Francesco Antonio Bonporti (1672 - 19 dicembre 1749): Concerto a quattro in re maggiore op. 11 n. 8 (c1715). I Virtuosi Italiani.
Allegro
Largo [4:13]
Vivace [7:49]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Francesco Antonio Bonporti: il gentiluomo musico tra ambiti e sonate
La vita di Francesco Antonio Bonporti, compositore e sacerdote trentino dalla solida formazione intellettuale, fu segnata da una costante, ma frustrata, ambizione di ottenere un prestigioso incarico a corte.
Formazione e carriera iniziale
Nato a Trento nel 1672, Bonporti intraprese un percorso di studi rigoroso, passando dagli studi umanistici nel seminario locale alla fisica e metafisica presso l’università di Innsbruck (1688-91). Trasferitosi a Roma nel 1691, studiò teologia presso il Collegio germanico, ma coltivò contemporaneamente la musica sotto la guida di maestri come Ottavio Pitoni e, forse per il violino, Arcangelo Corelli o il suo allievo Matteo Fornari. Dopo l’ordinazione sacerdotale (1697), il compositore tornò a Trento, dove ottenne due benefici ecclesiastici nella cattedrale. Benché si firmasse «dilettante di musica», la sua fama di compositore si diffuse rapidamente in Europa, a partire dalla pubblicazione della sua opera prima (Sonate a tre) a Venezia nel 1696.
La ricerca infruttuosa di patrocinio e status
Bonporti dedicò gran parte della sua vita a tentativi volti a migliorare la propria posizione sociale e professionale, cercando invano di passare da beneficiato a canonico ordinario della Cattedrale di Trento. Per questo obiettivo utilizzò le proprie composizioni come strumenti di appello politico e diplomatico. Esempi di questa strategia includono la dedicazione di opere con titoli politicamente significativi, come Il trionfo della Grande Alleanza (opera ottava, perduta) o La Pace (opera decima), rivolti a sollecitare il favore di figure potenti come il principe elettore di Magonza o l’imperatore Carlo VI d’Asburgo. Questi nel 1727 lo nominò “familiare aulico”, un titolo che fu spesso frainteso dai biografi, i quali erroneamente credettero che Bonporti lavorasse presso la corte di Vienna. In realtà, egli rimase per quarant’anni nel suo modesto ruolo nella Cattedrale di Trento. Nonostante l’ultima vana richiesta di canonicato a Maria Teresa d’Austria nel 1746, il compositore morì a Padova nel 1749, dopo essersi ritirato in pensione (giubilazione) nel 1740.
Il catalogo musicale e l’evoluzione stilistica
La produzione di Bonporti è prevalentemente strumentale, articolata in dodici opere pubblicate che spaziano dalle sonate a tre al concerto solistico.
Le prime opere, come l’opera prima, ricalcano le sonate da chiesa di stile corelliano. Successivamente, nelle Sonate da camera (op. II, IV, VI), il compositore sviluppa uno stile più libero e cantabile, dove la linea melodica è affidata prevalentemente al primo violino. L’opera terza (Motetti a canto solo) si collega invece al genere della cantata di scuola romana e napoletana, evidenziando una forte attenzione all’espressione del testo attraverso l’armonia.
A partire dal 1707, egli si concentra su brani per violino solo, raggiungendo la piena maturità stilistica con le Invenzioni a violino solo (Opera decima, 1712). I Concerti a quattro (Opera XI) occupano infine una posizione unica nel periodo, abbandonando la struttura “a terrazze” del concerto grosso corelliano in favore di una sinfonia concertante, dove le parti dialogano in parità, con una scrittura decisamente polifonica.
Riconoscimento postumo e il caso Bach
La qualità della musica di Bonporti è testimoniata da un singolare episodio: quattro delle sue Invenzioni (Opera X) furono copiate da Johann Sebastian Bach a scopo di studio e, a causa di un errore editoriale del XIX secolo, vennero per lungo tempo incluse nel catalogo delle opere del Kantor di Lipsia. Le sue ultime composizioni, i Concertini e serenate (Opera XII), sono invece brani estesi che uniscono virtuosismo e cantabilità, caratterizzati da recitativi di intensa espressività.
Nonostante sia stato a lungo trascurato dalla critica, l’opera del compositore è stata oggetto di rinnovato interesse negli ultimi decenni, in gran parte grazie agli studi e alle riesumazioni del musicologo Guglielmo Barblan.
Il Concerto a quattro in re maggiore
Il brano si colloca in un affascinante periodo di transizione stilistica tra il robusto concerto grosso barocco corelliano e l’emergente concerto solistico. Come suggerito dagli studiosi, Bonporti non adotta pienamente la contrapposizione netta tra concertino e ripieno, preferendo una struttura che si avvicina alla sinfonia concertante, dove tutti gli strumenti partecipano al dialogo musicale con un alto grado di parità.
Il primo movimento è un Allegro vivace e ritmicamente propulsivo, tipico del Barocco maturo. Esso si apre con un tema principale marcatamente ritmico e incisivo, dominato dal profilo ascendente degli archi. L’inizio è caratterizzato dall’impiego del pieno organico orchestrale (tutti), che stabilisce saldamente la tonalità di re maggiore. L’andamento è brillante, con rapide figure di semicrome che generano grande energia.
Ha poi inizio un serrato dialogo tra le singole parti: a differenza di molti concerti grossi coevi, dove il gruppo di solisti (il concertino) si distingue nettamente dall’orchestra (ripieno), qui l’interazione è più fluida e si notano passaggi virtuosistici che vengono scambiati tra i violini primi e secondi, mantenendo un tessuto sonoro ricco e polifonico.
La musica si evolve attraverso sezioni più distese, caratterizzate da armonie che esplorano tonalità vicine. Le linee melodiche continuano a essere distribuite tra le voci superiori, spesso con figurazioni rapide e arpeggiate che mettono in mostra l’abilità tecnica degli strumentisti. Dopo una sezione centrale complessa, si verifica un ritorno del tema principale, con una ripresa energica che riporta alla tonalità di impianto. Il movimento si conclude con una reiterazione delle frasi tematiche, ribadendo il carattere festoso e dinamico dell’Allegro.
Il movimento centrale, Largo, offre un profondo contrasto emotivo e timbrico rispetto al movimento precedente. La tonalità si sposta verso una regione vicina più malinconica. Il carattere è meditativo e lirico, mentre le dinamiche sono generalmente più contenute. Il violino prende il centro della scena, con una linea melodica espressiva e ornata, tipica del linguaggio solistico del periodo. L’accompagnamento degli altri strumenti è discreto, fornendo un supporto armonico essenziale che enfatizza la cantabilità del violino. L’attenzione si sposta dall’interazione ritmica a una profonda espressività melodica.
Bonporti mantiene l’interesse variando sottilmente la melodia e introducendo tensioni armoniche. Nonostante l’andamento lento, ci sono momenti di intensità emotiva, spesso creati attraverso dissonanze risolte dolcemente o passaggi cromatici, che accrescono il senso di introspezione. Il movimento si chiude con una riaffermazione della serenità iniziale, preparando l’ascoltatore per il finale virtuosistico. Una cadenza perfetta conclude il brano con grazia e compostezza.
L’ultimo movimento, Vivace, ripristina l’energia e il virtuosismo del primo, concludendo il concerto con brio. Il movimento si lancia in un ritmo serrato e veloce, tornando al re maggiore brillante. Il tema è agile e giocoso, con figurazioni di crome e semicrome che richiamano la vivacità delle danze.
La trama musicale è densa, con passaggi rapidi che richiedono grande coordinazione all’ensemble. C’è un forte senso di moto perpetuo, dove l’energia ritmica non si placa. Le frasi vengono scambiate rapidamente, mantenendo la natura “a quattro” del concerto. Inframezzate all’energia principale, compaiono brevi momenti di maggiore cantabilità o di minore intensità, che fungono da respiro prima di reintrodurre la spinta motoria: questi contrasti dinamici e ritmici sono fondamentali per evitare la monotonia del tempo veloce.
Segue una sezione di elevato tecnicismo, con scalette e figurazioni veloci eseguite all’unisono o in imitazione stretta tra i violini. L’elemento distintivo di Bonporti, ovvero l’attiva scrittura polifonica, è particolarmente evidente qui, creando un effetto di turbinio orchestrale. Il movimento si dirige verso la sua conclusione con una ritmica intensificazione: le ultime battute sono un’affermazione conclusiva e perentoria della tonalità di impianto, chiudendo il pezzo con la tipica brillantezza e risolutezza del Barocco italiano.
Camille Saint-Saëns (9 ottobre 1835 - 1921): Introduction et Rondo capriccioso in la minore per violino e orchestra op. 28 (1863). Itzhak Perlman, violino; New York Philharmonic orchestra, dir. Zubin Mehta.
Lo stesso brano nella trascrizione per due pianoforti di Claude Debussy. Jean-François Heisser e Georges Pludermacher.
Camille Saint-Saëns
Claude Debussy
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
L’Introduction et Rondo capriccioso in la minore per violino e orchestra è un’opera virtuosistica e profondamente espressiva che mette in risalto sia la bellezza melodica che la brillantezza tecnica del violino solista.
Originariamente, fu concepita come movimento finale di un’opera più ampia, ma poi divenne un pezzo autonomo, eseguito in “prima” assoluta a Parigi al Théâtre des Champs-Élysées il 4 aprile 1867. Primo esecutore e dedicatario del brano fu il violinista spagnolo Pablo de Sarasate, a quel tempo ancora agli inizi della sua carriera. Fu proprio a lui che il compositore si ispirò nella composizione del pezzo, inserendo al suo interno delle evidenti allusioni stilistiche spagnoleggianti.
Saint-Saëns aveva conosciuto il famoso compositore spagnolo già nel 1859, rimanendo subito stregato dal suo talento. In quell’anno, Sarasate gli aveva commissionato un concerto per violino, presentandolo al pubblico durante la prima dell’Introduction. Successivamente, il compositore francese dedicò al suo amico anche il Concerto n. 3 per violino e orchestra, il quale divenne uno dei più celebri pezzi del repertorio violinistico.
Il pezzo si articola in due sezioni principali: un’introduzione lenta e malinconica, seguita da un rondò vivace e capriccioso.
L’introduzione si apre con l’indicazione di tempo Andante malinconico e, fin dalle prime note, si percepisce un’atmosfera di profonda introspezione e tristezza.
Il violino solista entra quasi subito dopo il breve accordo d’orchestra, stabilendo la tonalità di impianto. La melodia è frammentata, con note lunghe e sospese, seguite da brevi, struggenti frasi discendenti. L’accompagnamento orchestrale, appena percettibile, è fornito dagli archi con accordi tenuti, creando un sottofondo etereo che non compete mai con la voce del solista.
La melodia si sviluppa con maggiore fluidità, introducendo passaggi con doppie corde che aggiungono densità e risonanza al suono del violino. L’orchestra rimane un tappeto sonoro, tessendo armonie che sostengono la linea melodica principale. Pur mantenendo il carattere malinconico e il tempo lento, iniziano ad apparire figure più complesse e arpeggiate: questi non sono ancora sfoggi di virtuosismo, ma piuttosto ornamentazioni espressive che arricchiscono il discorso musicale.
La musica raggiunge un punto culminante emotivo e la melodia si innalza a registri più acuti, con un aumento dinamico che passa dal piano al mezzoforte e oltre. I passaggi si fanno più densi e appassionati, caratterizzandosi per la presenza di rapide scale e arpeggi ascendenti e discendenti. L’orchestra risponde con maggiore partecipazione, fornendo un supporto armonico più robusto.
Dopo il climax, la musica si placa gradualmente. Il violino rallenta, scendendo a figure più sommesse e frammentate. Questo segmento funge da transizione, preparando l’ascoltatore per il contrasto netto che seguirà. La melodia si dissolve quasi in un sospiro, creando un’aspettativa risolutiva per l’ingresso del Rondò.
Quest’ultimo è caratterizzato dall’indicazione Allegro ma non troppo e segna un cambiamento radicale di atmosfera, con un’esplosione di energia e vivacità, spesso associata a ritmi spagnoleggianti.
Con un’entrata improvvisa e brillante, il violino attacca il tema principale, un motivo ritmico, incisivo e altamente virtuosistico in la minore. Il carattere “capriccioso” del titolo è immediatamente evidente e l’orchestra fornisce un accompagnamento staccato e ritmicamente propulsivo, supportando il violino senza mai offuscarlo. La dinamica è vivace, quasi ininterrottamente forte.
Segue un momento di leggero contrasto, sebbene l’energia generale rimanga alta. La melodia si fa più cantabile e si alternano scale rapide e frasi più ampie ed espressive, spesso con doppie corde e arpeggi veloci. La tonalità tende a spostarsi verso il maggiore, donando un carattere più brillante rispetto al tema principale.
Questo riappare, ancora più brillante e virtuosistico, seguito da un secondo episodio di marcato contrasto. Il tempo rallenta e la tonalità si sposta definitivamente verso il maggiore. La melodia è lirica e sentimentalmente romantica, quasi una serenata spagnola. L’orchestra crea un sottofondo caldo e armonioso.
Un breve passaggio ripristina l’energia e la tensione, con figure ascendenti e discendenti che conducono al ritorno del tema principale, il quale si ripresenta con rinnovato vigore, ulteriormente elaborato e più complesso. Segue il terzo episodio, una sezione di estremo virtuosismo che porta il solista al limite delle sue capacità. Si assiste a un moto perpetuo di scale rapidissime, arpeggi spezzati, salti di corda e picchettati volanti. Questa sezione è un vero tour de force per il violinista e l’orchestra accompagna con brevi e potenti staccati che sottolineano il ritmo frenetico.
Il tema principale del Rondò fa la sua ultima apparizione, più esaltante e trionfale che mai. Il ritmo accelera ulteriormente e la dinamica aumenta, portando la musica a una conclusione grandiosa. Seguono brevi e intense sezioni virtuosistiche, concludendo con una coda che rappresenta la celebrazione finale del virtuosismo e dell’energia. Il violino solista e l’orchestra si uniscono in una serie di passaggi brillanti, scale ascendenti e accordi potenti. Perlman conclude con una serie di note acute e fortissimo, terminando il pezzo con una sferzante e definitiva cadenza finale.
Nel complesso, la composizione non è solo un brano virtuosistico, ma anche un’opera di grande profondità emotiva e ricchezza melodica. La sua struttura contrastante, con un’apertura quasi meditativa che lascia il posto a una danza spagnola travolgente, lo rende un pezzo affascinante e un pilastro del repertorio violinistico.
Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Quartetto per archi n. 3 in fa maggiore op. 73 (1946). Quartetto Borodin.
Allegretto
Moderato con moto [6:50]
Allegro non troppo [12:13]
Adagio [16:35]
Moderato [23:06]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Quartetto per archi n. 3 in fa maggiore op. 73
Composto nel 1946, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e prima delle nuove purghe staliniste del 1948, l’opera rivela una straordinaria profondità psicologica e complessità strutturale. La tonalità è spesso instabile, riflettendo un mondo che ha perso le proprie certezze. La suddivisione in cinque movimenti, anziché i tradizionali quattro, permette a Šostakovič di costruire un arco narrativo epico: per la prima esecuzione – per evitare accuse di “formalismo” – il compositore diede ai movimenti dei sottotitoli programmatici che tracciano una sorta di “storia di guerra”.
Il Quartetto si apre in un’atmosfera di ingannevole serenità: il primo violino introduce un tema principale quasi infantile, una melodia spensierata e saltellante in una chiara tonalità di fa maggiore. Il dialogo tra il primo violino e il violoncello è giocoso, quasi una conversazione amichevole. La forma-sonata è chiaramente delineata: dopo il primo tema, emerge un secondo tema più lirico e cantabile, ma ancora immerso in un’aura di innocenza.
Lo sviluppo introduce le prime ombre: l’armonia si fa più complessa e cromatica, e il tema principale viene frammentato e trattato in modo più aspro, passando attraverso tonalità minori. La ripresa riporta il tema iniziale, ma la sua innocenza è ormai perduta e suona quasi come un ricordo forzato di una felicità passata. La coda accelera in un crescendo frenetico e si conclude con una serie di accordi secchi e perentori, che spazzano via ogni traccia della spensieratezza iniziale. La catastrofe non è ancora arrivata, ma la sua ombra si è proiettata in modo inequivocabile.
Il secondo movimento cambia radicalmente atmosfera: è uno scherzo spettrale, costruito su un ostinato della viola, sommesso e meccanico, che il violista esegue con una precisione glaciale, quasi disumana. Su questo tappeto sonoro, il violoncello introduce un pizzicato che suona come una minaccia in punta di piedi. L’inquietudine è palpabile e i violini entrano con melodie acute e lamentose, suonate “sul ponticello” per ottenere un suono vitreo e snervante.
La dinamica rimane per lunghi tratti in un pianissimo carico di tensione, che il quartetto gestisce con un controllo magistrale del suono: questa quiete è spezzata da improvvisi scoppi di violenza (fortissimo), brontolii che squarciano il silenzio. Il movimento non offre alcuna risoluzione e l’anticipazione della tragedia cresce costantemente, fino a dissolversi nel nulla, lasciando l’ascoltatore in uno stato di profonda ansia.
Senza alcuna pausa, il terzo movimento esplode con una violenza inaudita: tutti e quattro gli strumenti all’unisono martellano un tema brutale, dissonante e dal ritmo motoristico. Questa è la rappresentazione sonora della guerra: una macchina inarrestabile di distruzione. Le frasi sono brevi, spezzate e il tessuto musicale è saturo di dissonanze stridenti.
In un momento tipicamente šostakoviciano, il primo violino emerge con una melodia quasi banale, quasi una marcetta da circo, suonata sopra il caos implacabile degli altri strumenti: questo crea un effetto grottesco e terrificante, come se la follia della guerra avesse cancellato ogni logica. Il movimento culmina in un climax assordante, un collasso sonoro totale che rappresenta l’apice della devastazione. Lentamente, dalle macerie, emerge il tema della passacaglia del movimento successivo, introdotto prima dalla viola e dal violoncello.
Il quarto movimento, collegato attacca al precedente, è il cuore emotivo del Quartetto: è una passacaglia, una serie di variazioni su un basso ostinato. Il tema, esposto dal violoncello con un suono profondo e dolente, è una melodia di lutto e desolazione. Sopra questo tema ripetuto, gli altri strumenti intessono i loro lamenti: prima la viola con una melodia nuda e sofferente, poi il secondo violino e infine il primo, il quale si spinge al registro sovracuto, suonando pianissimo, come un pianto lontano e disperato. La musica è rarefatta, piena di silenzi che pesano quanto le note. È un vasto paesaggio di rovina e perdita, un requiem per le vittime della catastrofe. Il movimento non si conclude, ma si dissolve in un etereo armonico del primo violino, una nota fragile e sospesa che ci conduce direttamente al finale.
L’ultimo movimento s’inizia con una ripresa del tema apparentemente innocente del primo movimento, ma ora suonato dalla viola e dal violoncello in modo scarno, quasi scheletrico. L’innocenza è stata completamente prosciugata dalla tragedia e la domanda “perché?” è implicita in questa melodia svuotata.
Questo movimento è una sintesi e una riflessione sull’intero percorso del Quartetto: i temi dei movimenti precedenti riaffiorano come frammenti di memoria. Questi ricordi si scontrano, si interrompono a vicenda, senza trovare una sintesi o una risposta. Il primo violino tenta più volte di ristabilire la melodia iniziale, ma viene sempre interrotto o la sua melodia si dissolve. La lotta per trovare un senso è vana. Nell’ultima pagina, il tema del primo movimento ritorna per l’ultima volta, ma suonato pizzicato, come un fragile ricordo che si sta spegnendo. L’opera si conclude su un accordo di fa maggiore, ma è una conclusione ambigua, priva di trionfo: è una pace vuota, la pace di un cimitero e le ultime note pizzicate del violoncello suonano come l’eco finale dell’eterna domanda, lasciata senza risposta.
Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Trio per violino, violoncello e pianoforte n. 1 in do minore op. 8 (1923). Zsolt-Tihamér Visontay, violino; Mats Lidström, violoncello; Vladimir Aškenazij, pianoforte.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Trio con pianoforte n. 1 in do minore op. 8
Scritta nel 1923 – quando l’autore, sedicenne, era un allievo del Conservatorio di Leningrado – e originariamente intitolata Poème, la composizione si rivela matura e premonitrice; dedicata al primo amore di Šostakovič, Tat’jana Glivenko, fu eseguita privatamente nel 1924, ma rimase inedita per quasi sessant’anni, venendo pubblicata solo negli anni ’80.
Il brano si apre in un’atmosfera di profonda malinconia e introspezione: è il violoncello a inaugurare il discorso musicale, da solo, con un tema ampio, lirico e lamentoso in do minore. Questa melodia, caratterizzata da ampi intervalli e da un andamento rapsodico, diventerà la cellula generatrice dell’intera opera. La dinamica è estremamente sommessa (pianissimo), creando un senso di intimità e vulnerabilità. Poco dopo, il violino entra imitando il tema del violoncello a un’ottava superiore, creando un canone che intensifica il carattere dialogico e dolente della musica. L’intreccio contrappuntistico tra i due archi è delicato e trasparente.
Il pianoforte fa infine il suo ingresso, non come protagonista, ma con accordi arpeggiati e rarefatti nel registro acuto, quasi a creare uno sfondo sonoro spettrale e vasto. Il suo ruolo è inizialmente atmosferico: da questo momento, i tre strumenti iniziano a sviluppare il materiale tematico, con un crescendo che porta a un climax, dove il pianoforte assume un ruolo più assertivo. La sezione si conclude con un ritorno alla calma iniziale, conducendo senza soluzione di continuità alla sezione successiva.
Qui il cambiamento è repentino e radicale: il pianoforte introduce un tema secco, ritmico e grottesco, caratterizzato da un andamento motorio e da accenti sardonici. Questo tema – secondo una lettera dello stesso Šostakovič alla Glivenko – fu recuperato da una sua precedente Sonata per pianoforte in si minore, andata parzialmente perduta. È un primo, chiaro esempio di quello stile “scherzoso” e tagliente che diventerà un marchio di fabbrica del compositore. Gli archi entrano in pizzicato, sottolineando il carattere percussivo e quasi demoniaco della sezione. Il dialogo tra gli strumenti diventa serrato e conflittuale, con brevi frammenti melodici scambiati rapidamente. La musica acquista una tensione crescente, raggiungendo un culmine di energia frenetica: qui, la scrittura diventa densa e virtuosistica per tutti e tre gli strumenti, con il violino che si lancia in passaggi acuti e stridenti. La sezione si dissolve con la stessa rapidità con cui era iniziata.
Nella terza sezione, la musica precipita in un abisso di disperazione, assumendo il carattere di una marcia funebre: il pianoforte scandisce accordi gravi, pesanti e solenni e, su questo tappeto sonoro, il violino e il violoncello intonano all’unisono un nuovo tema, un canto tragico e declamatorio. L’uso dell’unisono conferisce alla melodia una forza straordinaria, come se fosse la voce di un coro dolente. Questa sezione rappresenta il cuore emotivo del trio, culminando in un’espressione di dolore devastante prima di placarsi gradualmente.
Riemerge il tema lirico dell’inizio, ma completamente trasformato: non è più una melodia sommessa, ma un’affermazione potente e angosciata, suonata dal pianoforte in ottave fortissimo: questa non è una semplice ricapitolazione, ma una rivisitazione del passato alla luce delle esperienze tragiche e grottesche delle sezioni centrali. La nostalgia iniziale si è trasformata in un grido di dolore.
La conclusione del brano è tanto inaspettata quanto geniale: la musica scatta in un Allegro finale, una danza sfrenata e delirante che riprende l’energia motoria dello scherzo, portandola a un livello estremo. Questo vortice sonoro culmina in una serie di accordi potenti, dopo i quali la musica subisce un crollo improvviso.
Il tempo rallenta drasticamente e ritornano frammenti del tema iniziale, ora come un ricordo lontano e spettrale: è interessante notare che le ultime 22 battute della parte pianistica andarono perdute e furono ricostruite decenni dopo dall’allievo di Šostakovič, Boris Tiščenko, per consentirne la pubblicazione. Il pezzo si conclude in un pianissimo etereo, con il violino che tiene un armonico acuto e cristallino, mentre il pianoforte e il violoncello si spengono su un accordo finale in do minore, sigillato da un ultimo, secco pizzicato. Il finale non offre risoluzione, ma una sorta di rassegnazione esausta, chiudendo il cerchio emotivo del brano.
Louis Gruenberg (3 agosto 1884 - 1964): Vier Indiskretionen per quartetto d’archi op. 20 (1924). The Ebony Quartet: Marleen Asberg e Anna De Vey Mestdagh, violini; Roland Krämer, viola; Daniel Esser, violoncello.
