Varianti – I

Fryderyk Chopin (1810 - 1849): Berceuse per pianoforte op. 57 (1843-44). Arturo Benedetti Michelangeli.

Non sappiamo con precisione quando Chopin cominciò a lavorare alla Berceuse, ma certo la composizione dovette essere molto tormentata: ci sono pervenuti abbozzi pieni di cancellature e correzioni, e il manoscritto in bella copia, contenente cioè la versione «definitiva», manca in realtà delle due misure iniziali, che evidentemente Chopin aggiunse all’ultimo momento, subito prima che l’opera fosse stampata. Sappiamo inoltre che originariamente il brano doveva intitolarsi Varianti, e che il nome fu mutato nell’attuale dietro suggerimento di alcuni amici del musicista; «il termine Varianti è certo il più indicato per definire la forma della Berceuse, che non consiste in un tema con variazioni ma piuttosto nel divenire di un tema» (Piero Rattalino). La Berceuse è in effetti un’opera «sperimentale», fra le più interessanti creazioni dell’ultimo periodo di Chopin. La mano sinistra — che «è il direttore d’orchestra», come diceva Fryderyk ai propri allievi — disegna al basso un «ostinato» sul quale una breve frase melodica si dissolve in sedici variazioni (o varianti) che si succedono senza soluzione di continuità, in un continuo fiorire di meravigliosi arabeschi: «ed ecco che abbiamo una ninnananna che scoraggia chiunque dall’idea di scriverne un’altra» (Arthur Hedley). L’insieme è straordinariamente dolce, di una delicatezza ineffabile (non vi sono indicazioni dinamiche che oltrepassino il piano) e fa pensare a una magica improvvisazione. Poco prima della fine, una strana dissonanza — un do♭ — aggiunge un’aura di mistero, poi il brano si chiude in un mormorio sommesso.

Fantasia – V

Fryderyk Chopin (1810 - 17 ottobre 1849): Fantasia in fa minore op. 49 (1841). Arturo Benedetti Michelangeli, pianoforte.

La Fantasia – da considerarsi fra i grandi capolavori della piena maturità di Chopin e una delle sue opere più vigorose e appassionate – si apre con un misterioso Tempo di marcia che ha un po’ il carattere «narrativo» dei temi iniziali delle Ballate: ma, a differenza di quelli, non è mai più riproposto nel resto dell’opera, e deve perciò essere considerato come una lunga introduzione. Al termine della marcia, un breve momento di distensione: terzine arpeggiate, modulanti e via via più rapide conducono all’enunciazione dell’inquieto tema principale; la melodia, sincopata, si evolve dapprima sopra un basso soffocato, ancora in terzine, poi in una splendida progressione che sfocia nel luminoso secondo tema. Al terzo tema, cromatico, segue un nuovo motivo di marcia, assai diverso da quello dell’introduzione: qui l’espressione è trionfale, quasi eroica. Si ripresentano poi, in una sorta di sezione di sviluppo, il primo e il secondo tema; una variante dell’episodio in terzine arpeggiate prelude al Lento sostenuto in si maggiore e in ritmo ternario: un breve, meraviglioso corale che costituisce il vero culmine espressivo della Fantasia. Segue la ripresa, che ripropone nello stesso ordine il materiale tematico della prima sezione.
Molti commentatori si sono chiesti se l’op. 49 debba essere considerata la quinta Ballata di Chopin. «Si tratta però di un falso problema, non solo perché le Ballate sono in 6/4 o in 6/8 e la Fantasia in 4/4, ma per gli elementi strutturali interni, a cominciare dal primo tema, quello “narrativo”, che [nella Fantasia] una volta presentato non compare più» (G. Belotti). Oggetto di discussione è d’altra parte lo stesso titolo della composizione: all’epoca di Chopin, per fantasia si intendeva comunemente una libera elaborazione di motivi celebri, per lo più desunti da opere teatrali di successo, priva di qualsiasi schema prestabilito. Ma il rigore formale dell’op. 49, osserva Belotti, rende assolutamente incomprensibile il suo titolo: dunque «possiamo solo supporre che Chopin non sapesse come chiamare quest’opera eccezionale e scegliesse il titolo attuale per eliminazione». Secondo altri, quel titolo è invece un esplicito e consapevole riferimento alla fantasia tedesca del secolo XVIII: cioè a un «genere» per strumento a tastiera che consentì ai maggiori musicisti dell’epoca (Buxtehude, Pachelbel, Hassler, Scheidt, Froberger, Bach e così via fino a Haydn e a Mozart) di sperimentare, elaborare e sintetizzare in modo personalissimo le più diverse esperienze stilistiche e formali.

