordo finale.

Nel complesso, le Ogives sono molto più di semplici brani per pianoforte, qualificandosi come una vera e propria dichiarazione d’intenti: Satie rifiuta l’espressione emotiva soggettiva, il virtuosismo e la complessità narrativa del Romanticismo. La sua musica è oggettiva, impersonale, quasi un oggetto sonoro da contemplare. Non vuole raccontare una storia, ma essere un’architettura, una presenza statica nello spazio e nel tempo. Con la loro struttura ripetitiva, la staticità armonica e l’enfasi sulla pura sonorità, questi pezzi anticipano di quasi un secolo il minimalismo: l’idea di presentare un’idea musicale scarna e di esplorarla attraverso la ripetizione e sottili variazioni di dinamica è pro­fon­da­mente moderna. In un certo senso, Satie inventa qui anche il concetto di “musica d’arredamento” (musique d’ameublement) che teorizzerà solo decenni più tardi.

refrain – brisants – airs

Éric Gaudibert (1936 - 29 giugno 2012): Sonata per pianoforte (1978-82). Hajk Melikjan.

  1. refrain
  2. brisants [7:18]
  3. airs [13:20]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Éric Gaudibert: l’architetto sonoro svizzero tra tradizione e avanguardia

L’opera di Gaudibert, personalità di spicco nel panorama musicale svizzero, ha tracciato un percorso distintivo attraverso l’innovazione e un profondo dialogo con diverse forme d’arte. La sua vita, dedicata alla musica come pianista, compositore e docente, riflette una continua ricerca sonora e filosofica.

Formazione d’eccellenza e primi passi artistici
Nato a Vevey, Gaudibert intraprese i suoi studi musicali iniziali presso il Conservatorio di Losanna, dove si dedicò al pianoforte e alla composizione sotto la guida di insegnanti come Denise Bidal e Hans Haug. La sua sete di conoscenza lo portò successivamente a Parigi, un centro nevralgico per la musica del XX secolo. Qui, si perfezionò all’École normale de musique, avendo il privilegio di studiare con personalità leggendarie del calibro di Alfred Cortot (pianoforte), Henri Dutilleux e Nadia Boulanger (composizione). Fino al 1969 Gaudibert mantenne una proficua doppia attività, distinguendosi sia come pianista concertista che come compositore, risiedendo nella capitale francese fino al 1972.

L’Immersione nell’Avanguardia e il ritorno in patria
Il periodo parigino culminò con un’importante esperienza nell’ambito dell’avanguardia musicale francese. Tra il 1972 e il 1975, Gaudibert assunse la direzione delle attività musicali della prestigiosa Maison de la culture di Orléans, un ruolo che gli permise di confrontarsi direttamente con le correnti più innovative del tempo. Al suo ritorno in Svizzera, mise a frutto questa esperienza collaborando attivamente con la Radio e la Televisione svizzera romanda. In questo contesto, si dedicò alla creazione di musiche elettroacustiche e alla realizzazione di trasmissioni volte all’iniziazione e alla divulgazione musicale, dimostrando un impegno costante verso la diffusione della cultura sonora.

Carriera accademica, sviluppo stilistico e ricerca sonora
Nel 1975, Gaudibert si stabilì a Ginevra, città che divenne un punto di riferimento cruciale per la sua carriera. Intraprese un’intensa attività didattica, insegnando armonia al pianoforte, analisi e composizione presso il Conservatorio di Ginevra (dal 1975) e in quello di Neuchâtel. La sua pedagogia si radicava in una profonda comprensione della tradizione musicale, influenzata da giganti come Bartók, Schoenberg e Messiaen. Partendo da queste solide basi, Gaudibert seppe evolvere un linguaggio compositivo estremamente personale e originale. La sua musica si distingue per una peculiare indagine sugli aspetti spaziali, timbrici e filosofici del suono. Abbracciò con entusiasmo le potenzialità offerte dall’elettronica e dai nuovi media, integrandoli nel proprio processo creativo. La sua ispirazione attingeva da molteplici fonti, tra cui la poesia, la letteratura e, in modo significativo, le arti figurative, con una predilezione particolare per l’opera di Paul Klee.

Riconoscimenti ed eredità duratura
L’originalità e la profondità del lavoro di Éric Gaudibert non passarono inosservate. Nel 1989, l’Associazione dei musicisti svizzeri gli conferì il prestigioso Prix de composition per l’insieme della sua opera, un riconoscimento alla sua intera carriera. Successivamente, nel 1995, la città di Ginevra lo onorò con il Prix quadriennal de musique, attestando ulteriormente il suo impatto sul panorama culturale.
Il suo impegno nel mondo musicale si estese anche all’organizzazione di eventi di rilievo: a partire dal 2001, infatti, assunse la presidenza della commissione artistica del rinomato Concours de Genève, uno dei concorsi musicali internazionali più importanti. Gaudibert si spense a Confignon, in Svizzera, all’età di 75 anni, lasciando un’eredità di composizioni innovative, una profonda riflessione sulla natura della musica e un modello di integrità artistica per le generazioni future.

La Sonata per pianoforte di Gaudibert: analisi
La Sonata per pianoforte rappresenta un’opera significativa nel repertorio pianistico contemporaneo svizzero.
Il primo movimento non si presenta con un tema melodico tradizionale che ritorna ciclicamente, quanto piuttosto con un’idea gestuale e timbrica che funge da perno attorno al quale si sviluppa il discorso musicale. Esso si apre in un’atmosfera rarefatta e quasi spettrale. Note singole, acute e risonanti, emergono dal silenzio, creando un senso di attesa e introspezione. Gaudibert esplora qui le qualità percussive e risonanti del pianoforte, con un uso sapiente del pedale per prolungare la vibrazione delle corde. Il silenzio stesso assume un ruolo strutturale, non come semplice assenza di suono, ma come spazio attivo che dialoga con le note.
L’elemento refrain si manifesta come una serie di brevi cellule motiviche, spesso costituite da poche note ripetute o leggermente variate, che interrompono la staticità iniziale. Queste cellule, pur nella loro concisione, acquistano progressivamente peso e intensità. Si alternano momenti di quiete quasi immobile a improvvise accensioni dinamiche, con l’esplorazione di registri estremi del pianoforte – dai rimbombi gravi e profondi a sonorità acute e cristalline. La scrittura è spesso puntillistica, ricordando per certi versi la lezione weberniana, ma con un calore e una risonanza che evocano anche certe atmosfere di Messiaen.
Emerge poi una sezione leggermente più lirica, seppur frammentata. Piccoli arabeschi melodici si intrecciano, suggerendo un canto sommesso e interrogativo. Questa parentesi lirica viene progressivamente intensificata, portando a un culmine espressivo dove il refrain ritorna con maggiore forza e complessità armonica, utilizzando accordi più densi e dissonanti. Dopo il culmine, il movimento gradualmente si placa. Si assiste a una ricapitolazione variata del materiale iniziale, con un ritorno alle sonorità rarefatte e all’importanza del silenzio. Figure veloci e leggere si alternano a note tenute, creando un gioco di luci e ombre. Il refrain si ripresenta in forma più eterea, quasi un eco, prima che il movimento si dissolva nel silenzio da cui era emerso, lasciando una sensazione di sospensione.
Questo primo movimento stabilisce il linguaggio atonale e la sensibilità timbrica di Gaudibert. L’uso del refrain non è meccanico, ma organico, fungendo da punto di riferimento in un flusso sonoro in continua trasformazione.
Il secondo movimento contrasta nettamente con l’atmosfera contemplativa del precedente, scatenando un’energia quasi tellurica e una scrittura pianistica marcatamente virtuosistica. L’attacco è immediato e violento, con grappoli di note (cluster), accordi percussivi e scale rapidissime che percorrono l’intera tastiera. Il titolo è perfettamente incarnato: la musica evoca la forza impetuosa delle onde che si infrangono sugli scogli.
La dinamica è prevalentemente forte, con accenti marcati e un senso di urgenza implacabile. Il movimento prosegue alternando episodi di estrema agitazione a momenti di relativa, seppur tesa, calma. Gaudibert sfrutta tutte le risorse del pianoforte: tremoli, ribattuti velocissimi, ampi arpeggi dissonanti, salti improvvisi tra registri acuti e gravi. Non c’è spazio per un lirismo tradizionale; anche le sezioni meno dense mantengono un’inquietudine latente. La scrittura è ritmicamente complessa e irregolare, contribuendo al senso di instabilità e forza bruta.
Il movimento si sviluppa verso un culmine parossistico (intorno a 11:30), dove la densità sonora e la velocità raggiungono l’apice. L’energia sembra incontenibile. La conclusione è altrettanto drammatica e improvvisa, con una serie di accordi potenti e secchi che lasciano l’ascoltatore quasi senza fiato, senza una vera e propria risoluzione, ma piuttosto un’affermazione di potenza. Brisants è un tour de force pianistico che mette in luce la capacità di Gaudibert di creare immagini sonore vivide e potenti. È un movimento che richiede all’interprete non solo abilità tecnica, ma anche una grande resistenza fisica ed emotiva.
Il terzo e ultimo movimento si apre con una citazione poetica che ne illumina il carattere: «J’écoute… Le bruit des ailes du silence Qui vole dans l’obscurité. Saint-Amant, poète du XVII siècle». Dopo la tempesta di brisants, airs introduce un’atmosfera di profonda introspezione e lirismo rarefatto. Il movimento inizia con sonorità estremamente delicate e sospese, quasi un respiro. Frammenti melodici, spesso melismatici e di carattere quasi vocale, emergono e si dissolvono nel silenzio. L’uso del pedale è nuovamente cruciale per creare aloni sonori e prolungare la risonanza delle note, evocando «le ali del silenzio».
Si percepiscono echi del primo movimento, in particolare nelle sonorità acute e cristalline, quasi campaniformi, e nell’importanza data alle pause. Tuttavia, qui il linguaggio sembra più cantabile, seppur sempre all’interno di un’estetica moderna. Le arie non sono melodie chiuse e definite, ma piuttosto allusioni, frammenti di canto che si librano nell’aria. C’è un senso di ricerca, di contemplazione malinconica. Il movimento si dirige verso una conclusione eterea. Le dinamiche si affievoliscono progressivamente, le tessiture si diradano ulteriormente. Le ultime note, isolate e risonanti, sembrano perdersi nell’oscurità evocata dalla citazione di Saint-Amant. Il finale è di una bellezza struggente, lasciando una profonda impressione di pace e mistero. Questo movimento finale, con la sua poetica del silenzio e la sua cantabilità frammentata, chiude la sonata in modo circolare, ritornando alla rarefazione del refrain ma arricchita dall’esperienza drammatica di brisants. La citazione letteraria offre una chiave di lettura importante, sottolineando la dimensione filosofica e poetica della musica di Gaudibert.

Nel complesso, la Sonata per pianoforte di Gaudibert è un’opera che riflette pienamente le tendenze della musica colta della seconda metà del XX secolo. Il linguaggio è prevalentemente atonale, con un’attenzione meticolosa al timbro, alla dinamica e all’articolazione. L’influenza di compositori come Messiaen (per l’uso del colore e delle risonanze) e della Seconda scuola viennese (per la frammentazione e l’atonalità) è palpabile, ma rielaborata in uno stile personale. Il pezzo si qualifica come un viaggio sonoro affascinante che esplora un’ampia gamma di emozioni e stati d’animo, dalla contemplazione rarefatta alla violenza tellurica, fino a un lirismo intimo e poetico. È un’opera che richiede un ascolto attento e ricompensa con la scoperta di un universo sonoro complesso e profondamente umano.

Quattro Pezzi

Emil Sjögren (16 giugno 1853 - 1918): Quattro Pezzi per pianoforte op. 41 (1902-03). Ingrid Lindgren.