Allegro con spirito
Lento sostenuto e espressivo [4:01]
Moderato grazioso e delicato [7:01]
Allegro giocoso [9:12]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Da Schoenberg a Hollywood: l’incredibile viaggio di Louis Gruenberg
Louis Gruenberg è stato un compositore e pianista russo-americano la cui opera ha attraversato mondi musicali apparentemente distanti, dall’avanguardia europea al cinema di Hollywood, passando per il jazz e il grande repertorio operistico.
Introduzione e formazione di un talento transatlantico
Nato vicino a Brest-Litovsk (allora in Russia) nel 1884, Gruenberg emigrò con la famiglia negli Stati Uniti quando aveva pochi mesi. Cresciuto a New York, dimostrò un talento precoce per il pianoforte, studiando con Adele Margulies al Conservatorio nazionale, all’epoca diretto da Antonín Dvořák. La sua formazione fu completata in Europa, dove divenne allievo del celebre pianista e compositore Ferruccio Busoni al Conservatorio di Vienna. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale si affermò come pianista concertista e accompagnatore di talento.
L’affermazione come compositore d’avanguardia e pioniere del jazz
La svolta nella sua carriera di compositore avvenne nel 1919, quando la sua opera orchestrale The Hill of Dreams vinse il prestigioso Premio Flagler, che gli permise di dedicarsi interamente alla composizione. In questo periodo, Gruenberg sviluppò un profondo interesse per il jazz e il ragtime, integrandone ritmi e armonie nelle proprie opere. Divenne una figura centrale nella scena musicale d’avanguardia di New York, unendosi all’International Composers’ Guild (ICG) fondata da Edgard Varèse. Fu un convinto promotore della musica contemporanea, dirigendo la “prima” americana del rivoluzionario Pierrot Lunaire di Arnold Schoenberg nel 1923. A seguito di divergenze con Varèse, fondò insieme ad altri la League of Composers, consolidando il ruolo di leader nel panorama della musica moderna americana.
Il successo operistico e accademico
Il culmine della sua carriera teatrale fu raggiunto nel 1933 con la prima della sua opera espressionista The Emperor Jones, basata sul dramma di Eugene O’Neill. Messa in scena al Metropolitan, con il baritono Lawrence Tibbett nel ruolo del protagonista (in blackface), ottenne un enorme successo di critica, tanto da meritare la copertina della rivista “Time”. Negli anni successivi Gruenberg diresse il Dipartimento di composizione del Chicago Musical College (1933-36) e collaborò con personalità quali il regista Pare Lorentz e lo scrittore John Steinbeck.
La carriera a Hollywood: tra riconoscimenti e controversie
Nel 1937 il compositore si trasferì a Beverly Hills, unendosi a una comunità di esuli e compositori europei che includeva Schoenberg e Stravinskij. Iniziò una prolifica carriera nel cinema, ma non senza complessità. Lavorò alla colonna sonora del capolavoro di John Ford Ombre rosse (Stagecoach, 1939) ma, pur essendo a capo del team di compositori, inspiegabilmente non fu incluso nella lista dei candidati all’Oscar, che il film vinse per la miglior colonna sonora. Ottenne tuttavia due nomination per altrettante partiture originali: So Ends Our Night (1941), un omaggio alla cultura musicale austro-tedesca e Commandos Strike at Dawn (1942), per cui fu chiamato a sostituire Igor’ Stravinskij, il cui lavoro fu scartato perché completato prima ancora che il film fosse girato.
Il Concerto per violino e gli anni della lista nera
Nel 1944 Gruenberg raggiunse un altro importante traguardo nel mondo della musica classica: il leggendario violinista Jascha Heifetz gli commissionò il Concerto per violino op. 47, un brano vibrante e virtuosistico che fu inciso da Heifetz in quella che divenne un’esecuzione di riferimento. Nel dopoguerra, la carriera a Hollywood di Gruenberg proseguì con film importanti come All The King’s Men (1949), per cui ottenne una nomination al Golden Globe. Tuttavia, la sua carriera cinematografica si interruppe bruscamente nel 1950: si presume che le sue frequenti collaborazioni con sceneggiatori e registi finiti sulla lista nera di Hollywood durante il maccartismo abbiano portato al suo allontanamento dall’industria cinematografica.
Ultimi anni, eredità e riscoperta
Negli ultimi vent’anni della sua vita, Gruenberg si ritrovò sempre più isolato sia dal mondo del cinema che da quello della musica da concerto, pur mantenendo una stretta amicizia con Schoenberg. Non smise mai di comporre, lasciando un vasto catalogo di opere, tra cui cinque sinfonie e quattro opere complete. Morì a Los Angeles nel 1964. Caduto in un relativo oblio per decenni, il suo lavoro ha visto poi una rinascita di interesse: in particolare, il Concerto per violino è stato riscoperto e riproposto al pubblico dal violinista Koh Gabriel Kameda a partire dal 2002, riportando l’attenzione su una delle figure più versatili e ingiustamente trascurate della musica del XX secolo.
Le Quattro Indiscrezioni: analisi
L’opus 20 costituisce una rappresentazione perfetta dello stile eclettico e audace di Gruenberg. Il titolo suggerisce un approccio irriverente alle convenzioni, una volontà di mescolare linguaggi musicali considerati all’epoca incompatibili. Le quattro Indiscrezioni rivelano una profonda conoscenza della tradizione europea, una sincera passione per l’avanguardia espressionista e l’irresistibile fascino che i ritmi sincopati del jazz esercitavano su Gruenberg. L’opera è un microcosmo della sua identità di compositore transatlantico, capace di sintetizzare il rigore accademico con l’energia della musica popolare.
Il primo movimento è un’esplosione di energia nervosa e motoria: si apre senza preamboli con un motivo ritmico incisivo e martellante che funge da cellula generatrice per l’intero brano. La scrittura è densa e contrappuntisticamente complessa, con le quattro voci che si intrecciano in un dialogo serrato e a tratti aggressivo.
L’influenza del jazz è immediatamente percepibile: Gruenberg utilizza ritmi fortemente sincopati, quasi ragtime, soprattutto nella parte del violoncello che spesso abbandona il suo ruolo melodico per fornire un impulso percussivo e ostinato, a volte in pizzicato, che ricorda una linea di basso walking bass. L’indicazione “con spirito” è interpretata come una vitalità irrequieta, quasi meccanica, che anticipa certi aspetti del neoclassicismo di Stravinskij o del futurismo.
L’armonia è spigolosa e costantemente dissonante: sebbene non si tratti di una dodecafonia rigorosa, Gruenberg si muove liberamente in un’atonalità che genera una tensione continua. Le linee melodiche sono frammentate, spezzate e passano rapidamente da uno strumento all’altro, evitando la cantabilità tradizionale. Emergono brevi oasi più liriche, ma vengono subito travolte dal flusso ritmico inarrestabile.
Il movimento è costruito su contrasti dinamici e di densità: a sezioni di grande impeto, eseguite con forza da tutto il quartetto, si alternano momenti più rarefatti e sommessi, dove emergono dialoghi più intimi tra due strumenti. La conclusione è brusca e affermativa, sigillando un’apertura dirompente e piena di carattere.
Con il secondo movimento, si viene proiettati in un universo sonoro completamente diverso: questa sezione è il cuore emotivo e lirico dell’opera, un brano di profonda introspezione che rivela l’influenza dell’espressionismo della seconda Scuola di Vienna, in particolare di Schoenberg, di cui Gruenberg fu un grande promotore.
Il movimento si apre con un lungo e toccante canto solitario della viola, la cui melodia cromatica e dolente stabilisce immediatamente un’atmosfera di malinconia e desiderio. Questa linea melodica, piena di inflessioni espressive, è il fulcro del brano. Gradualmente, gli altri strumenti entrano, costruendo un tessuto sonoro denso e avvolgente.
L’armonia è ricca, satura di cromatismi e tensioni che non si risolvono mai completamente, creando un senso di struggimento continuo. La scrittura è caratterizzata da un contrappunto imitativo molto fitto, dove frammenti della melodia principale vengono ripresi e sviluppati dalle altre voci. L’apice emotivo viene raggiunto con l’ingresso del primo violino su un registro acutissimo, un lamento lancinante che sovrasta il denso intreccio armonico sottostante.
Qui si può anche notare un uso magistrale della dinamica, con lunghi crescendo che portano a climax di grande intensità, seguiti da improvvisi subito piano che riportano a un’atmosfera di intimità e riflessione. È un pezzo che richiede una sensibilità e un controllo del suono eccezionali, mettendo in luce l’anima tardo-romantica del compositore.
Il terzo movimento funge da scherzo, un intermezzo leggero e spiritoso che offre un momento di respiro dopo l’intensità del Lento. Qui l’”indiscrezione” sta nel giustapporre una sorta di danza spettrale e ironica tra due movimenti di grande peso drammatico.
Il carattere è elusivo e quasi impalpabile: Gruenberg ottiene questo effetto attraverso un uso quasi costante del pizzicato in tutte le parti, trasformando il quartetto d’archi in uno strumento a corde pizzicate che ricorda un mandolino o un clavicembalo surreale. L’indicazione grazioso e delicato è perfettamente resa da questa scelta timbrica.
Il movimento ha il vago andamento di una danza, forse un valzer distorto o una polka ironica: le melodie sono brevi, frammentarie e scherzose, rimbalzando tra gli strumenti con leggerezza, mentre l’atmosfera è quella di un carillon meccanico e un po’ inquietante, rimandando a certe pagine di Satie o di Ravel.
L’uso della sordina è un altro elemento chiave, che attutisce ulteriormente il suono e contribuisce all’atmosfera sognante e distante. L’interazione tra gli strumenti è giocosa, basata su rapidi scambi di brevi figure ritmiche e melodiche, in un perfetto esempio di scrittura arguta e sofisticata.
Il finale è una danza travolgente e rustica, che riprende l’energia del primo movimento ma la incanala in una direzione più popolare e giocosa: è una conclusione che celebra il vigore ritmico con un tocco di esuberanza quasi selvaggia.
Il movimento è dominato da un’energia ritmica inarrestabile, basata su ostinati percussivi e un andamento che ricorda una danza popolare dell’Europa orientale o una tarantella frenetica. Il violoncello e la viola forniscono una base ritmica potente e quasi barbarica, mentre i violini si lanciano in passaggi virtuosistici e melodie taglienti.
A differenza del primo movimento, il cui modernismo era più astratto, qui si avverte un chiaro sapore folk: le melodie – pur inserite in un contesto armonico dissonante – hanno inflessioni modali e un andamento che evoca la musica tradizionale. Questa fusione tra un linguaggio armonico moderno e un materiale tematico di matrice popolare è una delle cifre stilistiche più interessanti di Gruenberg.
Il brano impegna severamente i quattro interpreti: richiede grande precisione ritmica e agilità tecnica. La struttura rapsodica presenta sezioni susseguentisi in un crescendo di velocità e intensità fino alla coda finale, che accelera in un vortice sonoro inarrestabile per poi concludersi con accordi secchi e decisi, ponendo fine all’opera con un’affermazione di vitalità incontenibile.
Fabrizio de Rossi Re (1° agosto 1960): Ricercare primo per arpa e quartetto d’archi (2004). Claudia Antonelli, arpa; Enesemble Algoritmo (Francesco Peverini e Manfred Croci, violini; Gabriele Croci, viola; Matteo Maria Zurletti, violoncello), dir. Marco Angius.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Fabrizio de Rossi Re: un cosmonauta nel mondo della musica
Fabrizio de Rossi Re è un compositore italiano la cui opera si distingue per un’eccezionale apertura a diverse esperienze artistiche, fuse in uno stile multiforme ma sempre personale e riconoscibile. La sua musica riesce a conciliare i linguaggi della ricerca sperimentale con una comunicazione diretta, posizionandolo come una figura unica nel panorama musicale contemporaneo.
Formazione e carriera accademica
Fabrizio de Rossi Re ha compiuto gli studi presso il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, dove si è diplomato sotto la guida di Mauro Bortolotti (composizione) e Raffaello Tega (strumentazione per banda). La sua formazione è stata arricchita da incontri significativi con figure di spicco del mondo musicale, tra cui il pianista jazz Umberto Cesari, Sylvano Bussotti presso la Scuola di Fiesole, Salvatore Sciarrino ai corsi di perfezionamento di Città di Castello e una proficua collaborazione con Luciano Berio, che gli ha commissionato diverse composizioni. Membro dell’associazione Nuova Consonanza dal 1986, egli ha ricoperto il ruolo di presidente di giuria in numerosi concorsi internazionali di composizione ed esecuzione musicale. La sua carriera accademica lo ha visto insegnare nei conservatori di Pesaro, L’Aquila, Bologna e Fermo. Dal 2021 è docente presso il Conservatorio di Perugia. Ha inoltre tenuto corsi e stage di perfezionamento in composizione musicale applicata alla didattica, allo spettacolo e alla multimedialità in prestigiose istituzioni.
Lo stile: tra sperimentazione e comunicazione
La cifra stilistica di Fabrizio de Rossi Re è caratterizzata da un’esplorazione a 360 gradi che accoglie e coniuga esperienze musicali eterogenee: descritto come «una sorta di cosmonauta che gira attorno al mondo della musica con antenne sensibilissime», il compositore trasfigura stimoli sonori, gestuali e antichi attraverso il filtro della sua personalità. La sua musica è costantemente in bilico tra l’eredità della sperimentazione e la volontà di una comunicazione diretta con l’ascoltatore. Questa duplice natura si riflette nella capacità di assimilare diverse tecniche musicali, dalla tradizione colta al jazz, e di integrare le lezioni delle avanguardie del Novecento in un linguaggio autonomo. Il compositore – mantenendo il gusto per l’impatto sonoro tipico dell’esecutore – dimostra come sia possibile un ascolto gratificante e non banale, rendendo compatibili universi musicali differenti.
Una prolifica produzione artistica
Autore prolifico ed eseguito a livello internazionale, Fabrizio de Rossi Re ha dedicato una particolare attenzione al teatro musicale e a una vasta gamma di generi, dalle opere radiofoniche alle composizioni sinfoniche e cameristiche.
La sua produzione teatrale include opere come Biancaneve, ovvero il perfido candore (1993), su libretto proprio; Cesare Lombroso o il corpo come principio morale (2001) e Musica senza cuore (2003), un’azione musicale grottesca tratta dal libro Cuore, che ha visto la partecipazione di Paola Cortellesi. Tra i lavori più recenti si annoverano King Kong, amore mio (2011), Animali fantastici (2019) – su testi di Leonardo da Vinci – e Magic Circles. Storia di Martin W. che sapeva contare le stelle (2022), con Vinicio Marchioni come protagonista. Spesso è anche interprete al pianoforte nelle proprie opere di teatro musicale da camera, come nel ciclo Canti di cielo e terra e in Cantopinocchio (con Simona Marchini), La scoperta dell’America (con Massimo Wertmüller) e Il Quaderno di Sonia (con Sonia Bergamasco).
Per Rai-Radio Tre ha composto diverse opere radiofoniche, tra cui Terranera (1994) – su testo di Valerio Magrelli e con la regia di Giorgio Pressburger – e Vox in bestia. Gli animali della Divina Commedia (Inferno), selezionato per il Prix Europa 2022. Ha ricevuto anche importanti commissioni da istituzioni come l’Accademia nazionale di Santa Cecilia, per cui ha scritto Rappresentatione per strumenti antichi, coro e orchestra (2001), e la Fondazione Musica per Roma, per la quale ha composto Terror vocis (2009). Altre commissioni di rilievo includono lavori per l’Orchestra «Toscanini» di Parma e l’Orchestra di Losanna.
La sua vasta produzione cameristica è infine eseguita costantemente in Italia e all’estero: tra i brani più significativi si segnalano il Ricercare per clavicembalo e archi, scritto per il quartetto d’archi dei Berliner Philharmoniker (2004), Rondò di notte, su commissione del Teatro La Fenice di Venezia (2014), e Arpie (dal canto XIII dell’Inferno di Dante) (2020). Per la danza ha composto L’ombra dentro la pietra, una produzione di Romaeuropa Festival (1996) e del Teatro Hebbel di Berlino (1997).
Il Ricercare Primo: analisi
Fin dal titolo questa composizione dichiara la propria duplice natura: un omaggio a una forma antica, il ricercare, trasfigurata attraverso una sensibilità e un linguaggio prettamente contemporanei.
Il brano si apre in un’atmosfera sospesa e rarefatta: non c’è un tema definito, ma un dialogo esitante tra gli archi. Un violino solo introduce una linea melodica frammentata, quasi un lamento, a cui rispondono gli altri strumenti del quartetto con note lunghe e armonie diafane. La scrittura è contrappuntistica e moderna e le voci si intrecciano senza una chiara gerarchia, creando un tessuto sonoro che evoca attesa e introspezione: è il paesaggio prima dell’evento, la quiete che precede la tempesta. L’arpa tace, lasciando che gli archi costruiscano lentamente una tensione armonica sottile ma persistente. Questa introduzione funge da prologo, presentando il materiale cellulare e l’ambiente emotivo da cui scaturirà l’intera narrazione musicale.
La sezione successiva è introdotta da un cambiamento radicale di carattere: il ritmo si fa più serrato e concitato. L’arpa entra in scena con una serie di arpeggi e glissandi rapidissimi, assumendo un ruolo da protagonista virtuosistico. Il quartetto d’archi risponde con figurazioni ritmiche secche e frammentate, inclusi pizzicati e colpi d’arco decisi, creando un dialogo serrato e conflittuale. La scrittura esplora timbri moderni: gli archi utilizzano tecniche come il sul ponticello per produrre suoni stridenti e metallici, quasi a evocare il ruggito del mostro marino nel dipinto. L’arpa non è solo melodia, ma diventa percussione e colore, con passaggi di estrema agilità che si intrecciano in un vortice sonoro. Il culmine di questa sezione è un climax di straordinaria potenza drammatica: il quartetto esplode in accordi dissonanti e aggressivi, mentre l’arpa li travolge con un glissando fragoroso. Immediatamente dopo, la musica si dissolve in un silenzio quasi totale, lasciando solo gli armonici eterei degli archi e i delicati arpeggi dell’arpa, come polvere che si deposita dopo la battaglia.
Da questa quiete emerge la sezione più lirica e cantabile del brano: il tempo rallenta e l’atmosfera si trasfigura in una bellezza celestiale e sognante. L’arpa introduce un tema melodico dolce e malinconico, mentre il quartetto d’archi la sostiene con accordi lunghi e morbidi, creando un tappeto sonoro caldo e avvolgente. Il dialogo tra gli strumenti è qui di pura empatia: la melodia passa fluidamente dall’arpa agli archi, che la sviluppano con un’intensità crescente ma sempre contenuta. Questa sezione è un’oasi di pace, un momento di contemplazione e sollievo che contrasta nettamente con la violenza precedente. La scrittura di Fabrizio de Rossi Re dimostra qui la sua capacità di creare un’emozione diretta e gratificante, senza mai cadere nella banalità.
L’ultima parte del brano è una celebrazione energica e gioiosa: il carattere muta ancora una volta in una sorta di danza stilizzata dal sapore neo-barocco. Il ritmo diventa il motore principale, con figurazioni ostinate e scattanti che si rimbalzano tra l’arpa e il quartetto. Questo finale ha la struttura di una toccata virtuosistica, in cui tutti gli strumenti partecipano a un gioco contrappuntistico brillante e festoso. L’energia cresce in un crescendo inarrestabile, culminando in una serie di accordi potenti e ribattuti che portano a una cadenza finale di grande impatto. Tuttavia, de Rossi Re sorprende l’ascoltatore con una coda inaspettata: invece di concludere trionfalmente, la musica si dissolve improvvisamente. L’energia si spegne, lasciando spazio agli stessi armonici acuti e ai suoni evanescenti dell’arpa sentiti dopo il climax della lotta. Il brano non si chiude, ma si smaterializza, svanendo in un silenzio carico di risonanze, come un mito che si ritira nell’eco del tempo.
Clamor Heinrich Abel (1634 - 25 luglio 1696): Battaille in re maggiore per 2 violini e basso continuo. Musica Antiqua Köln, dir. Reinhard Goebel.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Clamor Heinrich Abel: ritratto di un musicista barocco
Una vita tra musica e nobiltà
Clamor Heinrich Abel è un importante musicista tedesco del periodo barocco. Nacque nel 1634 a Burg Hünnefeld, presso Bad Essen in Vestfalia, figlio di Ernst Abel, un musicista attivo presso la cappella di corte di Hannover; l’insolito nome Clamor gli fu dato in onore di Clamor Eberhard von dem Bussche, signore del castello di Hünnefeld, presso il quale era stato attivo il nonno paterno di Abel. La famiglia Abel fu una vera e propria dinastia di musicisti, influente nel Nord e Centro della Germania tra il XVII e il XVIII secolo. Intorno al 1685 Abel sposò Magdalene Herbof; fu padre del gambista e violinista Christian Ferdinand Abel e nonno del celebre virtuoso di viola da gamba e compositore Carl Friedrich Abel.
Una carriera itinerante
La carriera di Abel si svolse in diverse corti e città tedesche: attivo dapprima a Celle (1662–64) quale musicista di corte e organista, fu poi a Hannover (1665-85), dove ricoprì il ruolo di musicista da camera ducale in un periodo significativo della sua carriera; dopo il 1685 si presume che sia tornato a lavorare a Celle per un certo periodo; concluse la propria carriera come Obermusicus (primo musicista) a Brema, dove fu attivo dal 1694 circa fino alla morte.
Le opere musicali
Abel fu un compositore particolarmente prolifico (conosciamo però solo una parte della sua produzione); fra le sue opere principali si ricorda la raccolta Erstlinge musikalischer Blumen, comprendente 59 brani strumentali, pubblicata in tre parti tra il 1674 e il 1677: le composizioni delle prime due parti (1674, 1676) sono scritte per quattro strumenti e basso continuo, mentre la terza (1677) contiene allemande, correnti, sarabande e gighe per violino o viola da gamba e basso. Tra i lavori di Abel più noti si annoverano la Battaille in re maggiore per due violini e basso continuo, la Sonata sopra Cuccu per violino e viola da gamba e una versione della celebre Folie d’Espagne (1685).
La Battaille in re maggiore
Si tratta di un superbo esempio di musica descrittiva del periodo barocco. Questo genere, popolare all’epoca, mirava a descrivere eventi o scene attraverso il linguaggio musicale. In questo caso, Abel dipinge un quadro sonoro vivace e drammatico di una battaglia, utilizzando i due violini e il basso continuo non solo come strumenti, ma come veri e propri protagonisti di un’azione teatrale.
Il brano si apre senza preamboli con una sezione solenne e marziale: la tonalità di re maggiore, spesso associata alla festa e al trionfo, stabilisce immediatamente un’atmosfera eroica. I due violini procedono in modo omoritmico, quasi all’unisono, con passaggi in terze e seste parallele che evocano il suono squillante di una fanfara di trombe. Il basso continuo fornisce una base armonica robusta e un andamento ritmico puntato che ricorda una marcia cerimoniale: questa introduzione funge da “chiamata alle armi”, preparando il campo per lo scontro imminente.
Con un improvviso cambio di carattere, la battaglia ha inizio: il tempo si anima e la scrittura diventa un fitto dialogo tra i due violini. Abel abbandona la compattezza iniziale per lanciare i due solisti in un vero e proprio duello. Assistiamo a un brillante gioco di imitazione: un violino propone una rapida figurazione di semicrome e l’altro risponde immediatamente, come in un incrociarsi di lame. Questo dialogo si intensifica in passaggi di scale e arpeggi vertiginosi che mettono in luce l’abilità tecnica richiesta agli esecutori.
Segue un’inaspettata oasi di lirismo: la musica rallenta, trasformandosi in un breve interludio cantabile e malinconico, quasi un momento di riflessione nel cuore della battaglia o il lamento per i caduti. Questa tregua drammatica serve ad aumentare la tensione, rendendo ancora più efficace il ritorno all’azione: la seconda parte dello scontro è ancora più furente, con i violini che si scambiano figure virtuosistiche sempre più complesse e veloci, culminando in una cadenza decisa che chiude la fase più accesa del combattimento.
Abel ora arricchisce la sua tavolozza sonora con effetti prettamente descrittivi e sentiamo i violini imitare segnali militari: uno tiene una nota lunga e vibrante (un pedale, quasi un bordone), mentre l’altro esegue brevi e ritmiche chiamate che ricordano i segnali di una tromba da campo. Questa sezione, basata più sul ritmo e sull’effetto timbrico che sulla melodia, è un chiaro elemento programmatico che ci trasporta direttamente sul campo di battaglia.
