Eugène Gigout (1844 - 9 dicembre 1925): Grand chœur dialogué in sol maggiore per organo (1881); adattamento per organo, ottoni e percussione di Egil Smedvig. Michael Murray, organo; Empire Brass.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Eugène Gigout: il maestro dell’organo e della Toccata in si minore
Eugène Gigout è stato un celebre organista e compositore francese, nato a Nancy e morto a Parigi. La sua carriera fu caratterizzata da una longevità eccezionale in un ruolo chiave della capitale francese: fu infatti organista titolare della Chiesa di Saint-Augustin a Parigi per ben 62 anni.
Formazione e ruolo didattico
La sua formazione musicale iniziò come corista presso la Cattedrale di Nancy. Studiò poi all’École Niedermeyer di Parigi a partire dal 1857, dove ebbe come illustri maestri Camille Saint-Saëns e Clément Loret. Egli intraprese rapidamente la carriera didattica, diventando professore nella stessa École Niedermeyer dal 1862, insegnando scrittura, pianoforte e organo. Il suo prestigio crebbe a tal punto che nel 1911 succedette ad Alexandre Guilmant alla prestigiosa cattedra d’organo del Conservatorio di Parigi. Gigout era rinomato per la sua abilità come insegnante e fondò anche una sua scuola di musica. La lista dei suoi allievi è notevole e include figure di spicco come Maurice Duruflé, Gaston Bélier, André Marchal, André Messager, Albert Roussel, e suo nipote Léon Boëllmann.
Eredità musicale e stile
Sebbene la sua vasta opera non fosse interamente votata all’organo, Gigout lasciò un repertorio significativo per questo strumento. Dal punto di vista stilistico, le sue composizioni mostrano una scrittura fortemente classica, con un rigoroso rispetto delle regole tradizionali del contrappunto e dell’armonia. Tuttavia, una caratteristica distintiva della sua musica è l’influenza del canto gregoriano, che fungeva da motore melodico in molte delle sue opere. Era inoltre noto per la sua abilità come improvvisatore.
Tra le sue creazioni più celebri per organo si annoverano la Toccata in si minore e lo Scherzo in mi maggiore, entrambi estratti dalle Dix Pièces pour orgue del 1890; la Toccata rimane la sua opera più nota, spesso eseguita come bis nei recital. Fra le altre opere organistiche vanno ricordati il Grand chœur dialogué (1881), alcune collezioni incentrate sul canto piano, come Cent Pièces brèves dans la tonalité du plain-chant (1889) e l’Album grégorien (1895), i Poèmes mystiques (1903) e le Cent Pièces nouvelles (1922).
Vita privata e parentela
Gigout era strettamente legato al mondo musicale anche per via familiare: era sposato con Caroline-Mathilde Niedermeyer, figlia del compositore Louis-Abraham Niedermeyer. Fu inoltre lo zio per matrimonio e il padre adottivo del compositore e organista Léon Boëllmann, che fu anche suo allievo. Eugène Gigout riposa nel cimitero di Montmartre a Parigi, dove è sepolto insieme alla moglie e al nipote Boëllmann.
Il Grand chœur dialogué
Composizione fra le più note di Gigout, in questo arrangiamento assume un carattere ancora più imponente grazie all’integrazione di ottoni e percussioni. Il titolo stesso suggerisce la struttura centrale del brano: l’alternanza e la contrapposizione tra due entità sonore distinte, che in questo caso sono il chœur 1 e il chœur 2, spesso interpretate come il pieno dell’organo contrapposto a un registro più brillante o, in questo adattamento, l’intera orchestra/pieno organo contro un suono più contenuto o solistico.
Il brano si apre con l’indicazione di tempo Allegro moderato quasi maestoso (Allegro moderato, quasi maestoso), che ne definisce immediatamente il carattere solenne e trionfale. L’attacco è imponente, con l’organo che suona a pieno registro (come indicato da ff e dalle annotazioni sullo spartito relative a fonds et anches, registri di fondo e registri ad ancia), sostenuto potentemente dagli ottoni e dalle percussioni che scandiscono il ritmo.
Il tema principale, di natura marziale e assertiva, è dominato da accordi a blocco e da una cascata di semicrome in sottofondo, che danno un senso di grande energia e slancio. Questo blocco sonoro rappresenta la prima “voce” del dialogo.
La struttura dialogica si manifesta chiaramente nelle sezioni successive, dove il volume e la strumentazione si riducono bruscamente. Subito dopo la maestosa affermazione iniziale, il pieno orchestrale si ritira, lasciando spazio alla seconda voce, interpretata principalmente dall’organo con un registro più leggero e brillante. L’attenzione si sposta sulla scrittura virtuosistica in semicrome, che scorrono velocemente tra le tastiere, creando un effetto di brillantezza e agilità, in netto contrasto con l’enfasi del tema precedente.
L’intero ensemble torna poi per riaffermare l’idea del tema principale, ma la sua enfasi è brevemente interrotta da un nuovo passaggio più contenuto (che alterna registri più leggeri) per poi risolversi in una conclusione potente e prolungata della frase, un punto di cadenza.
Il brano procede con l’alternanza dinamica e timbrica dei due “cori”, esplorando diverse sfumature e registri. L’organo solista riprende il ruolo virtuosistico con passaggi rapidi e tecnici, mantenendo un’energia costante (forte dinamico), dimostrando la padronanza della tastiera (tipica della tradizione organistica francese).
Il primo tema ritorna in modo trionfale, ma si evolve presto, venendo sostenuto da una linea melodica più lirica (quasi corale), mentre il sottofondo virtuosistico in semicrome dell’organo continua incessantemente. Si introduce poi una sezione calma e cantabile, dal carattere riflessivo o meditativo, affidata principalmente all’organo con registri dolci, creando un’ulteriore pausa emotiva prima di una ripresa più drammatica.
Il Grand chœur ritorna con una forza ancora maggiore e segue una sezione caratterizzata da ritmi puntati, che conferiscono un’andatura drammatica, quasi militare, con l’uso di fanfara e forti contrasti dinamici, tipici di una fase di sviluppo più intensa, che poi sfocia in una rapida e concitata sequenza in semicrome, preparando al culmine.
L’ultima parte del brano è dedicata alla riaffermazione del tema e a un’esplosione di sonorità. Il virtuosismo dell’organo è portato al massimo con una lunga e tecnicamente impegnativa sezione di scale e arpeggi rapidissimi, interrotti da brevi, potenti interventi del primo tema. L’uso di registri acuti e brillanti amplifica l’effetto di grandezza.