  1. Élegie sur le motif E-B-B-A (dedicata a Ebba Arndt)
  2. Le pays lointain [1:57]
  3. Humoreske [4:04]
  4. La Tourterelle [7:14]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Emil Sjögren: il viaggio romantico di un compositore svedese tra intimità e riconoscimento

Primi anni e formazione: tra instabilità e scoperte musicali
L’infanzia di Emil Sjögren fu segnata da un’alternarsi di insicurezza e stabilità: nato fuori dal matrimonio e affidato a una famiglia adottiva, fu riunito ai genitori solo cinque anni più tardi, quando il padre aprì un negozio di tessuti e poté sposare la madre di Emil. La stabilità fu di breve durata, poiché il padre morì in un incidente quando il piccolo aveva dieci anni, lasciando la madre Christina a mantenere la famiglia gestendo una piccola pensione, la quale divenne anche la casa di Emil fino al 1895. Da bambino, Sjögren era cagionevole di salute, ma descritto come inventivo e "alquanto birichino". Non eccelleva a scuola, ma era un lettore vorace, appassionato in particolare di una Illustrerad världshistoria (Storia del mondo illustrata) dal taglio politico radicale. La famiglia non aveva tradizioni musicali, ma il talento del giovane fu scoperto da Ludvig Ohlson, direttore musicale e uomo d’affari, probabilmente tramite Abraham Mankell, insegnante di musica di Emil e collega organista di Ohlson. A 16 anni Sjögren lasciò la scuola per iscriversi al conservatorio, e l’anno successivo iniziò a lavorare nel negozio di pianoforti di Ohlson e Isidor Dannström, accordando strumenti. Continuò questa attività per diversi anni, ma il mondo del commercio non faceva per lui. Al conservatorio, furono fondamentali gli insegnamenti dell’organista Gustaf Mankell, il quale notò il suo "delizioso talento" per
l’improvvisazione e della pianista Hilda Thegerström. Fuori dall’ambito accademico, due compositori di spicco, Ludvig Norman e August Söderman, funsero da mentori: il primo seguendo il suo sviluppo artistico e il secondo offrendogli consigli compositivi negli ultimi anni della sua vita. Durante gli studi, Sjögren iniziò a comporre le sue prime liriche (1871-73), annotate su un taccuino nero, affinando gradualmente il suo stile personale. In gioventù, strinse amicizia con due talentuosi compagni di conservatorio: il cantante Johannes Elmblad e il pianista Richard Andersson. Frequentava inoltre le feste degli studenti dell’Accademia Reale Svedese delle Belle Arti, per i quali suonava e componeva, entrando in contatto con molti giovani artisti svedesi, tra cui Carl Larsson, il quale gli fece un ritratto.

Debutto compositivo e affermazione iniziale
Il debutto ufficiale di Sjögren avvenne nel 1876 con la pubblicazione dell’op. 1, Fyra dikter (Quattro poesie), su testi dei poeti norvegesi Ibsen e Bjørnson, autori molto in voga e apprezzati anche dal suo mentore Söderman. Queste opere gli valsero una certa reputazione come compositore di liriche. Presto, però, si orientò verso la lingua danese, che divenne per lui cruciale. Nel 1879 vinse il concorso annuale della Società Svedese di Musica d’Arte con l’op. 3, sette liriche su poesie tratte dal Tannhäuser di Holger Drachmann. Seguì una vasta produzione di liriche su testi danesi di autori come Ernst von der Recke, J.P. Jacobsen e, più tardi, l’autrice svedese-danese Helena Nyblom. La musica di Sjögren, fresca e ispirata, era ammirata negli ambienti culturali di Stoccolma, sebbene alcuni criticassero una presunta carenza di perizia tecnica rispetto al suo talento compositivo. Grazie al sostegno finanziario dei suoi datori di lavoro, Ohlson e Dannström, nel 1879 si recò a Berlino per un anno di studi con il compositore Friedrich Kiel (contrappunto) e l’organista Karl August Haupt (tecnica organistica). Le liriche del Tannhäuser (op. 3) lo misero in contatto con l’editore musicale danese Henrik Hennings, il quale lo invitò a Copenaghen nell’autunno del 1883. Qui Sjögren vinse un concorso per pianoforte con la sua suite Erotikon ed entrò in contatto con un circolo di giovani autori e musicisti danesi, tra cui Holger Drachmann e il compositore Peter Erasmus Lange-Müller, che divenne uno dei suoi amici più intimi.

Il grande viaggio europeo (1883-85) e la Prima Sonata per violino
Grazie a benefattori privati e borse di studio pubbliche, Sjögren intraprese un tour europeo di due anni con Lange-Müller, soggiornando a Vienna (dove studiò strumentazione, probabilmente per qualificarsi come compositore orchestrale, come richiesto dall’Accademia reale svedese di musica), Merano (periodo particolarmente produttivo per liriche e pezzi pianistici), Monaco e Parigi. Durante il viaggio lavorò alla sua prima sonata per violino e, grazie ai contatti stabiliti a Lipsia nell’inverno 1885, l’opera fu pubblicata da Peters. Nell’autunno del 1885, tornò a Berlino, dove conobbe il giovane violinista Tor Aulin, il quale gli fornì consigli tecnici per la sonata. Nella primavera del 1886, gravemente ammalato, Sjögren rientrò in Svezia, ma non prima che la sua sonata per violino fosse eseguita in prima assoluta a Stoccolma (febbraio 1886) dal violinista francese Emile Sauret e dal pianista tedesco Felix Dreyschock, ricevendo lodi dalla critica, specialmente per il movimento lento.

Stoccolma (1886-1900): affermazione, incarichi e crisi personale
Nel 1881, Sjögren divenne organista presso la Chiesa riformata francese, ottenendo un modesto reddito. Lasciò il lavoro nel negozio di pianoforti nel 1883, pur continuando ad accordare strumenti per l’azienda. Dal 1886, insegnò composizione, teoria musicale e organo per due anni presso la scuola di pianoforte di Richard Andersson, senza però eccellere, secondo i contemporanei. Nel 1891, invece, ottenne l’importante incarico di organista della nuova Chiesa di San Giovanni a Stoccolma, per la cui inaugurazione nel 1890 aveva composto una cantata molto apprezzata. Mantenne questo incarico per il resto della vita, e le sue improvvisazioni all’organo divennero celebri, attirando folle di appassionati. Negli ultimi anni ’80, continuò a comporre liriche e pezzi pianistici, producendo la sua opera più famosa: la Sonata per violino n. 2 in mi minore. Ancora una volta, Tor Aulin lo assistette con la sua competenza violinistica, eseguendo la sonata in prima assoluta al primo festival musicale nordico di Copenaghen nel 1888, con il compositore al pianoforte. Tra gli ammiratori dell’opera vi fu Edvard Grieg. Nonostante i tentativi (come Bacchanal, Islandsfärd e Festspel), Sjögren non ebbe successo come compositore orchestrale. Tuttavia, negli anni ’90 si affermò come figura di spicco nella musica svedese, spesso definito "genio" e "il nostro principale poeta dei suoni". Un affresco nel nuovo teatro dell’opera (1897) raffigurava le muse con un libro di sue liriche. Fu contattato da autori come Strindberg e von Heidenstam per collaborazioni. Nonostante il prestigio, gli anni ’90 furono difficili: soffriva di una grave psoriasi e di alcolismo. La morte accidentale della madre nel 1895 lo privò di un punto di riferimento fondamentale. Dopo diverse relazioni complicate, nel dicembre 1897 sposò Berta Dahlman, che lo aiutò a ristabilirsi, riorganizzò la sua vita e divenne di fatto la sua manager, permettendogli di riprendere a comporre.

Parigi e Svezia (1901-18): riconoscimento internazionale e ultimi anni
Berta organizzò un viaggio a Parigi nel 1901, dove si tenne un concerto di opere del marito alla Salle Pleyel. Fu l’inizio di un’intensa promozione internazionale, supportata da numerosi musicisti che si esibivano gratuitamente. Fino al 1914, gli Sjögren visitarono Parigi quasi ogni anno, con numerosi concerti dedicati alle sue opere, alcuni dei quali sfarzosi (come quello alla Salle Gaveau nel 1908, dove Alexandre Guilmant eseguì in prima il suo Preludio e Fuga op. 48). Particolarmente significativa fu la collaborazione con il violinista George Enescu. Intorno al 1910, Sjögren raggiunse l’apice della sua attività, ottenendo successo in Francia, Germania e Inghilterra con le sue opere per pianoforte e le sonate per violino. Parallelamente, teneva numerosi concerti in Svezia. Nel 1910, la coppia acquistò una casa a Knivsta, che divenne la loro base, dove Sjögren compose le sue ultime opere, tra cui la Quinta Sonata per violino, la Sonata per violoncello e le Liriche Cinesi. Di salute cagionevole, Sjögren morì nel 1918 per una malattia cardiopolmonare.

Le opere: un catalogo ricco e innovativo
La produzione di Sjögren spazia attraverso diversi generi, con un’impronta stilistica distintiva.

  • Liriche: il genere cui fu più spesso associato. Introdusse novità come una maggiore libertà strutturale rispetto al testo, una scrittura pianistica più ricca e un trattamento della dissonanza più audace rispetto alla musica svedese precedente. Tra le opere significative: le Liriche norvegesi op. 1, le liriche dal Tannhäuser di Drachmann op. 3 (tra le più eseguite oggi), le Sette Liriche spagnole op. 6 e le liriche su testi di poeti danesi come von der Recke (op. 11, 13) e J.P. Jacobsen (op. 22, con capolavori come Saa standsed og dér den Blodets Strøm). Spiccato il suo gusto per l’esotico (I seraljens lustgård, Molnet, le tre liriche cinesi). La produzione del XX secolo include Kärlekssånger op. 50 e le poesie di Helena Nyblom op. 63.

  • Musica da camera: le cinque Sonate per violino, scritte in un arco di trent’anni, sono centrali. Rivitalizzò il genere in Svezia, infondendovi il suo personale linguaggio tonale, emotivo e lirico. Le prime due sonate (specialmente la n. 2 in mi minore, suo cavallo di battaglia) sono legate alla tradizione nordica. La Terza mostra influenze brahmsiane e francesi. La Quarta è dominata da arabeschi. La Quinta, dedicata a Enescu, è una sintesi delle precedenti, con un approccio più integrato alla forma sonata. Scrisse anche pezzi indipendenti per violino e pianoforte (es. Poème). La Sonata per violoncello e pianoforte op. 58 è un’opera importante nel repertorio svedese per questa formazione.

  • Musica per pianoforte: numerose raccolte di pezzi caratteristici negli anni ’80 e ’90, tra cui Erotikon op. 10 (molto importante e spesso eseguita) e la suite På vandring. Nel XX secolo compose due Sonate per pianoforte (op. 35, 44), variazioni e un preludio e fuga (op. 39), generi poco esplorati in Svezia prima di lui. Fu innovativo, utilizzando un’ampia estensione della tastiera e creando specifici effetti sonori, ottenendo una "pienezza di consonanza" notevole.

  • Musica per organo: produzione non vasta, ma significativa. Include tre serie di preludi e fughe (il primo convenzionale, i successivi più liberi nella forma) e Legender, una raccolta di 24 brevi pezzi d’atmosfera in tutte le tonalità, molto eseguiti.

  • Opere di maggiori dimensioni: benché Sjögren non abbia portato a termine progetti come l’opera Galjonsbilden e un Concerto per pianoforte, alcuni suoi lavori hanno un respiro più ampio, come i lavori per coro maschile e orchestra Bacchanal e Islandsfärd, la Kantat vid invigningen av S:t Johannes kyrka e il pezzo orchestrale Festspel (1892).

Ricezione critica: dalla celebrità all’oblio e alla riscoperta
La ricezione di Sjögren ha seguito una traiettoria drammatica. Nei primi del ’900 era il compositore svedese più eseguito, acclamato come genio e la sua liricità definita "la più intensa immaginabile" (Peterson-Berger). Dopo la sua morte, vari fattori contribuirono al suo declino: la Prima Guerra Mondiale smorzò l’interesse per il romanticismo; la mancanza di opere puramente orchestrali fu vista come una debolezza; il suo stile di sviluppo tematico non seguiva i modelli di Beethoven o Brahms; il genere del lied perse importanza; e la sua musica per organo cadde in disuso con l’avvento del movimento organistico anti-romantico. Negli anni ’30-’50, la sua musica fu rispettata ma poco eseguita. Verso la fine del secolo, con la rivalutazione del Romanticismo e grazie a una nuova generazione di musicisti, la potenza espressiva della sua musica è stata nuovamente apprezzata. Tuttavia, la sua musica rimane una risorsa sottoutilizzata, specialmente nelle esecuzioni concertistiche professionali, sia per le opere note che per quelle dimenticate e, soprattutto, per le sue liriche.

