Domenico Scarlatti (1685 - 23 luglio 1757): Sonata in la maggiore K 208. Jean Rondeau, clavicembalo, e András Schiff, pianoforte.
L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni
Domenico Scarlatti: ritratto di un genio inafferrabile
Origini e formazione a Napoli: all’ombra del padre
Giuseppe Domenico Scarlatti, soprannominato Mimmo, nacque a Napoli in un ambiente straordinariamente musicale: sesto figlio del celebre compositore Alessandro Scarlatti, maestro della cappella reale, egli crebbe circondato da parenti musicisti. La sua formazione fu curata principalmente dal padre e non da altri maestri illustri come talvolta ipotizzato. Il suo talento precoce fu subito riconosciuto: a soli quindici anni, nel 1701, fu nominato organista e compositore della cappella reale di Napoli.
In questo periodo giovanile, Scarlatti si cimentò nei tre generi che avrebbero caratterizzato la sua intera produzione: la musica sacra (un mottetto), la musica per tastiera (tre sonate per organo, K 287, 288, 328) e la musica vocale profana (cantate da camera). Il padre – consapevole del genio del giovane – cercò attivamente di promuoverne la carriera, portandolo con sé a Firenze e Roma. In una famosa lettera, definì il figlio «un’aquila cui son cresciute l’ali», che non poteva rimanere in un “nido” come Napoli, ma doveva spiccare il volo. Dopo aver composto la sua prima opera, L’Ottavia ristituita al trono, fu mandato a Venezia nel 1705 per ampliare le proprie esperienze.
Gli anni romani: tra mecenatismo e carriera ecclesiastica
Stabilitosi a Roma nel 1708, Scarlatti entrò a far parte della vibrante scena musicale della città: qui si colloca il leggendario aneddoto di una “sfida” virtuosistica al clavicembalo e all’organo con il coetaneo Georg Friedrich Händel, promossa dal cardinale Ottoboni. Inizialmente assistente del padre, il compositore si affermò rapidamente, ottenendo il prestigioso incarico di maestro di cappella per la regina in esilio Maria Casimira di Polonia. Per il suo teatrino privato compose un oratorio e sette opere, tra cui Tolomeo et Alessandro e Tetide in Sciro, caratterizzate da uno stile elegante e patetico.
Dopo la partenza della regina, nel 1714 trovò un nuovo protettore nel marchese de Fontes, ambasciatore portoghese, un legame che si rivelerà decisivo per il suo futuro. Parallelamente, intraprese una brillante carriera ecclesiastica, diventando maestro della Cappella Giulia in San Pietro. Di questa intensa produzione sacra, che secondo un inventario comprendeva decine di opere, rimangono oggi poche tracce, tra cui il celebre Stabat Mater a 10 voci. A Roma continuò anche a comporre per i teatri, come l’opera Ambleto e gli intermezzi satirici La Dirindina, la cui rappresentazione fu inizialmente censurata.
La svolta iberica: il periodo portoghese
Nel 1719, Scarlatti lasciò Roma per Lisbona, assumendo l’incarico di compositore della cappella patriarcale e maestro di musica della famiglia reale di Giovanni V di Portogallo. Il suo ruolo principale divenne quello di insegnante per i due talentuosi allievi reali, l’infante don António e, soprattutto, la principessa Maria Barbara di Braganza. Con quest’ultima, eccellente clavicembalista, stabilì un rapporto artistico e didattico destinato a durare tutta la vita.
Il soggiorno portoghese fu intervallato da viaggi in Italia e a Parigi e, durante una sosta a Roma nel 1728, sposò la sedicenne Maria Caterina Gentili. A Lisbona compose un gran numero di opere vocali di grandi dimensioni, come serenate e cantate per le celebrazioni di corte, ma la maggior parte di questa produzione è andata perduta, probabilmente a causa del devastante terremoto del 1755. Anche le fonti delle sue sonate di questo periodo sono scarse, sebbene la sua fama come compositore per tastiera fosse già consolidata.
La maturità in Spagna: maestro della regina e compositore di sonate
Nel 1729, Scarlatti seguì l’allieva Maria Barbara in Spagna, dopo il suo matrimonio con l’erede al trono spagnolo, il futuro Fernando VI. Il suo status cambiò: da musicista con un ruolo pubblico a Lisbona, divenne il maestro di musica privato della principessa. Questo spiega la sua minore visibilità pubblica rispetto al celebre castrato Farinelli, che dominava la scena operistica di corte.
Fu in Spagna che la sua produzione di sonate per clavicembalo fiorì in modo straordinario. L’ispirazione proveniva da un insieme di fattori unici: la simbiosi artistica con la sua regale allieva, il contatto con le vivaci tradizioni musicali iberiche e la disponibilità di una ricca collezione di strumenti a tastiera (cembali, clavicordi e i primi pianoforti). La pubblicazione a Londra nel 1738 degli Essercizi per gravicembalo (K 1-30) gli conferì una vasta notorietà europea, tanto da meritargli il titolo di cavaliere dell’Ordine di Santiago da parte del re del Portogallo. Nell’ultima fase della sua carriera, su richiesta della regina Maria Barbara, supervisionò la copiatura delle sue sonate in quindici volumi manoscritti, oggi conservati principalmente a Venezia e Parma, che rappresentano il nucleo del suo lascito.
Gli ultimi anni e la sfera privata
Rimasto vedovo nel 1739, Scarlatti si risposò nel 1741 con Anastasia Ximenes, da cui ebbe altri quattro figli, oltre ai cinque del primo matrimonio. Negli ultimi anni, forse a causa di un’invalidità, condusse una vita ritirata, esprimendo in una lettera il proprio disprezzo per i «moderni teatristi compositori» ignoranti del contrappunto. Nonostante ciò, riconobbe di aver infranto egli stesso le regole nelle proprie sonate, con l’unico scopo di piacere all’udito. Le sue ultime composizioni, una Messa in stile antico e un commovente Salve regina in stile napoletano, testimoniano la sua versatilità fino alla fine.