Il brano si avvia alla conclusione con il ritorno definitivo e schiacciante del tema principale. Ottoni, percussioni e organo a pieno registro si uniscono in una celebrazione sonora continua. L’arrangiamento esalta questo momento con la potenza orchestrale del tutti (organo, ottoni e percussioni). L’ultima sequenza armonica e melodica è prolungata e intensificata, culminando in un finale trionfale e definitivo.
Luciano Berio (24 ottobre 1925 - 2003): Circles per voce femminile, arpa e due percussionisti (1960) su testi di e. e. cummings (n. 25, 76 e 221 dei Collected Poems). Anne-May Krüger, mezzosoprano; Estelle Costanzo, arpa; Dino Georgeton e Víctor Barceló, percussioni.
N. 25
stinging
gold swarms
upon the spires
silver
chants the litanies the
great bells are ringing with rose
the lewd fat bells
and a tall
wind
is dragging
the
sea
with
dream
-S
N. 76
riverly is a flower
gone softly by tomb
rosily gods whiten
befall saith rain
anguish
and dream-send is
hushed
in
moan-loll where
night gathers
morte carved smiles
cloud-gloss is at moon-cease
soon
verbal mist-flowers close
ghosts on prowl gorge
sly slim gods stare
N. 221
n(o)w
the
how
dis(appeared cleverly)world
iS Slapped:with;liGhtninG
!
at
which(shal)lpounceupcrackw(ill)jumps
of
THuNdeRB
loSSo!M iN
-visiblya mongban(gedfrag-
ment ssky?wha tm)eani ngl(essNessUn
rolli)ngl yS troll s(who leO v erd)oma insCol
Lide.!high
n , o ;w:
theraIncomIng
o all the roofs roar
drownInsound(
&
(we(are like)dead
)Whoshout(Ghost)atOne(voiceless)O
ther or im)
pos
sib(ly as
leep)
But l!ook-
s
U
n:starT birDs(IEAp)Openi ng
t hing ; s(
-sing
)all are aLI(cry alL See)o(ver All)Th(e grEEn
?eartH)N,ew
« Circles, scritto nel 1960 su domanda di Paul Fromm, fu eseguito per la prima volta nell’agosto di quello stesso anno al Berkshire Music Festival da Cathy Berberian e membri della Boston Symphony Orchestra. Circles elabora musicalmente tre poesie di e. e. cummings che, nell’ordine, presentano gradi diversi di complessità: il n. 25 stinging gold swarms… il n. 76 riverly is a flower… e il n. 221 n(o)w the how dis(appeared cleverly)world…, dai Collected Poems. In Circles i tre poemi appaiono nel seguente ordine: 25-76-221, (221)-76-25. La poesia n. 221 ritorna, a ritroso, su se stessa, mentre le poesie n. 25 e n. 76 appaiono due volte in diversi momenti dello sviluppo musicale.
« Non era certamente nelle mie intenzioni comporre una serie di pezzi vocali con accompagnamento di arpa e percussioni. Mi interessava invece elaborare circolarmente le tre poesie in un’unica forma ove i diversi livelli di significato, l’azione vocale e l’azione strumentale fossero strettamente condizionati e strutturati anche sul piano concreto delle qualità fonetiche. Gli aspetti teatrali dell’esecuzione sono inerenti alla struttura della composizione stessa che è, innanzi tutto, una struttura di azioni: da ascoltare come teatro e da vedere come musica » (Luciano Berio, 1961).
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Luciano Berio: l’architetto sonoro dell’Avanguardia italiana
Radici musicali e interruzione bellica
Nato a Oneglia (Imperia), Berio crebbe in un ambiente profondamente musicale, figlio e nipote di compositori e strumentisti. Ricevette la prima educazione pianistica sotto la guida del padre, Ernesto, sviluppando una solida conoscenza dei classici e tentando le prime composizioni. La sua gioventù fu drammaticamente segnata dall’8 settembre 1943: arruolato nella Repubblica di Salò, egli subì una grave ferita alla mano destra durante un’esercitazione, un evento che lo costrinse a rinunciare al sogno di una carriera da pianista concertista, spingendolo definitivamente verso la composizione. Dopo la fuga dall’ospedale e un periodo di clandestinità, si iscrisse al Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano nel 1945.
La formazione milanese e il ruolo dei mentori
A Milano, Berio si immerse in un ambiente culturale e musicale in pieno fermento post-bellico, scoprendo le avanguardie (Schönberg, Webern, Bartók) e le culture di confine (jazz, popolare). I suoi studi al Conservatorio furono decisivi, in particolare grazie all’eredità contrappuntistica di Giulio Cesare Paribeni e, soprattutto, alla guida di Giorgio Federico Ghedini, che gli trasmise una profonda coscienza storica e una maestria tecnica basata su Stravinskij, Bach e Monteverdi. Nonostante la prima produzione studentesca fosse di impronta artigianale (Concertino, Magnificat), il compositore sviluppò in questi anni cruciali la propria sensibilità per la voce umana e la relazione tra testo e musica, un interesse rafforzato dal matrimonio (1950) con la giovane e brillante studentessa armena Cathy Berberian. L’incontro con la sua futura musa, dotata di un “pluralismo vocale” unico, coincise con l’inizio della sua prima fervida stagione creativa.
La rivoluzione elettronica e l’invenzione dello studio di fonologia
La svolta radicale avvenne nel 1952 durante un soggiorno negli Stati Uniti, dove Berio scoprì la tape-music. Rientrato in Italia, strinse un sodalizio fondamentale con il compositore Bruno Maderna, insieme al quale, nel 1956, fondò lo Studio di fonologia musicale della Rai di Milano. Questo centro divenne un crogiolo di sperimentazione, lontano dalle rigide divisioni europee tra musica concreta ed elettronica. Il periodo milanese fu fecondato anche dall’incontro con Umberto Eco, che contribuì a definire la poetica dell’“opera aperta”, concetto che influenzò profondamente il compositore. Esempi di questa ricerca sulla relazione tra suono, voce ed elettronica sono Thema (Omaggio a Joyce) e il celebre Visage (1961), che utilizza l’elaborazione elettronica di una gamma estrema di gesti vocali non verbali di Berberian.