La coda finale è una travolgente dichiarazione di vittoria: Abel scatena tutta la potenza virtuosistica degli strumenti, con cascate di note velocissime, passaggi accordali e un’energia ritmica inarrestabile. I due violini, non più in duello ma uniti in un impeto trionfale, corrono verso la conclusione. L’intera composizione si chiude con una serie di accordi forti e assertivi nella tonica, sigillando la narrazione con un senso di inequivocabile trionfo.
Nel complesso, la Battaille di Abel è molto più di un semplice pezzo per violini: è un piccolo dramma strumentale che dimostra la straordinaria capacità del compositore di fondere rigore formale, invenzione melodica e un potente senso narrativo.
Aleksej Igudesman e Alexandra Tirsu alle prese con alcune bizzarre variazioni sul tema di una famosa canzoncina infantile (Ah! vous dirai-je, maman ossia Quand trois poules vont au champ, nota ai bambini di lingua inglese come Twinkle, Twinkle, Little Star ovvero Baa, Baa, Black Sheep), rivelando a un tratto una sua insospettabile relazione con il cinquecentesco Ballo di Mantova altrimenti detto Fuggi fuggi fuggi dal mondo bugiardo.
Carl Engel (21 luglio 1883 - 1944): Triptych per violino e pianoforte (c1920). William Kroll, violino; Frank Sheridan, pianoforte.
Liberamente (ben sostenuto)
Allegretto capriccioso [9:40]
Allegro, ma non troppo [14:32]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Carl Engel, architetto della scena musicale americana
Carl Engel ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo delle istituzioni musicali statunitensi durante la prima metà del XX secolo. Benché noto principalmente come compositore, la sua eredità risiede soprattutto nel suo ruolo di manager culturale, musicologo, editore e organizzatore, che lo rese uno dei principali artefici della moderna vita musicale americana.
Le origini e la formazione europea
Nato a Parigi, ricevette una solida educazione musicale nel cuore dell’Europa. Studiò composizione presso le Università di Strasburgo e di Monaco di Baviera, dove ebbe come mentore Ludwig Thuille, importante esponente della Scuola musicale di Monaco. Questa formazione gli fornì le basi tecniche e culturali che avrebbe poi portato con sé nel Nuovo Mondo.
L’ascesa professionale negli Stati Uniti
Nel 1905 Engel si trasferì negli Stati Uniti, dove il suo talento organizzativo e la sua profonda conoscenza musicale gli permisero una rapida ascesa. Nel 1909 divenne direttore artistico della Boston Music Company, ruolo che mantenne con successo fino al 1922. Nel 1917 ottenne la cittadinanza statunitense. Il passo successivo fu ancora più prestigioso: nel 1922 assunse la direzione del dipartimento di musica della Library of Congress di Washington. Durante i suoi dodici anni di mandato (fino al 1934), trasformò il dipartimento in un centro di ricerca e conservazione di caratura internazionale. Parallelamente, la sua influenza si estese al mondo dell’editoria: verso la fine degli anni Venti divenne direttore della celebre rivista “The Musical Quarterly” e nel 1929 fu nominato presidente della storica Casa editrice musicale G. Schirmer.
Un’eredità poliedrica: musicologia, editoria e composizione
Engel fu anche un pioniere nel campo della musicologia accademica americana. Nel 1934, dopo aver lasciato la direzione attiva alla Library of Congress (di cui rimase consulente onorario), insieme con Oscar Sonneck, Otto Kinkeldey e altri fondò l’American Musicological Society, la più importante associazione di musicologi del Paese, di cui fu anche presidente tra il 1937 e il 1938. Accanto a questi impegni istituzionali, fu un prolifico saggista, pubblicando numerosi articoli e scritti su varie riviste di settore. La sua attività di compositore, sebbene meno centrale nella sua carriera pubblica, non fu trascurabile: la sua produzione si concentrò principalmente sulla musica da camera, con brani per violino, pianoforte e per canto, riflettendo il suo gusto raffinato e la sua solida formazione europea.
Triptych per violino e pianoforte: analisi
Come suggerisce il titolo, il brano è concepito come un’opera d’arte in tre pannelli, ognuno con un carattere emotivo distinto, ma legati da un linguaggio armonico ricco e da una scrittura strumentale superbamente bilanciata.
Il primo movimento funge da preludio atmosferico e rapsodico, un’esplorazione libera e profondamente espressiva del materiale tematico. La sua struttura è fluida e organica, guidata più dalle onde emotive che da uno schema formale rigido.
Si apre con il violino solo che espone una melodia solitaria e interrogativa nel suo registro acuto: la linea è cantabile, quasi improvvisata, intrisa di una dolce malinconia. Subito, il pianoforte entra con accordi arpeggiati, delicati e sospesi, creando un tappeto sonoro tipicamente impressionista che avvolge il suono del violino senza mai sovrastarlo. L’armonia è ambigua e fluttuante, ricca di settime e none che evitano una chiara risoluzione tonale, evocando un’atmosfera sognante.
Gradualmente, la musica acquista slancio: il dialogo tra i due strumenti si intensifica, con il pianoforte che assume un ruolo più ritmico e il violino che risponde con frasi sempre più ardenti e l’uso di ricche doppie corde. La dinamica cresce costantemente, culminando in una sezione potente e drammatica. Qui il linguaggio di Engel si tinge di un cromatismo più denso e di una passione tardo-romantica, prima di placarsi nuovamente in una transizione riflessiva.
Emerge una nuova idea tematica, più serena e lirica: il pianoforte crea un’atmosfera quasi pastorale con un accompagnamento cullante, mentre il violino canta una melodia tenera e introspettiva. Questa sezione offre un contrasto di pace e contemplazione, prima che l’agitazione ritorni con passaggi più veloci e un nuovo crescendo emotivo.
Il movimento si conclude tornando all’atmosfera misteriosa dell’inizio. Il tema principale del violino riappare frammentato, arricchito da effetti timbrici come il pizzicato e gli armonici eterei che suonano come campane lontane. Il pianoforte si dirada, lasciando solo accordi cristallini nel registro acuto. La musica non termina con una cadenza decisa, ma si dissolve lentamente nel silenzio, lasciando l’ascoltatore in uno stato di sospensione.
Il secondo movimento è un cambiamento radicale di umore: è uno scherzo vivace e spiritoso, pieno di arguzia e leggerezza, che segue una chiara struttura tripartita ABA.
Il violino introduce subito il carattere capriccioso con un tema saltellante, dominato dal pizzicato e da veloci scale staccate, mentre il pianoforte risponde con accordi secchi e ritmicamente incisivi, creando un dialogo scoppiettante e giocoso. L’atmosfera è elfica e scherzosa, quasi una danza impertinente.
Il cuore del movimento è un trio contrastante, più lento e cantabile: il violino abbandona il pizzicato per una melodia lunga e appassionata, piena di calore e nostalgia. L’accompagnamento del pianoforte si fa più morbido e armonioso, sostenendo la linea lirica con accordi pieni. Questa sezione è un’oasi di romanticismo sognante, un ricordo dolce in mezzo al gioco vivace.
Il tema iniziale ritorna, riportando l’energia e la malizia della prima parte. Il dialogo tra gli strumenti è ora ancora più fitto e ironico. Il movimento si chiude con una breve coda che gioca con frammenti del tema dello scherzo, accelerando verso una conclusione improvvisa e quasi comica, affidata a un ultimo, secco pizzicato del violino. È una fine che svanisce con un sorriso.
Il finale è un movimento grandioso, eroico e affermativo, che funge da culmine emotivo dell’intero trittico: la sua scrittura è densa e virtuosistica, e la sua struttura si avvicina a quella di una forma-sonata, con temi contrastanti e uno sviluppo drammatico.
Il pianoforte apre il movimento con un’introduzione potente e ritmica, stabilendo un tono epico. Il violino poi entra con il primo tema: una melodia ampia, passionale e trascinante, dal sapore quasi sinfonico. La scrittura è ricca di slancio e di un’intensità drammatica che non si era ancora sentita. Segue un secondo tema, più lirico e dolce, che offre un momento di tregua e di tenerezza, creando un perfetto equilibrio emotivo.
Lo sviluppo è la sezione più turbolenta e complessa del brano: Engel frammenta e rielabora i motivi dei due temi principali, creando un tessuto musicale denso e carico di tensione. Entrambi gli strumenti sono spinti ai limiti del loro virtuosismo: il pianoforte con accordi massicci e arpeggi impetuosi, il violino con scale vertiginose e doppie corde potenti. La musica attraversa una serie di climax e momenti di calma, in un continuo crescendo di energia.
Il primo tema eroico ritorna con ancora più forza e grandiosità, confermando il carattere trionfante del finale. Anche il secondo tema lirico viene ripreso, prima che il brano si lanci in una coda travolgente. Il ritmo accelera, la dinamica raggiunge il suo apice e l’opera si conclude con una serie di accordi potenti e una brillante affermazione finale, portando a compimento il viaggio emotivo del pezzo con una risoluzione potente e catartica.
Ferdinand David (1810 - 19 luglio 1873): Sestetto per archi (3 violini, viola, 2 violoncelli) in sol maggiore op. 38 (c1860). Steve’s Bedroom Band.
Molto Allegro ed espressivo
Adagio ma non troppo [7:11]
Allegretto grazioso e vivace [13:07]
Finale: Molto Allegro agitato ed appassionato [17:58]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Ferdinand David: l’arco di Mendelssohn e l’anima del Romanticismo
Ferdinand David viene ricordato come una figura centrale nella vita musicale di Lipsia del XIX secolo, stretto collaboratore di Felix Mendelssohn e influente insegnante.
Un virtuoso in viaggio: dalla formazione alla fama
Ferdinand Ernst Victor Carl David nacque ad Amburgo in una famiglia ebraica. Sebbene inizialmente avesse intrapreso studi di disegno, la sua vera vocazione si rivelò essere la musica. La sua formazione come violinista fu di altissimo livello: tra il 1823 e il 1824 studiò a Kassel sotto la guida di due maestri d’eccezione, il celebre violinista Louis Spohr e il teorico Moritz Hauptmann.
La sua carriera professionale iniziò nel 1826 come violinista al Königsstädtisches Theater di Berlino. Fu qui che strinse amicizia con il violoncellista Johann Benjamin Groß e venne accolto dalla famiglia di Felix Mendelssohn-Bartholdy, dando inizio a un legame che avrebbe segnato la sua vita. Dal 1829, ricoprì il prestigioso ruolo di primo violino nel quartetto d’archi privato del nobiluomo Carl Gotthard von Liphart a Dorpat (l’odierna Tartu, in Estonia), che gli permise di intraprendere tournée di successo a Riga, San Pietroburgo e Mosca.
La svolta decisiva avvenne nel 1836: quando il quartetto si sciolse, l’amico Mendelssohn lo chiamò a Lipsia per affidargli due ruoli di massima importanza: Konzertmeister (primo violino) del Gewandhausorchester e primo violino del celebre Quartetto Gewandhaus. A partire dal 1843, divenne anche un influente insegnante di violino presso il Conservatorio di Lipsia, formando una generazione di musicisti, tra cui Alexander Ritter, August Wilhelmj e, per un breve periodo, il leggendario Joseph Joachim. L’amicizia con Mendelssohn culminò nella composizione del Concerto per violino in mi minore op. 64, scritto appositamente per David, che ne fu il primo, storico interprete.
Sfera privata e legami familiari
La vita personale di David fu altrettanto ricca: nel 1828 si convertì dalla fede ebraica a quella protestante. Uomo inserito nel tessuto culturale della sua epoca, nel 1836 divenne membro della loggia massonica Minerva zu den drei Palmen di Lipsia.
Nello stesso anno sposò Sophie von Liphart, figlia del suo ex mecenate di Dorpat, consolidando così un legame professionale in uno familiare. La coppia ebbe cinque figli che raggiunsero l’età adulta (e altri tre che morirono prematuramente), i quali si distinsero in vari campi: Isabella sposò un diplomatico collaboratore di Bismarck, Paul seguì le orme paterne diventando violinista e direttore musicale in Inghilterra; Helene, Ottilie e Anna Maria si unirono a famiglie di spicco.
Il talento musicale era una caratteristica diffusa nella famiglia David: anche le sorelle Marie-Louise e Therese furono apprezzate pianiste concertiste.
L’eredità musicale: tra composizione e riscoperta
Come compositore, David si colloca stilisticamente tra il tardo Classicismo e il primo Romanticismo. La sua produzione include cinque concerti per violino, vari pezzi da concerto e opere per strumenti a fiato. Paradossalmente, il suo brano oggi più eseguito non è per violino, ma il Concerto per trombone op. 4, divenuto un pezzo d’obbligo nel repertorio di ogni trombonista. Compose anche due sinfonie e un’opera comica, Hans Wacht (1852), lavori purtroppo perduti; si narra che David stesso abbia distrutto l’opera dopo la prima, giudicandola «orribile».
Un aspetto fondamentale della sua eredità è il suo lavoro di revisore ed editore: David curò edizioni critiche di opere violinistiche di compositori barocchi come Veracini e Locatelli e pubblicò per l’editore C.F. Peters l’integrale dei trii per pianoforte di Beethoven. La sua revisione più celebre e duratura è quella delle Sonate e Partite per violino solo di Johann Sebastian Bach (1843), che ha influenzato generazioni di violinisti.
La fine improvvisa sulle Alpi svizzere
La vita di David si concluse in modo tragico e inaspettato: il 18 luglio 1873, durante un’escursione sulle Alpi svizzere verso il ghiacciaio del Silvretta, fu colpito da un infarto fatale. Morì alla presenza della figlia Isabella.
Il Sestetto per archi op. 38: analisi
Lavoro di grande fascino e impeto, merita un posto di rilievo nel repertorio del Romanticismo tedesco. Sebbene David sia oggi ricordato principalmente come violinista virtuoso e dedicatario del celebre Concerto di Mendelssohn, questo Sestetto rivela un compositore di notevole talento, capace di fondere la chiarezza formale classica con una profonda sensibilità romantica. La scelta di una strumentazione insolita – tre violini, una viola e due violoncelli – conferisce al brano una sonorità unica: più brillante e agile nel registro acuto grazie ai tre violini e, allo stesso tempo, più ricca e profonda nel registro grave per la presenza dei due violoncelli.
Il primo movimento è un esempio magistrale di forma-sonata, permeato da un’energia e un lirismo che ricordano da vicino lo stile di Mendelssohn e Schumann. Il brano si apre senza preamboli con un tema vigoroso e affermativo in sol maggiore: è un’idea eroica, basata su un arpeggio ascendente che trasmette un senso di slancio e ottimismo. La strumentazione è piena e compatta, con i sei strumenti che contribuiscono a creare un suono quasi orchestrale. Una sezione di transizione energica, caratterizzata da scale ascendenti e un dialogo serrato tra i violini, modula abilmente verso la tonalità della dominante. In re maggiore, emerge il secondo tema, di carattere “espressivo” come indicato dal titolo: è una melodia cantabile e dolcemente malinconica, affidata principalmente al primo violino che si libra sopra un accompagnamento più delicato degli altri strumenti. Questo contrasto tra l’energia del primo tema e il lirismo del secondo è un caposaldo della forma-sonata classica, qui reinterpretato con sensibilità romantica. L’esposizione si conclude con una ripresa dell’energia iniziale e, come da tradizione, viene interamente ripetuta.
Lo sviluppo esplora le potenzialità drammatiche del primo tema: i frammenti melodici vengono frammentati, rielaborati e passati tra i vari strumenti in un gioco contrappuntistico teso e dinamico. L’armonia si fa più instabile, esplorando tonalità minori e creando momenti di forte tensione drammatica, quasi tempestosa.
La ripresa riporta il primo tema in sol maggiore con rinnovato vigore, mentre il secondo tema viene riproposto, come da manuale, nella tonalità d’impianto, apparendo ora più risolto e sereno. Una coda brillante e concisa conclude il movimento con affermazioni decise e un senso di trionfante compimento.
Il secondo movimento è il cuore emotivo del sestetto, un “canto senza parole” di straordinaria bellezza e intimità. Strutturato in forma ternaria (ABA), contrappone una melodia serena a una sezione centrale più inquieta. La prima sezione – in do maggiore (sottodominante) – vede il primo violino introdurre una melodia sublime, calma e contemplativa, sostenuta da un accompagnamento morbido e corale degli altri archi. La melodia passa poi con eleganza al primo violoncello, creando un dialogo intimo e toccante tra i registri estremi dell’ensemble. L’indicazione “ma non troppo” è fondamentale: il tempo è scorrevole, evitando ogni pesantezza. L’atmosfera cambia radicalmente: la musica si sposta in la minore e il carattere si fa più teso e appassionato. L’accompagnamento diventa più agitato, con l’uso di tremoli e figure ritmiche più incalzanti che creano un senso di ansia e turbamento, un’ombra passeggera sulla serenità iniziale. Il tema principale ritorna, ancora più espressivo e ornato, riportando un senso di pace e risoluzione. La coda è un progressivo dissolversi del suono: un delicato pizzicato nel registro grave accompagna gli ultimi frammenti melodici, portando il movimento a una conclusione eterea e sospesa.
Il terzo movimento è uno scherzo brillante e spiritoso, che mette in luce la maestria tecnica di David e la sua capacità di creare tessiture leggere e scintillanti. Il tema principale è un motivo saltellante e giocoso, caratterizzato da un ritmo puntato e da un uso diffuso dello staccato: evoca immediatamente il mondo fantastico ed “elfico” degli scherzi di Mendelssohn. I tre violini si scambiano veloci arabeschi e passaggi virtuosistici, creando un effetto di leggerezza e brillantezza. La sezione centrale offre un netto contrasto. Il ritmo si distende in una melodia più fluida e cantabile, simile a un Ländler (danza popolare austriaca). L’atmosfera diventa più rustica e bonaria, un momento di quiete pastorale prima del ritorno dell’energia dello scherzo. Lo scherzo viene ripetuto integralmente, seguito da una breve e arguta coda che conclude il movimento con un guizzo di umorismo.
Il finale è un tour de force di energia drammatica e virtuosismo: la forma è un rondò-sonata che segue un percorso emotivo dal tumulto alla liberazione gioiosa. Il movimento si lancia in un tema principale in sol minore, furioso e incalzante. L’indicazione “agitato ed appassionato” è perfettamente rappresentata da scale veloci e ritmi martellanti. Il primo episodio contrastante introduce una melodia più lirica in si bemolle maggiore, sebbene mantenga un sottofondo di urgenza. Dopo la ripresa del tema principale, il movimento entra in una sezione di sviluppo dove il materiale tematico viene elaborato con grande intensità contrappuntistica. Il culmine drammatico arriva con la transizione, in cui l’armonia lotta per liberarsi dal modo minore. Il tema principale poi irrompe trionfalmente in un sol maggiore radioso: la trasformazione da “agitato” a eroico è completa. Il sestetto si lancia in una coda travolgente, in cui la velocità e l’intensità aumentano fino a un finale brillante e affermativo, sigillando l’opera con un’esplosione di gioia e virtuosismo.
Luise Adolpha Le Beau (1850 - 17 luglio 1927): Trio in re minore per violino, violoncello e pianoforte op. 15 (1877). Helga Wähdel, violino; Dietrich Panke, violoncello; Viola Mokrosch, pianoforte.
Allegro con fuoco
Andante [7:44]
Scherzo: Allegro [13:19]
Finale: Allegro molto [15:50]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Il talento ostinato di una pioniera: vita e arte di Luise Adolpha Le Beau
Pianista virtuosa, compositrice prolifica, insegnante e critico musicale, Luise Adolpha Le Beau lottò per affermarsi in un mondo dominato dagli uomini, lasciando un’eredità di opere significative e una testimonianza di tenacia intellettuale.
La formazione iniziale e i primi passi (1850-73)
Nata a Rastatt, nel granducato di Baden, Luise Le Beau ricevette la sua prima educazione direttamente dai genitori, dopo che il padre, Wilhelm, si era ritirato dalla carriera militare. Fu proprio il padre, anch’egli musicista, a impartirle le prime lezioni di pianoforte dall’età di cinque anni. A sedici anni, dopo aver completato la sua istruzione generale, decise di dedicarsi interamente alla musica.
Si perfezionò poi a Karlsruhe, dove studiò con Wilhelm Kalliwoda (pianoforte) e con Anton Haizinger (canto). Il suo talento emerse rapidamente: già nel 1868, a diciotto anni, debuttò come pianista eseguendo concerti di Beethoven e Mendelssohn. Su raccomandazione del celebre direttore Hermann Levi, studiò per un’estate con la leggendaria pianista Clara Schumann.
Il periodo di Monaco: apice creativo e riconoscimenti (1874-85)
Il trasferimento della famiglia a Monaco segnò l’inizio del periodo più fertile e di successo per Le Beau. Grazie a una lettera di raccomandazione di Hans von Bülow, fu ammessa come allieva privata del rinomato compositore e organista Josef Gabriel Rheinberger, dopo avergli presentato la sua Sonata per violino op. 10. Parallelamente, approfondì il contrappunto e l’armonia con Ernst Melchior Sachs.
In questi anni Le Beau non solo si dedicò alla composizione, ma si affermò attivamente sulla scena musicale come concertista: intraprese una tournée in Baviera nel 1877, eseguendo le proprie opere; dal 1878 collaborò come critico per la rivista «Allgemeine deutsche Musikzeitung»; fondò inoltre un corso privato di musica e teoria «per figlie di ceti colti», dimostrando una forte vocazione pedagogica.
Il suo spirito indipendente la portò a distaccarsi progressivamente dall’influenza di Rheinberger, studiando autonomamente le opere di compositori come Berlioz e Wagner, fino alla rottura del rapporto didattico nel 1880. Questo periodo culminò con la composizione e la prima esecuzione trionfale del suo oratorio Ruth op. 27 nel 1883 a Monaco. Nello stesso anno il suo Quartetto con pianoforte op. 28 venne eseguito nel prestigioso Gewandhaus di Lipsia. Gli anni di Monaco portarono a Le Beau vari riconoscimenti ufficiali, come il primo premio in un concorso di composizione per la Sonata per violoncello op. 17, nonché incontri cruciali con musicisti quali Franz Liszt e Johannes Brahms.
Una vita itinerante: le tappe di Wiesbaden e Berlino (1885-93)
Nel 1885, la famiglia si trasferì a Wiesbaden: qui Le Beau continuò a comporre, insegnare e vedere le sue opere eseguite. Tra le composizioni di questo periodo spiccano l’oratorio Hadumoth op. 40 e il Concerto per pianoforte op. 37. La sua fama divenne internazionale: il Quartetto con pianoforte fu eseguito a Sydney e l’oratorio Ruth a Costantinopoli. Un successivo trasferimento a Berlino nel 1890 le offrì nuove opportunità: sfruttò le vaste risorse della Biblioteca reale per approfondire i suoi studi e qui emerse il suo interesse per la musicologia: condusse ricerche sulle compositrici del passato e pubblicò nel 1890 un saggio pionieristico, Compositrici del secolo precedente, con particolare attenzione per Marianna von Martines, contemporanea di Haydn.
L’ultimo capitolo a Baden-Baden: opere della maturità e anni finali (1893-1927)
Nel 1893 la famiglia si stabilì definitivamente a Baden-Baden; qui furono eseguiti l’oratorio Hadumoth e la Sinfonia per grande orchestra op. 41. La sua vita fu però segnata da lutti personali: il padre morì nel 1896 e la madre nel 1900. Nonostante le difficoltà, la sua creatività non si arrestò: compose il poema sinfonico Hohenbaden op. 43 e, nel 1902, la sua unica opera lirica, Der verzauberte Kalif op. 55, basata su una fiaba di Wilhelm Hauff; difficoltà burocratiche ne impedirono la messa in scena. Continuò a comporre musica da camera, brani per pianoforte e corali fino agli ultimi anni. Scrisse la sua autobiografia, Memorie di una compositrice (1910) e continuò a viaggiare, insegnare e scrivere critiche per il giornale locale. Morì a Baden-Baden nel 1927 e oggi la città la ricorda con una targa commemorativa e intitolandole la Biblioteca musicale.
La ricezione critica: una voce nel dibattito musicale
La critica del suo tempo riconobbe il talento di Le Beau, pur inquadrandolo spesso attraverso la lente del pregiudizio di genere. Una recensione del 1878 loda i suoi duetti per la loro semplicità e piacevolezza, definendoli «vocalmente naturali»; il Riemann Musiklexikon (1882) descrive l’oratorio Ruth come un’opera piena di «calore del sentimento, senso per la melodia gradevole e gioia per le armonie ben suonanti», lodandola per aver evitato pretenziosità e per aver sviluppato con naturalezza le proprie doti; un altro critico, Alfred Christlieb Kalischer, sottolinea esplicitamente il suo ruolo nel «frantumare il radicato pregiudizio contro le creazioni musicali nate da mente femminile», riconoscendole il merito di contribuire a una battaglia culturale più ampia.