NB: salvo diversa indicazione, i testi inseriti negli articoli dedicati a Chopin nel presente blog sono tratti dal volume Chopin: Signori il catalogo è questo di C. C. e Giorgio Dolza, Einaudi, Torino 2001.

Falsi celebri

L’articoletto che segue, piccolo omaggio a Umberto Eco (1932 - 19 febbraio 2016), prende in esame alcuni apocrifi di successo 🙂


Remo Giazotto (1910 - 1998): Adagio in sol minore per archi e basso continuo (1957) noto come Adagio di Albinoni. Berliner Philharmoniker, dir. Herbert von Karajan.
Compositore e musicologo, Giazotto compilò fra l’altro il catalogo sistematico delle opere di Tomaso Albinoni (1671-1751). Nel 1958 diede alle stampe l’Adagio attribuendone la paternità al maestro veneziano: si tratterebbe di una sonata a tre della quale sopravvivono soltanto il basso numerato e due frammenti della parte del I violino, dallo stesso Giazotto rinvenuti manoscritti nella Sächsische Landesbibliothek di Dresda. «L’elaboratore ha proceduto alla realiz­zazione del basso numerato superstite sul quale, avvalendosi di due episodi melodici (sei battute in tutto), ha creato e disposto un nesso narrativo che aderisse con assoluta fedeltà al tessuto armonico che il basso numerato originale suggeriva», spiegò lo studioso romano. Dopo la morte del quale, però, si è appurato che la Biblioteca di Dresda non conserva alcun frammento corrispondente alla descrizione, ragion per cui si ritiene che l’Adagio sia interamente opera di Remo Giazotto.


Ludwig NohlLudwig van Beethoven (1770 - 1827) o Ludwig Nohl (1831 - 1885): Für Elise (1810?). Ivo Pogorelich, pianoforte.
La composizione oggi universalmente nota con il titolo Für Elise (Per Elisa) fu scoperta quarant’anni dopo la morte di Beethoven, nel 1867, a Monaco, presso una collezione privata, dallo studioso e scrittore tedesco Ludwig Nohl (nel ritrattino qui a sinistra). Il manoscritto, oggi perduto, secondo la testimonianza di Nohl era datato 27 aprile 1810. Ci si è a lungo interrogati sull’identità della dedicataria: poiché non risulta che Beethoven conoscesse di persona una Elise — si è parlato di Elisabeth Röckel (1793–1883), una cantante tedesca che all’epoca godeva di una certa notorietà, ma non v’è prova che i due si siano incontrati — l’opinione più diffusa è che il nome riportato sulla partitura fosse in realtà Therese (ossia Therese Malfatti von Rohrenbach zu Dezza, amata da Beethoven) e che Nohl abbia mal interpretato la grafia del compositore.
Il brano è incluso nel catalogo beethoveniano come n. 59 dei Werke ohne Opuszahl (WoO = composizioni senza numero d’opus). Va però detto che, dopo accurati studi, il musicologo italiano Luca Chiantore (vedere qui) è giunto alla conclusione che Per Elisa non sia di Beethoven: il vero autore sarebbe proprio Nohl.


Autore non identificato: Valzer in mi bemolle maggiore, attribuito a Fryderyk Chopin (1810 - 1849). Arturo Benedetti Michelangeli, pianoforte.
Di questa composizione — per la verità simile più a un Ländler che a un valzer — l’unica copia manoscritta di cui abbiamo notizia si trovava nell’album personale di Emilia Elsner (figlia di uno dei maestri di Chopin), ove però non era riportato il nome del suo autore; l’album, che conteneva alcuni brani certamente di Chopin, è andato perduto, ma era stato esaminato alla fine dell’Ottocento dal letterato e musicografo polacco Ferdynand Hoesick, il quale ne pubblicò il contenuto in un volume di supplemento all’edizione Breitkopf & Härtel delle opere complete chopiniane (Lipsia, 1902). Il Valzer in mi bemolle, a ben vedere, non ha assolutamente nulla dello stile di Chopin: opinione di diversi studiosi è che l’attribuzione al maestro polacco debba considerarsi una svista di Hoesick.