Il decennio americano e la virtuosità totale
All’inizio degli anni ’60, il compositore iniziò una lunga serie di incarichi didattici negli Stati Uniti (Tanglewood, Mills College, Juilliard School), dove insegnò per sei anni e fondò il Juilliard Ensemble. Nonostante la separazione dalla Berberian, il sodalizio artistico proseguì con opere fondamentali come i Folk songs e, soprattutto, la Sequenza III per voce sola. In questo periodo, Berio sviluppò il ciclo delle Sequenze, composizioni solistiche pensate per esplorare i limiti tecnici, gestuali ed espressivi di strumenti specifici (come la Sequenza I per flauto e la V per trombone, omaggio al clown Grock). Parallelamente, applicò il concetto di re-working e stratificazione, trasformando le Sequenze in opere per ensemble, i Chemins.
Il culmine di questa fase è Sinfonia (1968), un’opera monumentale per otto voci amplificate e orchestra. Celebre per il terzo movimento – un complesso collage sonoro e culturale costruito interamente sullo Scherzo della Seconda Sinfonia di Mahler – l’opera combina riferimenti testuali da Beckett e Lévi-Strauss, rappresentando la coscienza storica e l’eclettismo linguistico di Berio.
Il ritorno in Italia e il laboratorio europeo
Nel 1974 Berio rientrò in Italia, stabilendosi in Toscana, ma i suoi impegni internazionali si intensificarono. Fu chiamato da Pierre Boulez a fondare e dirigere il dipartimento elettroacustico dell’IRCAM a Parigi (1974-80), dove promosse la ricerca su sistemi di trasformazione del suono in tempo reale (come il 4X). Nel frattempo, la sua produzione si orientò verso visioni enciclopediche e antropologiche: Coro (1974-76) è un mosaico di testi e musiche provenienti da culture diverse, con una struttura orchestrale e corale rigorosamente disposta nello spazio. Il rinnovato interesse per il teatro musicale lo portò a collaborare nuovamente con Italo Calvino. Le opere di questo periodo, tra cui La vera storia (1982) e Un re in ascolto (1984), si concentrano sul rifiuto della trama lineare in favore di una narrazione frammentata, riflettendo sulla metafora dell’ascolto e sull’auto-riflessività del teatro stesso.
Istituzioni, memoria e l’eredità finale
Nel 1987 Berio fondò a Firenze Tempo Reale, un centro di ricerca musicale che gli permise di sviluppare ulteriormente la spazializzazione del suono attraverso il sistema multicanale TRAILS (esemplificato in Ofaním). Negli ultimi anni, l’attività creativa si affiancò a crescenti responsabilità pubbliche: tenne le prestigiose Charles Eliot Norton Lectures a Harvard (1993-94) e fu eletto presidente dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia (2000), seguendo attivamente la nascita dell’Auditorium Parco della musica di Roma.
La sua opera matura si caratterizzò per un continuo “dialogo con il passato”, evidente nel “restauro” di frammenti di Schubert in Rendering (1990) e nella controversa nuova conclusione per il terzo atto della Turandot di Puccini (2002). Il compositore concluse il suo lavoro con l’ultima della serie, Sequenza XIV per violoncello, e con Stanze (2002-03), opera per baritono, coro e orchestra terminata poche settimane prima della morte. L’opera, con i suoi richiami alla Shoah e la riflessione profonda sull’idea di Dio, si configura come il suo pacato e commovente congedo.
Circles
Composizione fondamentale nel catalogo di Luciano Berio, Circles rielabora le scoperte sulle potenzialità della voce e del suono fatte dal compositore nel suo precedente lavoro elettronico, Thema (Omaggio a Joyce). Scritta per la sua musa e allora moglie, il mezzosoprano Cathy Berberian, l’opera esplora il legame inscindibile tra significato testuale, gesto vocale, e timbro strumentale, realizzando il concetto di «struttura di azioni: da ascoltare come teatro e da vedere come musica».
La composizione è costruita su un’architettura rigorosamente simmetrica in forma ad arco, A-B-C-B′-A′, che riflette il titolo stesso dell’opera. Berio utilizza tre poesie di e. e. cummings tratte dai Collected Poems (pubblicate con i numeri 25, 76 e 221 rispettivamente).
Grande importanza è data alla disposizione spaziale dei musicisti, un elemento prescritto dalla partitura che sottolinea il carattere teatrale dell’opera. Il mezzosoprano è posizionato al centro, affiancata dall’arpista e dai due percussionisti. La strumentazione è ricca e variegata, con una notevole enfasi su arpa e un esteso set di percussioni, tra cui gong, tam-tam, timpani, marimba, conga, wind chimes e oggetti in legno, tutti disposti in modo circolare attorno alla cantante. Il movimento della cantante sul palco è parte integrante della performance: i momenti di quiete sonora corrispondono a momenti di immobilità fisica, mentre le sezioni più concitate sono accompagnate da gesti ampi, quasi direttoriali, che spesso coinvolgono l’esecuzione di piccoli strumenti a percussione.
La prima sezione si apre con la voce del mezzosoprano in primo piano, che modula la poesia n. 25 con un canto melismatico e quasi operistico. L’arpa interviene con arpeggi eterei e il tono è lirico, sebbene pervaso da un senso di sospensione e attesa. Il ruolo della voce è di esplorare il timbro e le qualità fonetiche del testo di e. e. cummings. Le vocali lunghe sono sostenute, mentre le consonanti e le sibilanti vengono articolate in modo esagerato, talvolta raschiato.
L’entrata della percussione, con vibrazioni metalliche e colpi secchi, interrompe la linea lirica, introducendo una tensione crescente che riflette il significato implicito del testo. La cantante inizia a eseguire lei stessa piccole percussioni, unendo l’azione vocale a quella strumentale e diventando, di fatto, parte dell’ensemble. Il finale della prima sezione A si chiude in un gesto di enfatica sospensione, con il mezzosoprano che si muove al centro e le bacchette alzate in un gesto di direzione drammatica, culminando in un fragore di percussioni che dissolve l’atmosfera lirica.
