See, hear, touch, kiss, die

John Dowland (1563 - 1626): Come again, ayre* (dal First Booke of Songes or Ayres of fowre partes with Tableture for the Lute, 1597, n. 17). Paul Agnew, tenore; Christopher Wilson, liuto.

Come again! sweet love doth now invite
Thy graces that refrain
To do me due delight,
To see, to hear, to touch, to kiss, to die,
With thee again in sweetest sympathy.

Come again! that I may cease to mourn
Through thy unkind disdain;
For now left and forlorn
I sit, I sigh, I weep, I faint, I die
In deadly pain and endless misery.

All the day the sun that lends me shine
By frowns do cause me pine
And feeds me with delay;
Her smiles, my springs that makes my joys to grow,
Her frowns the Winters of my woe.

All the night my sleeps are full of dreams,
My eyes are full of streams.
My heart takes no delight
To see the fruits and joys that some do find
And mark the storms are me assign’d.

Out alas, my faith is ever true,
Yet will she never rue
Nor yield me any grace;
Her eyes of fire, her heart of flint is made,
Whom tears nor truth may once invade.

Gentle Love, draw forth thy wounding dart,
Thou canst not pierce her heart;
For I, that do approve
By sighs and tears more hot than are thy shafts
Did tempt while she for triumph laughs.

(*) Per ayre si intende un genere musicale fiorito in Inghilterra tra la fine del Cinquecento e la terza decade del secolo successivo. L’ayre è un brano a più voci (solitamente quattro) con ac­com­pa­gna­mento di liuto; ciò che lo distingue dalle composizioni congeneri del periodo precedente è il fatto che alla voce più acuta è affidata una parte spiccatamente melodica, sul modello della «monodia accompagnata» italiana e dell’air de cour francese. Gli interpreti hanno dunque la possibilità di eseguire un ayre o secondo tradizione, con tutte le parti vocali e con l’ac­com­pa­gna­mento del liuto ad libitum, oppure seguendo la moda dell’epoca, cioè con il canto della sola parte più acuta sostenuto dal liuto. In quest’ultimo caso, al liuto spesso si aggiunge una viola da gamba che ha il compito di irrobustire la linea del basso.

Lamento della Ninfa

Claudio Monteverdi (1567 - 1643): Lamento della Ninfa, da Madrigali guerrieri et amorosi (VIII Libro di madrigali, 1638, n. 22), su testo di Ottavio Rinuccini. Emma Kirkby, soprano; Paul Agnew e Andrew King, tenori; Alan Ewing, basso; The Consort of Musicke, dir. Anthony Rooley.
Lo stesso testo messo in musica da Antonio Brunelli, ma Monteverdi ne dà un’interpretazione completamente diversa.

Non havea Febo ancora
recato al mondo il dì,
che del suo albergo fuora
una donzella uscì.

  Miserella, ah più no, no,
  tanto gel soffrir non può.

Sul pallidetto volto
scorgeasi il suo dolor,
spesso gli venia sciolto
un gran sospir dal cor.

Si calpestando i fiori
errava hor qua, hor là,
e i suoi perduti amori
così piangendo va.

Amor, dicea, e il pie’
mirando il ciel fermò,
dove, dov’ è la fe’
che ‘l traditor giurò?

Se il ciglio ha più sereno
colei che ‘l mio non è,
già non gli alberga in seno
amor si nobil fè.

Fa’ ch’ei ritorni mio
Amor com’ei pur fu,
o tu m’ancidi, ch’io
non mi tormenti più.

Né mai più dolci baci
da quella bocca havrà,
né più soavi, ah taci,
taci, che troppo il sa.

Poiché di lui mi struggo,
dove stima non fa,
che sì, che sì ch’io ‘l fuggo
ch’ancor mi pregherà?

Sì tra sdegnosi pianti
sfogava il suo dolor;
sì dei gentili amanti
misto è col gelo amor.

Monteverdi