Trio con pianoforte in re minore: analisi
Composto nel 1877, durante il fertile e acclamato periodo di Monaco, questo lavoro rappresenta uno dei vertici della produzione cameristica di Luise Le Beau. L’opera, di stampo tardo-romantico, rivela una profonda padronanza della forma e un’ispirazione melodica e armonica che la colloca a pieno titolo nella tradizione di grandi maestri come Schumann e Brahms. L’interazione fra i tre strumenti è gestita con superba abilità, alternando momenti di impeto drammatico, lirismo cantabile e leggerezza virtuosistica.
Il primo movimento è un esempio magistrale di forma-sonata, caratterizzato da un forte contrasto tematico e da una scrittura densa e passionale. Il movimento si apre “con fuoco” e in fortissimo con un tema principale vigoroso e drammatico in re minore. Tutti e tre gli strumenti entrano all’unisono con una figura potente, seguita da accordi arpeggiati e possenti del pianoforte che ne sottolineano l’impeto. Questa introduzione stabilisce immediatamente un’atmosfera di urgenza e passione. Una sezione di transizione agitata, dominata da veloci passaggi del pianoforte, modula abilmente verso la tonalità relativa. In netto contrasto, emerge un secondo tema lirico e cantabile in fa maggiore. Viene introdotto dal violoncello con una melodia calda e sognante, cui risponde poco dopo il violino, mentre il pianoforte abbandona i risonanti accordi iniziali per fornire un accompagnamento più morbido e ondulato. Il dialogo tra gli archi crea un’oasi di serenità. L’esposizione si chiude con una ripresa dell’energia iniziale, utilizzando frammenti del primo tema per concludere con forza in fa maggiore.
Nello sviluppo, Le Beau rivela la propria maestria nel contrappunto: i due temi vengono frammentati, rielaborati e passati abilmente da uno strumento all’altro. Si attraversano diverse tonalità, prevalentemente minori, aumentando la tensione armonica. La scrittura pianistica diventa particolarmente virtuosistica, con scale rapide e arpeggi complessi che dialogano con le linee melodiche degli archi. Il primo tema ritorna con tutta la forza originaria nella tonalità d’impianto. La transizione viene modificata per rimanere nella tonalità principale e il secondo tema lirico riappare nella tonalità parallela (re maggiore), che dà un senso di speranza e trionfo sulla drammaticità iniziale. Il movimento si conclude con una coda estesa e travolgente. Il tempo accelera, spingendo la tensione al massimo. Frammenti del primo tema vengono portati a un culmine di intensità, chiudendo il movimento in modo deciso e inequivocabilmente drammatico nella tonalità iniziale.
Il movimento successivo rappresenta il cuore lirico e introspettivo del Trio: scritto in si bemolle maggiore, offre un profondo contrasto con la passione del movimento precedente. Si apre con una melodia semplice e meravigliosamente cantabile, introdotta dal violoncello su un delicato accompagnamento accordale del pianoforte. La melodia, dal carattere quasi di romanza senza parole, viene poi ripresa e arricchita dal violino, creando un dialogo intimo e toccante tra i due archi. La sezione centrale cambia drasticamente carattere: la tonalità si sposta (in sol minore) e la musica diventa più agitata e inquieta. Il pianoforte assume un ruolo più turbolento con arpeggi densi, mentre gli archi suonano con maggiore intensità e con l’indicazione marcato, creando un’onda di passione contenuta che spezza la serenità iniziale. Il tema principale ritorna, ma variato e impreziosito. L’atmosfera si rasserena nuovamente, portando il movimento a una conclusione estremamente delicata e pacifica, spegnendosi in pianissimo.
Il terzo movimento è uno Scherzo vivace e ritmicamente arguto in re minore, che ricorda la leggerezza di Mendelssohn. Esso inizia con un motivo leggero e giocoso in pizzicato per violino e violoncello, cui il pianoforte risponde con accordi staccati. Questa sezione è caratterizzata da una spiccata energia ritmica e da improvvisi contrasti dinamici che le conferiscono un carattere spiritoso e imprevedibile. Nella sezione centrale, in re maggiore, l’atmosfera cambia completamente. Il tempo rallenta leggermente in un sostenuto, e la musica assume un andamento più lirico e aggraziato, simile a un valzer sognante. Questa melodia fluida e cantabile offre un perfetto momento di contrasto prima del ritorno dell’energia dello Scherzo. Come da tradizione, la prima sezione viene ripetuta, per poi concludersi con una breve e scattante coda.
Il Finale è un movimento di grande impeto e complessità strutturale, costruito in una forma che unisce elementi del rondò e della sonata. Si inizia in re minore con un tema principale energico e martellante, caratterizzato da note staccate e da una spinta ritmica inarrestabile. Viene presentato prima dal pianoforte e poi ripreso con forza dagli archi. A questo tema principale si alternano episodi contrastanti: il primo, in fa maggiore, è più lirico e offre un breve respiro. Il tema principale ritorna per poi condurre a una sezione centrale più elaborata che funge da vero e proprio sviluppo. Qui, i motivi del tema principale vengono frammentati e rielaborati in un complesso intreccio contrappuntistico, dimostrando ancora una volta la grande abilità compositiva di Le Beau. Il Finale culmina in una coda spettacolare. Il tempo accelera progressivamente e l’intensità cresce in un vortice di virtuosismo: scale rapide del pianoforte e accordi potenti di tutti gli strumenti portano l’opera a una conclusione trionfale e affermativa in un brillante re maggiore, risolvendo definitivamente la drammaticità del re minore che aveva caratterizzato gran parte del Trio.
Eugène Ysaÿe (16 luglio 1858 - 1931): Les neiges d’antan!, poème per violino e archi op. 23 (1921). Christine Raphael, violino; Rheinisches Kammerorchester, dir. Jan Corazolla.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Eugène Ysaÿe, il titano del violino
Eugène Auguste Ysaÿe non fu semplicemente un musicista, bensì una figura poliedrica e un pilastro della vita musicale europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La sua carriera, che abbracciò il ruolo di violinista virtuoso, compositore innovativo, influente pedagogo, direttore d’orchestra e organizzatore culturale, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della musica classica.
Origini e formazione di un predestinato
Nato a Liegi in una famiglia di musicisti, il destino di Ysaÿe sembrava segnato fin dalla culla: suo padre, violinista e direttore d’orchestra, fu il suo primo maestro; il giovane prese le prime lezioni all’età di quattro anni. Il suo talento precoce lo portò al Conservatorio di Liegi, ma fu l’incontro quasi leggendario con il celebre violinista Henri Vieuxtemps a cambiargli la vita: impressionato dal suo modo di suonare, Vieuxtemps si assunse personalmente la responsabilità della sua istruzione musicale, garantendogli un percorso d’apprendimento di altissimo livello. Più tardi Ysaÿe si perfezionò con Henryk Wieniawski a Bruxelles e poi con lo stesso Vieuxtemps a Parigi, entrando così in contatto con il cuore pulsante della musica europea e con musicisti di prima grandezza.
L’ascesa del virtuoso e gli incontri fondamentali
La carriera di Ysaÿe decollò rapidamente: dopo un’esperienza come primo violino nell’orchestra che sarebbe poi diventata la Filarmonica di Berlino, dove impressionò il grande Joseph Joachim, intraprese una serie di tournée che lo consacrarono a livello internazionale. I suoi viaggi lo portarono a collaborare e a stringere legami con le più importanti figure musicali dell’epoca: suonò con Clara Schumann, conobbe Edvard Grieg in Norvegia e partecipò a un festival organizzato da Franz Liszt a Zurigo. Stabilitosi a Parigi, divenne una figura centrale nel circolo di César Franck. Il loro sodalizio artistico e umano culminò in un dono immortale: in occasione del matrimonio di Ysaÿe nel 1886, Franck gli dedicò la sua celeberrima Sonata per violino e pianoforte, un capolavoro del repertorio cameristico.
Ispiratore e animatore della vita musicale
L’influenza di Ysaÿe andò ben oltre le sue esecuzioni: le sue qualità artistiche, non ultimo l’interesse per la musica contemporanea, fecero di lui l’ispiratore di un’intera generazione di compositori. Oltre a Franck, gli dedicarono opere fondamentale Claude Debussy (Quartetto per archi), Ernest Chausson (Poème per violino e orchestra), Camille Saint-Saëns e Gabriel Fauré. Ysaÿe non fu solo un destinatario passivo, ma un promotore attivo di queste nuove composizioni, imponendole con determinazione nei programmi dei suoi concerti. La sua visione si concretizzò anche nella fondazione di due importanti istituzioni, il Quatuor Ysaÿe (1889) e i Concerts Ysaÿe (1896), una società di concerti con orchestra propria a Bruxelles, attraverso cui diffuse la musica dei suoi contemporanei.
Il maestro e il lascito pedagogico
La reputazione di Ysaÿe come pedagogo eguagliò quella di virtuoso: fu professore al Conservatorio reale di Bruxelles dal 1886 al 1898 e, successivamente, direttore dell’Orchestra sinfonica di Cincinnati (1918-22). Violinisti da tutto il mondo accorrevano per studiare privatamente con lui. Tra i suoi allievi figurano Josef Gingold, William Primrose, Louis Persinger e Nathan Milstein. Anche i suoi strumenti, un Guadagnini e soprattutto un prezioso Guarneri del Gesù del 1740 (poi appartenuto a Isaac Stern), fanno parte della sua leggenda.
Gli ultimi anni e l’eredità istituzionale
Il prestigio di Ysaÿe fu consacrato da un forte legame con la famiglia reale belga: nominato Maestro della Cappella di corte dal re Alberto I, divenne il consigliere musicale della regina Elisabetta, sua allieva. Da questa collaborazione nacque l’idea di un concorso per giovani talenti, inizialmente chiamato Concours Ysaÿe, che dal 1951 è conosciuto in tutto il mondo come il Concours musical international Reine-Élisabeth-de-Belgique, una delle competizioni più prestigiose al mondo.
Poco prima di morire, nel suo letto d’ospedale, Ysaÿe poté vivere un’ultima, commovente emozione: ascoltare in diretta radio la “prima” della sua opera in lingua vallona, Piére li houyeû, e rivolgere un saluto al pubblico grazie a un collegamento audio-visivo all’avanguardia per l’epoca.
Les neiges d’antan!: analisi
Il titolo del brano è tratto da un verso della Ballade des dames du temps jadis del poeta medievale francese François Villon, ed è la chiave per comprendere l’essenza della composizione. Non si tratta di un’opera strutturata secondo le forme classiche, ma di un brano rapsodico, una meditazione musicale profondamente introspettiva e nostalgica sul tema della memoria, della bellezza effimera e della perdita.
Il brano si apre non con il solista, ma con il quartetto d’archi, che stabilisce immediatamente un’atmosfera rarefatta e sognante. Gli archi, probabilmente con sordina, suonano accordi lenti, cromatici e armonicamente instabili. Questa introduzione crea un paesaggio sonoro nebbioso, quasi impressionista, che non evoca il freddo della neve, ma piuttosto la sua immagine vista attraverso il velo malinconico del ricordo.
Subito, il violino solista fa il suo ingresso nel registro acuto: la sua linea è un recitativo libero, quasi un lamento improvvisato, carico di un lirismo struggente. Non è ancora un tema definito, ma piuttosto la voce del narratore che inizia a rievocare il passato. La dinamica è estremamente contenuta e il suono del violino, sottile e vulnerabile, sembra fluttuare sopra il tappeto armonico del quartetto, come un pensiero che emerge lentamente dalla nebbia della memoria.
Successivamente, la melodia del violino si cristallizza in un tema principale, cantabile e appassionato: la melodia è ampia, romantica, caratterizzata da un intenso vibrato e da un uso sapiente del rubato, che le conferisce un respiro quasi umano. Il quartetto assume un ruolo più dialogico, ora sostenendo, ora rispondendo alle frasi del solista con frammenti contrappuntistici, creando un tessuto sonoro denso e avvolgente.
La natura ciclica della memoria porta a un cambiamento di umore: il carattere si fa più inquieto e il tempo leggermente più mosso. Il violino abbandona il lirismo cantabile per lanciarsi in passaggi tecnicamente più ardui: arpeggi veloci, scale cromatiche e un’esplorazione di tutta la tessitura dello strumento. Questa sezione sembra rappresentare un ricordo più vivido, forse più doloroso o tormentato, che irrompe con forza.
La scrittura si fa più frammentata e febbrile: il quartetto accompagna con accordi sincopati e passaggi in pizzicato che aumentano la tensione ritmica. L’apice di questa sezione si ha con un culmine di grande potenza espressiva, dove il violino si lancia in un passaggio virtuosistico nel registro più acuto, sostenuto da un fortissimo di tutto l’ensemble. È il momento di massima intensità emotiva del brano, il ricordo che brucia prima di affievolirsi.
La musica si placa: segue una sezione che funge da cadenza per il violino solista. Qui il virtuosismo è completamente al servizio dell’introspezione. Il solista, quasi senza accompagnamento, riesplora i frammenti tematici precedenti in una sorta di monologo interiore. Ysaÿe impiega armonici ed effetti di eco per creare un senso di solitudine e riflessione profonda.
Segue il quartetto che reintroduce l’atmosfera nebbiosa dell’inizio, preparando la ripresa del tema principale. Quando il tema ricompare nel violino solista, è trasfigurato: ha perso la passione ardente della sua prima esposizione ed è ora tinto di una rassegnazione dolce e dolente. È lo stesso ricordo, ma visto con la saggezza e la distanza del tempo. La passione si è trasformata in una serena nostalgia.
La conclusione del pezzo è un lento e progressivo dissolvimento: il tempo rallenta ulteriormente e la dinamica si riduce a un impercettibile pianissimo. Il violino solista sale verso il registro sovracuto, utilizzando eterei flautati (armonici artificiali) che rendono il suono spettrale, quasi smaterializzato. È l’immagine sonora perfetta della neve che si scioglie e svanisce o del ricordo che si dissolve nell’oblio. Il quartetto sostiene questo congedo con accordi lunghi e immobili che si estinguono lentamente nel silenzio. L’ultima nota del violino, un armonico fragile e altissimo, rimane sospesa per un istante prima di scomparire del tutto, lasciando l’ascoltatore in uno stato di contemplazione malinconica.
Nel complesso, Les neiges d’antan! è un gioiello di scrittura idiomatica per il violino, in cui la tecnica virtuosistica non è mai fine a sé stessa ma è strumento per un’indagine psicologica di rara profondità. L’opera segue un percorso narrativo chiaro – evocazione, passione, tormento, riflessione e dissolvenza – che rispecchia fedelmente il ciclo agrodolce del ricordo.
Amanda Röntgen-Maier (1853 - 15 luglio 1894): Concerto in re minore per violino e orchestra (1875). Claudia Bonfiglioli, violino; Orchestra filarmonica reale di Stoccolma, dir. Sakari Oramo.
Del Concerto esiste un unico movimento (Allegro risoluto), gli altri sono probabilmente andati perduti.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Amanda Röntgen-Maier: il talento riscoperto di una pioniera della musica
Figura di spicco nel panorama musicale del XIX secolo, violinista virtuosa e compositrice di grande talento, Amanda Röntgen-Maier ebbe una carriera tanto brillante quanto breve, messa in ombra dalle convenzioni sociali del suo tempo. La sua musica, riscoperta alla fine del XX secolo, rivela un’artista di calibro internazionale.
Formazione di un prodigio: primi anni e studi
Nata a Landskrona, in Svezia, Carolina Amanda Erika Maier crebbe in un ambiente intriso di musica. Suo padre, Carl Eduard Maier, un immigrato tedesco, era un pasticciere ma anche un musicista diplomato che impartì ad Amanda le prime lezioni di violino e pianoforte. Per il suo eccezionale talento fu accolta nella Kungliga musikaliska akademien (Accademia reale svedese di musica) a Stoccolma nel 1869. Lì seguì corsi diversi, tra cui violino, organo, composizione e storia della musica. Nel 1872 fu la prima donna donna a diplomarsi in direzione, ottenendo il massimo dei voti nella maggior parte delle discipline. Grazie a una borsa di studio proseguì la formazione presso il prestigioso Conservatorio di Lipsia (1873-76); qui ebbe come insegnanti Engelbert Röntgen (violino) e Carl Reinecke (composizione). Fu in questo periodo che strinse una profonda e duratura amicizia con il compositore norvegese Edvard Grieg.
La carriera di virtuosa e compositrice
Prima ancora di terminare gli studi, Maier era già un’affermata concertista e una compositrice promettente. Tra il 1876 e il 1880 intraprese tre grandi tour concertistici che la portarono a esibirsi in tutta la Scandinavia, suonando anche alla presenza del re Oscar II di Svezia. Il suo talento compositivo emerse con forza nel 1875, quando presentò il Concerto per violino e orchestra in re minore: l’opera fu eseguita per la prima volta ad Halle e successivamente a Lipsia nel 1876, dove l’autrice suonò con la celebre Orchestra del Gewandhaus diretta da Carl Reinecke, imbracciando per l’occasione un prezioso violino Stradivari. Un altro lavoro di pregio, la Sonata per violino e pianoforte in si minore, fu pubblicata nel 1878: quando le furono suggerite delle modifiche, Maier dimostrò di aver raggiunto la piena maturità artistica rifiutandosi di alterare la propria visione originale: l’opera fu dunque stampata così come l’autrice l’aveva concepita.
Vita familiare e la musica tra le mura domestiche
Nel 1880 Amanda Maier sposò il pianista e compositore Julius Röntgen, figlio del suo insegnante di violino. La coppia si stabilì ad Amsterdam ed ebbe due figli, Julius e Engelbert, che diventeranno entrambi musicisti professionisti sotto la guida della madre. Dopo il matrimonio, la sua carriera pubblica si interruppe quasi del tutto, come imponevano le convenzioni dell’epoca. Tuttavia, la musica non abbandonò mai la sua vita: la casa dei Röntgen divenne un vivace salotto musicale, un punto d’incontro per alcuni dei più grandi musicisti del tempo, tra cui Johannes Brahms, Clara Schumann, Anton Rubinštejn e Edvard Grieg. Amanda suonava frequentemente in privato con il marito, ma si esibiva raramente nei concerti di musica da camera organizzati nella sua abitazione.
Gli ultimi anni e il testamento musicale
Dopo la nascita del secondo figlio, la salute della musicista declinò. Nel 1887 Amanda Röntgen-Maier si ammalò di pleurite, cosa che la costrinse a lunghi periodi di riposo e a viaggi in cerca di cure; si recò fra l’altro a Nizza e a Davos. Nonostante la malattia, non smise mai di comporre e suonare. Proprio durante questo difficile periodo creò il suo ultimo grande capolavoro, il Quartetto con pianoforte in mi minore, completato nel 1891. Quest’opera, di respiro internazionale e profondamente influenzata da Brahms, è considerata una delle sue composizioni più mature e complesse; fu eseguito postumo. Amanda Röntgen-Maier morì serenamente nel 1894, poche ore dopo aver tenuto lezione ai suoi figli.
Le opere principali
Parte della produzione di Amanda Röntgen-Maier è andata perduta, ma le opere sopravvissute testimoniano il suo grande valore artistico.
– La Sonata per violino e pianoforte (1878) è un’opera ben strutturata e originale, caratterizzata da un primo movimento energico, un secondo movimento cantabile e un finale tecnicamente brillante;
– i Sechs Stücke (Sei Pezzi) per violino e pianoforte (1879) sono brani dal carattere intimo e personale che spaziano da dialoghi intensi a ritmi che ricordano la musica popolare ungherese e nordica;
– il Quartetto con pianoforte in mi minore (1891), considerato opera della piena maturità, dimostra una profonda conoscenza della musica da camera del suo tempo. È un lavoro su larga scala, con una timbrica tardo-romantica, melodie che evocano canti popolari e una scrittura complessa e appassionata.
Coda: un’eredità riscoperta
L’amicizia con Edvard Grieg durò tutta la vita; dopo la morte di lei, il compositore norvegese scrisse «Era una delle mie preferite». Nonostante il suo immenso talento, il nome della musicista svedese cadde nell’oblio per quasi un secolo, ma venne finalmente riscoperto negli anni 1990. Le sue opere rivelano una compositrice di considerevole statura artistica, pienamente paragonabile a quella dei suoi celebri contemporanei, offrendoci il ritratto di un potenziale straordinario, solo parzialmente espresso a causa dei limiti imposti al suo ruolo di donna e madre.
Il Concerto per violino e orchestra in re minore: analisi
Questa composizione, una delle gemme dimenticate del repertorio romantico, risale al 1875, quando l’autrice aveva solo 22 anni; ci è pervenuto un unico, ma formidabile movimento, l’Allegro risoluto. Anche se incompleta, questa composizione dimostra una maturità, una padronanza della forma e una profondità emotiva che la pongono al livello dei grandi concerti violinistici della sua epoca, come quelli di Brahms e Bruch, dai quali trae evidente ispirazione pur mantenendo una voce personale e distintiva.
Il lavoro si apre senza preamboli, con un accordo potente e drammatico in re minore affidato all’orchestra intera. L’introduzione è breve ma densa di significato: non è una semplice preparazione, ma una vera e propria dichiarazione di intenti. I ritmi puntati, le linee discendenti e l’orchestrazione piena, con ottoni e timpani in evidenza, stabiliscono immediatamente un’atmosfera tesa, eroica e passionale, tipica del tardo Romanticismo di scuola tedesca.
L’entrata del violino solista è altrettanto risoluta e virtuosistica: anziché presentare una melodia cantabile, Maier fa entrare il solista con una serie di arpeggi e corde doppie impetuose, che si slanciano verso l’alto per poi ridiscendere con forza. Questa non è un’entrata lirica, ma un’affermazione di potenza.
Il primo tema vero e proprio, introdotto dal violino, è angolare, agitato e ritmicamente incalzante. È costruito su frammenti che l’orchestra riprende e commenta, creando un dialogo serrato e drammatico. La scrittura per il solista è immediatamente impegnativa, richiedendo agilità, precisione e un suono robusto per non essere sopraffatto dalla massa orchestrale. Questa sezione è caratterizzata da una forte instabilità emotiva, che oscilla tra la passione e l’urgenza.
Dopo una breve transizione orchestrale modulante, il clima cambia radicalmente: come da manuale della forma sonata, si passa alla tonalità relativa maggiore, fa maggiore. Il secondo tema è un’oasi di lirismo e calore. Il violino solista introduce una melodia cantabile, dolce e profondamente romantica, che si dispiega con grande ampiezza.
L’orchestrazione qui si fa più rarefatta e delicata: i legni dialogano teneramente con il solista, mentre gli archi forniscono un tappeto sonoro morbido e avvolgente. Questa melodia, ricca di pathos, offre un contrasto perfetto con l’irruenza del primo tema e permette al violinista di mostrare un lato più intimo e espressivo del suo strumento. La sezione si conclude con una breve codetta che riprende un po’ di energia, preparando il terreno per lo sviluppo.
Quest’ultimo è la sezione più complessa e drammatica del movimento: Maier dimostra qui la sua straordinaria abilità nel manipolare il materiale tematico. Lo sviluppo inizia con l’orchestra che riprende frammenti del primo tema in un’atmosfera tempestosa. Il violino rientra con una serie di passaggi virtuosistici mozzafiato: scale velocissime, arpeggi spezzati e un uso intenso del registro acuto, quasi a rappresentare una lotta contro le forze orchestrali.
Segue un momento di straordinaria bellezza e introspezione: la tempesta si placa e il violino, accompagnato da un’orchestra sommessa, elabora frammenti del secondo tema in tonalità minori, conferendogli un carattere malinconico e quasi nostalgico. La tensione ricomincia a salire. Solista e orchestra si scambiano frammenti tematici in un crescendo continuo, esplorando diverse tonalità e creando un senso di grande instabilità armonica e drammatica. La scrittura diventa sempre più densa e complessa. La sezione di sviluppo si conclude con una nuova transizione, nella quale l’orchestra, con i corni in primo piano, costruisce una suspense quasi insopportabile, preparando il ritorno trionfale del tema principale.
Il primo tema ritorna con tutta la sua forza originaria, presentato dal tutti orchestrale nella tonalità d’impianto. L’effetto è quello di un ritorno a casa catartico dopo la tempesta dello sviluppo. Il violino solista riprende il tema con rinnovato vigore, quasi a suggellare la vittoria dopo la lotta. Il secondo tema non viene riproposto nella relativa maggiore, ma nella tonalità parallela (re maggiore). Questa scelta tonale trasforma il carattere della melodia: da calda e romantica, diventa radiosa, luminosa e trionfale. L’orchestrazione è brillante e solenne, e accompagna il canto del violino verso il culmine emotivo che precede la cadenza.