La sezione B, basata sulla poesia n. 76, introduce un’atmosfera più frammentata e puntillistica: Berio utilizza una vocalità più espressionistica e rapida, in cui le parole vengono spezzate o allungate, e i suoni prendono il sopravvento sul significato letterale. Il mezzosoprano continua a utilizzare i microfoni posizionati sul palco per amplificare i suoi suoni non convenzionali: risate, suoni gutturali e sussurri si mescolano a un canto più tradizionale. La musica diventa densa, con texture timbriche complesse create da una varietà di percussioni esotiche e l’arpa a pedali illuminata. L’equilibrio tra i tre elementi (voce, arpa, percussione) è dinamico e instabile, riflettendo la natura “frammentata” del testo poetico. La sezione si chiude con l’esaurirsi graduale dei suoni.
La sezione centrale dell’arco formale e corrisponde alla poesia n. 221, la più destrutturata e visivamente circolare di e. e. cummings. In questa parte, l’azione scenica è enfatizzata. La performance vocale si concentra sul disfacimento della parola, con la cantante che manipola fisicamente i microfoni per creare effetti di spazializzazione del suono. Il testo, ricco di parentesi e sillabe spezzate, è reso attraverso un’esecuzione che è per metà parlato e per metà cantato, esplorando l’onomatopea e la pura qualità fonetica della lingua. La musica tocca i suoi apici di intensità sonora e teatrale, con esplosioni ritmiche della percussione e l’arpa che contribuisce a un denso sottofondo armonico. La cantante utilizza gesti teatrali ampi e si muove con le mani aperte, quasi a plasmare il suono. Berio infine introduce la ripetizione a ritroso di una parte del testo, un chiaro segnale dell’inizio della simmetria retrograda.
Le sezioni successive B′ e A′ ripropongono i testi delle sezioni precedenti, ma con nuove e diverse elaborazioni musicali.
L’attenzione torna sul testo B, ma in una veste più ritmica e giocosa. L’arpa e la percussione si fanno più virtuosistiche, con un’azione di battiti veloci e precisi che confermano la funzione ritmica e quasi meccanica degli strumenti. La cantante riprende i suoi gesti direttoriali e manipolativi, enfatizzando l’interazione tra i musicisti sul palco. Il mezzosoprano usa gli chimes con un gesto sonoro che chiude la sezione, lasciando il palco.
La parte finale riprende il primo testo in una forma ancora più ridotta e rarefatta. La musica si dissolve in suoni sottili e sospesi, con l’arpa che esegue figure di estrema delicatezza, mentre la cantante canta o sussurra il testo finale con un ritorno alla qualità lirica e meditativa, ma ora con un senso di fragilità estrema.
L’opera si conclude con una lunga dissolvenza sonora, in cui gli strumenti si quietano lentamente, realizzando l’idea del ciclo che si chiude. La performance si trasforma in un evento visivo di “musica vista” e di “teatro dell’ascolto”, dove la cantante, prima al centro dell’azione, alla fine si riunisce in un gesto di congedo con l’ensemble, sancendo il successo della sua esplorazione acustica della vocalità d’avanguardia.
Béla Bartók (1881 - 26 settembre 1945): Musica per archi, percussione e celesta Sz 106, BB 114 (1936; lavoro commissionato da Paul Sacher per celebrare il 10° anniversario dell’ensemble Basler Kammerorchester). RIAS-Symphonie-Orchester, dir. Ferenc Fricsay (registrazione del 1953).
Andante tranquillo
Allegro
Adagio
Allegro molto
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
La Musica per archi, percussione e celesta di Béla Bartók, composta nel 1936, è un capolavoro che esemplifica la maestria del compositore ungherese nell’uso del contrappunto, delle architetture formali simmetriche e di un linguaggio armonico innovativo. L’opera, commissionata da Paul Sacher, è divisa in quattro movimenti, ciascuno con un carattere e una struttura distinti.
Il primo movimento è un perfetto esempio di fuga, in una forma rivisitata dal compositore con la sua personale sensibilità e linguaggio armonico. Il tema d’apertura è introdotto da un’unica viola con la sordina, creando un’atmosfera misteriosa e intimistica. Il carattere “tranquillo” è evidente nella dinamica pianissimo e nell’andamento lento. La sordina, specificata per gli archi, contribuisce a un timbro velato e soffuso, enfatizzando il carattere etereo dell’introduzione.
Il soggetto, chiaramente esposto dalla prima viola, è caratterizzato da intervalli di seconda minore e di tritono, che immediatamente introducono la sonorità dissonante e tesa tipica di Bartók: questi intervalli saranno elementi cardine che genereranno tensione e condurranno lo sviluppo armonico del movimento. Successivamente, il soggetto viene presentato da altri strumenti, ciascuno che entra sul tritono della nota precedente, creando una sensazione di espansione e tensione crescente.
Questo approccio non convenzionale alla fuga, con le voci che entrano su intervalli così distanti, disorienta l’ascoltatore rispetto al tradizionale contrappunto barocco, creando un’atmosfera sospesa e quasi metafisica.
Si assiste poi a un infittirsi delle entrate e un graduale arricchimento della tessitura sonora, con ogni gruppo di archi che presenta il soggetto o una sua risposta, contribuendo a un’espansione del registro e della complessità armonica. La dinamica resta prevalentemente bassa, ma la crescente densità delle voci suggerisce una tensione latente. Segue una progressione in cui le viole e i violini, con le viole prima e il violoncello poi, entrano in maniera contrappuntistica, creando un intarsio di voci che si sovrappongono e si rispondono.
Bartók utilizza un’orchestra di soli archi divisa in gruppi distinti, ma anche all’interno di questi gruppi gli strumenti mantengono una certa individualità timbrica, dando risalto a ogni linea melodica anche quando la tessitura è molto fitta.
Man mano che il movimento si avvicina al suo punto culminante, Bartók inizia a sciogliere le sordine e a incrementare la dinamica con un costante crescendo. L’effetto è un’intensificazione graduale del suono, che da velato diventa sempre più aperto e brillante. L’utilizzo di glissandi negli archi e nel pianoforte aggiunge un senso di movimento inarrestabile e di vertigine, accentuando il pathos emotivo.
Il crescendo culmina in un fortissimo, con l’ingresso di piatti e timpani che rinforzano l’attacco finale, conferendo un’energia dirompente alla coda del movimento. L’impiego delle percussioni in questa fase è cruciale per marcare il climax e per introdurre un elemento di contrasto timbrico.
Dopo il culmine drammatico, il movimento rallenta progressivamente, riducendo la dinamica e ritornando gradualmente alla sonorità con la sordina. La tessitura si dirada e il ritmo si allarga, preparando l’ascoltatore alla conclusione più riflessiva.