Quattro Pezzi per pianoforte op. 41: analisi
Questa raccolta rappresenta una matura espressione del linguaggio tardo-romantico di Sjögren, caratterizzato da un lirismo intenso, armonie ricche e una scrittura pianistica raffinata ed esigente. Ogni pezzo possiede un carattere distintivo, pur condividendo una sensibilità nordica e un’eleganza che talvolta sfiora l’Impressionismo francese.
Come suggerisce il titolo, il primo pezzo è intriso di una profonda malinconia e introspezione. L’indicazione Andante tranquillo stabilisce un’atmosfera contemplativa. Il motivo E-B-B-A (mi-si♭-si♭-la) funge da nucleo tematico e affettivo, un vero e proprio motto dedicato a Ebba Arndt, figura importante per il compositore. Il pezzo si apre con il motivo presentato chiaramente nella mano destra, sostenuto da accordi pieni e cromaticamente ricchi nella mano sinistra, che spesso disegnano linee melodiche discendenti. L’armonia è densa, con un uso espressivo di pedali armonici e dissonanze che si risolvono con struggente dolcezza. Il motivo viene ripetuto e variato leggermente, mantenendo sempre la sua identità riconoscibile e continuando a permeare la scrittura, ma con una tessitura leggermente più trasparente e un andamento più scorrevole. Le armonie si fanno forse un po’ più luminose, pur conservando la base malinconica.
La seconda sezione rappresenta una sorpresa strutturale ed emotiva. Il carattere cambia radicalmente, diventando più leggero, quasi danzante, con un andamento più veloce e staccato, modulando brevemente verso tonalità maggiori. Il motivo E-B-B-A è ancora presente, ma trasformato ritmicamente e integrato in figurazioni più agili, quasi a voler evocare un ricordo fugace e meno doloroso. Si ritorna gradualmente all’atmosfera iniziale, con il motivo che riemerge nella sua veste elegiaca. La coda ripropone frammenti del motivo, spegnendosi progressivamente su un accordo di re minore, lasciando un senso di pacata rassegnazione. L’armonia è tipicamente tardo-romantica, con un intenso cromatismo, accordi di settima e nona, e modulazioni fluide che arricchiscono l’espressività. L’uso del pedale è fondamentale per creare l’atmosfera risonante. La scrittura pianistica richiede sensibilità nel fraseggio, controllo delle dinamiche e capacità di far cantare la melodia sopra un accompagnamento complesso. La sezione Scherzando richiede una diversa agilità e leggerezza di tocco.
Il titolo del secondo pezzo (Il paese lontano) evoca invece immediatamente un’atmosfera sognante, nostalgica e spaziosa. L’indicazione Andante sostenuto e la tonalità di re maggiore contribuiscono a creare un paesaggio sonoro avvolgente e quasi impressionistico. Il pezzo si apre con ampi arpeggi nella mano sinistra che stabiliscono un tappeto armonico lussureggiante. La mano destra espone una melodia cantabile, ampia e nobile, spesso raddoppiata all’ottava o armonizzata con accordi pieni. Il respiro è largo, evocativo. La melodia si fa più frammentata, le armonie più cangianti. Si nota un uso di accordi paralleli e progressioni cromatiche che intensificano l’atmosfera sognante. Ritorna il tema principale, con lievi variazioni nell’accompagnamento o nella dinamica. Il carattere si fa più animato e la scrittura più virtuosistica, con figurazioni arpeggiate e passaggi scalari nella mano destra, su un accompagnamento sempre ricco. Le armonie si muovono attraverso tonalità vicine, creando un senso di viaggio interiore. Particolarmente interessanti le sequenze di accordi che salgono e scendono cromaticamente. Il tema principale ritorna con maggiore pienezza sonora e intensità emotiva, quasi un culmine espressivo. Il pezzo si placa gradualmente, con arpeggi discendenti e accordi che si diradano, svanendo in una sonorità eterea e lasciando l’ascoltatore sospeso in questa "terra lontana". L’armonia è estremamente ricca, con un uso abbondante di accordi alterati, settime, none e modulazioni enarmoniche che creano un effetto coloristico quasi debussyano, pur mantenendo una solida base romantica. La scrittura pianistica è impegnativa, richiedendo ampiezza di suono, controllo del pedale per creare risonanze e legare le armonie, e abilità nell’esecuzione di arpeggi e accordi estesi.
Come tipico del genere umoresca, il terzo pezzo è caratterizzato da vivacità, spirito e contrasti d’umore. L’indicazione Allegro vivace e la tonalità brillante di re maggiore preannunciano un carattere giocoso e talvolta capriccioso. Il tema principale è energico e ritmicamente marcato, spesso con figurazioni staccate, salti e accenti giocosi, con una scrittura brillante e virtuosistica stabilita fin dall’inizio. Viene introdotto un secondo tema più cantabile e melodico in una tonalità vicina e il carattere si fa più tenero e meno irruente, offrendo un piacevole contrasto. Ritorna poi il tema principale con la sua energia iniziale.
La seconda sezione sviluppa il materiale precedente o introduce nuove idee, con passaggi tecnicamente impegnativi, modulazioni rapide e un carattere quasi improvvisativo. Si notano scale veloci, ottave spezzate e un dialogo serrato tra le mani. Il materiale principale riaffiora, preparando la conclusione. Una coda brillante e virtuosistica, con passaggi rapidi e accordi finali decisi che confermano la tonalità di impianto e chiudono il pezzo con slancio.
L’armonia è prevalentemente diatonica, ma con un uso efficace di cromatismi e modulazioni temporanee per sottolineare i cambi di carattere. La scrittura pianistica è decisamente la più virtuosistica della raccolta, richiedendo agilità, precisione ritmica, articolazione brillante (staccati, legati veloci), e padronanza di passaggi in ottave e accordi rapidi.
Il titolo dell’ultimo brano (La tortorella) suggerisce un pezzo delicato, aggraziato e forse imitativo del verso dell’uccello. L’indicazione Allegretto grazioso e il ritorno alla tonalità sognante di fa maggiore creano un’atmosfera di tenera eleganza. Il metro di 6/8 conferisce un andamento cullante, quasi di barcarola o siciliana.
Brevi e leggeri arpeggi introducono l’atmosfera eterea del pezzo. Una melodia dolce e cantabile, ornata da trilli delicati e gruppetti che possono ricordare il tubare della tortora, costituisce il tema principale, sostenuta da un accompagnamento è leggero e cullante. Segue un episodio leggermente più mosso e modulante, con la melodia che si sposta in registri diversi e la scrittura che si fa un po’ più densa. Si ha poi il ritorno del tema principale con la sua grazia iniziale. Il materiale tematico viene sviluppato con maggiore elaborazione armonica e figurazioni pianistiche più complesse, come cascate di arpeggi e passaggi melodici più estesi, creando un breve culmine espressivo. Il tema principale ritorna per l’ultima volta, seguito da una coda che riprende le figurazioni introduttive e si dissolve delicatamente, lasciando un’impressione di serena bellezza.
L’armonia è ricca e colorata, tipica di Sjögren, ma sempre al servizio della grazia e della cantabilità. La scrittura pianistica richiede un tocco delicato, grande cura nel fraseggio per gli abbellimenti e le linee melodiche, e un uso sapiente del pedale per creare un suono vellutato e risonante senza appesantire la tessitura.

Nel complesso, i Quattro Pezzi dell’op. 41 mostrano la maestria del compositore nel creare miniature pianistiche ricche di atmosfera e di invenzione melodica. Sebbene ogni pezzo abbia una sua identità ben definita, l’opera nel suo complesso è unita da un lirismo nordico profondo, da una sensibilità armonica raffinata che a tratti anticipa sonorità impressionistiche e da una scrittura pianistica che, pur essendo spesso esigente, è sempre idiomatica e al servizio dell’espressione musicale.

Ho fatto un sogno

Mogens Andresen (11 giugno 1945): Good Morning per ottoni e percussione (1994). The Royal Danish Brass Ensemble.
Il brano si fonda sopra un’antica melodia popolare danese, Drømte mig en drøm i nat (La notte scorsa ho fatto un sogno), la cui prima frase musicale è trascritta nel Codex Runicus, un manoscritto compilato attorno all’anno 1300 da un anonimo monaco cisterciense, probabilmente nell’abbazia di Herrevad (fondata nel 1144, si trovava in Scania, regione che fino al 1658 fu soggetta ai re di Danimarca). Si tratta della più antica composizione profana scandinava di cui si abbia notizia.
A partire dal 1931 e per molti anni l’ente radiofonico danese utilizzò l’incipit di Drømte mig en drøm i nat per marcare l’intervallo fra un programma e l’altro: la melodia è dunque molto famosa in Danimarca, e questa è la ragione per cui viene citata da Andresen nel saluto musicale indirizzato ai suoi concittadini – e a tutti gli appassionati di musica.


Anonimo: Drømte mig en drøm i nat, arrangiamento di Phillip Faber. Pernille Rosendahl, voce solista; DR PigeKoret; Henrik Dam Thomsen, violoncello; Phillip Faber, pianoforte e direzione.

Drømte mig en drøm i nat
om silke og ærlig pæl,
Bar en dragt så let og glat
i solfaldets strålevæld,
 nu vågner den klare morgen.

Til de unges flok jeg gik,
jeg droges mod sang og dans.
Trøstigt mødte jeg hans blik
og lagde min hånd i hans,
 nu vågner den klare morgen.

Alle de andre på os så,
de smilede, og de lo.
Snart gik dansen helt i stå,
der dansede kun vi to,
 nu vågner den klare morgen.

Drømte mig en drøm i nat
om silke og ærlig pæl.
Fjernt han hilste med sin hat
og grå gik min drøm på hæld,
 nu vågner den klare morgen.

Variations chromatiques

Georges Bizet (1838 - 3 giugno 1875): Variations chromatiques de concert per pianoforte op. 3 (1868). Riccardo Zadra.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Bizet, Variations chromatiques de concert: analisi

