Leoš Janáček (3 luglio 1854 - 1928): Dunaj (Il Danubio), sinfonia in 4 movimenti (1923-28, completata da Osvald Chlubna, Miloš Štědroň e Leoš Faltus). Karolína Dvořáková, soprano; Jiří Beneš, viola solista; Filharmonie Brno, dir. František Jílek.
- Andante
- [senza indicazione di movimento]
- Allegro
- [senza indicazione di movimento]
L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni
Janáček e la sinfonia Il Danubio: il fiume incompiuto dell’anima femminile
Janáček concepì l’idea della sinfonia Il Danubio a partire dal 1923, dopo un periodo felice trascorso a Bratislava, in seguito al successo della sua opera Káťa Kabanová. Inizialmente pensata come un poema sinfonico slavo ispirato dal fiume che attraversa quattro Stati slavi, il compositore scelse di discostarsi da un approccio puramente descrittivo, come quello di Smetana nella Moldava. Il suo intento era invece quello di esplorare il legame mitico tra il destino delle donne, l’acqua e la morte, immaginando il Danubio come una figura femminile, piena di passione e con i propri istinti.
Il compositore stesso descrisse così la proprio idea: «Onde verde pallido del Danubio! Ce ne sono così tante e una segue l’altra. Rimanete interconnesse in un flusso continuo. Vi sorprendete dove siete finite – sulle rive ceche! Guardate a valle, e avrete un’impressione di ciò che vi siete lasciate alle spalle nella vostra fretta. Vi piace qui. Qui mi riposerò con la mia sinfonia».
L’ispirazione per il primo e l’ultimo movimento proviene dalla poesia Lola della scrittrice boema Sonja Špálová, pubblicata sotto lo pseudonimo di Alexander Insarov: vi si racconta la storia di una prostituta che, dopo una vita di piaceri e agi, finisce in miseria, affamata e sola. Janáček aggiunse di suo pugno una nota finale alla poesia, non presente nell’originale: «si getta nel Danubio». Il secondo e il terzo movimento, invece, si basano su un’altra poesia, La ragazza annegata di Pavla Křižková, nella quale si narra di una giovane che, spiata da uno sconosciuto mentre fa il bagno, per la vergogna si getta nel fiume e annega.
Nel 1924 Janáček aveva già abbozzato il secondo movimento, con l’intenzione di completare l’opera dopo un viaggio sul Danubio, viaggio che non riuscì mai a realizzare per motivi politici. Dopo la morte del compositore nel 1928 si trovarono frammenti di quattro movimenti che furono successivamente completati da Osvald Chlubna, allievo di Janáček, nel 1948; la prima esecuzione ebbe luogo a Brno nello stesso anno. Successive edizioni e ricostruzioni sono state curate da Miloš Štědroň e Leoš Faltus, basandosi sugli schizzi originali orchestrati.
Il primo movimento si apre senza preamboli, in medias res, con un assolo di violino che si libra in un registro acutissimo. La melodia è lirica e inquieta, quasi un pensiero errante che cerca una direzione. Non è un tema sinfonico tradizionale, ma una linea melodica fluttuante e solitaria. Quasi immediatamente viene introdotto un breve motto discendente di due-tre note, un “sospiro” affidato ai legni. Questo è un esempio perfetto della “melodia del parlato” di Janáček, un frammento ossessivo che funge da cellula generatrice e da commento emotivo. Per tutto il movimento, questo motto riapparirà come un’eco, un pensiero ricorrente o un presagio. L’armonia è subito ambigua e modale. Gli arpeggi dell’arpa aggiungono un colore acquatico e onirico, offuscando ulteriormente i contorni tonali e creando una trama rarefatta e sognante. L’intera prima sezione è un dialogo tra il violino solista, i sospiri dei legni e i veli sonori dell’arpa, creando un senso di mistero e sospensione.
Successivamente, Il tempo si anima leggermente e l’umore diventa più nervoso. I flauti e gli oboi introducono una nuova figura musicale, un motivo veloce e quasi febbrile che si ripete con insistenza. Questa sezione ha il carattere di uno sviluppo, dove la tensione latente dell’apertura inizia a manifestarsi più chiaramente. I violoncelli emergono con una linea melodica più calda e definita, ma anche questa viene presto interrotta, come un ricordo che non riesce a prendere forma completamente. La musica cresce in intensità, culminando in un breve ma passionale fremito degli archi. Questo è il primo vero momento di “tutti” orchestrale, un’ondata emotiva che però si ritira quasi subito, lasciando un’impressione di instabilità e irrequietezza.
La tempesta emotiva si placa tanto rapidamente quanto era sorta. Ritorna l’atmosfera iniziale e Il violino solista riprende il suo canto solitario, ma ora sembra più riflessivo, quasi rassegnato. Non è una ripresa letterale, ma una rivisitazione nostalgica del materiale di apertura. Il dialogo tra gli strumenti solisti diventa il cuore di questa sezione: emerge uno struggente assolo dell’oboe che introduce una nuova melodia piena di malinconia e desiderio. È un momento di pura espressione lirica, a cui risponde poco dopo il flauto, continuando la conversazione con una grazia eterea. In sottofondo, il motto del “sospiro” continua a punteggiare il discorso musicale, come un commento silenzioso.