La sezione finale è caratterizzata da una sorta di “smaterializzazione” del suono, dove le voci degli archi si attenuano e il timpano suona un ritmo cadenzato ma molto morbido, quasi un battito cardiaco lontano. Questo porta a un finale in pianississimo e poco rallentando con le note, che sembrano dissolversi nell’aria.
Il secondo movimento contrasta nettamente con l’atmosfera introspettiva e severa del primo, ed è caratterizzato da una vitalità ritmica intensa, un’orchestrazione vivace e un costante senso di urgenza.
Esso si apre con un’esplosione di energia, data dall’ingresso percussivo del timpano, con una dinamica in forte e una scansione ritmica quasi ossessiva. A questo si aggiungono immediatamente il pianoforte che presenta il tema principale in un registro acuto e gli archi che entrano con rapide figurazioni pizzicate. Il tema è ritmicamente molto incisivo, il pizzicato degli archi accentua l’effetto ritmico e secco del pianoforte.
Il movimento si sviluppa con un contrappunto serrato e una tessitura orchestrale densa. Qui Bartók prescrive un’esecuzione leggera e giocosa, ma che mantiene comunque una certa vivacità. Vengono utilizzati effetti come gli staccati e i pizzicati negli archi per creare un dialogo serrato tra le diverse sezioni.
Il compositore divide ulteriormente le sezioni degli archi, permettendo a ciascun sottogruppo di contribuire con linee melodiche distinte, creando un effetto di stratificazione sonora. La dinamica rimane robusta, con passaggi in fortissimo e le figurazioni ritmiche si fanno sempre più complesse.
Come nel primo movimento, Bartók costruisce un climax dinamico e strutturale. Gli archi intensificano il suono e si raggiunge l’apice con l’intervento dei piatti e del timpano che martellano ritmi energici, mentre gli archi continuano con figurazioni virtuose e veloci. Segue poi un graduale rallentamento e una diminuzione della dinamica, con gli strumenti che perdono progressivamente la loro intensità, preparando il terreno per la transizione verso il movimento successivo.
Il terzo movimento è un ritorno all’atmosfera meditativa e profonda, ma con un’intensità emotiva ancora maggiore. Presenta un’architettura a ponte o a specchio, tipica di Bartók, dove il centro del movimento è il punto di massima densità e complessità emotiva.
Esso si apre con il ticchettio sinistro del timpano che stabilisce immediatamente un’atmosfera carica di mistero e presagio. Lo xilofono entra subito dopo, esponendo un motivo frammentato e dissonante. Bartók sfrutta l’intera gamma delle percussioni, creando una trama sonora estremamente delicata e suggestiva. Gli archi, anch’essi con la sordina, si uniscono in una progressione ascendente lenta e quasi spettrale, con dinamiche sempre basse.
Il motivo dello xilofono si ripresenta, stavolta in una versione amplificata, con le viole e i violoncelli che tessono un contrappunto denso e intricato. Bartók qui accentua l’uso degli intervalli di tritono e di seconda minore, che rendono l’armonia incerta e ricca di tensione latente. Questa sezione si chiude con un ritorno al registro basso e a dinamiche sommesse.
Il movimento si espande liricamente e Bartók impiega temi più melodici, anche se sempre caratterizzati da una certa malinconia e inquietudine. Le sonorità “con sordina” degli archi continuano a dominare, creando un effetto di suono ovattato e remoto.
Qui il contrappunto si fa più elaborato, con le voci che si imitano e si intrecciano, esplorando l’intera gamma espressiva degli archi. La dinamica subisce variazioni sottili, dal pianissimo al mezzoforte, delineando un paesaggio emotivo in costante cambiamento ma sempre controllato. La celesta e l’arpa, con i loro suoni scintillanti e cristallini, aggiungono un tocco di colore e un senso di magia, come un flebile raggio di luce nell’ombra. Le loro entrate sono spesso associate a glissandi e arpeggi rapidi, che contribuiscono a questa dimensione eterea.
La sezione successiva rappresenta il climax emotivo, dove la tensione raggiunge il suo apice. Qui il tema si espande in tutta la sua potenza, con accordi densi e dissonanti che creano una sensazione di profonda angoscia o, per contro, di liberazione. Il pianoforte e le percussioni (in particolare i piatti) tornano a rinforzare il suono, sottolineando l’importanza di questo passaggio.
Il ritmo poi si frammenta e la musica si avvia verso una sorta di collasso. Vengono impiegati pizzicati violenti e dissonanti, uniti a glissandi che creano un effetto di discesa vertiginosa e di caos. Questa fase, altamente drammatica, prepara il ritorno alla calma.
Si ha una ripresa del materiale tematico della seconda sezione, ma con una veste orchestrale e dinamica ridotta. Il suono torna gradualmente al “con sordino” e le dinamiche si abbassano, mentre gli archi elaborano il tema in modo più intimo e frammentato, creando un’atmosfera di distacco e rassegnazione.
La sezione seguente ripresenta il ticchettio del timpano e i frammenti melodici iniziali, ma con una dinamica ancora più tenue. La musica si dissolve lentamente, con le ultime note degli archi che svaniscono nel silenzio, lasciando un senso di vuoto e di sospensione. Il movimento si conclude come è iniziato, in un’atmosfera misteriosa, ma ora arricchita dall’esperienza emotiva di tutto il percorso.
Con il quarto movimento si ritorna all’energia e alla brillantezza del secondo, ma con un carattere ancora più concitato e virtuosistico. Costituisce la parte più vivace dell’opera, caratterizzata da rapide figurazioni e un contrappunto serrato.
L’apertura è affidata agli archi che eseguono figurazioni in pizzicato, creando un effetto percussivo e scattante. Il timpano e il pianoforte si uniscono immediatamente, rinforzando il ritmo propulsivo e aggiungendo un elemento di energia. Il tema è basato su cellule ritmiche brevi e ripetute, che generano un senso di urgenza e ininterrotto movimento.
Il movimento sviluppa poi il suo carattere virtuosistico attraverso un intricato contrappunto fugato. Le diverse sezioni degli archi si inseguono con grande velocità e precisione, mentre il pianoforte e le percussioni forniscono un sostegno ritmico inarrestabile. La dinamica rimane costantemente alta, con frequenti indicazioni di fortissimo per sottolineare la potenza e la brillantezza dell’esecuzione. Bartók qui utilizza la sua tecnica di “notte della natura”, con suoni quasi selvaggi e primordiali che si mescolano con passaggi di grande chiarezza e trasparenza orchestrale.
