George Rochberg (5 luglio 1918 - 2005): Imago Mundi per orchestra (1973). Deutsche Radio Philharmonie Saarbrücken Kaiserslautern, dir. Christopher Lyndon-Gee.
L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni
George Rochberg: oltre il serialismo, il ritorno all’emozione
George Rochberg è stato una delle figure più significative e controverse della musica classica contemporanea americana. La sua carriera è definita da una profonda frattura stilistica, un abbandono radicale delle avanguardie seriali in favore di un linguaggio che recupera la tonalità e la potenza espressiva del passato, una scelta innescata da una tragedia personale che ha ridefinito il suo intero approccio all’arte.
Biografia e carriera accademica
Nato nel New Jersey, Rochberg ricevette una formazione musicale di altissimo livello, studiando prima al Mannes College of Music con George Szell e altri, e poi al Curtis Institute of Music con Rosario Scalero e Gian Carlo Menotti. Dopo aver servito nell’esercito durante la seconda guerra mondiale, intraprese una brillante carriera accademica presso l’Università della Pennsylvania, dove ricoprì il ruolo di direttore del dipartimento di musica fino al 1968 e continuò a insegnare fino al 1983, diventando nel 1978 il primo Annenberg Professor of the Humanities. La sua vita privata fu segnata da un evento devastante: la morte del figlio adolescente Paul nel 1964 a causa di un tumore al cervello. Questo lutto profondo divenne il catalizzatore della sua rivoluzione artistica.
La svolta stilistica: dall’atonalità al recupero della tonalità
Per molti anni, Rochberg fu un convinto sostenitore e praticante del serialismo. Tuttavia, di fronte al dolore per la perdita del figlio, trovò questo linguaggio arido, intellettualistico e del tutto inadeguato a esprimere la rabbia e la sofferenza che provava. Lo definì «vuoto di potere espressivo», un guscio sterile incapace di contenere la complessità dell’emozione umana. A partire dagli anni ’70, Rochberg iniziò a reintrodurre nelle proprie composizioni passaggi tonali, citazioni e stili del passato, provocando un acceso dibattito nel mondo accademico e tra i critici. Paragonava l’atonalità all’arte astratta e la tonalità all’arte concreta, vedendo nella tensione tra astrazione e concretezza una questione fondamentale, simile a quella affrontata dal pittore Philip Guston nel suo ritorno alla figurazione. Questa coraggiosa inversione di rotta gli valse l’etichetta di compositore “neoromantico” e rappresentante di un “postmodernismo neoconservatore”.
Opere principali e stilemi
Il percorso di Rochberg è chiaramente leggibile nelle sue opere:
– il periodo seriale: la Sinfonia n. 2 (1955-56) è considerata uno dei più riusciti esempi di composizione seriale di un autore americano, a testimonianza della piena padronanza della tecnica che avrebbe poi abbandonato;
– il periodo della svolta: è conosciuto soprattutto per i suoi Quartetti per archi n. 3-6 (1972-78); il Quartetto n. 3 fu l’opera che rese famosa la sua nuova estetica, includendo un movimento di variazioni nello stile del tardo Beethoven e passaggi che evocano la musica di Gustav Mahler. I Quartetti n. 4, 5 e 6 – noti come i Concord Quartets – furono concepiti come un unico ciclo e contengono riferimenti ancora più espliciti, come le variazioni sul celebre Canone in re di Pachelbel nel Sesto Quartetto;
– la tecnica del collage: alcune opere di Rochberg, come Contra Mortem et Tempus, sono veri e propri collage musicali che giustappongono citazioni di compositori diversissimi tra loro, come Pierre Boulez, Luciano Berio, Edgard Varèse e Charles Ives.
Eredità e influenza
La decisione di Rochberg di rompere con l’ortodossia serialista ebbe un impatto liberatorio su intere generazioni di giovani compositori. Come affermò il musicista James Freeman, la sua mossa dimostrò che non era più obbligatorio aderire a un unico stile dogmatico. L’esempio di Rochberg sancì una nuova libertà creativa: la possibilità di attingere a qualsiasi linguaggio, dal serialismo al contrappunto barocco, dal romanticismo brahmsiano alla dissonanza modernista, scegliendo gli strumenti espressivi più adatti al proprio messaggio.
L’attività di scrittore
Oltre alla composizione, Rochberg fu un acuto pensatore e saggista, che rifletté a lungo sulla sua evoluzione artistica. Raccolse i propri scritti nel volume The Aesthetics of Survival (1984), la cui edizione rivista e ampliata vinse un prestigioso premio. La sua visione della musica e dell’arte è ulteriormente documentata dalla sua corrispondenza con il compositore István Anhalt e dal suo libro di memorie postumo, Five Lines, Four Spaces (2009).