Il finale del movimento è straordinario nella sua fragilità: la musica non si conclude, ma semplicemente si dissolve. La tessitura orchestrale si assottiglia fino a diventare quasi impercettibile. Sentiamo gli armonici acuti e gelidi degli archi che creano un’atmosfera spettrale. Il motto del “sospiro” viene sussurrato un’ultima volta dai clarinetti, mentre il violino solista si libra verso l’acuto con un ultimo, fantasmagorico frammento della sua melodia. Il movimento si spegne su note tenute e un delicato pizzicato dei contrabbassi, svanendo nel silenzio più assoluto.
Il secondo movimento si apre in un’atmosfera sospesa e quasi irreale, che evoca l’acqua scura e scintillante del fiume di notte. Dominano gli archi con sordina, che creano un tremolo leggerissimo e vitreo. Da questo sfondo emerge il violino solista con un motivo lamentoso e ascendente: la sua linea è esile, esitante, quasi un sospiro che incarna la fragilità e il tormento della giovane. Si percepisce anche il colore particolare della viola d’amore, che aggiunge una sfumatura arcaica e malinconica al tessuto sonoro. L’armonia è instabile, priva di un centro tonale chiaro, generando un senso di smarrimento e di ipnotica attrazione verso l’abisso. È la rappresentazione musicale del confine tra coscienza e oblio.
Qui entra in scena la melodia che rappresenta la seduzione del Danubio, il suo richiamo mortale. Fa il suo ingresso un flauto solista a intonare una melodia pura, sinuosa e disincarnata. Sotto questa melodia, l’orchestra, guidata dagli archi e dagli altri legni, costruisce un crescendo inesorabile. La tensione sale, passando da un sussurro a un’ondata sonora potente e appassionata che simboleggia la crescente forza della tentazione. Il culmine è un accordo orchestrale potente che si spegne di colpo.
Con un taglio netto e brutale, tipico di Janáček, l’atmosfera cambia radicalmente. La musica si trasforma in un valzer, ma è una caricatura sgraziata e volgare. Il ritmo è ossessivo e martellante, mentre la melodia assume un carattere triviale e sfacciato. Il motivo lamentoso del violino solista riappare, ora più agitato e disperato. Si scontra con i frammenti del valzer grottesco, che serpeggiano nei registri gravi.
Il flauto solista ritorna con la sua melodia, ma ora è trasfigurato. Non è più seducente; è teso, acuto, quasi un grido di angoscia che perfora la massa orchestrale. L’orchestra lo accompagna in un’ascesa travolgente verso un climax assordante e violentemente dissonante. Immediatamente dopo, l’orchestra collassa: un lungo e drammatico glissando discendente degli archi e dei tromboni segna la resa della giovane.
Il movimento si chiude in un’atmosfera di desolazione, senza alcuna catarsi. La quiete che segue non è pace, ma vuoto: sentiamo solo i frammenti del valzer grottesco, ora lenti e spettrali nel registro grave del clarinetto basso. La musica si spegne su un accordo lungo e ambiguo dei contrabbassi, lasciando un senso di profonda amarezza. La lotta è finita, ma non c’è salvezza, solo la constatazione di una vita senza speranza.
Il terzo movimento, invece, si apre in un’atmosfera di rarefatta sospensione. Non c’è un tema orchestrale definito, ma un vero e proprio monologo del violino solista. Questo non è un passaggio concertistico virtuosistico, ma piuttosto un “recitativo” strumentale che incarna perfettamente la teoria di Janáček della “melodia del parlato”. Il violino espone una serie di brevi frasi frammentarie, quasi interrogative. I motivi sono costruiti su piccoli intervalli, spesso ripetuti ossessivamente ma con leggere variazioni ritmiche, come se un pensiero faticasse a trovare una forma compiuta. Le pause sono eloquenti quanto le note, creando un senso di esitazione e introspezione.
L’orchestra funge da tappeto sonoro, un paesaggio sonoro più che un accompagnamento. L’armonia è instabile e modale, evitando una chiara tonalità. Sentiamo il tremolo leggerissimo degli archi con sordina, arpeggi eterei dell’arpa e interventi isolati dei legni, che punteggiano il discorso del violino come echi lontani o riflessi sull’acqua. La tessitura è incredibilmente trasparente e delicata: ogni strumento è scelto per il suo timbro specifico, contribuendo a creare un’atmosfera di mistero e solitudine. Si ha l’impressione di ascoltare la voce interiore di un personaggio che vaga in un paesaggio desolato, illuminato solo da una luce spettrale.
Il movimento raggiunge il suo cuore emotivo con l’ingresso del soprano solista. La scelta di Janáček è radicale e di grande efficacia: la cantante non intona un testo, ma esegue un vocalizzo, una melodia senza parole. Questa scelta spoglia l’emozione di ogni specificità narrativa, rendendola universale. È un lamento puro, un’espressione di nostalgia, tristezza o desiderio che trascende la lingua. La voce umana diventa uno strumento tra gli strumenti, ma con una carica emotiva superiore.