Le Variations chromatiques de concert, composte nel 1868 e dedicate a Stephen Heller, constano di un tema, 14 variazioni e una coda elaborata. Il brano si colloca saldamente nella tradizione romantica della variazione virtuosistica, ma con una distintiva enfasi sul potenziale espressivo del cromatismo, che pervade il tema e le sue trasformazioni.
Il tema principale (Moderato maestoso), nella tonalità di do minore e nel metro di 9/8, si articola in sedici misure, divisibili in due sezioni ripetute (aa′bb′). La prima sezione s’inizia pianissimo con una melodia discendente nella mano destra caratterizzata da un’inflessione cromatica. La mano sinistra fornisce un accompagnamento accordale con un certo movimento contrappuntistico. La frase modula e si conclude sulla dominante (sol maggiore). Successivamente, si riprende il materiale precedente, ma si conclude sulla tonica (do minore). La seconda sezione, invece, s’inizia fortissimo, introducendo un contrasto dinamico e tessiturale. La melodia diventa più assertiva e la scrittura più piena. Anche questa frase si conclude sulla dominante. Similmente a prima, si ha una ripresa del materiale tematico ritornando alla tonica e concludendo il tema in pianissimo con l’indicazione molto diminuendo. Il tema è nobile, espressivo e leggermente malinconico, con il cromatismo che aggiunge un colore intenso e una tensione intrinseca. L’indicazione maestoso è ben rappresentata dalla scrittura accordale e dal ritmo composto. L’uso del pedale è indicato per sostenere l’armonia.
La prima variazione, segnata Un pochissimo più allegretto e pianissimo leggiero, con eleganza, è nel metro di 4/4. La melodia del tema è frammentata e trasformata in un disegno leggero e staccato di crome e semicrome nella mano destra. La mano sinistra accompagna con accordi spezzati. L’essenza cromatica del tema è preservata. L’eleganza richiesta è ottenuta attraverso la leggerezza del tocco e la chiarezza della figurazione.
La seconda variazione, contrassegnata a tempo rubato, s’inizia in piano e mantiene il metro precedente. Essa è dominata da terzine di crome e la melodia del tema, leggermente ornata, è affidata alla mano destra, mentre la sinistra esegue accordi spezzati. Il carattere è più lirico ed espressivo, con il rubato che permette flessibilità agogica. Il cromatismo tematico è ancora chiaramente avvertibile.
La terza variazione, indicata a tempo risoluto, ha inizio in fortissimo e in metro 4/4. Si tratta di un’esplosione di virtuosismo, caratterizzata da scale cromatiche ascendenti e discendenti e da rapidi arpeggi che attraversano l’estensione della tastiera. Il profilo melodico del tema è quasi sommerso dalla brillantezza della figurazione. L’elemento cromatico diventa qui una tessitura pervasiva. Indicazioni di accento (^) sottolineano la natura “risoluta”.
La quarta, segnata con fuoco, s’inizia in fortissimo très rhythmé et martelé. La potenza aumenta. La variazione è costruita su accordi pieni spesso in ottava e figure ritmiche incisive e martellate. La melodia del tema è presente, ma trasformata in gesti accordali energici. Il pedale è usato per dare risonanza e peso. Il cromatismo è integrato nelle armonie dense e negli spostamenti accordali.
La quinta, indicata come le tremolo très serré e le chant bien marqué, presenta dinamiche sommesse e costituisce un contrasto drammatico con la precedente. Un tremolo rapidissimo e leggerissimo in entrambe le mani crea un’atmosfera eterea e misteriosa. La melodia del tema emerge sommessamente, spesso all’interno della figurazione tremolante della mano destra o come voce interna. Il cromatismo è sottilmente presente nel canto.
La sesta variazione, Agitato ed espressivo, s’inizia in pianissimo e si caratterizza per le figure arpeggiate rapidissime (quartine di semicrome) nella mano sinistra che creano un moto perpetuo agitato. La linea melodica è spesso affidata alla mano sinistra o a note tenute all’interno della figurazione della destra. Il carattere è inquieto e urgente.
La settima non presenta una indicazione di tempo specifica e si pone di sviluppare ulteriormente l’idea della variazione precedente, ma con una tessitura più densa e un’escursione dinamica più ampia (da ppp a fff). Le figurazioni cromatiche spezzate e gli accordi ribattuti accrescono la tensione e il virtuosismo. Il cromatismo è evidente nelle veloci successioni di note.
L’ottava, marcata con espressione e leggiero l’accompagnamento, ha inizio con dinamiche sommesse e ritorna al lirismo. La melodia del tema è presentata in modo cantabile e espressivo dalla mano destra. La sinistra fornisce un accompagnamento delicato e arpeggiato e il cromatismo del tema è qui esposto con particolare chiarezza e sensibilità.
La nona, Un peu plus vite, s’inizia in pianissimo e si caratterizza per la sua estrema leggerezza e velocità. La mano destra esegue continue figurazioni di semicrome, spesso scalari o arpeggiate, che delineano l’armonia del tema. La sinistra ha accordi staccati e leggeri. Il carattere è scherzoso e volatile.
La decima, contrassegnata Alla polacca, ha inizio in piano e introduce il ritmo caratteristico della polacca (croma – due semicrome). L’articolazione è prevalentemente staccata. La melodia del tema è adattata al nuovo metro e ritmo, mantenendo il suo nucleo cromatico. Il carattere è danzante, nobile ma energico.
L’undicesima variazione è contrassegnata Andante, espressivo assai ed è profondamente lirica e introspettiva. La melodia del tema è ornata con fioriture espressive (sestine di semicrome) e armonie ricche. Indicazioni come smorzando e aussi pp que possible sottolineano il carattere intimo. Il cromatismo discendente è molto presente.
La dodicesima, marcata Plus animé, s’inizia in pianissimo e con articolazione legatissimo. Un flusso continuo di terzine di crome in entrambe le mani crea una tessitura legatissima e omogenea. Il tema è intessuto in questo flusso, a volte emergendo come voce interna o diviso tra le mani. L’effetto è scorrevole e ondulato.
La tredicesima, indicata Mouvement des premières Variations, ha inizio con dinamiche sommesse e richiama il carattere delle prime variazioni, in particolare della prima. La mano sinistra presenta figure arpeggiate simili, mentre la destra esegue una versione più sostenuta ed espressiva del tema. È una sorta di sguardo retrospettivo e riflessivo.
L’ultima variazione, Appassionato, s’inizia in mezzoforte espressivo assai e costruisce un climax di intensità. Il tema è presentato con accordi più pieni, arpeggi passionali, figurazioni virtuosistiche e forti contrasti dinamici.
La coda s’inizia semplice in pianissimo e si sviluppa in varie sezioni con indicazioni contrastanti. Dapprima, la tessitura ricorda le variazioni più agitate (come la 6ª o la 7ª) con rapide semicrome, per poi passare a una sezione in ottave che riafferma con forza il nucleo cromatico discendente del tema. Un passaggio Un peu plus lent, melanconico offre un momento di quiete e riflessione, mentre il susseguente Quasi recitativo introduce brevi frasi declamatorie e libere ritmicamente. La sezione A tempo ha inizio con un crescendo di tremoli e arpeggi che portano alla ripresa del 1er tempo. L’opera si conclude con una riaffermazione potente (fff tutta forza) del materiale tematico iniziale, con un slargando finale su accordi di do minore.
L’elemento cromatico, specificamente la linea discendente del tema, è il filo conduttore dell’intera opera. Bizet lo esplora in innumerevoli modi: melodicamente, armonicamente, come figurazione, come colore. Il compositore dimostra una grande abilità nel variare il carattere di ogni sezione, passando da momenti di estrema delicatezza e lirismo a esplosioni di energia e drammaticità. Nonostante la varietà, l’opera mantiene una forte coesione grazie alla persistenza del materiale tematico (anche se trasformato) e al filo conduttore cromatico. La progressione delle variazioni crea un arco narrativo che culmina nella coda riassuntiva. Nel complesso, le Variations chromatiques sono un esempio significativo della scrittura pianistica di Bizet, che, sebbene più noto per le sue opere teatrali, ha lasciato pagine pianistiche di grande valore, caratterizzate da inventiva melodica, ricchezza armonica e brillantezza strumentale.

Del tutto dimenticate, le Variations chromatiques furono riscoperte da Glenn Gould, che le incise nel 1971; Gould considerava questa composizione di Bizet «uno dei pochissimi capolavori del repertorio per pianoforte emersi nel terzo quarto del diciannovesimo secolo».

La bambola di porcellana

Heitor Villa-Lobos (1887-1959): Branquinha (A boneca de louça), primo brano della suite per pianoforte A prole do bebê n. 1 (1918). Miriam Di Pasquale Baumann (1963 - 31 maggio 2024).



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Heitor Villa-Lobos: l’architetto sonoro del Brasile moderno

Villa-Lobos è oggi ricordato come la figura creativa più significativa del XX secolo nella musica classica brasiliana, diventando il compositore sudamericano più celebre a livello internazionale. La sua importanza risiede principalmente nell’aver forgiato un linguaggio musicale intrinsecamente brasiliano, cosa che fa di lui il massimo esponente del modernismo musicale in Brasile. Le sue composizioni sono permeate dalle sfumature delle culture regionali brasiliane, integrando elementi delle canzoni popolari e indigene. Benché influenzato dalla musica folcloristica brasiliana, Villa-Lobos seppe fonderla magistralmente con elementi stilistici della tradizione classica europea, come dimostrano le sue celebri Bachianas brasileiras.

Gioventù e formazione – le radici di un talento inquieto
Nato nella famiglia dell’impiegato e musicista dilettante Raul Villa-Lobos e di Noêmia Monteiro, il giovane fu inizialmente indirizzato dalla madre verso la carriera medica. Tuttavia, il padre gli impartì le prime lezioni di musica, adattando persino una viola affinché il giovane potesse iniziare lo studio del violoncello. A 13 anni, rimasto orfano di padre, Villa-Lobos iniziò a suonare il violoncello in teatri, caffè e feste da ballo. Parallelamente, si appassionò alla vibrante musicalità dei chorões, esponenti della migliore musica popolare di Rio de Janeiro, sviluppando in questo contesto anche la perzia nell’uso della chitarra. Di temperamento irrequieto, intraprese fin da giovane viaggi avventurosi nell’interno del Brasile, tappe fondamentali nel suo processo di assimilazione dell’universo musicale brasiliano.

La svolta modernista e l’esperienza europea
Nel 1922 Villa-Lobos partecipò attivamente alla “Semana de Arte Moderna” presso il Theatro municipal de São Paulo, un evento cardine per il modernismo brasiliano. Si esibì in tre diverse serate, presentando un’ampia gamma di sue composizioni. L’anno successivo, il compositore partì per l’Europa, da cui avrebbe fatto ritorno in Brasile nel 1924. Un secondo viaggio europeo, finanziato dal milionario Carlos Guinle, avvenne nel 1927. Rientrò definitivamente nel 1930, intraprendendo un tour in sessantasei città brasiliane e realizzando il progetto educativo Cruzada do canto orfeônico a Rio de Janeiro.

L’era Vargas – musica, educazione e nazionalismo
Nel 1930, mentre Villa-Lobos progettava di tornare a Parigi, la rivoluzione brasiliana impose restrizioni sui trasferimenti di denaro all’estero, costringendo il musicista a restare in Brasile. Questo periodo lo vide impegnato nell’organizzazione di concerti nei dintorni di San Paolo e nella composizione di musiche educative e patriottiche. Nel 1932 divenne direttore della SEMA (Superintendência de Educação Musical e Artística). Le pubblicazioni di Villa-Lobos durante l’era Vargas furono caratterizzate dalla promozione della brasilidade (identità brasiliana) e dalla teoria musicale. Tra queste: il Guia prático (11 volumi), Solfejos (2 volumi, 1942 e 1946) con esercizi di canto, e Canto orfeônico (1940 e 1950) con canti patriottici per scuole ed eventi civili. La colonna sonora per il film O Descobrimento do Brasil (1936) fu adattata anche in suite orchestrale. Attorno al 1941 pubblicò A música nacionalista no Governo Getúlio Vargas, in cui esaltava la nazione e i suoi simboli. Fu anche a capo di un comitato per stabilire una versione definitiva dell’inno nazionale brasiliano. Durante l’Estado Novo (dal 1937), Villa-Lobos continuò a produrre opere patriottiche di grande impatto popolare. Per il Dia da Independência del 1939, diresse un coro di 30.000 bambini, mentre per le celebrazioni del 1943 compose il balletto Dança da terra (inizialmente giudicato inappropriato e poi revisionato) e l’inno Invocação em defesa da pátria, poco dopo la dichiarazione di guerra del Brasile alla Germania nazista. Nel suo progetto del canto orfeônico introdusse concetti come califasia (pronuncia chiara del testo), califonia (intonazione perfetta) e calirritmia (sincronia tra testo e ritmo), volti a migliorare la qualità dell’esecuzione corale.

Ultimi anni, eredità e vita privata
La reputazione di Villa-Lobos come “demagogo” compromise la sua immagine presso alcune scuole musicali, specialmente quelle orientate verso nuove tendenze europee come il serialismo, che rimase marginale in Brasile fino agli anni ’60. Questa percezione derivava in parte dal tentativo di alcuni compositori brasiliani di conciliare la “liberazione” musicale proposta da Villa-Lobos con i modelli europei degli anni ’20, considerati più “universali”. Morì di cancro il 17 novembre 1959.

L’opera – un mosaico sonoro brasiliano
Le prime composizioni di Villa-Lobos risentono degli stili europei di fine ‘800 e inizio ‘900, con influenze di Wagner, Puccini, del modernismo della Scuola di Francoforte e, successivamente, degli impressionisti. Studiò con Frederico Nascimento e Francisco Braga. Una svolta avvenne con le Danças características africanas (1914), dove iniziò a distaccarsi dai modelli europei per forgiare un linguaggio personale, consolidatosi nei balletti Amazonas e Uirapuru (1917). Negli anni ’20 raggiunse la piena maturità artistica, con opere come la suite per pianoforte Prole do bebê e il Nonetto (1923). Nonostante le critiche feroci dell’epoca, nel 1923 si recò a Parigi (grazie al mecenate Carlos Guinle), entrando in contatto con l’avanguardia musicale europea.
Dopo un secondo soggiorno parigino (1927-30), tornato in Brasile, si immerse nelle nuove realtà scaturite dalla Rivoluzione del 1930. Sostenuto dall’Estado Novo, sviluppò un vasto progetto educativo, incentrato sul canto orfeônico, che portò alla compilazione del Guia prático (raccolta di temi popolari armonizzati). La sua preoccupazione per l’educazione musicale nelle scuole brasiliane fu tale che, una volta approvato il suo progetto, decise di risiedere stabilmente in Brasile. Al periodo di audacia creativa degli anni ’20 (che include le Serestas, i Choros, gli Estudos para violão e le Cirandas per pianoforte) seguì un periodo “neobarocco”, culminato nella serie delle nove Bachianas brasileiras (1930-45) per diverse formazioni vocali-strumentali. Nella sua prolifica opera, Villa-Lobos combinò con disinvoltura stili e generi diversi, introducendo materiali musicali tipicamente brasiliani in forme mutuate dalla musica colta occidentale, arrivando ad accostare Johann Sebastian Bach a strumenti esotici nella stessa opera. Ebbe numerosi discepoli e collaboratori, tra cui i maestri e pianisti José Vieira Brandão (1911-2002) e Alceo Bocchino (1918-2013), che lo assistettero nell’implementazione del progetto del canto orfeônico, nell’organizzazione di grandi spettacoli e nella revisione delle sue partiture.