L’orchestra si ferma su un accordo sospeso, lasciando il palcoscenico interamente al violino solista per una cadenza virtuosistica e ben strutturata. Non si tratta di un mero sfoggio tecnico, ma di una vera e propria sintesi del materiale del movimento. Maier intreccia frammenti riconoscibili sia del primo tema (con le sue corde doppie e i suoi ritmi incalzanti) sia del secondo tema (trasformato in passaggi più lirici), il tutto arricchito da una panoplia di difficoltà tecniche:
– arpeggi su quattro corde;
– corde doppie e triple complesse;
– trilli prolungati e passaggi di agilità estrema.
Dopo la cadenza, l’orchestra rientra con intensità, riprendendo il materiale del primo tema in re maggiore. La coda è veloce, energica e decisamente affermativa. Il violino si lancia in un’ultima serie di passaggi brillanti, dialogando con l’orchestra in un crescendo finale che porta il movimento a una conclusione eroica e inequivocabilmente vittoriosa. Gli ultimi accordi, potenti e decisi, sigillano l’opera in un tripudio sonoro.
Il Concerto per violino orchestra in re minore di Amanda Röntgen-Maier sorprende per la sua architettura solida, l’equilibrio tra momenti di dramma intenso e lirismo struggente e la scrittura violinistica tanto impegnativa quanto idiomatica. Il ruolo del solista è eroico, richiedendo un interprete di altissimo livello tecnico e di grande sensibilità musicale. L’orchestra non si limita a fornire un mero accompagnamento, ma è un vero e proprio co-protagonista, in un dialogo costante e fecondo con il violino.
Possiamo a buon diritto affermare che, pur se incompleto, questo brano costituisce una testimonianza folgorante del genio di una compositrice straordinaria che merita di essere riscoperta ed eseguita molto più frequentemente.
Dario Castello (1602 - 2 luglio 1631): Sonata prima a sopran solo e basso continuo (da Sonate concertate in stil moderno per sonar nel organo, overo clavicembalo con diversi instrumenti… Libro Secondo, 1629). Elizabeth Blumenstock, violino barocco; William Skeen, violoncello barocco; David Tayler, tiorba; Hanneke van Proosdij, clavicembalo.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Dario Castello: il pioniere della sonata nella Venezia barocca
Figura chiave del primo Barocco e tra i massimi esponenti della Scuola veneziana, Castello fu un compositore e violinista di straordinaria importanza, il cui contributo fu fondamentale per la nascita e lo sviluppo della sonata strumentale all’inizio del Seicento. Nonostante una vita tragicamente breve, la sua opera innovativa lasciò un’impronta indelebile nella storia della musica, definendo un nuovo modo di concepire il dialogo tra gli strumenti.
Una vita tra musica e fede nella Venezia del Seicento
Dario Domenico Castello nacque a Venezia e fu battezzato il 19 ottobre 1602. La sua formazione musicale avvenne in un ambiente familiare fertile: il padre, Giovanni Battista, era un suonatore di violino, mentre il fratello Francesco era un abile trombonista. Questa rete di relazioni musicali favorì senza dubbio la sua carriera. Parallelamente all’attività artistica, Castello intraprese un percorso ecclesiastico che lo portò a essere ordinato sacerdote nel 1627. La sua vita professionale si divise tra la guida di una «compagnia de musichi d’instrumenti da fiato», come si legge sui frontespizi delle sue opere e il prestigioso incarico ottenuto il 19 novembre 1624 come «sonador di violin» nella cappella della Basilica di San Marco, all’epoca sotto la direzione del leggendario Claudio Monteverdi. In quella stessa cappella, il fratello Francesco prestava già servizio. Purtroppo, la sua promettente carriera fu stroncata prematuramente, in quanto morì a Venezia il 2 luglio 1631, vittima della grande epidemia di peste che colpì la città.
Le opere: Le Sonate concertate in stile moderno
Di lui ci sono pervenute 29 sonate e un mottetto. La sua produzione è raccolta principalmente in due libri che testimoniano la sua visione artistica. Il primo fu pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1621 e ristampato con rielaborazioni nel 1629; questa raccolta comprende 12 sonate per diverse formazioni, tra cui doi Soprani, doi Soprani e Trombon overo Violeta e doi Violini e Fagotto. Il secondo, del 1629, contiene 17 sonate: dedicato all’imperatore Ferdinando II, presenta formazioni ancora più varie, da sonate per soprano solo a brani per quattro strumenti d’arco, fino a una suggestiva sonata In Ecco per 2 Cornetti e 2 Violini. Alle sonate si aggiunge il mottetto Exultate Deo per voce sola e basso continuo, incluso in una raccolta del 1625.
L’enorme successo delle sue sonate è confermato dalle numerose ristampe pubblicate fino al 1658 sia a Venezia che ad Anversa, segno del profondo interesse che i musicisti dell’epoca nutrivano per il suo lavoro. In un prezioso Avvertimento a Li Benigni Lettori, inserito nel primo libro, Castello si rivolge direttamente agli esecutori, mostrando piena consapevolezza della novità e della difficoltà del suo stile: «M’è parso, per dar satisfatione à quelli che si deletterano di sonar queste mie sonate, avisarli che se bene nella prima vista li pareranno difficili; tuttavia non si perdino d’animo nel sonarle più d’una volta: per che faranno prattica in esse & all’hora esse si renderano facilissime: perche niuna cosa è difficile a quello che si diletta».
L’architetto del suono: stile e innovazione
Castello occupa un posto di primo piano nel panorama della musica strumentale italiana. Come scrisse lo storico della musica Hans Joachim Moser, tra i violinisti della cerchia di Monteverdi, Castello «possedeva senza dubbio la tecnica più agile e la più straordinaria capacità di rappresentazione». La sua musica, piena di maestria inventiva e caratterizzata da una tecnica brillante, si distingue per diverse innovazioni cruciali.
Fu il primo compositore a pubblicare raccolte interamente dedicate a composizioni chiamate “sonate concertate”, dunque consapevole del fatto che lo “stile moderno” consiste esattamente nello “stile concertante”, ovvero nel far dialogare tra loro le diverse parti strumentali in modo paritario e virtuosistico.
Le sonate sono strutturate in più sezioni o movimenti contrastanti per metro, tempo e carattere stilistico. Sezioni polifoniche complesse, che riecheggiano la vecchia forma della canzone, si alternano a passaggi che assomigliano a recitativi drammatici, sostenuti dal basso continuo.
Di particolare rilevanza è l’abilità di Castello nella strumentazione: il musicista sfrutta la varietà degli strumenti, indicati con precisione all’inizio di ogni brano, per ottenere particolari effetti di contrasto e impasto timbrico, dimostrando una sensibilità quasi pittorica.
Da eccellente violinista, Castello seppe sfruttare al massimo le possibilità tecniche ed espressive del proprio strumento; allo stesso tempo, affidò a strumenti come il trombone e il fagotto brevi ma impegnativi passaggi solistici, elevandoli da un ruolo di mero accompagnamento a protagonisti del dialogo musicale.
Castello fu inoltre fra i primi a menzionare esplicitamente strumenti a tastiera come il clavicembalo o la spinetta come alternative all’organo per la realizzazione del basso continuo, ampliando le possibilità esecutive della sua musica.
La Sonata Prima del II Libro: analisi
Si tratta di un manifesto ideale dei principi dello “stil moderno”, il quale si contrappone a quello antico (lo stile polifonico rinascimentale di Palestrina) e promuove un linguaggio musicale basato su:
– drammaticità e affetti: la musica strumentale deve esprimere le emozioni umane (gli “affetti”) con la stessa intensità di quella vocale;
– virtuosismo strumentale: gli strumenti non sono più considerati semplici sostituti delle voci, ma ne vengono esplorate le loro capacità tecniche specifiche (idiomatiche);
– contrasti: l’uso di bruschi cambiamenti di tempo, metro, dinamica e carattere crea un effetto di “chiaroscuro” sonoro;
– basso continuo: una solida base armonica e ritmica su cui il solista poteva costruire complesse improvvisazioni e passaggi virtuosistici.
La Sonata non segue una forma predefinita come quelle del periodo classico, ma è organizzata in sezioni contrastanti, ciascuna con un proprio “affetto”.
Il brano si apre con una sezione lenta e solenne: non è una melodia, ma una successione di accordi maestosi eseguiti dal solo basso continuo. La tiorba arpeggia gli accordi, creando un’atmosfera di attesa e grandiosità, quasi un portale d’ingresso. Senza preavviso, il violino irrompe con una straordinaria esplosione di virtuosismo. Questa sezione è un esempio perfetto di “passaggi” seicenteschi: scale veloci, arpeggi, salti d’ottava e figurazioni che coprono l’intera estensione dello strumento. Il basso continuo è energico e propulsivo. Questa non è scrittura vocale, ma puramente strumentale, pensata per stupire l’ascoltatore. La sezione si conclude con una cadenza che rallenta e prepara il cambio di scena.
Il tempo cambia radicalmente: siamo in un metro ternario (simile a una sarabanda lenta o a un’aria). L’atmosfera è lirica, cantabile e malinconica. Il violino disegna una melodia espressiva, quasi vocale, ricca di abbellimenti delicati. Il basso continuo si fa più rarefatto, con la tiorba che sottolinea la dolcezza del momento. Il violoncello sviluppa una propria linea melodica contrappuntistica (un «basso che cammina») creando un dialogo intimo con il violino e dando vita a un momento di pura espressione affettiva.
Si ritorna poi a un metro binario, ma il carattere è ancora diverso. Questa sezione ha la natura di un recitativo operistico: il violino sembra “parlare”, con frasi brevi e interrogative, separate da pause cariche di tensione. Castello utilizza armonie audaci e dissonanze per creare un senso di dramma e instabilità. È la sezione più teatrale del brano, dove la musica segue la logica della retorica parlata.
Un altro cambio repentino ci riporta a un tempo veloce: questa sezione è caratterizzata dallo stile “concitato” (agitato), teorizzato da Monteverdi, con note rapide e ribattute che evocano un’atmosfera quasi guerresca. La scrittura è concertata, ovvero basata sul dialogo imitativo tra le parti. Si può sentire chiaramente un motivo energico che viene scambiato tra il violino solista e la linea del basso continuo. È un dialogo serrato e brillante, in cui le due voci si inseguono e si sovrappongono in un fitto contrappunto.
La sonata si avvia alla conclusione tornando a un tempo lento. Ha inizio con una sezione quasi improvvisativa, che ricorda l’apertura ma con un carattere più risolutivo. La tensione accumulata si scioglie gradualmente. Le frasi si allargano e il pezzo si chiude con una cadenza finale solenne e affermativa, che riporta la stabilità dopo le turbolenze emotive del brano.
Nel complesso, questa Sonata è un’opera straordinaria che racchiude in cinque minuti un intero universo di emozioni e tecniche strumentali. La sua struttura a sezioni contrastanti, l’audacia armonica, il virtuosismo sfrenato e la profonda espressività la rendono un capolavoro dello “stil moderno” e un punto di svolta nella storia della musica strumentale.
Johann Friedrich Reichardt (1752 - 27 giugno 1814): Trio per archi in fa minore op. 4 n. 2 (1773). Trio Agora: Margarete Adorf, violino; Andreas Gerhardus, viola; Mathias Hofmann, violoncello.
Allegro moderato
Andante molto cantabile [4:48]
Un poco vivace [7:05]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Johann Friedrich Reichardt: vita e opere di un genio inquieto tra Illuminismo e Romanticismo
Insigne compositore e musicografo tedesco, Johann Friedrich Reichardt visse e operò in un’epoca segnata da importanti rivolgimenti politici e culturali.
Primi anni, formazione e l’inizio della carriera
Figlio del musicista di città Johann Reichardt, Johann Friedrich ricevette fin da bambino un’educazione musicale, eccellendo nel violino. A soli dieci anni, il padre lo presentò come ragazzo prodigio in tournée concertistiche nella Prussia Orientale. Su consiglio di Immanuel Kant, studiò giurisprudenza e filosofia a Königsberg e Lipsia (1769-71). Tuttavia nel 1771 interruppe gli studi per intraprendere un viaggio da virtuoso nello spirito dello Sturm und Drang, evitando una carriera borghese. Tornato a Königsberg nel 1774, divenne segretario di camera a Ragnit.
Kapellmeister a Berlino: riforme e frustrazioni
Nel 1775, dopo che Reichardt gli aveva inviato l’opera Le feste galanti come saggio, Federico II lo nominò regio maestro della cappella prussiana, succedendo a Johann Friedrich Agricola. Tentò di riformare l’orchestra, scontrandosi con l’opposizione dei musicisti e il gusto conservatore del re; di conseguenza Reichardt ridusse ai minimi termini il proprio impegno presso la corte prussiana. Nel 1777 sposò Juliane Benda, concentrandosi maggiormente sulla scrittura e sulla composizione di Lieder e opere strumentali.
Viaggi, incontri illustri e simpatie rivoluzionarie
Al ritorno da un viaggio in Italia, nel 1783, si recò a Vienna, dove conobbe l’imperatore Giuseppe II e Christoph Willibald Gluck. Ulteriori viaggi in Francia e Inghilterra non gli assicurarono il successo sperato, costringendolo, riluttante, a ritornare a Berlino. Dal 1786 strinse stretti legami con personalità come Johann Wolfgang von Goethe, Johann Gottfried Herder, Friedrich Schiller e Johann Georg Hamann. Falliti i suoi tentativi di stabilirsi a Parigi nel 1788, cionondimeno Reichardt si entusiasmò per le idee della Rivoluzione, di cui scrisse nelle Vertraute Briefe (Lettere confidenziali, pubblicate nel 1792); questo finì per costargli il posto alla corte di Prussia: nel 1794 fu licenziato senza pensione.
L’esilio a Giebichenstein e la disillusione napoleonica
Dopo il licenziamento visse prima ad Amburgo, dove pubblicò il giornale “Frankreich”, e nel 1794 si stabilì a Giebichenstein, presso Halle an der Saale. Nel 1796 fu nominato direttore delle saline di Halle, ma continuò a recarsi a Berlino per dirigere le proprie composizioni. La sua tenuta a Giebichenstein, l’ex Kästnersche Kossätengut, divenne un importante luogo d’incontro per i romantici (Herberge der Romantik). A seguito di un viaggio a Parigi, nel 1802, il suo entusiasmo per i francesi si raffreddò, tanto che Reichardt divenne un oppositore di Napoleone.
Gli ultimi anni e la scoperta tardiva della classicità viennese
Nel 1807 la sua tenuta fu saccheggiata dalle truppe francesi e Reichardt fuggì a Danzica. Tornato impoverito, fu nominato da Girolamo Bonaparte direttore teatrale a Kassel, incarico che durò solo nove mesi. Nel novembre 1808 cercò fortuna a Vienna, dove ebbe modo di conoscere, tardivamente, il Classicismo viennese attraverso le composizioni di Haydn, Mozart e Beethoven. Si ritirò presto a Giebichenstein, dove morì in solitudine il 27 giugno 1814 per una malattia allo stomaco. La sua tomba si trova nel cortile di San Bartolomeo a Halle. Nonostante l’intensa attività e i numerosi viaggi, i suoi contemporanei lo dimenticarono rapidamente.
Composizioni significative: Lieder e Singspiele
La fama di Reichardt come compositore è legata soprattutto ai Lieder su testi di Goethe, dove poté esprimere appieno la propria individualità, e ai Singspiele, genere che contribuì a elevare con l’aiuto di Goethe (Claudine von Villa Bella, Erwin und Elmire, Jery und Bätely). Musicò anche 49 testi di J. G. Herder e pubblicò Lieder massonici. Tra le sue composizioni più note figurano Bunt sind schon die Wälder (1799) e Wenn ich ein Vöglein wär (su testo di Herder). Una Passione di Gesù Cristo su libretto di Pietro Metastasio ottenne grande successo a Berlino, Londra e Parigi. Dedicò 12 Élégies et Romances a Ortensia de Beauharnais.
Reichardt musicografo
Fra le opere letterarie di Reichardt, ancor oggi considerate di grande valore, spiccano Briefe eines aufmerksamen Reisenden die Musik betreffend (Lettere di un attento viaggiatore sulla musica, 1774–76), Über die deutsche comische Oper (Sull’opera comica tedesca, 1774), gli articoli per la rivista “Musikalisches Kunstmagazin” (1781-92), Studien für Tonkünstler und Musikfreunde (Studi per musicisti e dilettanti di musica, 1793), le Vertraute Briefe aus Paris (Lettere confidenziali da Parigi, 1792 e 1804) e le Vertraute Briefe aus Wien (Lettere confidenziali da Vienna, 1810).
Composizioni non scritte; i cataloghi delle opere di Reichardt
La celebre raccolta di poesie Des Knaben Wunderhorn di Clemens Brentano e Achim von Arnim fu dedicata (nella postfazione) a Reichardt, nella speranza che ne musicasse i testi, cosa che però non avvenne. Esistono diversi cataloghi delle sue opere, curati da Hanns Dennerlein (opere pianistiche), Rolf Pröpper (opere teatrali) e Swantje Köhnecke (Lieder).
Analisi del Trio per archi op. 4 n. 2
Il Trio per archi in fa minore è un’opera affascinante che rappresenta pienamente il periodo dello Sturm und Drang.
Il primo movimento si apre con un’energia trattenuta ma palpabile, tipica della tonalità di fa minore, spesso associata a pathos e drammaticità. L’indicazione Allegro moderato suggerisce un tempo vivace ma non eccessivamente precipitoso, permettendo all’articolazione e al fraseggio di emergere con chiarezza. Strutturato in forma-sonata, esso vede il primo tema introdotto con decisione, caratterizzato da un motivo discendente e incisivo, spesso arpeggiato, con un forte accento ritmico e un’atmosfera inquieta. Il violino prende spesso l’iniziativa, sostenuto da un accompagnamento energico ma trasparente di viola e violoncello. La scrittura è densa e ricca di tensione armonica. Una transizione, breve ma efficace, modula verso la tonalità relativa maggiore.
Il secondo tema emerge in la bemolle maggiore, offrendo un netto contrasto. È più lirico, cantabile e disteso, spesso affidato al dialogo tra violino e viola, con il violoncello che fornisce una base armonica più morbida. Questa sezione porta un momentaneo sollievo dalla tensione iniziale. La codetta dell’esposizione conclude con materiale cadenzale affermativo in la bemolle maggiore, riprendendo un po’ dell’energia iniziale ma in un contesto più luminoso.
La sezione di sviluppo è caratterizzata da una maggiore instabilità armonica e da un’elaborazione dei motivi presentati nell’esposizione. Reichardt esplora diverse tonalità minori e maggiori più distanti, frammenta i temi e intensifica il dialogo contrappuntistico tra gli strumenti. Si percepisce un aumento della drammaticità e dell’urgenza espressiva, con passaggi cromatici e un uso più marcato delle dinamiche.
Il primo tema ritorna fedelmente in fa minore, riaffermando il carattere cupo e passionale del movimento. La transizione è modificata per preparare l’entrata del secondo tema trasposto nella tonalità d’impianto, intensificando ulteriormente il pathos del movimento e al contempo mantenendo una coerenza emotiva oscura e passionale. Una coda vigorosa e concisa conclude il movimento, ribadendo con forza la tonalità di fa minore e l’atmosfera drammatica generale, con un finale quasi brusco. L’uso di sincopi, ritmi puntati e improvvisi contrasti dinamici sono tipici della produzione musicale dello Sturm und Drang. La scrittura è idiomatica per gli archi, con un buon equilibrio tra le parti, sebbene il violino mantenga un ruolo primario.
Il secondo movimento offre un profondo contrasto con il precedente. La tonalità di la bemolle maggiore (relativa maggiore di fa minore) e l’indicazione Andante molto cantabile conducono l’ascoltatore in un’atmosfera lirica, serena e profondamente espressiva.
Il movimento si apre con una melodia squisitamente cantabile e dolcemente melanconica, affidata principalmente al violino. L’accompagnamento della viola e del violoncello è delicato e discreto, spesso con armonie tenute o leggeri pizzicati che creano un tappeto sonoro trasparente e intimo. Il fraseggio è ampio e respirato. La seconda sezione introduce un leggero contrasto e un dialogo tra gli strumenti leggermente più fitto. Ritorna la melodia principale della prima sezione, con lievi variazioni ornamentali e un diverso bilanciamento strumentale. Il movimento si conclude in un’atmosfera di serena contemplazione, spegnendosi dolcemente. La bellezza melodica è il tratto distintivo di questo movimento: Reichardt dimostra una grande sensibilità nel creare linee cantabili per gli strumenti, in particolare per il violino. L’armonia è prevalentemente consonante, contribuendo all’atmosfera pacifica e introspettiva.
Il finale ritorna alla tonalità d’impianto di fa minore, ma con un carattere un poco vivace, che suggerisce agilità e spirito, pur mantenendo una certa tensione data dalla tonalità minore. È un movimento ricco di energia ritmica e contrasti. Il tema principale, introdotto in fa minore, è energico, ritmicamente marcato, con un andamento quasi danzante ma con una sfumatura di urgenza. È conciso e memorabile. Il primo episodio contrasta con il ritornello, spesso modulando a tonalità vicine. Il materiale tematico è differente, forse più scorrevole o giocoso, con un diverso trattamento strumentale. Il tema principale riappare in fa minore, seguito da un altro episodio e dalla ripresa del tema principale. Segue una sezione che ha caratteristiche di sviluppo, con frammentazione motivica e una certa instabilità tonale, culminando in una ripresa dell’energia iniziale. Il tema principale ritorna per l’ultima volta, conducendo a una coda vivace e assertiva che conclude il trio con decisione in fa minore, riaffermando l’energia e la passionalità che hanno caratterizzato gran parte dell’opera.
Il movimento è caratterizzato da un vivace gioco ritmico, frequenti cambi di dinamica e un’abile scrittura dialogica tra i tre strumenti. La tonalità minore del ritornello conferisce al movimento un’energia inquieta, mentre gli episodi in maggiore offrono momenti di contrasto più sereno o giocoso.
Nel complesso, l’opera riflette pienamente lo spirito del suo tempo. L’influenza dello Sturm und Drang è evidente nella passionalità del primo movimento e nell’energia inquieta del finale, entrambi ancorati alla drammatica tonalità di fa minore. Il lirismo toccante dell’Andante centrale dimostra la versatilità di Reichardt e la sua capacità di creare melodie di grande bellezza. La scrittura per trio d’archi è efficace, con un buon bilanciamento tra gli strumenti, che dialogano costantemente tra loro. Questo Trio è una testimonianza significativa del talento del compositore e del vivace panorama musicale tedesco della seconda metà del XVIII secolo.
Carlo Prosperi (1921 - 15 giugno 1990): In nocte secunda per chitarra, clavicembalo e 6 violni (1968). Andrea Botto, chitarra; Margherita Gallini, clavicembalo; Paola Besutti, Leandro Puliti, Chiara Foletto, Marcello D’Angelo, Francesco Di Cuonzo e Massimo Nesi, violini; dir. Mario Ruffini.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Carlo Prosperi, compositore fiorentino
Origini e formazione musicale (1921-40)
Nato a Firenze da Alfredo Prosperi e Maria Piani, trascorse L’infanzia nella sua città natale, dove si iscrisse al Conservatorio «Luigi Cherubini». Qui, nel 1940, conseguì il diploma in corno sotto la guida di Pasqualino Rossi. Un incontro determinante per la sua futura carriera fu quello con Luigi Dallapiccola, che lo iniziò ai principi dell’atonalità e della dodecafonia, diventando di fatto il suo maestro principale e punto di riferimento.
L’esperienza della guerra e della Resistenza (1940-44)
Con l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, Prosperi fu inviato in Montenegro. Rientrò a Firenze nell’estate del 1943 per una breve licenza. Successivamente, si unì alle file della Resistenza, militandovi attivamente fino alla liberazione della città, avvenuta l’11 agosto 1944.
Prime composizioni e l’ombra di Dallapiccola (1940-44)
Parallelamente agli eventi bellici, tra il 1940 e il 1944, videro la luce le prime composizioni ufficiali di Prosperi. In queste opere giovanili, egli stesso spiegò di aver perseguito una «ricerca poliarmonica, o policromatica, senza abbandonare il concetto di tonalità». Contemporaneamente emergeva un dialogo artistico con il maestro Dallapiccola, evidente in titoli e approcci che sembravano riecheggiare le opere del mentore (ad esempio, la Sonatina profana di Prosperi del 1943 in risposta alla Sonatina canonica di Dallapiccola del 1942, o i Tre frammenti di Saffo di Prosperi del 1944 rispetto ai Cinque frammenti di Saffo di Dallapiccola del 1942).