Si raggiunge l’apice con un’esplosione di virtuosismo: tutte le sezioni degli archi suonano all’unisono o in densi cluster, creando un suono imponente e massiccio, mentre il pianoforte e le percussioni intervengono con forza, sottolineando gli accenti ritmici e contribuendo a un grande senso di strepitio. Il finale è estremamente rapido, con una scrittura virtuosistica che spinge gli esecutori al limite delle loro capacità.
La cadenza conclusiva è una sintesi di tutto il materiale tematico precedente, con i temi che si ripresentano in un’ultima, grandiosa affermazione. La musica si conclude con un fortissimo secco e deciso, che lascia nell’ascoltatore un senso di potente risoluzione.
Nel complesso, l’opera si distingue per la sua straordinaria forza e originalità. In essa, Bartók riesce a fondere elementi della tradizione contrappuntistica barocca con il suo linguaggio armonico moderno, caratterizzato da dissonanze audaci e strutture simmetriche. L’uso innovativo della strumentazione, in particolare l’integrazione delle percussioni e della celesta con gli archi, crea un universo sonoro unico e affascinante.
Il primo movimento, con la sua forma fugata e la progressione per tritoni, stabilisce immediatamente l’approccio intellettuale e la tensione emotiva dell’opera, mentre il secondo movimento offre un contrappunto ritmico e scherzando. Il terzo, Adagio, approfondisce l’esplorazione emotiva, creando un climax di grande intensità, e infine l’Allegro molto è un trionfo di energia e virtuosismo che riassume e chiude l’opera con una forza travolgente. In conclusione, la capacità del compositore di creare un’architettura formale così coerente e allo stesso tempo così ricca di contrasti emotivi è ciò che rende questa musica un pilastro del repertorio del XX secolo.
Raffaele Gervasio (26 luglio 1910 - 1994): Triplo Concerto per flauto, viola, chitarra, archi e percussioni op. 131, Concerto degli oleandri (1993). Mario Carbotta, flauto; Teresa Laera, viola; Nando Di Modugno, chitarra; Orchestra sinfonica lucana, dir. Vito Clemente.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Raffaele Gervasio, dal Carosello alle sale da concerto: ritratto di un maestro a due volti
Raffaele Gervasio è stato uno dei compositori italiani più versatili del Novecento, capace di muoversi con eguale maestria tra il mondo della “musica pura” (sinfonica e cameristica) e quello della “musica applicata” per radio, cinema e televisione, lasciando un’eredità che spazia dalle celebri sigle popolari a complesse opere orchestrali.
La formazione di un talento
Nato a Bari da Michele Gervasio – noto archeologo e direttore del museo cittadino – il giovane intraprese gli studi musicali nel 1923 presso il Liceo musicale «Niccolò Piccinni» del capoluogo pugliese, dove fu allievo di Cesare Franco (armonia), Italo Delle Cese (pianoforte) e della giovane e talentuosa Gioconda De Vito (violino).
Il suo talento fu presto notato da Amilcare Zanella che, nel 1927, lo volle con sé al Conservatorio «Rossini» di Pesaro, inserendolo nella propria classe di composizione e affidandolo al maestro Chiti per il perfezionamento del violino. Dopo il diploma in violino nel 1929, proseguì gli studi di composizione con Zanella fino al 1931, per poi trasferirsi a Firenze. Qui completò la formazione al Conservatorio «Cherubini» sotto la guida di Vito Frazzi, diplomandosi in composizione nel 1933. La sua sete di conoscenza lo portò a Roma, dove frequentò il corso di perfezionamento di Ottorino Respighi al Conservatorio di Santa Cecilia, ottenendo nel 1936 il premio come miglior allievo. Nello stesso prestigioso istituto, seguì anche il corso di Ernesto Cauda dedicato alla musica per la riproduzione meccanica (cinema, radio, discografia), un’esperienza che si rivelerà fondamentale per la sua futura carriera.
Il successo nella musica applicata: radio, cinema e televisione
Dopo gli studi, Gervasio si dedicò con grande successo alla musica applicata: dal 1940 al 1960 ricoprì il ruolo di direttore musicale della INCOM (Industrie Cortometraggi), per cui sonorizzò centinaia di documentari e cinegiornali con musiche originali e di repertorio. La sua firma divenne sinonimo di riconoscibilità e qualità, legandosi ad alcune delle sigle più iconiche della cultura di massa italiana: dal cinegiornale “Settimana Incom” alla sigla di Voci dal Mondo, che per decenni avrebbe introdotto il GR2, fino alla celeberrima e indimenticabile melodia di Carosello.
Compose musiche di scena per importanti spettacoli di prosa (Francesca da Rimini, Faust, Il mercante di Venezia) e collaborò intensamente con la radio, come nella Ballata italiana (1951) diretta da Franco Ferrara. Un capitolo di particolare rilievo fu il Carosello napoletano, grandioso spettacolo teatrale del 1950 diretto da Ettore Giannini, che gli valse il premio “Maschera d’argento” per la musica. Il successo fu tale che nel 1954 l’opera fu trasposta in un film prodotto dalla Lux Film, le cui musiche, in gran parte originali, furono dirette da Fernando Previtali.
Un altro progetto di grande impatto culturale fu l’album I Canti che hanno fatto l’Italia (1961), prodotto da RCA in occasione delle celebrazioni di Italia 61. L’opera – una raccolta di musiche originali, trascrizioni e rielaborazioni del patrimonio popolare – fu diretta da Franco Ferrara e interpretata da voci celebri. La sua importanza fu sancita dalla RAI, che la scelse per inaugurare le trasmissioni del secondo canale televisivo il 4 novembre 1961.
Il ritorno alla musica “pura”, l’insegnamento e i riconoscimenti
Nonostante i successi nella musica applicata, Gervasio non abbandonò mai la sua vocazione per la composizione pura: già nella seconda metà degli anni Cinquanta riprese a scrivere musica sinfonica e, nel 1961, lasciò definitivamente la INCOM per dedicarsi esclusivamente a questa passione. Gli anni Sessanta furono un periodo di intensa creatività, che vide la nascita di opere fondamentali come il Concerto spirituale (1961), il Preludio e Allegro concertante (1962), il Concerto per violino e orchestra (1966) e la Fantasia per pianoforte (1970), scritta su richiesta del pianista Rudolf Firkušný.