Lo stile compositivo – un’identità inconfondibile
L’opera di Villa-Lobos è caratterizzata da alcune peculiarità stilistiche, quali combinazioni strumentali inusuali, arcate vigorose negli archi, l’uso di percussioni popolari e l’imitazione dei canti degli uccelli. Il maestro non aderì né difese alcun movimento specifico, rimanendo a lungo poco conosciuto dal pubblico brasiliano e criticato da figure come Oscar Guanabarino. Un elemento costante e distintivo della sua musica è la forte presenza di riferimenti a temi del folclore brasiliano, che seppe elevare a linguaggio universale.

Branquinha: analisi
Branquinha (A boneca de louça), brano iniziale della suite per pianoforte A prole do bebê n. 1, composta da Heitor Villa-Lobos nel 1918, è un ritratto musicale squisito e impressionistico. Il titolo stesso, “La bambolina bianca (La bambola di porcellana)”, evoca immediatamente un’immagine di delicatezza, fragilità, lucentezza e forse una certa aristocratica freddezza o immobilità trasognata.
Il brano s’inizia con un’aura di magia e impalpabilità. Le prime battute sono caratterizzate da arpeggi cristallini ascendenti eseguiti nel registro acuto. Questi creano una sonorità brillante ma estremamente tenue, quasi come riflessi di luce sulla superficie liscia della porcellana. L’armonia è fluttuante, con un sapore modale e un uso di quinte e quarte parallele che richiama l’impressionismo debussiano. Emerge gradualmente una melodia semplice e incantevole, quasi una ninna-nanna frammentata. È affidata principalmente alla mano destra, mentre la sinistra fornisce un accompagnamento discreto, spesso con note singole o accordi radi che non appesantiscono la tessitura. La melodia ha un andamento cullante, con piccole inflessioni cromatiche che aggiungono un velo di malinconia. La dinamica rimane nel piano e pianissimo, sottolineando la fragilità. Si nota una certa instabilità tonale, tipica di Villa-Lobos, che evita centri tonali chiaramente definiti, preferendo un’armonia che si muove per macchie di colore. La gestualità della bambola sembra suggerita da piccoli accenti e da un fraseggio delicato. La sezione si anima leggermente con un fraseggio più mosso e un sottile crescendo, quasi a rappresentare un fugace movimento della bambola. Culmina in una rapida figura scalare ascendente e discendente, una sorta di piccola cadenza che chiude elegantemente questa prima esposizione.
Nella seconda sezione, il carattere muta sensibilmente e il tempo sembra leggermente più trattenuto Una nuova melodia, più lirica e cantabile, si dispiega con maggiore ampiezza ed è più calda e introspettiva, come se la bambola si abbandonasse a un sogno o a un ricordo. L’armonia si fa più densa e ricca, esplorando sonorità più scure nel registro medio-grave, pur mantenendo sempre una trasparenza di fondo. La mano sinistra offre un sostegno armonico più pieno, con accordi arpeggiati che creano un tappeto sonoro avvolgente. La melodia viene sviluppata con crescente intensità emotiva e Villa-Lobos utilizza dissonanze dolci e risoluzioni inaspettate che arricchiscono il tessuto armonico e l’espressività. La scrittura pianistica diventa leggermente più complessa, con un dialogo più fitto tra le due mani, con un passaggio che rappresenta il culmine emotivo di questa sezione, con accordi pieni e una linea melodica che sale, per poi placarsi rapidamente in una discesa che prepara il ritorno del materiale iniziale.
Le idee iniziali si ripresentano, ma viste come attraverso un velo. Le figure arpeggiate e i frammenti melodici sono ancora più leggeri, quasi impalpabili, eseguiti in pianissimo e spesso nel registro acutissimo del pianoforte. La sensazione è quella di un ricordo evanescente, di un’immagine che si sta dissolvendo. Questa sezione funge da coda estesa, riprendendo elementi del tema iniziale in modo variato, con un carattere ancora più sfuggente e frammentario. Vi sono momenti di giocosa leggerezza, quasi scherzosi, con note staccate e ritmi che suggeriscono una danza meccanica e delicata. L’armonia continua a fluttuare, creando un senso di sospensione e di progressiva rarefazione. Il brano si chiude in modo memorabile con una serie di accordi secchi, staccati e acutissimi che suonano come il meccanismo di un carillon che si arresta o come un ultimo, piccolo e un po’ sbarazzino gesto della bambola. Questo è seguito da un ultimo accordo arpeggiato verso l’acuto, etereo e interrogativo, che si perde nel silenzio, lasciando l’ascoltatore sospeso.
Nel complesso, Branquinha è un piccolo gioiello della letteratura pianistica novecentesca. In pochi minuti, Heitor Villa-Lobos riesce a dipingere un ritratto sonoro vivido, poetico e poliedrico. Non si tratta di una semplice descrizione, ma di un’immersione nel mondo interiore e fantastico della bambola di porcellana, con i suoi sogni, la sua delicatezza e la sua intrinseca malinconia.

Miriam

Come ai bei dì d’amor

Stefano Donaudy (1879 - 30 maggio 1925): Vaghissima sembianza, aria per voce e pianoforte (c1915). Carlo Bergonzi, tenore; John Wustman, pianoforte.

Vaghissima sembianza d’antica donna amata
Chi, dunque, v’ha ritratta contanta simiglianza
Ch’io guardo, e parlo, e credo d’avervi a me
Davanti come ai bei dì d’amor?

La cara rimembranza che in cor mi s’è destata
Si ardente v’ha già fatta rinascer la speranza
Che un bacio, un voto, un grido d’amore
Più non chiedo che a lei che muta è ognor.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Stefano Donaudy: l’effimero successo teatrale e l’eterna eco delle melodie antiche

Primi passi e formazione di un talento precoce (1879-1892)
Nato a Palermo da Augusto Donaudy e Elena Pampillonia, Stefano Donaudy manifestò fin da giovanissimo un eccezionale talento musicale. Studiò privatamente violino e pianoforte, esibendosi in pubblico a soli dieci anni e suscitando ammirazione per le sue doti innate. Ancora fanciullo, iniziò a comporre melodie per canto e pianoforte. La sua formazione fu influenzata dalla frequentazione del Politeama «Garibaldi» di Palermo, dove assistette a importanti stagioni liriche che lo indirizzarono verso il teatro. Dopo aver scritto brevi scene drammatiche, a soli tredici anni, nel 1892, compose la sua prima opera, Folchetto, in un prologo e due atti, su libretto del fratello Alberto (già avviato come librettista e commediografo) e ispirata a un poema di T. Grossi. Benché rappresentata solo privatamente, Folchetto rivelò il precoce talento teatrale del giovane compositore. Subito dopo, Donaudy interruppe gli studi musicali per dedicarsi a quelli classici, che proseguì fino alle soglie dell’università.

Ritorno alla musica e perfezionamento accademico (1899-1902)
Tornato alla musica, nel 1899 compose un’altra opera drammatica, Scampagnata, sempre su libretto del fratello Alberto. Anche questa non fu rappresentata pubblicamente ma eseguita privatamente con accompagnamento di pianoforte. A questo evento seguì l’inizio di un serio impegno nello studio della composizione: Donaudy entrò come allievo interno al Conservatorio di Palermo, dove studiò armonia, contrappunto e composizione sotto la guida del direttore G. Zuelli. L’insegnamento di Zuelli fu cruciale per Donaudy, aiutandolo a disciplinare il suo versatile talento e a indirizzarlo verso una produzione che valorizzasse la sua facile vena melodica e il suo gusto raffinato. Fra il 1899 e il 1902, durante gli anni di conservatorio, produsse opere pregevoli come la cantata Il sogno di Polisenda, un Quartetto per archi, la scena lirica Idilli estivi e diverse arie per canto e pianoforte, che gli valsero notorietà e la pubblicazione da parte dell’editore Ricordi.

L’ascesa teatrale: primi trionfi e grandi speranze (1902-1908)
Conclusi gli studi e sentendosi pronto per la carriera teatrale, Donaudy compose l’opera in quattro atti Teodoro Körner, su libretto del fratello Alberto. L’opera fu rappresentata con buon successo il 27 novembre 1902 allo Stadt-Theater di Amburgo, attirando l’attenzione dell’editore Ricordi, che commissionò al giovane musicista Sperduti nel buio, ispirata dal dramma omonimo di Roberto Bracco, su libretto dello stesso Bracco e di Alberto Donaudy. Il favore della critica, che ne lodò la spontaneità melodica e la solida struttura, sembrava preludere a una luminosa carriera.

Aspettative deluse e il progressivo distacco dal teatro (1908-1925)
Sull’onda del successo, Ricordi commissionò a Donaudy l’opera Ramuntcho, tratta da Pierre Loti e con libretto ancora una volta del fratello Alberto, destinata al Teatro alla Scala. Tuttavia, l’opera ebbe una lunga gestazione e, una volta pronta, incontrò difficoltà a essere rappresentata alla Scala a causa della guerra e della conseguente riduzione delle stagioni. Fu eseguita solo il 17 marzo 1921, al Teatro Dal Verme di Milano, al termine di una stagione di scarso rilievo. Nonostante l’interesse del pubblico e i consensi, la critica non le dedicò particolare attenzione. Un successo postumo arrivò con una trasmissione radiofonica dell’EIAR nel 1933. Nonostante ciò, Donaudy continuò a comporre. Nel 1922 scrisse l’opera in un atto La fiamminga, che vinse il primo premio al Concorso lirico nazionale e fu rappresentata con successo al San Carlo di Napoli nell’aprile dello stesso anno, diretta da E. Mascheroni. Sebbene acclamata dal pubblico, non ebbe ulteriori rappresentazioni in altri teatri, pur venendo trasmessa via radio dall’EIAR nel 1931 con buon esito. Deluso dalla scarsa fortuna delle sue opere teatrali, Donaudy abbandonò la composizione, trascorrendo gli ultimi anni lontano dagli ambienti musicali. Si spense a Napoli il 31 maggio 1925.

Profilo artistico: un musicista “ritardatario” tra fascino antico e incomprensione contemporanea
Donaudy fu un musicista colto e sensibile, ma per molti aspetti “ritardatario”. La sua produzione teatrale, pur contenendo pagine di pregio, non fu al passo con i tempi, dominati da Puccini e dal Verismo di Mascagni, indugiando in stilemi legati a un passato troppo lontano. La sua natura era incline a rievocare atmosfere di raffinata eleganza stilistica sei-settecentesca, e diede il meglio di sé nelle raccolte di Arie di stile antico, che gli conferirono notorietà internazionale ma rappresentarono anche il limite della sua figura artistica. Abile nel creare atmosfere delicate e nel vagheggiare epoche lontane, faticò a calarsi nella realtà quotidiana e nelle istanze espressive del suo tempo.
Tuttavia, gli fu riconosciuta la capacità di rendere con sensibilità e caratterizzazione psicologica particolari situazioni drammatiche. Se in Teodoro Körner mostrò una vena tardoromantica, nel più fortunato Sperduti nel buio cercò di sottolineare il tono intimistico con uno stile vagamente crepuscolare, tratteggiando con patetica sensibilità gli aspetti umani del dramma. Ramuntcho, considerata la sua opera più originale, affronta una situazione drammatica dai caratteri netti e passionali, ripresi poi nella Fiamminga, dove si concentrano i valori prediletti dal musicista: amor patrio, seduzione femminile e sacrificio materno.

L’eredità duratura: le Arie di stile antico e il catalogo delle opere
Oggi, il nome di Donaudy è legato soprattutto alle Arie di stile antico, pubblicate in tre fascicoli da Ricordi fra il 1918 e il 1922, e divenute popolarissime anche all’estero. Queste 36 composizioni (villanelle, canzoni, madrigali, ecc.) su testi del fratello Alberto, si distinguono per la ricchezza melodica e la varietà stilistica, rivelando il gusto per la riscoperta di stilemi del passato, caratteristico dell’epoca. Pur influenzato dalla romanza da salotto, Donaudy assimilò la grande tradizione melodica italiana, evitando le convenzioni e le banalità armoniche tipiche della romanza fin de siècle.
La sua produzione include anche l’opera incompiuta La fidanzata del mare; lavori sinfonici come Il sogno di Polisenda e Sogno di terra lontana; musica da camera (in gran parte inedita) tra cui un Quintetto, Quartetti, un Trio, Miniature liriche, e vari pezzi per violino e violoncello; composizioni per pianoforte come Sarabanda e fuga e Minuetto Carillon. Per voce e pianoforte, oltre alle citate Arie, si ricordano Douzes Petits poèmes japonais e la Ballata delle fanciulle povere. Completano il catalogo un’Ave Maria per voce e quartetto d’archi e un Canto di ringraziamento.