Consolidamento professionale e vita familiare (1949-58
Nel 1949 Prosperi ottenne il diploma in composizione con Vito Frazzi e sposò Maria Teresa Ulivi. L’anno seguente iniziò a lavorare come assistente alla programmazione musicale presso la Rai, incarico che mantenne fino al 1958, operando prima nella sede di Torino e poi in quella di Roma.
La Schola fiorentina e l’approfondimento dodecafonico (1953-58c)
Il 1953 vide la nascita della figlia Giuliana. L’anno successivo, nel 1954, Prosperi, insieme ad altri cinque compositori legati all’insegnamento di Dallapiccola (Bruno Bartolozzi, Reginald Smith Brindle, Arrigo Benvenuti, Sylvano Bussotti, Alvaro Company), fondò la Schola fiorentina. Questo sodalizio mirava sia ad approfondire lo studio e la sperimentazione della tecnica dodecafonica, sia a promuovere la diffusione delle musiche dei suoi membri. L’esperienza attiva del gruppo durò circa cinque anni, ma i legami di amicizia e stima reciproca tra i componenti perdurarono a lungo.
Riflessione teorica e una dodecafonia personale: la "pluriserialità" (Anni ’50)
Durante gli anni ’50 Prosperi affiancò all’attività compositiva un’intensa riflessione teorica, volta a dare un fondamento concettuale alle sue scelte artistiche. Da ciò scaturirono l’articolo Dodecafonia e atonalità: due effetti della stessa causa (1956) e il saggio L’atonalità nella musica contemporanea (1957). Sul piano compositivo, Prosperi si distanziò dall’adesione dodecafonica di Dallapiccola, sviluppando tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta una propria interpretazione della dodecafonia, definita "pluriserialità". Questo approccio rappresentava una rottura rispetto alle applicazioni tradizionali del metodo, sia quelle di Dallapiccola sia quelle del suo ideatore, Arnold Schönberg. Una prima applicazione matura di questa tecnica si trova nelle Variazioni per orchestra (1951). Il Concerto d’infanzia per orchestra con una voce femminile (1957), dedicato alla figlia, è emblematico della sua poetica: l’opera mirava a liberare il linguaggio dodecafonico dall’espressionismo nichilista, cercando invece di catturare la "poesia lieta dell’infanzia", la sua freschezza, serenità e meraviglia.
Ritorno a Firenze: insegnamento e impegno culturale (1958-Anni ’60)
Nel 1958 Prosperi lasciò il suo impiego alla Rai per dedicarsi all’insegnamento di armonia e contrappunto al Conservatorio di Firenze. Nel 1962 si ristabilì definitivamente con la famiglia nella sua città natale. Qui si dedicò con passione all’insegnamento (ottenendo la cattedra di composizione nel 1969) e partecipò attivamente al dibattito culturale e musicale. Fu coinvolto nelle iniziative dell’associazione Vita musicale contemporanea(1961-67), promossa da Pietro Grossi, con l’obiettivo di avvicinare il pubblico alla musica del suo tempo.
Visione sociale della musica e il rapporto con il pubblico
Nelle conferenze e nei dibattiti Prosperi enfatizzò la "missione sociale" della musica nella vita civile, pur mantenendo una prospettiva indipendente da impegni politici diretti o legami partitici. Esprimeva il desiderio di un rinnovamento e di una maggiore apertura di Firenze all’arte musicale contemporanea. Criticava da un lato le "forze contrarie" che spingevano verso il conservatorismo, e dall’altro individuava nel rifiuto della comunicazione e di una spiccata dimensione lirica da parte di molti compositori contemporanei una causa della frattura con il pubblico.
Maturità artistica, sperimentazione timbrica e la controversia di Noi soldà (anni ’60 – inizio anni ’70)
A partire dagli anni ’60 la produzione di Prosperi si distinse per una crescente attenzione all’aspetto timbrico e per scelte di organico non convenzionali. Ne sono esempi In nocte secunda per chitarra, clavicembalo e sei violini (1968) e il Concerto dell’arcobaleno per pianoforte, marimba e archi (1972). Un’opera cruciale, sia artisticamente sia umanamente, fu Noi soldà (1966), una «memoria per voce recitante, soprano, coro maschile e orchestra». Quest’opera, nata dal ricordo dell’esperienza bellica in Montenegro e con riferimenti alla tragedia degli alpini della Divisione Julia, utilizzava testi di Carlo Betocchi e stralci da Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi, dopo il fallito tentativo di usare testi di Brecht per questioni di diritti. La scelta di Bedeschi (che dopo l’8 settembre 1943 militò nella Rsi), la tematica bellica incentrata più sui soldati che sui partigiani, apparvero provocatorie. Una recensione sostanzialmente negativa di Massimo Mila sulla “Stampa” (10 ottobre 1971) segnò di fatto l’ultima esecuzione dell’opera e contribuì all’isolamento del musicista nel panorama culturale coevo.
Ultimi anni: isolamento, riconoscimenti e ricerca di essenzialità (anni ’70 – 1990)
Ebbe così inizio un’ultima, lunga fase nella vita di Prosperi. Nonostante continuasse a ricevere riconoscimenti (come la Medaglia di benemerenza della scuola, della cultura e dell’arte nel 1980), la sua presenza nelle programmazioni concertistiche divenne sempre più rara. Dalla seconda metà degli anni Settanta, anche la sua produzione compositiva iniziò a diradarsi. Nel 1978 completò il suo ultimo lavoro di grandi dimensioni, il balletto Elogio della follia per orchestra e voci, che non fu mai eseguito. Nelle opere del decennio successivo, proseguì la sua ricerca verso il lirismo e l’essenzialità della scrittura, privilegiando la dimensione cameristica (es. Canti dell’ansia e della gioia, 1980-82; O Diotima, 1981). Il 1° ottobre 1989 lasciò l’insegnamento al Conservatorio per limiti d’età. La sua ultima composizione completata, nel 1990, fu Tre poesie dal «Canzoniere» di Francesco Petrarca per soprano e viola, che si conclude con il sonetto La vita fugge e non s’arresta un’ora, riflesso della sofferenza intima vissuta dal musicista negli ultimi anni. Morì a Firenze il 15 giugno 1990 a causa di un attacco cardiaco.
In nocte secunda: analisi
Si tratta di una composizione cameristica per un organico inconsueto formato da chitarra, clavicembalo e sei violini. Questo brano si colloca in un periodo di matura sperimentazione per il compositore, profondamente influenzato dal magistero di Luigi Dallapiccola e dalla sua personale elaborazione della dodecafonia, definita "pluriserialità". L’opera, come suggerisce il titolo ("Nella seconda notte"), evoca un’atmosfera notturna, misteriosa e introspettiva, esplorando con maestria le potenzialità timbriche e tessiturali dell’ensemble.
L’aspetto più immediatamente affascinante del brano è la scelta e l’utilizzo dell’organico. Prosperi non tratta gli strumenti in modo convenzionale, ma ne esplora le sonorità più recondite e le interazioni più sottili. La chitarra apre il brano e ne costituisce spesso l’elemento più intimo e riflessivo. Il suo ruolo è multiforme:
arpeggi e accordi spezzati: spesso delicati, creano un senso di sospensione e mistero, quasi un respiro notturno;
suoni isolati e armonici: note singole, pizzicati secchi, armonici cristallini che emergono dal silenzio, contribuendo all’atmosfera rarefatta;
frammenti melodici: brevi spunti lirici, spesso malinconici o interrogativi, che non si sviluppano in temi veri e propri ma rimangono come gesti espressivi;
interazione con il clavicembalo: un dialogo costante, a volte di contrasto (risonanza della chitarra vs. secchezza del clavicembalo), a volte di fusione in un unico tessuto sonoro. Il clavicembalo, invece, introduce un timbro più brillante, incisivo e percussivo che contrasta e dialoga splendidamente con la chitarra e i violini;
arpeggi e figure staccate: spesso utilizzato con figure rapide, staccate, quasi puntillistiche, che aggiungono un elemento di scintillio e frammentazione;
cluster e accordi dissonanti: contribuisce alla tessitura armonica atonale con sonorità dense e a volte aggressive, ma sempre all’interno di una dinamica controllata;
Funzione ritmica: a volte fornisce brevi impulsi ritmici che animano la staticità di alcune sezioni.
I sei violini non sono trattati come una sezione d’archi tradizionale, ma come un insieme di voci individuali capaci di creare una vasta gamma di effetti timbrici e testurali:
Suoni tenuti e glissandi: spesso creano "veli" sonori, tappeti armonici eterei e fluttuanti, utilizzando suoni lunghi, sottili glissandi, e forse tecniche come il suono sul ponticello per ottenere timbri più aspri o spettrali;
cluster dissonanti: contribuiscono a momenti di maggiore tensione armonica;
pizzicati: aggiungono un ulteriore colore percussivo, dialogando con la chitarra e il clavicembalo;
frammenti melodici incisivi: brevi frasi, a volte all’unisono o in ottava, altre volte in una polifonia rarefatta, che emergono dalla tessitura;
polifonia frammentata: le sei voci si intrecciano creando una polifonia complessa ma trasparente, dove le singole linee mantengono una loro individualità pur contribuendo a un effetto d’insieme.
Il linguaggio del pezzo è decisamente atonale. Non vi sono centri tonali riconoscibili e la musica fluttua in un universo armonico mobile e ambiguo. La "pluriserialità" di Prosperi potrebbe manifestarsi nell’uso flessibile di brevi frammenti seriali o nella libera combinazione di altezze per evitare qualsiasi reminiscenza tonale. Le armonie sono spesso dense di dissonanze, ma queste non sono aggressive nel senso espressionista; piuttosto, contribuiscono all’atmosfera misteriosa e sospesa. Non ci sono melodie tradizionali estese: il materiale melodico è costituito da brevi gesti, frammenti, incisi, spesso separati da pause. Questi frammenti possono avere un carattere lirico (specialmente nella chitarra o in brevi interventi dei violini) ma non vengono sviluppati tematicamente. L’espressività è affidata più al colore timbrico, alla dinamica e all’articolazione di questi gesti.
Il brano non segue una forma tradizionale riconoscibile (come la forma sonata o il rondò). Piuttosto, si sviluppa come un flusso continuo di episodi sonori, caratterizzati da diverse combinazioni timbriche e densità tessiturali. La composizione sembra procedere per sezioni o "quadri" sonori che si susseguono, a volte contrastanti, altre volte evolvendo gradualmente l’uno dall’altro. Il brano inizia e si conclude con sonorità rarefatte, dominate dalla chitarra, creando un effetto di emersione dal silenzio e di dissolvenza finale, appropriato per l’evocazione notturna. Le pause giocano un ruolo strutturale ed espressivo fondamentale, creando momenti di sospensione e tensione e permettendo ai singoli eventi sonori di risuonare e di essere percepiti nella loro individualità.
Si alternano momenti di estrema rarefazione (chitarra sola, o dialogo chitarra-clavicembalo con poche note) a momenti di maggiore densità, specialmente quando i sei violini intervengono con tessiture più complesse. Tuttavia, la trasparenza cameristica è quasi sempre mantenuta. Le idee musicali sono presentate come gesti che appaiono, si trasformano brevemente, e poi lasciano spazio a nuovi gesti. Non c’è uno sviluppo tematico nel senso classico, ma piuttosto una continua metamorfosi del materiale sonoro.
Nel complesso, In nocte secunda è un’opera affascinante che dimostra la maestria di Prosperi nel manipolare timbri e tessiture in un contesto atonale. La sua personale interpretazione delle tecniche seriali si traduce in una musica che è al contempo rigorosa nella sua concezione e libera nella sua espressività. Il brano è un eccellente esempio della "attenzione all’aspetto timbrico e per scelte d’organico inconsuete" che caratterizza la sua produzione matura. È una musica che richiede un ascolto attento per coglierne tutte le delicate interazioni e la raffinata tavolozza sonora, confermando Prosperi come una voce originale e significativa nel panorama musicale italiano del Novecento.
Joseph Ignaz Schnabel (24 maggio 1767 - 1831): Quintetto concertante in do maggiore per chitarra, 2 violini, viola e violoncello. Siegfried Behrend, chitarra); Quartetto di Zagabria.
Larghetto – Allegro
Larghetto [7:44]
Menuetto [10:36]
Rondò [13:44]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Joseph Ignaz Schnabel: pilastro della vita musicale slesiana tra chiesa e accademia
Percorso formativo e prime esperienze
Nato in una famiglia di musicisti, Schnabel ricevette i primi rudimenti musicali dal padre. Da bambino, fu cantore nel coro della Vincenzkirche (Chiesa di San Vincenzo) a Breslavia. All’età di 12 anni, invece, intraprese gli studi presso il Matthias-Gymnasium con l’intento di diventare sacerdote ma, a causa di una caduta accidentale in acqua, ebbe un’otite cronica e ciò compromise la sua idoneità alla carriera ecclesiastica. Abbandonato perciò il ginnasio dopo la sesta classe, Schnabel si dedicò alla formazione per diventare insegnante.
Ascesa professionale e ruoli chiave a Breslavia
Nel 1790 divenne maestro di scuola elementare in un villaggio, distinguendosi per le eccellenti prestazioni musicali dei suoi allievi. A partire dal 1797 la sua carriera si spostò a Breslavia, dove fu prima violinista alla Vincenzkirche e poi organista presso la Chiesa di Santa Chiara. Nel 1798, invece, entrò a far parte dell’orchestra del teatro come violinista e primo violino (Konzertmeister), sostituendo spesso il direttore. La sua carriera conobbe una svolta decisiva con nomine di grande rilievo: maestro di cappella del Duomo (1° aprile 1805), direttore dei Richtersche Winterkonzerte (1806) e della Montags- und Freitagsgesellschaft (1810), nonché direttore musicale universitario, insegnante di musica presso il seminario cattolico e direttore del Regio istituto di musica sacra (1812).
Nel 1819, insieme a Friedrich Wilhelm Berner (anch’egli docente di musica sacra) e Johann Theodor Mosewius (suo successore come direttore musicale dell’università), fondò l’Associazione per la musica sacra all’Università per la promozione della musica slesiana e alla diffusione del repertorio europeo dal XVI al XVIII secolo. Nel 1823, infine, fu insignito del dottorato honoris causa.
Contributo alla diffusione musicale, stile compositivo e produzione musicale
Schnabel fu un attivo promotore delle opere di Wolfgang Amadeus Mozart e Joseph Haydn a Breslavia. In particolare, dal 1800, eseguiva annualmente La Creazione di Haydn il Giovedì Santo. Il corpus compositivo di Schnabel è dominato dalla musica sacra con accompagnamento strumentale. Con le sue opere, diede vita a una tradizione specificamente slesiana, nota come “Scuola di Breslavia”, la quale mantenne una propria vitalità e indipendenza dalle tendenze restaurative coeve fino alla seconda guerra mondiale.
La sua opera più celebre è probabilmente l’arrangiamento di una pastorale natalizia di un compositore anonimo del primo Settecento, Transeamus usque Bethlehem, rinvenuta nell’archivio del Duomo di Breslavia. Questa rielaborazione è oggi un classico del repertorio di molti cori ecclesiastici. La sua produzione include anche 5 messe, offertori, inni e vespri, musica militare, quartetti per voci maschili, Lieder, un Concerto per clarinetto e un Quintetto per quartetto d’archi e chitarra.
Quintetto concertante: analisi
Il Quintetto concertante di Schnabel è un ottimo esempio di lavoro appartenente al tardo periodo classico, con elementi che lo fanno tendere al primo Romanticismo. Il termine “concertante” suggerisce un ruolo prominente per uno o più strumenti: in questo caso, la chitarra emerge chiaramente come strumento solista principale, dialogando attivamente con il quartetto d’archi.
Il primo movimento s’inizia in do minore, la parallela minore della tonalità principale del Quintetto. Questa è una pratica comune nel periodo classico per creare un’introduzione dal carattere più serio e contemplativo prima di passare alla tonalità maggiore, più brillante. L’introduzione è solenne, espressiva e leggermente malinconica. Gli archi creano un tappeto sonoro ricco e armonioso. Le linee melodiche sono cantabili, spesso con un andamento discendente che accentua il senso di introspezione. L’armonia è densa, con un uso efficace di accordi diminuiti e progressioni cromatiche che aumentano la tensione emotiva. Il violoncello e la viola forniscono una solida base armonica e ritmica. In questa sezione introduttiva, solo gli archi sono presenti. La chitarra attende di fare il proprio ingresso nell’Allegro. Verso la fine del Larghetto, l’armonia inizia a virare decisamente verso il do maggiore, preparando l’arrivo dell’Allegro.
L’Allegro segue una struttura che ricorda la forma-sonata, tipica del periodo classico. Il primo tema entra immediatamente in do maggiore, presentato dagli archi con un carattere brillante, energico e affermativo. La chitarra riprende e abbellisce il tema, dimostrando subito il suo ruolo concertante con passaggi agili e arpeggi. Una sezione di transizione, guidata principalmente dalla chitarra con scale veloci e passaggi virtuosistici, modula verso la tonalità della dominante (sol maggiore). Il secondo tema è più lirico e cantabile rispetto al primo ed è spesso affidato alla chitarra supportata dagli archi con un accompagnamento più delicato. C’è un bel dialogo tra la chitarra e il primo violino. Segue l’esposizione di materiale cadenzale che rafforza la tonalità di Sol maggiore, spesso con la chitarra che esegue arpeggi brillanti.
Lo sviluppo esplora frammenti dei temi presentati nell’esposizione, modulando attraverso diverse tonalità. C’è un aumento della tensione armonica e un dialogo più intenso tra gli strumenti. La chitarra continua a brillare con passaggi tecnicamente impegnativi (arpeggi rapidi, scale). Si notano momenti di maggiore intensità drammatica e passaggi in tonalità minori. Seguono la ripresa dei temi precedenti e una sezione conclusiva che rafforza energicamente la tonalità di do maggiore. La chitarra ha un ultimo momento di spicco virtuosistico prima che l’intero ensemble chiuda il movimento con accordi decisi e brillanti. L’uso di progressioni cadenzali forti è evidente.
Il secondo movimento è nella tonalità di fa maggiore (la sottodominante di do maggiore), una scelta tradizionale per il movimento lento. Questa parte è profondamente lirica, cantabile, espressiva e intima ed evoca una sensazione di serenità e dolce malinconia. La forma è ternaria (ABA’) o forma-Lied estesa. La chitarra è la protagonista indiscussa, presentando la melodia principale con grande delicatezza e ornamentazione. Gli archi forniscono un accompagnamento discreto e soffuso, spesso con note tenute o delicati pizzicati, creando un’atmosfera sognante. La chitarra espone una melodia bellissima e fluente, caratterizzata da un fraseggio elegante e un uso raffinato di abbellimenti (trilli, appoggiature). L’accompagnamento degli archi è leggero e trasparente. Segue una sezione centrale contrastante con un dialogo tra la chitarra e gli archi, in particolare il primo violino, più evidente. Il materiale melodico è nuovo, ma mantiene il carattere lirico generale. Si ha infine il ritorno variato della melodia principale e la sezione si conclude in un’atmosfera di pace e tranquillità, sfumando dolcemente.
Il terzo movimento introduce un carattere elegante, aggraziato e dal ritmo di danza ben marcato. la parte centrale (trio) offre un contrasto, spesso più intimo, pastorale o leggermente più scuro. Il tema principale è robusto e ritmico, presentato dall’ensemble, mentre la chitarra partecipa attivamente, raddoppiando le linee melodiche o fornendo un ripieno armonico e ritmico. La struttura interna è chiaramente bipartita con ritornelli. Il trio offre un netto contrasto e la tonalità sembra spostarsi verso do minore, conferendo un carattere più raccolto e forse un po’ più austero. La strumentazione è più rarefatta, con un focus maggiore sul dialogo tra la chitarra e i singoli strumenti ad arco. Il materiale melodico è nuovo e più cantabile, meno marcatamente ritmico del Menuetto. Dopo la ripetizione letterale del Menuetto iniziale, il movimento si conclude con decisione in do maggiore.
Il finale è vivace, brillante, gioioso e pieno di energia. Ha un carattere giocoso e spensierato, tipico di un rondò classico. Il tema principale è orecchiabile, ritmico e allegro, presentato con brio dall’intero ensemble, con la chitarra che spesso raddoppia o armonizza la melodia principale. È chiaramente in do maggiore. Il primo episodio presenta materiale melodico e armonico contrastante. La chitarra assume un ruolo solistico più spiccato, con passaggi virtuosistici, scale, arpeggi e figurazioni brillanti. Dopo il ritorno del tema principale, segue un altro episodio contrastante che sposta la tonalità verso do minore, conferendo una coloritura più scura e drammatica, prima di tornare a un carattere più brillante. La chitarra continua a dialogare con gli archi, esplorando nuovo materiale tematico. Segue una nuova riaffermazione del tema principale che porta a una breve sezione che elabora il materiale del ritornello, portando a una ripetizione del ritornello un’ultima volta, seguito da una coda vivace e conclusiva. La musica accelera leggermente (stringendo) e aumenta di intensità, portando a una chiusura brillante e affermativa in do maggiore, con la chitarra che spesso ha l’ultima parola con arpeggi finali.
La chitarra è trattata come un vero strumento solista, non semplicemente come strumento d’armonia. Schnabel sfrutta le sue capacità melodiche, armoniche e virtuosistiche, facendola dialogare efficacemente con il quartetto d’archi, con i passaggi solistici ben integrati nella struttura formale. Gli archi forniscono un supporto solido e flessibile, passando da accompagnamenti discreti a momenti tematici importanti, creando un ricco tessuto contrappuntistico e armonico. Nonostante la prominenza della chitarra, Schnabel riesce a mantenere un buon equilibrio tra la solista e l’ensemble d’archi, creando un vero e proprio dialogo cameristico.
Jacques Aubert le Vieux (1689 - 19 maggio 1753): Concerto à quatre violons in mi minore op. 17 n. 4 (1734). Ensemble Les Cyclopes.
Allegro
Aria: Gracioso [2:10]
Allegro [5:41]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Jacques Aubert: l’arco virtuoso che unì Italia e Francia nel Barocco
Biografia e inizi di carriera: la formazione di un talento
Nato a Parigi, Jacques Aubert era probabilmente figlio di Jean Aubert, membro dei «Vingt-quatre Violons du Roy» fino alla sua morte nel 1710. Il giovane fu allievo del celebre Jean-Baptiste Senaillé e, già nel 1717, era attivo nei Théâtres de la Foire come violinista e maestro di ballo, avendo già composto almeno cinque balletti e commedie. Nel 1719, invece, pubblicò il suo primo libro di sonate per violino e iniziò a lavorare al servizio di Luigi Enrico, duca di Borbone e principe di Condé.
L’ascesa professionale: incarichi di prestigio
La carriera di Aubert decollò nel 1727, quando sostituì il rispettato violinista Noël Converset nei «Vingt-quatre Violons du Roy», rimanendovi fino al 1746. Solo un anno dopo, entrò a far parte dell’orchestra dell’Opéra di Parigi (all’epoca chiamata Académie Royale de Musique) come primo violino, incarico mantenuto fino al 1752. Il suo debutto al «Concert Spirituel» avvenne nel 1729, consolidando la sua fama di solista.
Stile musicale: fusione tra virtuosismo italiano ed eleganza francese
Aubert fu una figura chiave — insieme a Jean-Joseph Cassanéa de Mondonville e Jean-Marie Leclair — nell’introdurre il virtuosismo violinistico italiano nel panorama musicale francese dell’epoca. Nonostante questa influenza, la sua musica mantenne forti elementi francesi: utilizzò forme tipiche come la gavotta e il minuetto e, in modo distintivo, scrisse per intero i movimenti lenti centrali delle sue composizioni, pubblicandoli anche come pezzi solistici.
Analisi del Concerto op. 17 n. 4
Questo Concerto à quatre violons è un brillante esempio della fusione stilistica tipica del Barocco francese, la quale accoglieva con entusiasmo il virtuosismo italiano pur mantenendo una distintiva eleganza e chiarezza formale tipicamente francesi.
Il primo movimento si apre con un’energia vivace e decisa, tipica di un Allegro barocco. L’orchestra (tutti) introduce il tema principale in mi minore, caratterizzato da una ritmica marcata e una melodia incisiva. Questa sezione iniziale stabilisce immediatamente il tono vigoroso e la tonalità del movimento. I quattro violini solisti entrano progressivamente, spesso in imitazione o in dialogo serrato tra loro. Emerge chiaramente l’influenza italiana nel trattamento virtuosistico degli strumenti, con passaggi agili e brillanti. Aubert sfrutta abilmente le possibilità offerte dai quattro solisti, creando trame contrappuntistiche complesse ma sempre chiare. Si possono distinguere episodi in cui i violini si rispondono, si sovrappongono o procedono in parallelo, spesso a coppie.