Morì a Madrid il 23 luglio 1757. Contrariamente alla leggenda che lo voleva rovinato dal gioco, l’inventario dei suoi beni rivela una condizione agiata, assicurata anche dalle pensioni concesse dai sovrani di Spagna e Portogallo alla sua famiglia.
Eredità e fortuna critica: la sopravvivenza di un genio
L’eredità di Domenico Scarlatti è rimasta viva soprattutto attraverso le sue 555 sonate per tastiera. La loro fama si diffuse rapidamente in Europa grazie a musicisti come Thomas Roseingrave in Inghilterra e a edizioni stampate a Parigi. Nel corso dell’Ottocento, il suo ricordo fu perpetuato da collezionisti come l’abate Santini e da musicisti come Liszt, Czerny e Brahms. La riscoperta moderna iniziò con l’edizione completa di Alessandro Longo (1906) e culminò con la fondamentale monografia di Ralph Kirkpatrick (1953), che stabilì la catalogazione (K) tuttora in uso. Il suo stile ha influenzato profondamente anche compositori del Novecento come Stravinskij, Falla e Bartók.
L’arte della sonata: “lo scherzo ingegnoso” al gravicembalo
Nella prefazione agli Essercizi, Scarlatti descrive la propria musica non come un’opera di «profondo intendimento», ma come uno «scherzo ingegnoso dell’arte». Questa formula racchiude l’essenza delle sue sonate, che si fondano su tre pilastri:
– padronanza tecnica dissimulata: una profonda conoscenza del contrappunto e dell’armonia, nascosta sotto un’apparenza di eleganza e spontaneità;
– invenzione estrosa: un caleidoscopio di idee musicali, caratterizzato da contrasti improvvisi, passaggi repentini tra maggiore e minore, ripetizioni ossessive, ritmi di danza, imitazioni di chitarra, dissonanze audaci e modulazioni vertiginose;
– sfruttamento virtuosistico dello strumento: un uso spavaldo e completo delle potenzialità del clavicembalo, con arpeggi, salti, incroci di mani acrobatici e note ribattute che mettono a dura prova l’esecutore.
Un artista inclassificabile: ritratto di un musicista unico
Domenico Scarlatti sfida ogni semplice etichetta: il suo “splendido isolamento” nelle corti iberiche lo rende un artista unico, sospeso tra il contegno stilizzato del Barocco e l’inquietudine indagatrice dell’Illuminismo. Conteso tra le sue radici italiane e la sua assimilata “ispanitudine”, la sua musica continua a generare dibattiti appassionati tra interpreti e musicologi su questioni come la scelta dello strumento (cembalo o pianoforte), l’influenza del folklore spagnolo e la sua intrinseca teatralità. Le sue sonate, in particolare, esercitano ancora oggi un fascino irresistibile, confermandolo come un miracolo senza paragoni nella musica del suo secolo.
La Sonata K 208: analisi
Non un saggio di virtuosismo pirotecnico, ma un brano di straordinaria intimità, lirismo e bellezza pastorale: in questa Sonata Scarlatti dimostra di non essere solo un compositore di fuochi d’artificio, ma anche un poeta del suono, capace di dipingere con poche, essenziali pennellate un paesaggio sonoro di struggente bellezza.
Come la stragrande maggioranza delle sonate scarlattiane, anche la K 208 è strutturata in una forma bipartita, con due sezioni ciascuna delle quali viene ripetuta. L’equilibrio e la simmetria armonica sono i pilastri su cui si regge l’intera composizione.
La sonata si apre con un tema principale di una semplicità disarmante: è un arpeggio ascendente in la maggiore, suonato con delicatezza, che evoca l’immagine di un liuto o di una chitarra barocca. La melodia è limpida e si muove con grazia, stabilendo immediatamente un’atmosfera serena e pastorale. La mano sinistra fornisce un sostegno armonico essenziale e discreto. Il materiale tematico viene ripreso e variato con l’introduzione di figure melodiche discendenti, simili a “sospiri”, che aggiungono un tocco di dolce malinconia. Armonicamente, Scarlatti inizia un graduale percorso di allontanamento dalla tonica per preparare la modulazione alla tonalità della dominante. La prima sezione si conclude nella tonalità di mi maggiore (la dominante). Questa conclusione è preparata con grande maestria e segna il punto di arrivo armonico della prima parte, creando un senso di sospensione che richiede la prosecuzione nella seconda parte. La ripetizione della sezione permette di apprezzare nuovamente la perfezione di questo piccolo arco narrativo.
La seconda sezione ha inizio nella tonalità di mi maggiore, riprendendo il materiale tematico della prima parte ma trasfigurandolo armonicamente. L’atmosfera è leggermente più inquieta, come un’ombra che passa su un paesaggio soleggiato. Scarlatti si sposta poi brevemente verso tonalità minori: questo passaggio conferisce al brano la sua profondità patetica e malinconica, un momento di introspezione prima del ritorno alla luce, Attraverso un percorso armonico sapiente, la musica ritorna gradualmente alla tonalità originale. Il tema principale riappare nella sua veste originale, portando un senso di risoluzione e serenità ritrovata. La sonata si chiude con la stessa grazia con cui era iniziata, spegnendosi su un accordo finale che lascia l’ascoltatore in uno stato di pacata contemplazione. La ripetizione consolida questo senso di chiusura del cerchio.
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