Johann Peter Kellner? (1705 - 1772): Toccata e Fuga in re minore per organo, attribuita a Johann Sebastian Bach (BWV 565). Michel Chapuis, organo.
Della questione si parlava già all’inizio degli anni 1980: «la composizione organistica nota come Toccata e fuga in re minore, n. 565 del Bach-Werke-Verzeichnis di Wolfgang Schmieder, è opera di Johann Sebastian Bach?» si chiedevano, fra gli altri, Peter Williams (BWV 565: A toccata in D minor for organ by J.S.Bach?, in «Early Music» 9/3, 1981) e David Humphreys (The D minor Toccata BWV 565, ibid. 10/2, 1982). La discussione è tuttora viva, ma è assai probabile che nelle prossime edizioni del catalogo bachiano dovremo andare a cercare il numero 565 fra le opere spurie.
Riassumendo:

  • Il più antico manoscritto noto della Toccata e fuga è una copia eseguita da Johann Ringk (1717-1778), allievo di un allievo di Bach. Studiando il documento, Williams è giunto a questa con­clusione: non si tratta di un’opera originale, bensì della trascrizione di un brano ori­gi­na­ria­mente concepito per violino solo.

  • Humphreys ha attribuito il brano a Johann Peter Kellner, allievo di Bach intorno al 1729 e maestro di Ringk.

  • Bernhard Billeter ritiene invece che si tratti di un adattamento di un brano clavicembalistico (Bachs Toccata und Fuge d-moll für Orgel BWV 565 – ein Cembalowerk?, in «Die Musik­forschung» 50/1, 1997).

  • Nel 1995 Rolf Dietrich Claus ha pubblicato uno studio (Zur Echtheit von Toccata und Fuge d-moll BWV 565, Colonia, Verlag Dohr) nel quale sostiene che la composizione, di probabile origine violinistica, non può essere un’opera giovanile di Bach – come si era sempre pensato, ritenendo di poter così giustificare le sue molte incongruenze – e giunge alla conclusione che debba essere attribuita a un compositore della generazione dei figli di Bach. Nella 2ª edizione ampliata (1999) Claus risponde punto per punto a coloro che avevano criticato e confutato le sue tesi.

  • Nel 2000 Stephan Emele presenta una dissertazione dedicata a Kellner (Ein Beispiel der mitteldeutschen Orgelkunst des 18. Jahrhunderts: Johann Peter Kellner), considerato quale probabile autore della Toccata e fuga in re minore. L’analisi stilistica è dettagliata e abbastanza convincente (si veda il sito della Johann-Peter-Kellner-Gesellschaft).

  • Nel 2005 Eric Lewin Altschuler ipotizza che tanto la Toccata e Fuga BWV 565 quanto la Ciaccona della Seconda Partita per violino BWV 1004 potessero essere in origine brani per liuto (Were Bach’s Toccata and Fugue BWV565 and the Ciaccona from BWV1004 Lute Pieces?, in «The Musical Times» 146/1893).

Penso che chiunque abbia un po’ di dimestichezza con le composizioni del Kantor di Lipsia difficilmente potrà trovarsi in totale disaccordo con gli studiosi sopra menzionati: BWV 565 non sembra essere di Bach; la magniloquenza fine a sé stessa, l’elementare semplicità dell’armonia, l’inconsistenza del contrappunto sono rivelatrici. Il vero Bach è altrove.

Fuochi artificiali

Claude Debussy (1862 - 1918): Preludio in fa maggiore (…Feux d’artifice) dal Deuxième livre (1913), n. 12. Arturo Benedetti Michelangeli, pianoforte.


Igor’ Stravinskij (1882 - 1971): Feu d’artifice op. 4 (1908). Columbia Symphony Orchestra diretta dall’autore.


«Recentemente ho visto Stravinskij…
Dice: il mio Oiseau de feu, il mio Sacre, come un bambino direbbe: la mia trottola, il mio cerchio. Ed è proprio questo: un bambino viziato che, ogni tanto, mette le dita nel naso della musica. È anche un giovane selvaggio che porta cravatte da pugno nell’occhio, bacia la mano alle signore pestando loro i piedi. Da vecchio, sarà insopportabile, o meglio non sopporterà nessuna musica; ma per ora è straordinario! Dichiara di essere mio amico, perché l’ho aiutato a salire un gradino della scala dalla cui sommità lancia granate, non tutte esplodono. Ma, ripeto, è straordinario.»
(lettera di Claude Debussy a Robert Godet del 4 gennaio 1916)