Vaghissima sembianza: analisi del brano
Quest’aria è un eccellente esempio dell’abilità del compositore nel coniugare una sensibilità melodica tardo-romantica con forme e stilemi che richiamano epoche precedenti, in linea con il titolo della raccolta Arie di stile antico. Strutturalmente può essere interpretata come una forma ternaria modificata (ABA’) con un’introduzione e una coda pianistica, oppure come una forma bipartita con sezioni contrastanti ma tematicamente correlate.
Il brano stabilisce immediatamente la tonalità e l’atmosfera, esponendo la melodia lirica principale, sviluppata con maggiore intensità e raggiungimento di un culmine espressivo. La seconda sezione introduce un momento più intimo e riflessivo, con una melodia cantabile e dolce. Segue la ripresa del materiale tematico della prima sezione, ma con maggiore impeto e progressione verso il climax. Si arriva a una conclusione strumentale che riafferma la tonalità.
Donaudy utilizza un linguaggio armonico che, pur essendo fondamentalmente tonale e diatonico, è arricchito da un cromatismo espressivo tipico del tardo Romanticismo, ma sempre controllato e al servizio della melodia e del testo. Si osservano progressioni armoniche chiare e funzionali e l’uso di accordi di settima di dominante per creare tensione e spinta verso la tonica. Non ci sono modulazioni vere e proprie a tonalità distanti. Il centro tonale di la maggiore rimane il perno. Eventuali inflessioni cromatiche servono più ad arricchire gli accordi o a creare passaggi fluidi che a stabilire nuove tonalità. Prevalgono triadi e settime, con un uso sapiente di appoggiature, ritardi e note di passaggio che impreziosiscono la tessitura armonica. L’ancoraggio a una tonalità chiara e l’uso di progressioni fondamentalmente diatoniche contribuiscono all’effetto “antico”, evitando le complessità armoniche estreme di alcuni contemporanei.
La linea vocale è eminentemente lirica, cantabile e costruita con grande attenzione all’espressività del testo. È fluida e ben bilanciata. La melodia procede spesso per gradi congiunti, ma è intervallata da salti espressivi che sottolineano parole chiave. Le frasi sono ben definite, spesso corrispondenti ai versi del testo e modellate con cura attraverso indicazioni dinamiche e agogiche. Donaudy mostra una grande sensibilità nel musicare il testo. Per esempio, l’ascesa melodica e il crescendo su parole come “ardente” o “speranza” sono efficaci. La domanda “come ai bei dì d’amor?” è resa con un calo dinamico. La chiarezza melodica, la cantabilità e l’evitamento di virtuosismi eccessivi o frammentazioni tipiche di stili più moderni contribuiscono a questa sensazione.
L’aria è in 3/4 e presenta come indicazione di tempo Andante con moto. L’accompagnamento pianistico presenta un flusso costante di crome e semicrome, spesso in figurazioni arpeggiate o accordali spezzate, che creano un tappeto sonoro continuo e morbido. La linea vocale utilizza valori ritmici più variati (minime, semiminime, crome), adattandosi con flessibilità al testo. Si notano spesso valori più lunghi all’inizio o alla fine delle frasi per dare respiro e importanza. Le numerose indicazioni agogiche conferiscono all’aria una grande flessibilità espressiva, tipica più del Romanticismo che di uno “stile antico” rigoroso, ma che contribuisce al fascino della composizione. L’aria sfrutta una vasta gamma dinamica, dal “piano dolce” al “forte con anima” e “rinforzando“. Le dinamiche sono usate per sottolineare la struttura formale, enfatizzare momenti emotivi del testo e creare contrasti.

L’accompagnamento non è meramente di supporto, ma partecipa attivamente alla creazione dell’atmosfera e all’espressione. Ha una sua indipendenza pur integrandosi perfettamente con la linea vocale. La tessitura varia da arpeggi delicati e trasparenti a figurazioni più dense e accordali nei momenti di maggiore intensità. Spesso il pianoforte raddoppia o armonizza parti della melodia vocale, oppure offre un contrappunto discreto o un sostegno armonico. In alcuni punti, il pianoforte segue più strettamente il ritmo e il fraseggio vocale.
Donaudy non opera una pedissequa imitazione di un preciso stile storico (barocco o classico). Piuttosto, evoca un’aura di “antichità” attraverso strutture riconoscibili e un solido ancoraggio alla tonalità, linee vocali cantabili e ben modellate, evitando eccessi di sentimentalismo o drammaticità verista. L’emozione è presente ma contenuta entro limiti di raffinata eleganza.
Tuttavia, l’armonia ricca (seppur tonale), l’ampia gamma dinamica e le dettagliate indicazioni agogiche ed espressive collocano senza dubbio la composizione nell’epoca tardoromantica: si tratta quindi uno “stile antico” filtrato attraverso una sensibilità ottocentesca.
Nel complesso, Vaghissima sembianza è un’aria di grande fascino e raffinatezza: Donaudy riesce a creare un brano che è al contempo accessibile, emotivamente coinvolgente e tecnicamente ben scritto sia per la voce che per il pianoforte. La sua bellezza risiede nell’equilibrio tra una melodia memorabile, un’armonia espressiva e un’evocazione nostalgica di un passato idealizzato, il tutto realizzato con impeccabile gusto e mestiere compositivo. È un pezzo che continua a essere amato da cantanti e pubblico proprio per questa sua capacità di toccare corde emotive profonde attraverso mezzi musicali eleganti e apparentemente semplici.

Primavera

Josef Suk (1874 - 29 maggio 1935): Jaro (Primavera), 5 pezzi per pianoforte op. 22a (1902). Niel Immelman.

  1. Jaro (Primavera)
  2. Vánek (Brezza) [4:35]
  3. V očekvání (In attesa) [6:35]
  4. Andante [9:40]
  5. V roztoužení (Languore) [11:25]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’anima lirica della musica ceca: Josef Suk fra tragedia e trionfo

Vita e carriera: dal conservatorio ai palcoscenici mondiali
Nato a Křečovice da una famiglia di insegnanti, Suk studiò al Conservatorio di Praga (1885-92), dove ebbe come insegnanti Antonín Bennewitz (violino), Karel Stecker e Antonín Dvořák (composizione). Nel 1892, con i compagni di studi Karel Hoffmann, Oskar Nedbal e Otto Berger fondò il Quartetto Boemo (České kvarteto), formazione che ottenne fama mondiale, segnando una pietra miliare nell’interpretazione della musica da camera ceca. Suk vi suonò come secondo violinista fino al 1933, tenendo circa quattromila concerti in tutto il mondo. Dal 1922 fu professore di composizione al Conservatorio di Praga, istituto di cui fu eletto rettore per quattro volte.

La controversia con Zdeněk Nejedlý
Nonostante il carattere mite, sensibile e affettuoso del compositore, qualità riflesse nella sua musica, la sua vita fu turbata dagli attacchi mossi contro di lui dal critico e musicologo Zdeněk Nejedlý e dal suo gruppo: essi criticavano la presunta “linea conservatrice dvořákiana” e sostenevano invece una “linea progressista smetaniana”, prendendo di mira sia Dvořák sia Suk. Queste polemiche, che sfociarono in accuse umilianti, portarono Suk più volte sull’orlo di un crollo nervoso. L’astio di Nejedlý era forse, in parte, dovuto al fatto che il critico era stato respinto da Otilie Dvořáková, la figlia maggiore di Dvořák, la quale nel 1898 sposò Suk. Ciononostante, Suk godeva di grande stima da parte del pubblico ceco e ricevette importanti riconoscimenti, incluso un dottorato honoris causa in filosofia dall’Università Masaryk di Brno.

L’opera musicale: un lirismo profondo e complesso
La produzione di Suk, non vastissima (37 numeri d’opus), è caratterizzata da tratti originali. Dal fascino delle opere giovanili alla complessa e riflessiva poeticità dei lavori tardivi, emerge costantemente un profondo senso del lirismo interiore. Questo lirismo spazia da un’intimità delicatissima (come in O matince) a una monumentale espressione polifonica quasi febbrile (come nell’Epilog). La ricchezza espressiva della sua tarda produzione, con la sua complessità e intensità, può risultare impegnativa per l’ascoltatore, ma è intrisa di questa profonda interiorità e di una peculiare immaginazione sonora. L’opera di Suk è convenzionalmente suddivisa in due periodi, separati dalla morte di Dvořák nel 1904 e, l’anno successivo, da quella di Otilie.
In gioventù, Suk si mosse nel solco del Romanticismo, chiaramente ispirato dalla musica di Dvořák, ma progressivamente individualizzò il suo stile con un lirismo soggettivo. Assimilò anche la lezione di Johannes Brahms e altri classici, evidente nella Sinfonia in mi maggiore (1899). Fin dalle prime opere, Suk dimostrò una spiccata individualità attraverso un lirismo intenso, caratterizzato da una sensibilità accattivante, ricchezza timbrica e melodiosità. Ne sono esempi la Serenata per archi in mi bemolle maggiore (scritta a 18 anni), il brano pianistico Píseň lásky (Canto d’amore) dalle Klavírní skladby op. 7, e opere cameristiche come il Quartetto con pianoforte in la minore (1891) e il Quartetto per archi n. 1 in si bemolle maggiore (1896).
Una pietra miliare di questo periodo è la musica di scena per la fiaba drammatica Radúz a Mahulena di Julius Zeyer (1898), da cui trasse la suite da concerto Pohádka (Una fiaba, 1899). Questo lavoro riflette la felicità del compositore conseguente all’inizio della relazione con Otilie. La cantabilità e la coloritura di questa musica si ritrovano anche in altre composizioni come i cori su testi popolari slavi, la Fantasia in sol minore per violino e orchestra (1903), lo Scherzo fantastico (1903). Nello stesso spirito compose la musica di scena per la leggenda di Julius Zeyer Pod jabloní (Sotto il melo, 1901), da cui trasse una suite. Il ciclo pianistico Jaro (Primavera, 1902) e le tre egloghe Letní dojmy (Impressioni estive, 1902), composti dopo la nascita del figlio, mostrano già elementi impressionistici. Il poema sinfonico Praga (1904) è un’epica e lirica glorificazione della capitale ceca.
La produzione successiva al 1904 è segnata da un progressivo orientamento verso nuovi mezzi espressivi e dalla creazione di uno stile personale e complesso, che colloca Suk tra i fondatori della modernità musicale ceca. Le tragiche vicende familiari furono decisive: Suk si concentrò su grandi opere orchestrali dal contenuto meditativo e programmatico, affrontando i temi del destino e della morte, alla ricerca di un senso positivo dell’esistenza. Nacque così una tetralogia sinfonica monumentale: la sinfonia funebre Asrael (1906), dedicata alla memoria di Dvořák e Otilie; il poema musicale in cinque movimenti Pohádka léta (Una fiaba estiva, 1907–09); il monumentale poema sinfonico Zrání (Maturazione, 1912–17); e l’Epilog per soli, coro e orchestra (1920–33), che utilizza testi dalla leggenda Pod jabloní di Zeyer. A queste si affiancano importanti cicli pianistici come O matince (A proposito della mamma, 1907), in cui racconta al figlio della madre scomparsa, Životem a snem (Attraverso la vita e il sogno, 1910) e Ukolébavky (Ninne nanne, 1912), oltre al brano O přátelství (Sull’amicizia, 1920). In queste opere, Suk fa un uso simbolico ricorrente del “motivo della morte” tratto da Radúz a Mahulena e del tema del Píseň lásky.
Lo stile di Suk si evolve: in Pohádka léta e Životem a snem si notano un ampliarsi del linguaggio e l’influsso di Debussy, filtrato attraverso il suo caratteristico lirismo riflessivo. Il Secondo Quartetto per archi (1911), con la sua modernità, suscitò reazioni tempestose alla prima esecuzione. Qui Suk sperimenta, avvicinandosi all’Espressionismo musicale senza però abbandonare la tonalità, che viene solo allentata. Le opere tarde come Zrání (cui appone un motto tratto dalla poesia omonima di Antonín Sova) ed Epilog (con un motto dalla poesia Mito della donna di Otokar Březina), frutto di anni di lavoro, rappresentano il culmine della sua ricerca filosofica e stilistica. Il linguaggio maturo è caratterizzato da una ricca polifonia libera, un flusso continuo con picchi dinamici espressivi, un uso individuale dei timbri strumentali e un’armonia complessa e cangiante. La forma delle opere tarde crea architetture grandiose e coese. Altre opere significative di questo periodo includono il trittico patriottico Meditace na chorál Sv. Václave (Meditazione sul corale di San Venceslao), Legenda o mrtvých vítězích (Leggenda degli eroi caduti) e la marcia V nový život (Verso una nuova vita), caratterizzate da un linguaggio più semplice per una maggiore accessibilità.