Nel 1967 – su invito dell’amico Nino Rota – accettò la cattedra di composizione al Conservatorio «Piccinni» di Bari. Due anni dopo, nel 1969, assunse la direzione del nuovo Conservatorio «Egidio Romualdo Duni» di Matera, trasformandolo in pochi anni in un’istituzione di riferimento a livello nazionale per le sue didattiche innovative. In questo periodo scrisse anche diversi lavori destinati ai suoi giovani allievi. Dopo essere tornato all’insegnamento a Bari nel 1977, si ritirò definitivamente nel 1980. Il suo prestigio fu coronato nel 1978 con l’elezione ad accademico di Santa Cecilia.
Gli ultimi anni: una prolifica stagione creativa
Libero dagli impegni didattici, Gervasio visse un’ultima, straordinaria stagione creativa, dedicandosi interamente alla composizione. In questo periodo produsse un vasto catalogo di opere cameristiche e orchestrali, tra cui spiccano: Movimenti perpetui per orchestra (1982), l’Ouverture inaugurale per organo e orchestra (1983), il Doppio Concerto per violino, chitarra e archi (1984), la Composizione orchestrale (1986) commissionata dall’Accademia di Santa Cecilia, e il Triplo Concerto degli oleandri (1993). La sua ultima opera furono le Variazioni sulla preghiera del Mosè di Rossini per tromba e organo (1994), sigillo di una vita spesa al servizio della musica in tutte le sue forme.
Il Concerto degli oleandri: analisi
Opera di rara bellezza, si distingue per la peculiare scelta strumentale e per il carattere evocativo e solare. Lontano dalle asprezze e dalle complessità intellettualistiche di molta musica contemporanea del suo tempo, Gervasio crea un affresco sonoro che profuma di Mediterraneo, fondendo la struttura classica del concerto con una sensibilità melodica quasi cinematografica. L’opera, in un unico movimento, si articola in una serie di episodi contrastanti che esplorano le molteplici possibilità timbriche e dialogiche del trio solista.
Il Concerto si apre in un’atmosfera intima e pastorale: la chitarra solista introduce il discorso musicale con una serie di arpeggi delicati e sognanti che stabiliscono immediatamente un clima di serena attesa. Questo preludio chitarristico funge da sipario, aprendo la scena all’ingresso dell’intero ensemble. Gli archi poi entrano con un tappeto sonoro morbido e avvolgente, su cui si innesta il tema principale, una melodia gioiosa, spensierata e dal carattere nettamente danzante, quasi popolaresco. Il tema viene esposto dai tre solisti che agiscono come un’unica entità: il flauto e la viola, spesso procedendo in parallelo, si scambiano e intrecciano le frasi melodiche, mentre la chitarra fornisce un indispensabile sostegno ritmico e armonico con arpeggi brillanti e accordi precisi. La scrittura è trasparente e luminosa, con le leggere percussioni che aggiungono tocchi di luce. In questa sezione, Gervasio presenta i protagonisti non come avversari dell’orchestra, ma come un “concertino” affiatato che dialoga amabilmente su un fondale orchestrale lussureggiante.
Abbandonata la solarità del tema iniziale, il Concerto si inoltra in una sezione di sviluppo più complessa e ricca di contrasti. L’atmosfera si fa più lirica e introspettiva e gli archi introducono una nuova idea tematica, più cantabile e malinconica, mentre i solisti si ritagliano spazi individuali: ascoltiamo un breve ma intenso assolo della viola, seguito da un passaggio più etereo del flauto.
Questo momento di quiete è interrotto da un episodio di grande energia e tensione drammatica: il ritmo si fa più serrato e incalzante, sostenuto dal pizzicato degli archi e da un uso più marcato delle percussioni. I tre solisti si lanciano in passaggi virtuosistici, con scale rapide e figurazioni complesse, a volte all’unisono, a volte in un rapido inseguimento. Questa sezione dimostra la maestria di Gervasio nel creare un forte contrasto dinamico e agogico, mostrando il lato più brillante e tecnicamente impegnativo del trio.
L’orchestra si ritira quasi completamente, lasciando il campo a quella che può essere definita una cadenza collettiva per i tre solisti: è un lungo momento di dialogo intimo, in cui flauto, viola e chitarra esplorano le loro potenzialità timbriche in piena libertà.
La viola emerge con un canto caldo e appassionato, seguita dal flauto con frasi più aeree e sognanti. La chitarra si lancia in un assolo di notevole bellezza, ricco di arpeggi e armonie che evocano sonorità spagnoleggianti, confermando l’ispirazione mediterranea dell’opera. Il dialogo tra gli strumenti è fitto e profondo, un vero e proprio scambio di confidenze musicali prima della conclusione.
Come in una classica forma-sonata, riappare il tema principale danzante dell’esposizione, questa volta presentato con un vigore e una pienezza orchestrale ancora maggiori. Il ritorno di questa melodia solare e riconoscibile infonde un senso di gioia e circolarità, chiudendo il cerchio narrativo del brano.
Dalle fondamenta di questa ripresa si sviluppa la coda finale: la musica acquista progressivamente velocità e intensità, in un crescendo che coinvolge l’intera orchestra. I solisti si esibiscono in un ultimo slancio virtuosistico, spingendo il discorso musicale verso una conclusione brillante, affermativa e piena di energia che si chiude con accordi decisi e perentori.
La vera originalità dell’opera risiede nella geniale fusione timbrica del trio solista; Gervasio riesce a far convivere tre strumenti dalla natura profondamente diversa: il suono aereo e cristallino del flauto, quello caldo, scuro e umano della viola e quello percussivo e armonico della chitarra. Piuttosto che metterli in competizione, li tratta come le tre facce di un unico strumento, un “super-solista” capace di passare da momenti di intimità cameristica a esplosioni di virtuosismo orchestrale. Il concerto è un magnifico esempio della maturità stilistica di Gervasio, un pezzo che, pur radicato nella tradizione formale, parla un linguaggio immediato, melodico e profondamente comunicativo, capace di dipingere con i suoni i colori, la luce e il calore di un paesaggio mediterraneo baciato dal sole.
Mogens Andresen (11 giugno 1945): Good Morning per ottoni e percussione (1994). The Royal Danish Brass Ensemble.