Il movimento è in forma di rondeau: il tema principale orchestrale (refrain) ricompare a intervalli, alternandosi a episodi solistici (couplets) in cui i violini sviluppano il materiale tematico o introducono nuove idee melodiche e passaggi virtuosistici. Le modulazioni armoniche conducono a tonalità vicine prima di ritornare alla tonica.
La tessitura varia efficacemente tra le sezioni di “tutti” orchestrali, più dense e corpose, e quelle solistiche, più leggere e trasparenti, permettendo ai singoli violini di emergere. Le dinamiche, pur non esasperate, contribuiscono a delineare la struttura e l’espressività del brano, con naturali crescendi e diminuendi che sottolineano le frasi musicali. L’energia ritmica, la chiarezza melodica e l’eleganza generale richiamano lo stile francese, mentre i passaggi solistici più brillanti e le sequenze imitative mostrano una chiara assimilazione del virtuosismo violinistico italiano, come quello di Corelli o Vivaldi. La scrittura per i quattro violini è ingegnosa e dimostra la padronanza di Aubert nel gestire un ensemble solistico così nutrito. Il movimento si conclude con una ripresa energica del materiale tematico principale e una cadenza decisa in mi minore, riaffermando la tonalità d’impianto.
L’Aria introduce un netto contrasto con il movimento precedente. Il tempo è più lento e il carattere è “Gracioso”, come indicato, suggerendo grazia, eleganza e un andamento cantabile. La tonalità si sposta verso un ambito maggiore, conferendo al brano un’atmosfera più serena e lirica. I violini solisti assumono un ruolo prettamente melodico, con linee più lunghe, sostenute e ricche di cantabilità espressiva. Aubert qui sembra privilegiare l’eleganza melodica tipicamente francese. L’interazione tra i solisti è delicata, con passaggi in cui si intrecciano in armonie raffinate o si scambiano brevi frammenti melodici. L’orchestra fornisce un accompagnamento discreto e soffuso, principalmente con accordi sostenuti che creano un tappeto armonico su cui si dispiegano le melodie dei solisti.
Il movimento ha una natura più intima e riflessiva. La melodia principale, presentata all’inizio, viene variata e sviluppata con ornamentazioni delicate e un fraseggio espressivo. La struttura potrebbe essere assimilabile a una forma tripartita (ABA’), con sezioni che esplorano diverse sfumature emotive pur mantenendo un carattere unitario. La conclusione è dolce, con una cadenza sospesa o che prepara l’attacco del finale, lasciando un senso di quiete contemplativa.
Il finale riprende l’energia e la vivacità del primo movimento, ritornando alla tonalità principale e stabilendo un carattere brillante e propulsivo. Vengono introdotti nuovi temi, ritmicamente vivaci e spesso caratterizzati da passaggi scalari e arpeggiati che mettono in luce l’agilità dei solisti. Il virtuosismo è ancora più marcato rispetto al primo Allegro, con scambi rapidi tra i quattro violini, passaggi all’unisono o in ottava che creano un effetto di grande impatto sonoro.
Anche questo movimento è in forma di rondeau, con il tema principale orchestrale che si alterna a episodi solistici pieni di brio. C’è un forte senso di progressione e accumulo di tensione, con sezioni che presentano un dialogo fitto e tecnicamente impegnativo tra i solisti. L’interazione tra i quattro violini è il cuore del movimento: Aubert crea momenti di grande complessità contrappuntistica, dove le diverse voci si inseguono e si intrecciano, ma anche sezioni più omofoniche in cui i solisti procedono insieme, creando un suono potente e coeso. L’influenza italiana è palpabile nella scrittura brillante e tecnicamente esigente. Il concerto si conclude con una cadenza finale enfatica e affermativa in mi minore, sigillando l’opera con un’esplosione di energia e virtuosismo.
Con questo concerto Aubert dimostra una notevole abilità nel bilanciare le esigenze del virtuosismo solistico con la coerenza strutturale e l’eleganza melodica. L’uso di quattro violini solisti è gestito con maestria, evitando la confusione e creando piuttosto un dialogo ricco e variegato.
Anna Weesner (13 maggio 1965): The Eight Lost Songs of Orlando Underground per quartetto d’archi (2018). Lark Quartet.
Early Days
Music in Five Pulses (How You Broke My Heart)
Parenthetical Blues (Timing Is Everything)
A Few Questions for Arnold
Parenthetical Folk Song
Music in Five Pulses (How We Used to Dance)
Lament
Oh, to Live in a World Symphonic
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Anna Weesner: ritratto di una compositrice e accademica americana
Origini familiari e formazione accademica
Nata a Iowa City in una famiglia di artisti — la madre era insegnante di musica (specializzata in pianoforte) al liceo e suo padre un romanziere —, è cresciuta a Durham, New Hampshire, dove il padre lavorava all’Università del New Hampshire. Inizialmente interessata al violino da bambina, è passata al flauto durante l’adolescenza, strumento che suonava già in pubblico nel 1987. Ha studiato composizione e pianoforte con Martin Amlin alla Phillips Exeter Academy. Successivamente ha conseguito la laurea in musica (1987) presso la Yale University, studiando con Jonathan Berger, Michael Friedman e Thomas Nyfenger. Ha poi ottenuto la laurea magistrale (1993) e un dottorato (1995) alla Cornell University, sotto la guida di Karel Husa, Roberto Sierra e Steven Stucky.
Carriera compositiva e riconoscimenti
L’attività artistica di Anna Weesner ha preso slancio negli anni ’90. Nel 1995, è stata tra i vincitori della Young Americans’ Art Song Competition con una composizione basata sulla poesia Alter! When the Hills do di Emily Dickinson. È stata anche borsista presso la MacDowell Colony in tre occasioni (1995, 1998, 2001). La sua musica ha ricevuto attenzione critica: Bernard Holland del “New York Times” ha notato una "visione spirituale che preferisce dure verità a calde rassicurazioni", mentre Peter Dobrin del “Philadelphia Inquirer” ha offerto recensioni contrastanti, criticando inizialmente "un’espressività nervosa e poco attraente" nel brano Sudden, Unbidden (2000), ma lodando l’anno successivo la sua capacità di usare la ripetizione e la comunicatività nel ciclo Early, After, Ever, Now (2001). Il suo pezzo Still Things Move (2002, commissionato dalla Metamorphosen Chamber Orchestra) è stato infine lodato da Ellen Pfeifer del “Boston Globe” come "un saggio molto attraente" e da Allan Kozinn del “New York Times” per essere "animato e pieno di svolte sorprendenti".
Impegno accademico e insegnamento
Parallelamente alla composizione, Weesner ha sviluppato una significativa carriera accademica. Ha iniziato insegnando flauto privatamente durante gli studi universitari ed è stata assistente didattica a Cornell. Nel 1997 è entrata a far parte del corpo docente dell’Università della Pennsylvania come assistente professore di musica, venendo promossa a professore associato (2004) e a professore ordinario (2012). All’interno del Dipartimento di Musica di Penn, è diventata responsabile dei corsi di laurea (2006) e successivamente direttrice del dipartimento. Nel 2019 è stata “Maurice Abravanel Distinguished Visiting Composer” presso l’Università dello Utah, mentre tre anni più tardi è stata nominata “Dr. Robert Weiss Professor of Music” a Penn, consolidando ulteriormente la sua posizione accademica.
Analisi dell’opera. Introduzione generale The Eight Lost Songs of Orlando Underground furono commissionati dal Lark Quartet ed eseguiti in prima assoluta dallo stesso quartetto insieme alla clarinettista Romie de Guise-Langlois il 17 settembre 2018 a Salt Lake City. La fonte di ispirazione di questa composizione è la figura immaginaria di Orlando Underground, un chitarrista blues che, contrariamente alla sua immagine pubblica, nutriva per tutta la vita un profondo e segreto interesse per la composizione di musica "colta" o "annotata". Questa passione nacque durante gli anni del college, quando scoprì e si innamorò perdutamente della musica classica, citando esperienze formative come l’ascolto di Mahler e Beethoven. Tuttavia, consapevole che una laurea e tale interesse non fossero ben visti nel mondo del rock and roll dell’epoca, tenne nascosta questa parte di sé. Orlando era particolarmente affascinato dalla sensazione di "ordine" presente in alcune composizioni classiche, percependola quasi fisicamente, come se disegni microscopici sulla sua pelle venissero rivelati dal suono organizzato. Questa passione segreta lo portò spesso a riflettere su come avrebbe potuto essere la sua vita se avesse coltivato questi interessi musicali invece di dedicarsi completamente alla band. Si chiedeva se questo percorso alternativo avrebbe influenzato anche le sue relazioni personali, in particolare quella con la sua ex compagna, Jess. La frase di Jess al momento della loro separazione, "Immagino che il tempismo sia tutto, dopotutto", lo tormentò a lungo, apparendogli quasi come un’affermazione carica di musicalità intrinseca.
Musicalmente, Orlando era affascinato da concetti specifici come la tecnica della "retrogradazione" (suonare un tema al contrario), trovandola capace di rendere qualcosa sia riconoscibile che nuovo, ben oltre gli esempi più semplici come quelli beatlesiani. Aveva anche una predilezione per certi numeri, in particolare il cinque, che riteneva avesse qualità mistiche e mitiche. Un esempio emblematico fu la frase di cinque sillabe "How you broke my heart" (Come mi hai spezzato il cuore) che lo perseguitò per anni dopo la rottura con Jess, diventando un mantra a cinque pulsazioni che col tempo si trasformò comicamente in altre frasi quotidiane della stessa lunghezza, come "Where’d I put my keys" (Dove ho messo le chiavi). Il testo rivela anche l’influenza di Arnold Schoenberg: Jess lo prendeva in giro perché leggeva il saggio Stile e idea e i manoscritti ritrovati mostrano tentativi di Orlando di esplorare la dodecafonia, con annotazioni ingenue come "L’ho fatto bene? Arnold?". Inoltre, nei suoi Eight Lost Songs compaiono echi del celebre riff di Smoke on the Water dei Deep Purple, a volte quasi citazioni, altre volte come frammenti rielaborati, forse a simboleggiare la riflessione sulle scelte di vita fatte. Il testo sottolinea l’ironia della sua posizione: mentre Orlando, dal rock, guardava alla classica, molti compositori classici iniziavano a guardare con interesse al rock and roll, un fenomeno di cui lui era probabilmente inconsapevole. Si apprende, infine, che fu Jess a scoprire gli Eight Lost Songs in un cassetto dopo la morte di Orlando. Lei ipotizzò che la scelta di includere il clarinetto fosse un omaggio silenzioso a Maya Ochoa, una clarinettista che abitava al quinto piano del suo stesso edificio e che incrociavano spesso, ma a cui Orlando non aveva mai parlato.
Analisi dei singoli brani
Il primo pezzo si apre in un’atmosfera sospesa e introspettiva. L’armonia è prevalentemente dissonante, ma non caotica e crea una sensazione di ricerca e di tensione latente. Le linee melodiche iniziali, spesso frammentate e affidate agli strumenti gravi (viola e violoncello), hanno un carattere quasi vocale, seppur angolare. Un primo contrasto significativo arriva con l’introduzione di armonici acuti e cristallini nei violini che aprono lo spazio sonoro verso l’alto, creando un effetto etereo e quasi spettrale. Man mano che il pezzo procede, si ha un aumento graduale dell’attività ritmica e della complessità contrappuntistica. Brevi motivi vengono scambiati e sviluppati tra gli strumenti, generando un dialogo serrato e a tratti inquieto. La Weesner utilizza una varietà di tecniche d’arco e timbriche, inclusi pizzicati e leggeri tremoli per variare la sonorità e accrescere la tensione. La sezione centrale sembra costituire un climax emotivo, con figure ritmiche più insistenti e armonie più aspre, trasmettendo un senso di agitazione o urgenza. Verso la conclusione, si avverte un ritorno parziale all’atmosfera iniziale, più lenta e riflessiva, ma l’inquietudine armonica non si risolve completamente. Il brano termina in modo piuttosto tronco, quasi sospeso a mezz’aria, lasciando l’ascoltatore con una sensazione di incompiutezza o di domanda aperta, perfettamente in linea con il titolo "Early Days" (Primi Giorni/Inizi) che suggerisce qualcosa di ancora in formazione o incerto.
Il secondo brano si apre in un’atmosfera rarefatta e introspettiva, tipica del linguaggio cameristico contemporaneo. L’organico del quartetto d’archi viene utilizzato fin da subito per creare una tessitura delicata e quasi esitante. Le prime battute sono caratterizzate da note tenute lunghe e motivi melodici frammentati, spesso affidati a strumenti singoli o a coppie, suggerendo un senso di vulnerabilità e di ricerca. La scrittura armonica è moderna, con frequenti dissonanze espressive che creano una tensione emotiva sottile e persistente. Non c’è una melodia tradizionalmente intesa, ma brevi cellule motiviche, a volte costituite da semplici intervalli o gesti sonori, passate tra gli strumenti, quasi come frammenti di un pensiero o di un ricordo spezzato, in linea con il sottotitolo "How You Broke My Heart". Il titolo "Music in Five Pulses", invece, non si traduce necessariamente in una scansione ritmica regolare e prevedibile. Anziché un battito costante, gli "impulsi" sembrano riferirsi a blocchi strutturali o a momenti di energia ritmica più definita che emergono e si dissolvono all’interno di un flusso temporale più flessibile e organico. Il ritmo generale è spesso lento e contemplativo, ma presenta anche accelerazioni improvvise e momenti di maggiore agitazione, specialmente quando la tessitura si infittisce e l’interazione tra gli strumenti diventa più complessa e dialogica. Le dinamiche giocano un ruolo cruciale, spaziando da pianissimi quasi impercettibili a momenti di maggiore intensità sonora (crescendo e sforzando), sottolineando i picchi emotivi del brano.
Il terzo brano si apre in un’atmosfera sospesa e quasi interrogativa. La scrittura è fin dall’inizio moderna e rarefatta, lontana dalle armonie tradizionali o da una struttura blues convenzionale, nonostante il titolo. Il termine "Parenthetical" (parentetico) sembra suggerire fin da subito un carattere frammentario, quasi un inciso o un pensiero laterale all’interno di un discorso più ampio. La tessitura è dapprima scarna, con le singole voci strumentali che entrano in modo quasi esitante, disegnando brevi frammenti melodici o accordi tenuti che creano uno spazio sonoro delicato ma carico di tensione sottile. Anche qui vi sono motivi brevi, a volte quasi dei gesti sonori, che vengono scambiati tra gli strumenti. Man mano che il brano procede, la tessitura si infittisce leggermente. L’armonia rimane ambigua, esplorando sonorità contemporanee che evitano una chiara tonalità, contribuendo all’atmosfera introspettiva e vagamente malinconica — forse è questo l’aspetto "Blues" a cui allude il titolo, inteso più come stato d’animo che come forma musicale. L’elemento "Timing Is Everything" (Il tempismo è tutto) si manifesta nella precisione ritmica richiesta agli esecutori. L’interazione tra le voci, le pause, gli attacchi quasi sfalsati e le risonanze che si creano dipendono da una sincronizzazione estremamente accurata. Non c’è un impulso ritmico forte o regolare, ma piuttosto un gioco di durate e silenzi che definisce il flusso del pezzo. Le dinamiche rimangono generalmente contenute (piano, mezzo piano), con leggere inflessioni che sottolineano l’interazione tra gli strumenti. L’impressione generale è quella di una musica intima, riflessiva, che costruisce la sua espressività attraverso la sottigliezza delle interazioni e la qualità esplorativa del linguaggio armonico e melodico.
Il quarto pezzo si apre con un’energia nervosa e frammentata. Anche qui continua a permanere una serie di gesti motivici brevi, incisivi e interrogativi, passati rapidamente tra gli strumenti. L’armonia è decisamente moderna e spesso dissonante, caratterizzata da intervalli stretti, cluster e accordi secchi che contribuiscono a creare una sensazione di tensione e instabilità. La scrittura è molto idiomatica e sfrutta appieno le diverse possibilità timbriche degli archi. Si notano contrasti dinamici netti, passaggi ritmicamente complessi e sincopati che si alternano a momenti più sospesi o quasi statici. La tessitura è prevalentemente contrappuntistica, con le linee strumentali che si intrecciano, si scontrano e dialogano costantemente, ma non mancano brevi momenti di scrittura più omoritmica che creano punti di enfasi. Strutturalmente, il pezzo sembra procedere per episodi contrastanti, quasi come una serie di domande (come suggerisce il titolo) o riflessioni che non trovano una risposta definitiva. C’è un senso di continua ricerca e agitazione, con sezioni più ritmiche e motorie che lasciano spazio a momenti più lirici o rarefatti, dove la tensione sembra allentarsi brevemente prima di ricrescere. L’uso di tecniche specifiche come pizzicati incisivi, sforzando e, forse, glissandi contribuisce alla varietà timbrica e all’espressività inquieta del brano.
Il quinto brano si apre in un’atmosfera sommessa e quasi esitante, stabilita da un dialogo rarefatto tra gli strumenti. Il titolo "Parenthetical folk song" (Canzone popolare parentetica) suggerisce un approccio non convenzionale al materiale "popolare", in quanto non ci troviamo di fronte a una melodia folk riconoscibile e pienamente sviluppata, quanto piuttosto a frammenti, echi e allusioni. L’armonia è moderna, spesso costruita su intervalli semplici ma accostati in modo da creare tensioni sottili e colori cangianti. Si percepisce una sorta di staticità fluttuante, con lunghi pedali o note tenute, specialmente nel registro grave del violoncello, che fungono da ancoraggio armonico su cui si innestano le linee più mobili dei violini e della viola. Non emerge una linea principale continua, ma piuttosto brevi motivi, spesso di carattere modale o pentatonico (un possibile richiamo al "folk"), che appaiono, si trasformano leggermente e svaniscono, passandosi il testimone l’un l’altro. La tessitura è prevalentemente trasparente, permettendo di distinguere le singole voci, anche se ci sono momenti in cui la scrittura si fa leggermente più densa e contrappuntistica, creando un breve picco di intensità emotiva prima di tornare alla calma iniziale. Il ritmo è generalmente lento e flessibile, con un senso di respiro libero che contribuisce all’atmosfera sospesa e riflessiva. Le dinamiche rimangono prevalentemente contenute (piano e pianissimo), rafforzando l’intimità e la delicatezza del brano. L’impressione generale è quella di una rievocazione sognante o di un commento laterale su un’ipotetica canzone popolare, filtrata attraverso una sensibilità contemporanea, dove l’essenza del "folk" risiede più nell’evocazione di una semplicità perduta o di uno stato d’animo che nella citazione diretta.
Il sesto brano si apre in un’atmosfera rarefatta e introspettiva. La scrittura è inizialmente frammentaria, quasi esitante, caratterizzata da brevi motivi melodici e ritmici che vengono scambiati tra i vari strumenti, in particolare tra i due violini e la viola. C’è un senso di interrogazione, accentuato dall’uso di pause e da un’armonia che evita centri tonali definiti, creando una sonorità moderna e a tratti dissonante, ma non aspra. Questa sezione iniziale evoca forse il ricordo vago e frammentato suggerito dal sottotitolo "(How We Used to Dance)". Progressivamente, la tessitura si infittisce leggermente. Emergono linee più sostenute, soprattutto al violoncello, che offrono un contrasto con i motivi più brevi e spezzati degli strumenti superiori. Si percepisce un accumulo di tensione, una sorta di ricerca inquieta, pur mantenendo una certa fluidità ritmica che non si cristallizza mai in un metro di danza regolare e prevedibile. Verso la metà del pezzo, la musica si sposta verso registri più acuti, spesso utilizzando armonici eterei e suoni quasi sospesi nel tempo. La tensione accumulata si dissolve in una sezione più statica e contemplativa, quasi trasognata, che offre un momento di respiro e riflessione prima della ripresa. La parte finale sembra riprendere elementi dell’inizio, ma trasformati. Ricompaiono figure ritmiche più mosse e frammentate, quasi un’eco agitata della sezione centrale, ma l’energia si disperde rapidamente. La musica ritorna alla rarefazione iniziale, con motivi spezzati e un progressivo diradarsi della tessitura, fino a sfumare nel silenzio. Il titolo potrebbe riferirsi ai cinque impulsi energetici che strutturano il pezzo (apertura frammentata, sviluppo/intensificazione, culmine agitato, sezione eterea sospesa, conclusione/dissoluzione). L’intero brano gioca efficacemente sul contrasto tra momenti di introspezione quasi statica e sezioni di maggiore movimento e complessità, evocando la natura mutevole e talvolta sfuggente del ricordo, in particolare quello di un’attività fisica ed emotiva come la danza, qui rievocata più che rappresentata direttamente.
Il settimo brano si apre in un’atmosfera rarefatta ed esitante, incarnando perfettamente il suo titolo. L’inizio è caratterizzato da suoni isolati e frammentati, quasi sussurrati dagli strumenti. Lunghe pause e silenzi assai tensivi separano queste prime cellule sonore, creando un senso immediato di vuoto e introspezione dolente. La scrittura è estremamente minimale, quasi puntillistica in questi primi istanti, suggerendo un dolore che fatica ad articolarsi. Progressivamente, la tessitura si infittisce leggermente. Emergono linee melodiche più sostenute, sebbene ancora frammentate e dal carattere discendente, che evocano sospiri o gemiti. L’armonia è decisamente moderna, basata su dissonanze espressive che creano cluster sonori e sovrapposizioni che intensificano la sensazione di angoscia e ricerca. Verso metà pezzo, il discorso musicale acquista maggiore continuità. Le linee degli strumenti si intrecciano in un contrappunto lento e lamentoso. Il violoncello fornisce una base profonda e risonante, mentre i violini e la viola disegnano arabeschi dolenti e armonie pungenti nei registri superiori. La dinamica, prevalentemente contenuta nel piano e pianissimo, presenta sottili crescendo e diminuendo che modellano le frasi, conferendo loro un respiro quasi vocale. Verso la fine, si nota un leggero aumento dell’intensità e della complessità ritmica, con figure leggermente più mosse e un dialogo più fitto tra le parti, forse a rappresentare un culmine emotivo del lamento, prima che la musica sembri ritornare gradualmente alla rarefazione iniziale, suggerendo una sorta di rassegnazione o dissolvenza nel silenzio.
L’ultimo pezzo si apre con gesti forti, quasi aggressivi e dissonanti, che stabiliscono immediatamente un linguaggio armonico moderno e un’atmosfera tesa. L’organico viene utilizzato per creare trame frammentate e ritmicamente incisive nei primi secondi, suggerendo conflitto o agitazione. Presto, la musica evolve introducendo contrasti ed emergono sezioni con tremoli sottili e scintillanti negli strumenti interni che creano uno sfondo di tensione su cui si sviluppano linee melodiche più agitate e frammentate, spesso caratterizzate da rapidi passaggi scalari o arpeggiati e salti intervallari marcati. Weesner esplora una vasta gamma dinamica e timbrica, passando da momenti di intensa energia quasi virtuosistica, specialmente nel registro acuto del primo violino, a passaggi più rarefatti e introspettivi. Dopodiché, la trama si dirada, le dinamiche si attenuano e le linee diventano più sostenute, quasi liriche, sebbene mantengano una qualità armonica instabile e ricercata. Qui si esplorano sonorità più eteree, utilizzando armonici e, forse, effetti come il sul ponticello, creando momenti di stasi contemplativa o di inquieta sospensione. Il pezzo continua a giustapporre momenti di energia ritmica quasi motoria e sezioni più lente e interrogative. Trame dense e contrappuntistiche lasciano spazio a dialoghi più spogli tra gli strumenti o a sonorità quasi puntillistiche. C’è un senso costante di ricerca e trasformazione del materiale musicale. Verso la fine, dopo un’ultima intensa ascesa culminante in registri acutissimi e sonorità quasi stridenti, la musica si dissolve gradualmente, ritornando un’atmosfera più calma e sostenuta, anche se la sensazione di risoluzione armonica completa rimane elusiva. Il brano si conclude in modo molto sommesso e rarefatto, con note lunghe e tenui che svaniscono nel silenzio, lasciando l’ascoltatore con un senso di apertura o forse di malinconica contemplazione sul desiderio espresso nel titolo – vivere in un mondo sinfonico che forse rimane frammentato o irraggiungibile.
Jean-Marie Leclair (10 maggio 1697 - 1764): 4 Sonate per violino e continuo, dall’op. IX (1743). Simon Standage, violino; Nicholas Parle, clavicembalo.