Jaro (Primavera): analisi
Il ciclo pianistico Jaro si colloca in un periodo di relativa felicità e fecondità creativa per il compositore, coincidente con la nascita del figlio. Queste cinque miniature, pur mantenendo un’impronta tardo-romantica profondamente lirica, ereditata dal suo maestro e suocero Antonín Dvořák, mostrano già chiari segni di un’evoluzione stilistica che accoglie sottili influenze impressionistiche e una maggiore introspezione psicologica.

Il primo brano si apre con un’esplosione di gioia e vitalità, perfettamente in linea con il titolo. L’attacco è caratterizzato da un’energia luminosa, dominata da arpeggi ascendenti e brillanti nella mano destra che evocano lo sbocciare dei fiori e il risveglio della natura. La melodia principale è cantabile, ottimista e ricca di slancio lirico, tipica dello stile di Suk. L’armonia è prevalentemente tonale, con un uso sapiente di accordi pieni e sonorità calde che conferiscono profondità emotiva. La sezione centrale introduce un breve momento di maggiore riflessione, con armonie leggermente più complesse e un fraseggio più intimo, prima di ritornare all’esuberanza iniziale. Le dinamiche sono variegate, con crescendi che sottolineano l’entusiasmo e passaggi più delicati che suggeriscono la tenerezza dei nuovi germogli. La scrittura pianistica è ricca, ma mai fine a sé stessa, sempre al servizio dell’espressione.
Il secondo pezzo è un vero e proprio scherzo impressionistico, caratterizzato da una scrittura pianistica leggera, eterea e mobilissima. Predominano arpeggi rapidi e figure staccate nel registro acuto, che creano un’atmosfera scintillante e quasi impalpabile. L’armonia si fa più evanescente, con un uso più frequente di accordi alterati e progressioni che suggeriscono più che definire nettamente la tonalità, avvicinandosi a stilemi debussiani. Il pedale è usato con maestria per creare aloni sonori e risonanze che amplificano la sensazione di ariosità. Le dinamiche sono prevalentemente contenute nel piano e pianissimo, con improvvisi e leggeri soffi (crescendi e diminuendi rapidi). È un pezzo di grande virtuosismo che richiede precisione e una tavolozza timbrica raffinata.
Il brano successivo introduce un’atmosfera di sospensione e introspezione. Il tempo è più lento e il carattere generale è meditativo, quasi interrogativo. La melodia, inizialmente più frammentata e pensosa, si sviluppa gradualmente in linee più liriche e cantabili, ma sempre pervase da un senso di intima aspettativa. L’armonia si arricchisce di cromatismi e tensioni non risolte, che contribuiscono a creare un’aura di mistero e profonda riflessione interiore. Vi sono momenti di maggiore intensità emotiva, costruiti attraverso crescendi graduali e accordi più densi, che poi si placano nuovamente in sonorità più rarefatte. La scrittura pianistica esplora diverse tessiture, da passaggi più accordali a linee melodiche sostenute da un accompagnamento discreto. Il pezzo sembra voler esprimere un sentimento profondo, un’attesa che non è vuota, ma carica di significato e di emozioni sottili.
L’Andante, invece, si presenta come un interludio di serena bellezza e pura liricità. È un brano profondamente cantabile, che ricorda quasi una romanza senza parole o una ninna-nanna. La melodia è tenera, dolce e scorrevole, sostenuta da un’armonia prevalentemente consonante e calda, tipica del lirismo slavo. La struttura è chiara, con una melodia principale che viene presentata e variata con sottigliezza. La tessitura pianistica è trasparente, con la melodia ben in evidenza, spesso nel registro medio-acuto, e un accompagnamento discreto ma armoniosamente ricco. Le dinamiche sono generalmente contenute, favorendo un’atmosfera intima e raccolta. Si percepisce una profonda pace interiore, un momento di quiete e contemplazione affettuosa, che si collega idealmente alla serenità del periodo compositivo di Suk, forse un riflesso della tenerezza paterna.
Il ciclo si conclude con un brano (V roztoužení, Languore) che esplora sentimenti di ardente desiderio e nostalgia. L’atmosfera è più inquieta e passionale rispetto ai movimenti precedenti. Il brano è caratterizzato da ampie frasi melodiche, spesso ascendenti e cariche di espressività, che si alternano a momenti di maggiore agitazione ritmica e armonica. L’armonia è densa, ricca di cromatismi e accordi complessi che sottolineano l’intensità del sentimento. Le dinamiche sono ampie, con passaggi che vanno dal pianissimo sussurrato a potenti crescendi che sfociano in veri e propri climax emotivi. La scrittura pianistica è impegnativa, richiedendo una solida tecnica per gestire le ampie arcate melodiche, gli accordi pieni e i passaggi più virtuosistici. Il finale del pezzo, dopo l’apice passionale, si stempera in una coda più rarefatta e sognante, lasciando un senso di struggente dolcezza e, forse, di desiderio non completamente appagato, che sfuma delicatamente nel silenzio.
Nel complesso, questo ciclo pianistico, pur radicato nella tradizione romantica, preannuncia la sensibilità moderna di Suk. La capacità di evocare immagini e stati d’animo attraverso una scrittura pianistica ricca e variata è notevole. Ogni pezzo ha un carattere ben definito, ma insieme formano un percorso emotivo coerente, dal giubilo primaverile alla brezza leggera, dall’attesa introspettiva alla serena contemplazione, fino al languore passionale.

Romance sans paroles

Louis Durey (27 maggio 1888 - 1979): Romance sans paroles per pianoforte op. 21 (1919). Françoise Petit.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Louis Durey: tra avanguardia, impegno e riscoperta sonora

Formazione e prime influenze: un percorso autodidatta nell’orbita debussiana
Nato in una famiglia della borghesia parigina, Durey scoprì la sua vocazione musicale in modo quasi epifanico dopo aver assistito a una rappresentazione del Pelléas et Mélisande di Debussy. Nonostante questa folgorazione, la sua formazione musicale fu in gran parte da autodidatta, benché avesse frequentato i corsi della prestigiosa “Schola Cantorum” di Parigi. La sua prima composizione ufficiale vide la luce nel 1914, segnando l’inizio del suo percorso creativo.

L’esperienza con “Les Six”: ascesa e progressivo distacco
Durey fu un assiduo frequentatore dei sabati musicali della Sala Huyghens, un importante luogo di incontro per l’avanguardia parigina. Nel gennaio 1918, sotto l’impulso carismatico di Jean Cocteau e con l’influenza di Érik Satie, entrò a far parte della “Société des Nouveaux Jeunes”. Questo gruppo includeva già Georges Auric, Arthur Honegger, Roland-Manuel e Germaine Tailleferre: da questo nucleo originario, con successive modifiche nella formazione (l’uscita di Roland-Manuel e l’ingresso di Francis Poulenc e Darius Milhaud), nacque dopo il 1919 quello che la critica musicale, in particolare Henri Collet, definì il “Gruppo dei Sei” (in francese “Les Six”). Durey ne era il membro più anziano. Tuttavia, la sua piena adesione al collettivo fu di breve durata poiché, già nel 1921, il compositore manifestò un progressivo allontanamento non partecipando alla composizione collettiva della musica per il balletto Les Mariés de la Tour Eiffel di Jean Cocteau. Questo atto segnò di fatto la sua separazione dal gruppo, che andò incontro a una completa dissoluzione nel 1924.

Un circolo intellettuale vivace e l’impegno politico
La vita di Durey fu caratterizzata da frequentazioni di altissimo livello nel panorama artistico e intellettuale dell’epoca. Fu vicino a poeti d’avanguardia come Guillaume Apollinaire, Max Jacob, Paul Éluard e Louis Aragon, e a pittori rivoluzionari come Pablo Picasso, Georges Braque e Fernand Léger.
Dopo un periodo trascorso a Saint-Tropez, dove si sposò e compose nel 1923 la sua unica “comédie lyrique”, L’Occasion, la sua esistenza prese una direzione marcatamente politica: a metà degli anni ’30, Durey aderì al Partito comunista francese. Durante la seconda guerra mondiale, dimostrò un forte impegno civile partecipando attivamente alla Resistenza francese. Fu membro del Front National des Musiciens, un’organizzazione affiliata al più ampio Front national de la Résistance, contribuendo alla lotta contro l’occupazione nazista.

Musicologo e critico: la riscoperta del passato e la voce contemporanea
Parallelamente all’attività compositiva, Durey si distinse anche in altri campi. Durante il difficile periodo bellico, intraprese un importante lavoro musicologico, dedicandosi con passione alla restituzione e trascrizione di opere corali antiche. In particolare, si concentrò su maestri del XVI secolo come Clément Janequin e Orlando di Lasso, contribuendo alla riscoperta di questo prezioso repertorio.
Inoltre, esercitò l’attività di critico musicale: già attivo in questo ruolo negli anni ’20, riprese questa occupazione nel dopoguerra, scrivendo per il giornale “L’Humanité”, organo di stampa vicino al Partito comunista.

L’opera musicale: un corpus vasto con predilezione per il corale
La produzione musicale di Durey annovera ben 116 numeri d’opus e tocca diversi generi, ma emerge una chiara e significativa predilezione per la musica corale. Al contrario, la produzione di musica sinfonica è relativamente esigua. È interessante notare che diverse sue opere, inclusa il già citato lavoro teatrale L’Occasion (basata su un testo di Mérimée), non furono mai pubblicate o eseguite durante la vita del musicista. Durey si dedicò anche con interesse all’armonizzazione di canti popolari, dimostrando un legame con le tradizioni musicali della propria terra.

Romance sans paroles: analisi
La Romance sans paroles si colloca in un periodo cruciale per la musica francese, segnato dall’attività dei “Six”, del quale Durey all’epoca era membro. Tuttavia, questo brano sembra discostarsi parzialmente dall’estetica anti-romantica propugnata da alcuni suoi colleghi sotto l’influenza di Satie e Cocteau, offrendo un’espressione lirica più tradizionale, tinta di una malinconia raffinata e di un’eleganza tipicamente francese, che richiama echi di Fauré e del primo Debussy, pur mantenendo una sua distintiva concisione. Il brano presenta una struttura chiara, riconducibile a una forma ternaria (ABA’) con una coda, tipica delle romanze romantiche, ma trattata con la sensibilità del primo Novecento.
Il pezzo si apre immediatamente con il tema principale. La melodia, affidata alla mano destra, è cantabile, tenera e leggermente ascendente nella sua prima frase, per poi discendere dolcemente. Possiede un carattere intimo e sognante. La mano sinistra fornisce un accompagnamento arpeggiato, con accordi spezzati che creano un tappeto armonico fluttuante e delicato. L’armonia è tonale, ma arricchita da accordi di settima e nona che aggiungono colore e una sottile modernità, evitando una cadenza troppo assertiva. Segue una breve frase più riflessiva, quasi una parentesi pensosa, la quale introduce un movimento armonico leggermente più denso e un profilo melodico diverso, prima di ritornare brevemente al materiale tematico iniziale. Il tema principale viene ripreso e moderatamente variato. La sezione si conclude con una cadenza che, pur affermando la tonalità d’impianto, mantiene un senso di sospensione, preparando il passaggio alla sezione successiva. L’uso del pedale è discreto ma essenziale per creare la risonanza e il legato desiderati.
La sezione B introduce un contrasto misurato. Si percepisce un cambio di atmosfera, anche se il centro tonale rimane un po’ ambiguo rispetto alla chiarezza della sezione A. La melodia diventa leggermente più assertiva e si sposta verso il registro acuto, con un andamento ritmico leggermente più mosso e frasi più ampie. L’accompagnamento della mano sinistra si fa più pieno, con accordi più consistenti e un movimento armonico più marcato. Si avverte un leggero crescendo dinamico che porta a un piccolo culmine espressivo, pur mantenendo sempre un carattere lirico e contenuto, tipico della romanza. Non c’è un vero e proprio sviluppo tematico intenso, quanto piuttosto la presentazione di un’idea melodica complementare che offre un respiro diverso.
Il tema principale della sezione A ritorna chiaramente, portando con sé un senso di familiarità e rassicurazione. Anche il breve inciso contrastante della sezione A viene riproposto. La ripresa non è una semplice ripetizione, poiché Durey introduce sottili variazioni nell’armonizzazione e nel fraseggio melodico. La seconda parte di questa ripresa assume un carattere più transitorio e armonicamente più mobile, quasi un breve ponte che prepara la conclusione.
Inaspettatamente, prima della vera e propria chiusura, vi è una breve ma chiara reminiscenza del materiale della sezione B. Questo conferisce al brano una struttura più ciclica e completa, come se il secondo tema dovesse avere un’ultima parola prima del congedo. Nella coda, il tempo rallenta e le dinamiche si affievoliscono verso il pianissimo. Le ultime frasi melodiche sono frammentate, sospese, e l’armonia vede l’uso del pedale che ne prolunga la risonanza, lasciando l’ascoltatore in un’atmosfera di serena malinconia e contemplazione. Gli ultimi accordi sono estremamente delicati e rarefatti.
Durey impiega un linguaggio armonico fondamentalmente tonale, ma lo arricchisce con l’uso sapiente di accordi di settima, nona e alterazioni cromatiche che conferiscono al brano un colore tipico della musica francese del primo Novecento, senza però spingersi verso le audacie armoniche di alcuni suoi contemporanei. Le melodie sono eminentemente liriche e cantabili, con un fraseggio elegante e naturale. La scrittura pianistica è raffinata, mai inutilmente virtuosistica, ma richiede un tocco sensibile e un buon controllo delle dinamiche e del pedale per rendere appieno le sfumature espressive.
La tessitura è prevalentemente omofonica, con una chiara distinzione tra melodia e accompagnamento. La mano destra è quasi sempre protagonista con la linea melodica, mentre la sinistra fornisce un supporto armonico discreto ma essenziale. La dinamica generale del brano è contenuta, muovendosi principalmente tra il piano e il mezzoforte, con rari picchi espressivi e una graduale dissolvenza finale.
Il carattere generale è quello di una riflessione intima e poetica. Non vi sono grandi slanci passionali o drammatici, ma piuttosto un’elegia delicata, un “canto senza parole” che evoca sentimenti di nostalgia, tenerezza e una serena contemplazione.