La linea melodica del soprano riprende lo stile frammentario e “parlato” del violino. I due solisti entrano in un dialogo fitto e commovente. A volte il soprano sembra completare una frase iniziata dal violino, altre volte è il violino a fare eco al lamento della voce. Questa interazione crea una tensione drammatica palpabile: è l’incontro tra l’anima (la voce umana) e il suo riflesso o la sua coscienza (il violino). L’orchestra sostiene questo dialogo con estrema discrezione. Gli archi creano ondate sonore quasi impercettibili, mentre l’arpa continua a tessere le sue trame cristalline. La dinamica cresce leggermente, ma non esplode mai, mantenendo il carattere cameristico e intimo della scena. L’emozione si intensifica, ma rimane interiorizzata, un dolore sussurrato più che gridato.
La sezione finale del movimento è tanto audace quanto il suo inizio. Invece di una risoluzione, assistiamo a una progressiva dissoluzione del materiale sonoro. Il dialogo tra violino e soprano si spegne. L’orchestrazione si fa ancora più scarna, riducendosi a suoni acuti e cristallini. Gli archi, nel registro più alto, creano un suono quasi immateriale, come stelle che brillano fredde nel cielo notturno. Gli ultimi frammenti melodici del violino solista salgono verso l’acuto e si perdono.
Dopo un crescendo quasi isterico degli archi su un accordo dissonante, la musica non sfuma, ma si interrompe bruscamente. Questo finale tronco lascia l’ascoltatore in uno stato di sospensione totale, come se si fosse svegliato di soprassalto da un sogno o come se la scena fosse stata tagliata di netto. È una domanda che rimane senza risposta, un’immagine che svanisce prima di essere pienamente compresa.
L’ultimo movimento si apre con un’atmosfera nebbiosa e scintillante. Janáček costruisce un “ambiente” sonoro più che una melodia. Gli arpeggi delicati dell’arpa, il pizzicato degli archi evocano i riflessi della luce sull’acqua. È una sonorità quasi impressionista, ma resa più aspra e frammentaria dalla sensibilità tipica del compositore. Brevi e isolati frammenti melodici, simili a sospiri, emergono dai legni. Non sono temi strutturati, ma “motivi-gesto” che comunicano un senso di esitazione, vulnerabilità e profonda solitudine, in linea con lo stile di Janáček basato sulle “melodie del parlato”.
L’atmosfera sognante viene brutalmente lacerata. L’orchestra accelera e gli archi introducono un ostinato nervoso e ripetitivo, creando un sottofondo di crescente tensione. Su questo tappeto sonoro si innestano interventi brevi e taglienti degli ottoni. La musica assume un carattere febbrile, quasi ossessivo. La dinamica cresce vertiginosamente, culminando in un primo, potente tutti orchestrale. Questo passaggio rappresenta una vera e propria esplosione di angoscia, un’agitazione interiore che si oppone violentemente alla fragilità iniziale.
La tempesta emotiva si placa con la stessa rapidità con cui era sorta. Su un accompagnamento rarefatto, emerge la voce lamentosa di un oboe solista. Janáček lo tratta come una voce umana, affidandogli una melodia acuta, desolata e incredibilmente espressiva. È un canto senza parole che incarna la solitudine e la disperazione della ragazza. La scelta dell’oboe, con il suo timbro penetrante e malinconico, è magistrale nel dipingere questo ritratto di pathos.
Al canto dell’oboe risponde il violino solista che ne riprende e sviluppa la linea melodica. Si crea cos’ un dialogo strumentale di una struggente intimità, un botta e risposta tra due anime sole. Il violino diventa l’alter ego dell’oboe, con una scrittura virtuosistica ma sempre carica di pathos, piena di glissandi e frasi spezzate che suonano come singhiozzi. L’orchestra rimane sullo sfondo, trasparente, per non turbare questo momento di desolata confessione.
Il dialogo intimo viene annientato da una seconda, brutale eruzione dell’intera orchestra. Gli ottoni esplodono in un motivo potente e implacabile, quasi una fanfara tragica, costruito su armonie aspre e dissonanti. È il climax dell’intero movimento, un’ondata sonora travolgente e ineluttabile. Il culmine sonoro si spezza all’improvviso: la musica si disintegra, lasciando solo frammenti spettrali degli elementi precedenti: gli ostinati nervosi degli archi, un lontano eco degli ottoni, gli arpeggi dell’arpa. È il suono del “dopo”, un paesaggio emotivo svuotato.
Il violino solista riappare per un’ultima, brevissima frase. È un flebile ricordo del suo canto precedente, ora privo di ogni speranza, quasi un sussurro prima del silenzio definitivo. Il movimento non si conclude con una cadenza tradizionale, ma si spegne su un accordo statico e irrisolto, tenuto dai legni bassi, a cui si aggiunge un ultimo, sordo colpo di timpano. La musica non “finisce”, semplicemente “cessa”. Questa conclusione, tipica della sensibilità modernista di Janáček, lascia l’ascoltatore sospeso, con un profondo senso di disagio e una domanda senza risposta.