– Sonata in la maggiore op. IX n. 1
Adagio
Allegro assai [4:32]
Andante [7:50]
Minuetto: Allegro moderato [10:38]
– Sonata in re maggiore op. IX n. 3, Tombeau
Un poco andante [16:15]
Allegro – Adagio [19:58]
Sarabande: Largo [16:15]
Tambourin: Presto [25:34]
– Sonata in la minore op. IX n. 5
Andante [29:16]
Allegro assai [35:27]
Adagio [39:42]
Allegro ma non troppo [43:03]
– Sonata in do maggiore op. IX n. 8
Andante ma non troppo [45:19]
Allegro assai [49:01 ]
Andante [54:28]
Tempo di ciaccona [57:20]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Jean-Marie Leclair: virtuoso del violino barocco tra fama e mistero
Figura centrale nel panorama musicale francese del XVIII secolo, Leclair è oggi ricordato come un eminente violinista e compositore del periodo barocco. Considerato il fondatore della scuola violinistica francese, la sua musica è celebre per la fusione unica tra l’eleganza e la grazia dello stile francese e la brillantezza tecnica e la cantabilità dello stile italiano, in particolare quello di Corelli.
Gli inizi: dalla danza al violino
Nacque a Lione nella famiglia del musicista e passamanaro (chi decorava o rifiniva abiti od oggetti) Antoine Leclair, il quale lo introdusse presto nell’ambiente musicale e operistico della città. Distintosi fin dall’adolescenza come eccellente violinista, intraprese la sua carriera artistica come danzatore, prima a Lione e poi a Rouen. Fu a Torino che ebbe l’opportunità di perfezionare sia la danza — diventando maestro di balletto — sia la tecnica violinistica con Giovanni Battista Somis.
Affermazione a Parigi e in Europa
Trasferitosi a Parigi nel 1723, Leclair iniziò a farsi conoscere pubblicando le sue prime sonate per violino ed esibendosi come virtuoso al Concert spirituel. Nel 1733 entrò al servizio di Luigi XV come “ordinaire de la musique“, ma lasciò l’incarico quattro anni dopo a seguito di un disaccordo, preferendo dedicarsi a tournée concertistiche. Tra il 1738 e il 1743, all’Aia, fu ingaggiato per diversi mesi ogni anno presso la corte di Anna di Hannover, principessa d’Orange, musicista essa stessa ed ex allieva di Händel.
Compositore riconosciuto e opere principali
Rientrato a Parigi nel 1743 e forte dei guadagni ottenuti con lezioni private all’Aia, Leclair si dedicò alla composizione della sua unica opera lirica, Scylla et Glaucus, rappresentata per la prima volta il 4 ottobre 1746 all’Académie royale de musique. Dal 1748 fu al servizio del duca Antonio VII di Gramont, per il quale curava gli intrattenimenti musicali nel teatro privato di Puteaux, componendo musiche di scena. Nonostante l’impegno teatrale, Leclair rimase celebre soprattutto per le sue composizioni strumentali — in particolare sonate e concerti per violino — che consolidarono la sua fama come il più eminente violinista francese del suo tempo. La sua grandezza fu riconosciuta anche dalla critica coeva, come testimonia un articolo del «Mercure de France» del 1753 che elogiava una sua nuova raccolta di ouvertures e sonate a tre, definendolo «l’artista più celebre che la Francia abbia avuto per la musica puramente strumentale». Leclair scrisse anche per altri strumenti, come dimostra un Concerto in do maggiore per flauto traverso o oboe, apprezzato per l’audacia armonica e la ricchezza inventiva.
Gli ultimi anni e la morte misteriosa
La vita di Leclair ebbe una svolta drammatica nel 1758 quando, dopo una brusca separazione dalla seconda moglie, acquistò una piccola casa nel malfamato quartiere parigino del Temple. Fu qui che venne assassinato nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 1764, in circostanze mai chiarite.
Analisi generale dell’opera
L’Opus IX — pubblicata nel 1743 e dedicata alla principessa Anna d’Orange — rappresenta un punto culminante della sua maturità artistica. Queste sonate per violino e basso continuo sono note per la loro notevole difficoltà tecnica, richiedendo una padronanza avanzata dell’arco, delle doppie corde, delle posizioni elevate e dell’ornamentazione. Allo stesso tempo, mostrano una profonda espressività melodica e una solida scrittura contrappuntistica.
Molte sonate seguono lo schema della sonata da chiesa italiana (lento-veloce-lento-veloce), ma Leclair introduce alcune varianti, includendo danze come minuetti, sarabande, ciaccone e tambourin, tipiche della suite francese.
Vi è un equilibrio costante tra la raffinatezza armonico-ritmica francese e il virtuosismo e l’espansività melodica italiana. I movimenti lenti sono spesso carichi di pathos e ornati con delicatezza, mentre i movimenti veloci sono energici e richiedono grande agilità.
Leclair spinge i limiti tecnici del violino dell’epoca, con passaggi complessi, ampio uso di doppie corde (spesso usate tematicamente e non solo per riempimento armonico) e scrittura che esplora l’intera estensione dello strumento, con salti e abbellimenti arditi. Il basso continuo non funge solo da mero accompagnamento, ma partecipa attivamente al dialogo musicale.
Analisi delle singole sonate
La Sonata n. 1 si apre in un’atmosfera di serena contemplazione. La melodia, affidata al violino, è ornata e lirica, con un andamento calmo e misurato. La forma è una sorta di aria, con una melodia principale che si sviluppa e si orna nel corso del movimento. L’armonia è prevalentemente diatonica, incentrata sulla tonalità di impianto, ma con occasionali deviazioni verso tonalità relative per aggiungere colore e interesse. L’uso di abbellimenti è fondamentale per il carattere espressivo del movimento. Leclair sfrutta molto il registro acuto del violino per creare momenti di particolare brillantezza. Segue un secondo movimento contrastante, più energico e virtuosistico. Il ritmo è incalzante e la melodia è ricca di passaggi rapidi e arpeggi. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con una chiara esposizione, sviluppo e ripresa. L’armonia è più dinamica, con modulazioni frequenti e un uso più accentuato del cromatismo. La scrittura virtuosistica per il violino è al centro dell’attenzione, con passaggi di scale e arpeggi che mettono in mostra l’abilità dell’esecutore. Il terzo movimento, invece, offre un momento di respiro tra i due movimenti più vivaci. Il carattere è lirico e cantabile, con una melodia fluente e un accompagnamento delicato. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si ripete e si varia nel corso del movimento. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sulla bellezza della melodia. Il finale elegante e spensierato, con un ritmo di minuetto e un andamento più vivace del solito. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza.
La Sonata n. 3 s’inizia in modo malinconico e introspettivo, con una melodia elegante e ornata. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si sviluppa e si varia nel corso del movimento. L’armonia è cromatica e modulante, riflettendo l’instabilità emotiva del movimento. L’uso di dissonanze e di passaggi cromatici contribuisce al carattere espressivo e malinconico del movimento. Il secondo movimento è diviso in due sezioni contrastanti: l’Allegro è energico e virtuosistico, mentre l’Adagio è lento e contemplativo. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, ma con un’interruzione nella sezione di sviluppo per un Adagio. L’armonia è dinamica, con modulazioni frequenti e un uso accentuato del cromatismo. Il terzo movimento è lento e solenne e ha un ritmo di sarabanda, una danza di origine spagnola, ma con un andamento molto lento e contemplativo. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sulla bellezza della melodia. L’uso di pause e di silenzi contribuisce al carattere solenne e contemplativo del movimento. Il finale è vivace e spensierato, con un ritmo di tambourin, una danza popolare francese, con un andamento molto rapido e brillante. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza. L’uso di note ribattute e di passaggi rapidi contribuisce al carattere vivace e brillante del movimento.
La Sonata n. 5 si apre in un’atmosfera di malinconia e introspezione, la quale domina l’intero movimento. La tonalità minore e una melodia ornata contribuiscono a creare un’espressione di pathos. La forma è quella di un’aria, con la melodia principale che si sviluppa attraverso variazioni e abbellimenti. L’armonia, pur rimanendo salda in la minore, esplora modulazioni verso tonalità relative, intensificando il senso di struggimento. L’uso espressivo di appoggiature e trilli, unito a un registro medio-grave del violino, conferisce al movimento un’aura di intimità e sofferenza. Il secondo movimento è in netto contrasto con il precedente ed è un’esplosione di energia e virtuosismo. Il ritmo incalzante e le figurazioni rapide creano un’impressione di urgenza. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con esposizione, sviluppo e ripresa ben definiti. L’armonia è dinamica e modulante, con un’alternanza di sezioni in tonalità maggiore e minore per aggiungere colore. Leclair sfrutta appieno le capacità tecniche del violino, con scale, arpeggi e passaggi di doppia corda che mettono alla prova l’abilità dell’esecutore. Il terzo movimento fa ritorno a un’atmosfera più contemplativa, sebbene intrisa di una sottile inquietudine. La melodia è espressiva e lirica, ma con un velo di malinconia. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si ripete e si varia nel corso del movimento. L’armonia è cromatica e modulante, creando un senso di instabilità emotiva. L’uso di silenzi e di dinamiche contrastanti contribuisce al carattere espressivo del movimento. Il finale è vivace e spensierato, allentando la tensione emotiva dei movimenti precedenti. Il ritmo è incalzante e la melodia è orecchiabile. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con esposizione, sviluppo e ripresa ben definiti. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza. L’uso di note ribattute e di passaggi rapidi contribuisce al carattere vivace e brillante del movimento.
La Sonata n. 8 si apre in un’atmosfera serena e contemplativa. La melodia, affidata al violino, è fluente e cantabile, con un andamento misurato. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si sviluppa e si varia nel corso del movimento. L’armonia è semplice e diatonica, incentrata sulla tonalità di do maggiore. L’uso espressivo di abbellimenti e di dinamiche contrastanti contribuisce al carattere lirico del movimento. Segue un movimento energico e virtuosistico, che contrasta con la serenità dell’Andante. Il ritmo è incalzante e la melodia è ricca di passaggi rapidi e arpeggi. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con esposizione, sviluppo e ripresa ben definiti. L’armonia è più dinamica rispetto alla parte iniziale, con modulazioni frequenti e un uso più accentuato del cromatismo. La scrittura virtuosistica per il violino è al centro dell’attenzione, con scale, arpeggi e passaggi di doppia corda che mettono alla prova l’abilità dell’esecutore. Il terzo movimento è lento e solenne e offre un momento di respiro tra i due movimenti più vivaci. Il carattere è lirico e cantabile, con una melodia fluente e un accompagnamento delicato. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si ripete e si varia nel corso del movimento. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sulla bellezza della melodia. Il finale è maestoso e solenne. Il ritmo è quello di una ciaccona, una danza di origine spagnola, con un andamento lento e misurato. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza. L’uso di pause e di silenzi contribuisce al carattere solenne e contemplativo del movimento.
Antonio Salieri (1750 - 7 maggio 1825): 26 Variazioni sull’aria detta La Follia di Spagna per violino e orchestra (1815). Mirijam Contzen, violino; WDR Sinfonieorchester, dir. Reinhard Goebel.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Antonio Salieri: ascesa, successi e la leggenda nera di un maestro viennese
Origini e formazione (1750-1766)
Salieri nacque a Legnago nella famiglia del commerciante Antonio Salieri e della sua seconda moglie Anna Maria Scacchi. Il giovane mostrò un talento musicale precoce e fu istruito dal fratello maggiore Francesco (allievo di Tartini) e dall’organista del duomo Giuseppe Simoni. La famiglia subì un tracollo finanziario dal 1757, aggravato dalla morte della madre (1763) e del padre (1764). Salieri si trasferì prima a Padova presso il fratello Pietro e poi nel 1766 a Venezia sotto la protezione del nobile Giovanni Mocenigo. Qui studiò con Giovanni Battista Pescetti (basso figurato) e con Ferdinando Pasini (canto). Nello stesso anno, il compositore Florian Leopold Gaßmann, colpito dalle sue doti, lo portò con sé a Vienna.
Gli esordi viennesi e l’affermazione (1766-1777)
A Vienna, Salieri intraprese studi letterari e musicali, fu presentato all’imperatore Giuseppe II e frequentò Metastasio e Gluck. Il suo debutto operistico avvenne con Le donne letterate (1770). Egli stesso descrisse il suo metodo compositivo rapido, focalizzato sulla definizione delle tonalità e sulla pianificazione dei pezzi d’insieme, specialmente i finali d’atto, ai quali contribuì in modo significativo. Seguirono altre opere comiche su libretto di Boccherini (L’amore innocente, 1770; Don Chisciotte alle nozze di Gamace, 1771). Grazie ai contatti con Gluck, collaborò con Marco Coltellini per il dramma “riformato” Armida (1771) che ebbe successo ma non ebbe seguito immediato data la scarsa propensione per le opere serie da parte del pubblico viennese. Un’altra opera seria innovativa, Daliso e Delmita (1776), andò in scena con poca fortuna. Salieri ebbe invece grande successo nel genere comico con opere su libretti di vari autori (Petrosellini, Poggi, Goldoni, De Gamerra) tra il 1772 e il 1775, come La fiera di Venezia (1772) e La locandiera (1773), oltre al dramma eroicomico La secchia rapita (1772). La sua fama crebbe così tanto da permettergli di rifiutare un’offerta da Stoccolma. Alla morte di Gaßmann, due anni più tardi, gli succedette come direttore dell’opera italiana e compositore di camera, grazie all’appoggio imperiale. In questi anni compose anche la maggior parte della sua musica strumentale (concerti per pianoforte, organo, una sinfonia). Nel 1776 entrò nella Tonkünstler-Societät e l’anno successivo compose l’oratorio La passione di Gesù Cristo su testo di Metastasio, molto apprezzato dal poeta stesso.
Viaggi in Italia e nuove commissioni (1778-1783)
Con la chiusura temporanea della compagnia d’opera italiana a Vienna (1776), Salieri ottenne un lungo congedo per recarsi in Italia tra il 1778 e il 1780. A Milano, la sua opera Europa riconosciuta inaugurò il Teatro alla Scala il 3 agosto 1778, impressionando per la grandiosità scenica e la varietà musicale (come testimoniato da Pietro Verri). A Venezia presentò La scola de’ gelosi al Teatro San Moisè (Carnevale 1779). Compose il primo atto dell’opera Il talismano per la Canobbiana di Milano (agosto 1779). Fu a Roma per due stagioni (Carnevale 1779 e 1780) con due intermezzi e raggiunse Napoli con un invito per il San Carlo, ma dovette rinunciare per la scadenza del congedo. Tornato a Vienna, contribuì al teatro nazionale tedesco con Der Rauchfangkehrer (1781) e compose Semiramide per Monaco (Carnevale 1782).
Il periodo d’Oro Viennese: collaborazioni con Da Ponte e Casti (1783-1788)
Nel 1783, con la riapertura dell’opera italiana a Vienna voluta da Giuseppe II, Salieri riprese pienamente la propria attività. Collaborò con il nuovo poeta imperiale Lorenzo Da Ponte per Il ricco d’un giorno (1784), un dramma giocoso con elementi quasi tragici che però cadde, forse per la sua originalità. Salieri si rivolse allora a Giambattista Casti che scrisse per lui La grotta di Trofonio (1785), opera comica basata sulla magia e l’incantesimo, la cui prima fu ritardata da un’indisposizione del soprano Nancy Storace. Per celebrare la guarigione della cantante, Salieri, Mozart e Cornet musicarono un’ode di Da Ponte (Per la ricuperata salute di Ofelia K 477a, riscoperta nel 2015). Con Casti collaborò ancora per Prima la musica e poi le parole (dato insieme a Der Schauspieldirektor di Mozart, 1786) e per Cublai gran kan de’ Tartari (musicata tra 1786-88), opera satirica contro la corte russa che non fu mai rappresentata per ragioni diplomatiche.
Le commissioni parigine e il successo internazionale (1784-1787)
Parallelamente all’attività viennese, Salieri ricevette tre commissioni da Parigi. Les Danaïdes (1784) fu presentata inizialmente come una collaborazione con Gluck e la paternità esclusiva di Salieri fu rivelata solo dopo il grande successo. Les Horaces (1786) ebbe invece esito sfavorevole. Il riscatto arrivò con il trionfo di Tarare (1787). Quest’opera innovativa fondeva tragedia e commedia in un drame philosophique orientaleggiante ed egualitario, con musica strettamente legata alla parola, abolendo quasi i pezzi chiusi.
Ritorno a Vienna, Axur e fine della collaborazione con Da Ponte (1788-1790)
Giuseppe II volle Tarare a Vienna: Da Ponte ne curò la versione italiana, Axur, re d’Ormus (1788), attenuandone i contenuti ideologici e arricchendola di pezzi chiusi melodici. L’enorme successo di Axur riavvicinò Salieri e Da Ponte, collaborando per altre tre opere: Il talismano (rielaborazione, 1788), Il pastor fido (1789) e La cifra (1789). Salieri iniziò anche a musicare La scola degli amanti, ma abbandonò il progetto (divenne il Così fan tutte di Mozart) per ragioni ignote. La morte di Giuseppe II nel 1790 segnò la fine del favore sia per Salieri che per Da Ponte e pose termine alla loro collaborazione, non senza polemiche da parte del poeta.
Gli ultimi anni operistici, l’attività didattica e la musica sacra (1788-1804)
Dopo la morte dell’imperatore, Salieri si dimise da direttore dell’opera italiana ma mantenne la prestigiosa carica di maestro di cappella di corte (ottenuta nel 1788). Dopo un periodo difficile (il fallito tentativo di mettere in scena Catilina di Casti nel 1792), recuperò terreno grazie ai buoni rapporti con l’impresario Peter von Braun. Compose diverse opere tra il 1795 e il 1800, tra cui Palmira, regina di Persia (1795), Falstaff ossia Le tre burle (1799) e Angiolina (1800). La sua carriera teatrale si concluse sostanzialmente con Annibale in Capua per Trieste (1801) e il Singspiel Die Neger per Vienna (1804). Parallelamente, si dedicò alla musica sacra (messe, Te Deum) richiesta dalla sua carica e a composizioni celebrative per la monarchia asburgica. Intensificò l’attività didattica, avendo circa 70 allievi di canto e composizione, tra cui Beethoven, Schubert e, brevemente, Liszt.
Declino, la “leggenda nera” su Mozart e morte (1820-1825)
Intorno al 1820 iniziarono i segni del declino fisico, accentuatisi nel 1823 con disturbi mentali che portarono al ricovero. Durante questo periodo, si diffusero voci (riportate da Moscheles dopo una visita) che Salieri avesse confessato di aver avvelenato Mozart. Nonostante non vi fossero testimonianze dirette e nonostante le smentite, l’accusa ebbe eco sulla stampa europea. Puškin ne venne a conoscenza (forse tramite giornali parigini o la «Allgemeine musikalische Zeitung») e la utilizzò nel suo microdramma Mozart e Salieri (1831), poi musicato da Rimskij-Korsakov (1898), contribuendo a creare l’immagine, storicamente infondata, di un Salieri invidioso e assassino. Questa immagine fu ripresa nella biografia di Mozart di Ulybyšev (1843, pur senza l’accusa di avvelenamento) e rilanciata in tempi moderni dal dramma Amadeus di Peter Shaffer (1979) e dall’omonimo film di Miloš Forman (1984), fissandola nell’immaginario collettivo.
Analisi delle Variazioni sulla Follia
Le sue 26 Variazioni sull’aria detta La Follia di Spagna rappresentano un affascinante esempio di come un compositore del tardo Classicismo viennese si confrontasse con una delle più celebri e antiche basi armoniche e melodiche della musica europea. La Follia — di origini iberiche (probabilmente portoghesi) e diffusasi ampiamente sin dal Rinascimento — divenne un banco di prova prediletto per i compositori barocchi e continuò a ispirare anche in epoche successive. Salieri, noto principalmente come operista e figura centrale della vita musicale viennese, accoglie questa sfida con maestria orchestrale tipica della sua epoca, creando un lavoro ricco di contrasti timbrici e figurazioni brillanti.
Salieri presenta il tema della Follia in modo chiaro e maestoso, ma senza eccessiva pesantezza. L’incipit è affidato principalmente agli archi che espongono la melodia e la sequenza armonica fondamentale in re minore con un andamento moderato e un carattere quasi solenne, rispettando la tradizionale metrica ternaria. L’orchestrazione è trasparente, permettendo di percepire distintamente la progressione armonica, mentre la melodia, semplice e riconoscibile, è trattata con sobrietà, fungendo da chiara base per le successive trasformazioni. L’atmosfera è quella tipica del tema -– nobile e leggermente malinconica — ma con una intrinseca potenzialità drammatica che le variazioni esploreranno. Subito dopo l’esposizione del tema, Salieri avvia il ciclo di variazioni senza soluzione di continuità, lanciandosi immediatamente in un cambio di carattere.
Le prime quattro variazioni accelerano decisamente il tempo e introducono un’energia ritmica propulsiva. La struttura armonica della Follia rimane salda, ma la melodia tematica viene frammentata e incorporata in brillanti figurazioni degli archi, in particolare dei violini. Scale rapide, arpeggi e passaggi agili dominano la scrittura, mostrando la destrezza tecnica richiesta all’orchestra. La trama è prevalentemente omoritmica, con l’intera sezione degli archi impegnata a creare un tessuto sonoro denso e vivace.
A partire dalla variazione n. 5, Salieri inizia a sfruttare le risorse timbriche dell’orchestra classica in modo più differenziato. I fiati (legni) emergono dal tessuto orchestrale, proponendo proprie elaborazioni del materiale tematico o dialogando con gli archi.
Intorno alla variazione n. 14, il tempo rallenta significativamente e l’atmosfera si fa più intima e lirica. La melodia, pur elaborata, riacquista un carattere cantabile, spesso affidata a strumenti solisti (come l’oboe o il flauto) o alla sezione degli archi con un trattamento espressivo e legato. L’armonia della Follia, dilatata nel tempo, assume una profondità emotiva maggiore. Questa variazione lenta funge da centro espressivo del ciclo, offrendo un respiro contemplativo prima della ripresa dell’energia.
Dopo l’oasi lirica, le variazioni riprendono gradualmente velocità e complessità. La scrittura torna ad essere più virtuosistica, coinvolgendo nuovamente tutta l’orchestra. Salieri esplora diverse combinazioni strumentali, alternando passaggi brillanti degli archi a interventi incisivi dei fiati.
Le ultime variazioni (dalla 22 circa alla 25) sembrano costruire un climax progressivo. Il virtuosismo orchestrale è spinto ulteriormente, con passaggi rapidissimi, con un uso più marcato dei registri estremi e dinamiche più forti. L’interazione tra le diverse sezioni dell’orchestra diventa più serrata, creando un senso di accumulo energetico in preparazione della conclusione. La variazione n. 25 sembra avere un carattere particolarmente grandioso e affermativo.
L’ultima variazione offre una conclusione brillante e affermativa. L’intera orchestra è impiegata, con archi scintillanti e fiati incisivi. Non sembra esserci un ritorno esplicito al tema nella sua forma originale lenta, ma piuttosto una perorazione finale basata sulla struttura armonica della Follia, trattata in modo virtuosistico e conclusivo. La cadenza finale è forte e decisa in re minore, sigillando il ciclo con un senso di compimento formale ed energetico tipico dello stile classico.
Nel complesso, Salieri dimostra in queste Variazioni una notevole padronanza della scrittura orchestrale classica. La sua Follia è meno contrappuntistica rispetto ad alcuni modelli barocchi, concentrandosi maggiormente sulla varietà timbrica, sulle figurazioni brillanti e sui contrasti di carattere. L’armonia rimane sostanzialmente fedele alla tradizione, fungendo da solida impalcatura per l’invenzione melodica e ritmica.
Pēteris Vasks (16 aprile 1946): Vientuļais eņģelis (Angelo solitario), meditazione per violino e archi (1999). Alina Pogostkina, violino; Sinfonietta Rīga, dir. Juha Kangas.
Cécile Chaminade (1857 - 13 aprile 1944): Trio n. 1 per violino, violoncello e pianoforte in sol minore op. 11 (1881). Trio Tzigane: Gillian Findlay, violino; Jennie Brown, violoncello; Elizabeth Marcus, pianoforte.
Joey Roukens (28 marzo 1982): Concerto per violino e orchestra n. 2, Out of the Deep (2025). Simone Lamsma, violin; Radio Filharmonisch Orkest, dir. Markus Stenz.
Il Concerto si evolve in un unico movimento; la partitura reca però le seguenti indicazioni:
Rage and Lament In Flux [7:45] Sanctuary [15:00] Upsurge [23:35] Epilogue [27:35]
Samuel Barber (9 marzo 1910 - 1981): Concerto per violino e orchestra op. 14 (1940). Maria Ioudenitch, violino; hr-Sinfonieorchester Frankfurt, dir. Marta Gardolińska.