Adagio non troppo

Johann Rufinatscha (1812 - 25 maggio 1893): Concerto in sol minore per pianoforte e orchestra (1850). Michael Schöch, fortepiano; Orkester der Akademie Sankt Blasius, dir. Karlheinz Seissl.

  1. Allegro
  2. Adagio non troppo [16:13]
  3. Allegro con brio [23:10]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Johann Rufinatscha: il talento nascosto fra il Tirolo e Vienna

Vita e formazione: dalle Alpi tirolesi alla capitale asburgica
Nato a Malles (Mals) – all’epoca in Austria e oggi in Alto Adige – Rufinatscha iniziò la propria formazione musicale all’età di 14 anni, quando si trasferì a Innsbruck, dove si dedicò allo studio del pianoforte e del violino; approfondì gli studi musicali presso il conservatorio locale. Successivamente come dimora scelse Vienna, città in cui avrebbe vissuto e lavorato per il resto dei suoi giorni.

La carriera viennese: eminente didatta, compositore nell’ombra
A Vienna, Rufinatscha si distinse principalmente quale apprezzato insegnante di pianoforte e armonia. Sembra che la sua dedizione all’insegnamento abbia prevalso sull’attività compositiva, il che spiegherebbe il numero relativamente contenuto di opere da lui lasciate. I contemporanei nutrirono grandi aspettative su di lui, prevedendo che sarebbe diventato uno dei maggiori compositori della sua epoca. Tuttavia, questa previsione non si avverò e Rufinatscha rimase una figura alquanto marginale nella storia della musica. Ebbe invece considerevole importanza quale insegnante: fra i suoi allievi si annoverano figure di spicco come Ignaz Brüll e Julius Epstein.

Eredità e riconoscimento postumo: un ponte tra Schubert e Bruckner
Nonostante la relativa oscurità a livello internazionale, Rufinatscha è riconosciuto come uno dei più importanti compositori tirolesi del XIX secolo. La sua produzione musicale viene considerata un importante anello di congiunzione stilistico tra le opere di Franz Schubert e quelle di Anton Bruckner. Consapevole del valore del proprio lavoro, poco prima della morte Rufinatscha decise di donare i manoscritti delle sue composizioni al Museo provinciale tirolese, dove sono tuttora conservati. Negli ultimi anni si è assistito a un crescente interesse per la sua musica e a una sua lenta ma progressiva riscoperta.

Le composizioni: un corpus selezionato e significativo
La sua produzione annovera 5 Sinfonie complete e un quadro sinfonico in tre movimenti, nonché un Concerto per pianoforte e orchestra (disponibile anche in versione per pianoforte a quattro mani), una Serenata per archi, un’Ouverture da concerto in do maggiore e diverse ouverture programmatiche come Innerer Kampf (Lotta interiore), Die Braut von Messina (La sposa di Messina, 1850) e una Overture drammatica (1878).
Si ricordano anche due Quartetti (in mi bemolle maggiore, 1850; in sol maggiore,1870), un Trio in la bemolle maggiore (1868), il cui terzo movimento è una rielaborazione del secondo movimento del Concerto per pianoforte, e due Quartetti con pianoforte (in do minore, 1836; in la bemolle maggiore, 1870), dei quali il secondo rielabora composizioni precedenti nel primo e ultimo movimento.
Da segnalare anche alcune composizioni per pianoforte: una Sonata in re minore a 4 mani (1850), una Sonata in do maggiore op. 7 (1855), 6 Pezzi caratteristici op. 14 (anteriori al 1871) e una Sonata in re minore op. 18 (1880).

Il Concerto in sol minore per pianoforte e orchestra: analisi
Questa composizione si inserisce pienamente nel solco della tradizione romantica viennese, mostrando la solida preparazione artigianale di Rufinatscha e la sua capacità di creare musica espressiva e ben strutturata. L’opera riflette l’influenza dei grandi maestri del classicismo viennese e del primo Romanticismo, con un’attenzione particolare al dialogo tra solista e orchestra e a una scrittura pianistica che, pur virtuosistica, rimane integrata nel discorso musicale complessivo. La sua posizione stilistica si pone effettivamente come un ponte tra la liricità schubertiana e una certa grandezza orchestrale che anticipa, seppur in nuce, aspetti che verranno sviluppati da Bruckner.
Il primo movimento, in forma-sonata, si apre con un’introduzione orchestrale di stampo drammatico e assertivo. Un rullo di timpani e un incisivo intervento degli ottoni in Sol minore stabiliscono immediatamente un’atmosfera tesa e solenne. Gli archi rispondono con un motivo più ansioso e lamentoso, a cui si aggiungono i legni, costruendo un crescendo di intensità che prepara l’entrata del solista. L’orchestrazione è ricca e anticipa la serietà del materiale tematico. L’ingresso del pianoforte è potente e declamatorio, con accordi pieni e ottave che presentano il primo tema in sol minore. Questo tema è caratterizzato da una passione contenuta e da una certa nobiltà eroica. Il pianoforte sviluppa il materiale con passaggi virtuosistici brillanti, scale ascendenti e discendenti, arpeggi e figurazioni veloci, ma sempre al servizio dell’espressione tematica. L’orchestra interviene con forza, dialogando con il solista e rafforzando il carattere drammatico del tema. La transizione porta a un cambio di atmosfera e tonalità, modulando verso il si bemolle maggiore (relativa maggiore). Il secondo tema è affidato principalmente al pianoforte ed è di natura decisamente più lirica e cantabile, offrendo un netto contrasto con la drammaticità del primo. Qui si avverte una dolcezza melodica che può ricordare Schubert, con il pianoforte che espone la melodia accompagnato delicatamente dall’orchestra, in particolare dai legni e dagli archi in pizzicato. Lo sviluppo vede frammenti di entrambi i temi elaborati con maestria. Rufinatscha esplora diverse tonalità, aumentando la tensione armonica e il dialogo tra solista e orchestra si fa più serrato e drammatico. Il pianoforte si lancia in passaggi di grande virtuosismo, con sequenze di ottave, arpeggi complessi e brillanti scalette, mentre l’orchestra risponde con potenti sezioni di tutti. La ripresa riporta il primo tema in sol minore, ora presentato con ancora maggiore forza e ornamentazione sia dal pianoforte che dall’orchestra. Il secondo tema ricompare, come da prassi classica, nella tonalità d’impianto, ma in questo caso trasposto nel modo maggiore, conferendo un momentaneo senso di serenità e luminosità. Il movimento culmina, anche in questo caso come da tradizione, in una cadenza per il pianoforte solo, ampia, virtuosistica e ben costruita, iniziando in modo riflessivo per poi sviluppare materiale tematico del movimento con crescente complessità tecnica e potenza espressiva. Rufinatscha sfrutta l’intera estensione della tastiera, con passaggi brillanti, trilli e arpeggi, prima di concludere con i tradizionali trilli che preparano il rientro dell’orchestra. La coda riafferma il carattere drammatico del sol minore, con pianoforte e orchestra che conducono il movimento a una conclusione energica e decisa.
Il secondo movimento, in mi bemolle maggiore (sopradominante della tonalità d’impianto), offre un profondo contrasto lirico e introspettivo. Si apre con una breve introduzione orchestrale dominata da accordi sereni e caldi degli archi e dei legni, che stabiliscono un’atmosfera di pace e contemplazione. Il pianoforte introduce il tema principale, una melodia squisitamente cantabile, tenera e sognante, che ricorda un notturno. L’ispirazione melodica è di chiara matrice schubertiana, con armonie avvolgenti e un fraseggio espressivo. L’orchestra fornisce un accompagnamento discreto e delicato, spesso con archi in pizzicato o morbidi interventi dei legni. Una sezione centrale introduce un leggero aumento di intensità emotiva. Il fraseggio del pianoforte si fa più ornato, con arpeggi fluenti e passaggi più mossi, esplorando tonalità vicine che aggiungono un velo di malinconia, di struggimento. Il dialogo con i legni solisti (clarinetto, flauto) è particolarmente curato e intimo. Il ritorno del tema principale è affidato nuovamente al pianoforte, che lo ripropone con maggiore ornamentazione e un sostegno orchestrale leggermente più denso, ma sempre mantenendo il carattere lirico e sognante. La coda è breve e conduce il movimento a una conclusione serena e placida in mi bemolle maggiore. Il pianoforte chiude con delicati arpeggi e accordi che si dissolvono dolcemente, portando senza soluzione di continuità al movimento conclusivo.
Il finale è un rondò vivace e brillante in sol maggiore. Il tema principale è introdotto dal pianoforte con piglio energico e ritmico: è un tema dal carattere quasi popolaresco, con un andamento saltellante e accenti marcati che sottolineano il “con brio” dell’indicazione agogica. L’orchestra riprende e rinforza il tema, conferendogli ulteriore slancio. Il primo episodio introduce materiale tematico contrastante, nella tonalità di re maggiore, più scorrevole e melodico, con il pianoforte che si esibisce in brillanti passaggi virtuosistici e dialoghi con l’orchestra. Il ritorno del tema principale è ben marcato e porta a un secondo episodio più elaborato e modulante. Qui la scrittura si fa più drammatica, con potenti ottave del pianoforte e interventi orchestrali incisivi, esplorando diverse aree tonali e aumentando la tensione. Un ulteriore ritorno del tema principale prepara la sezione conclusiva, con una coda dal carattere trionfale e affermativo. Il pianoforte si lancia in brillanti scale, arpeggi e passaggi di bravura, sostenuto da un’orchestra festosa, conducendo l’opera a una chiusura sfavillante e piena di energia.
Nel complesso, questo concerto è un’opera di notevole fattura che merita sicuramente attenzione; dimostra una sicura padronanza della forma classica e una sensibilità pienamente romantica. Le melodie sono spesso memorabili, specialmente nel movimento lento, e la scrittura pianistica, sebbene richieda un solido virtuosismo, è ben integrata nel discorso orchestrale. L’orchestrazione è competente e supporta efficacemente il solista. L’influenza di Schubert è particolarmente avvertibile nel lirismo dei temi cantabili, mentre la solidità costruttiva e certi gesti drammatici possono ricordare Beethoven e il primo Romanticismo tedesco. Pur non essendo un’opera rivoluzionaria, è un esempio eccellente della produzione concertistica del suo tempo, un lavoro che bilancia eleganza, espressività e brillantezza e che testimonia il talento di un compositore che, sebbene rimasto relativamente nell’ombra, aveva molto da dire.