Imago Mundi: analisi
Imago Mundi è una delle opere più rappresentative e potenti del periodo maturo del musicista statunitense, quello successivo al traumatico abbandono del serialismo. L’opera è un manifesto della filosofia di Rochberg: l’arte non deve essere prigioniera di un unico sistema, ma deve attingere liberamente a ogni risorsa espressiva — dalla dissonanza più aspra alla melodia più semplice — per rappresentare la totalità dell’esperienza umana.
Il brano emerge letteralmente dal nulla, da un “vuoto sonoro”. L’inizio è caratterizzato da armonici acutissimi e quasi impercettibili degli archi, che creano uno spazio sonoro rarefatto, immobile e primordiale. È un’atmosfera di attesa, quasi di genesi cosmica. Da questo silenzio vibrante, emerge il nucleo tematico dell’intera composizione: una semplice e fragile cellula melodica affidata a un flauto solista. Questa melodia è di una semplicità disarmante, quasi tonale e diatonica e rappresenta un principio di ordine, un primo barlume di vita o coscienza in un universo vuoto. Lentamente, altri strumenti a fiato riprendono questa cellula, variandola leggermente, come echi che si diffondono nello spazio. Il tessuto orchestrale si infittisce in modo quasi impercettibile: rulli sommessi di percussioni aggiungono una profondità oscura, mentre gli archi iniziano a muoversi con maggiore densità. La musica cresce non attraverso un crescendo lineare, ma per accumulo di strati, creando un’onda di tensione lenta e inesorabile. È l’immagine di un mondo che prende forma, con le sue complessità e le sue prime, latenti tensioni.
La fragile cellula melodica iniziale viene poi inghiottita dalla massa orchestrale, venendo frammentata, distorta, urlata da diverse sezioni dell’orchestra, in particolare dagli ottoni. Quella che era un’idea pura e semplice diventa il catalizzatore di un conflitto titanico. Segue un climax devastante che ricorda le sezioni più apocalittiche delle sinfonie di Mahler (un’influenza chiave per Rochberg) ma con una violenza armonica moderna. Le caratteristiche sonore di questa sezione sono:
– masse sonore dissonanti: gli archi creano muri di suono compatti e stridenti, utilizzando cluster, glissandi e tremoli furiosi. L’armonia è densa e quasi impenetrabile;
– ottoni potentissimi: trombe e tromboni emergono con fanfare brutali e angosciose, spesso in registri acutissimi, che lacerano il tessuto orchestrale;
– percussioni martellanti: timpani, piatti, grancassa e tam-tam sono usati con violenza inaudita, creando un senso di catastrofe imminente e di caos primordiale.
Questa non è atonalità fine a sé stessa, ma è un’esplosione di pura espressività. È facile leggere in questa tempesta sonora il “dolore e la rabbia” che Rochberg non riusciva a canalizzare attraverso il serialismo. È l’urlo di un’umanità travolta da forze incontrollabili, l’immagine di un mondo che si disintegra sotto il peso delle proprie contraddizioni.
Così come era iniziata, la tempesta cessa quasi all’improvviso. Segue una lunga sezione di dissoluzione, le “rovine” del mondo dopo il cataclisma. La musica si frammenta in lunghi silenzi, interrotti da voci solistiche che emergono dalle ceneri: un flauto, un oboe, un clarinetto ripropongono frammenti della melodia iniziale, ma ora suonano stanchi, desolati, come voci di sopravvissuti in un paesaggio devastato. Il loro carattere non è più ingenuo, ma carico del peso dell’esperienza passata. Lentamente, riaffiorano gli elementi della genesi: gli armonici acuti degli archi e i rintocchi sommessi e risonanti del tam-tam. Verso la fine, strumenti come la celesta e il Glockenspiel introducono un timbro cristallino e celestiale. La melodia originale appare un’ultima volta, ma ora è trasfigurata, eterea, come se avesse raggiunto uno stato di trascendenza o di pace cosmica. Il brano si conclude spegnendosi nel silenzio da cui era nato. Il ciclo di creazione, distruzione e rinascita si è compiuto, lasciando l’ascoltatore in uno stato di sospensione contemplativa.
Nel complesso, Imago Mundi è un poema sinfonico che narra una parabola universale attraverso il suono. Rochberg utilizza l’intera tavolozza orchestrale e un linguaggio che spazia dalla melodia più elementare alla dissonanza più violenta per creare un’opera di straordinaria potenza emotiva e drammatica. È la perfetta incarnazione della sua estetica “neoromantica” e postmoderna: una musica che non teme di essere grandiosa, terribile e, infine, profondamente umana, dipingendo non solo un’”immagine del mondo”, ma una mappa dell’animo umano stesso.