Il brano si fonda sopra un’antica melodia popolare danese, Drømte mig en drøm i nat (La notte scorsa ho fatto un sogno), la cui prima frase musicale è trascritta nel Codex Runicus, un manoscritto compilato attorno all’anno 1300 da un anonimo monaco cisterciense, probabilmente nell’abbazia di Herrevad (fondata nel 1144, si trovava in Scania, regione che fino al 1658 fu soggetta ai re di Danimarca). Si tratta della più antica composizione profana scandinava di cui si abbia notizia.
A partire dal 1931 e per molti anni l’ente radiofonico danese utilizzò l’incipit di Drømte mig en drøm i nat per marcare l’intervallo fra un programma e l’altro: la melodia è dunque molto famosa in Danimarca, e questa è la ragione per cui viene citata da Andresen nel saluto musicale indirizzato ai suoi concittadini – e a tutti gli appassionati di musica.
Anonimo: Drømte mig en drøm i nat, arrangiamento di Phillip Faber. Pernille Rosendahl, voce solista; DR PigeKoret; Henrik Dam Thomsen, violoncello; Phillip Faber, pianoforte e direzione.
Drømte mig en drøm i nat
om silke og ærlig pæl,
Bar en dragt så let og glat
i solfaldets strålevæld,
nu vågner den klare morgen.
Til de unges flok jeg gik,
jeg droges mod sang og dans.
Trøstigt mødte jeg hans blik
og lagde min hånd i hans,
nu vågner den klare morgen.
Alle de andre på os så,
de smilede, og de lo.
Snart gik dansen helt i stå,
der dansede kun vi to,
nu vågner den klare morgen.
Drømte mig en drøm i nat
om silke og ærlig pæl.
Fjernt han hilste med sin hat
og grå gik min drøm på hæld,
nu vågner den klare morgen.
Pierre Boulez (26 marzo 1925 - 2016): Le Marteau sans maître per voce e 6 strumentisti (1954, rev. 1957) su testi di René Char (1907-1988). Ensemble Insomnio, dir. Ulrich Pöhl.
Avant «l’artisanat furieux» per flauto contralto, vibrafono, chitarra e viola
Commentaire I de «bourreaux de solitude» per flauto contralto, xilomarimba, tamburo basco, 2 bongo, tamburo a cornice e viola [2:48]
L’artisanat furieux per voce e flauto contralto [7:53]
La roulotte rouge au bord du clou
Et cadavre dans le panier
Et chevaux de labours dans le fer à cheval
Je rêve la tête sur la pointe de mon couteau le Pérou.
Commentaire II de «bourreaux de solitude» per xilomarimba, vibrafono, zill, agogô, triangolo, chitarra e viola [11:16]
Bel édifice et les pressentiments, version première, per voce, flauto contralto, chitarra e viola [16:23]
J’écoute marcher dans mes jambes
La mer morte vagues par-dessus tête
Enfant la jetée-promenade sauvage
Homme l’illusion imitée
Des yeux purs dans les bois
Cherchent en pleurant la tête habitable.
Bourreaux de solitude per voce, flauto contralto, xilomarimba, vibrafono, maracas, chitarra e viola [21:04]
Le pas s’est éloigné le marcheur s’est tu
Sur le cadran de l’Imitation
Le Balancier lance sa charge de granit réflexe.
Après «l’artisanat furieux» per flauto contralto, vibrafono e chitarra [26:26]
Commentaire III de «bourreaux de solitude» per flauto contralto, xilomarimba, vibrafono, claves, agogô, 2 bongo e maracas [27:42]
Bel édifice et les pressentiments, double, per voce, flauto contralto, xilomarimba, vibrafono, maracas, tam-tam piccolo, gong grave, tam-tam molto grave, piatto sospeso grande, chitarra e viola [34:21]
Matthias Hermann Werrecore (c1500 - p1574): La bataglia taliana (Die Schlacht vor Pavia) a 4 voci (pubblicata per la prima volta nel 1544). Il Terzo Suono, dir. Gian Paolo Fagotto.
Signori e cavalieri d’ingegn’e forza,
Udite la vittoria del Duca
De Milan Francesco Sforza.
All’arm o trombetti, o tamburini,
Li inimici son vicini.
All’arm, butte selle a caval.
Monta a caval.
Tutt’alli stendard inant.
Avant tous gentilz compagnons.
Gente d’arm’a li stendardi.
Su su, fanti, alle bandiere.
Gl’adversari vengon gagliardi.
Via via, caval leggieri.
Gente d’arm’all’ordinieri
Stat’in quella prataria
Capitan e buon guerrieri
De la nobil fantaria.
Da man manch’ardit’ e fieri
In battaglia ciascun stia.
Vivandieri carriazzi saccomani, su via.
Non passate quei sentieri,
Stati strett’in compagnia.
Fulminate cannonieri
Con la vostr’artigliеria.
Scampe da li francois.
Mazza, tocca, dagli o valent’homini milanesi.
Mazza, tocca, dagli Duca.
El gran Duca milanеse
Guard’il ponte
Con la sua gente lombarda.
Sta ben fort’alle contese
Contra si gross’antiguarda
D’assai compagnia francese.
Compagnons, avant, donnes dedans
Frappes dedans, tues ces vilains
France, Marco, gentilz compagnons.
Duca, Italia, mazza francois.
Su, bottiglioni, mazza francois.
Su schiopetti, su archibusi.
Su, su, ché son confusi li francois.
A più non pos passat’il fos.
A dos, mazza, ahi canaglia.
O Nostre Dame, O bon Jesu
Astur nous sommes tous perdus.
Hai poltroni, hai bottiglioni,
Gl’han pur persa la giornata.
Su la peverata, ahi miseri francois.
Scampe da li francois.
O signor’italiani, su ogni alemano
A voi vien la furia amara
D’ogni sguizaro villano.
Scopettier, su spara
Non scargate colp’in vano.
Har, har, raube
Da vir de vir villen latin ruben
Myrher, myrher, perausche
Vir villen chuden rubel binden.
Su alabardieri, urta spezza maglia
Hai vil canaglia
La si sbaraglia mazza taglia.
A los villiacos qui viene a ellos
Qui son rotos hides hechios.
L’è pur vinta la bataglia.
Vittoria, Italia.
Viva il Duca
Con tutta la Italia.
La battaglia di Pavia fu combattuta esattamente cinquecento anni fa, il 24 febbraio 1525. Dopo la rovinosa disfatta, Francesco I di Francia scrisse alla madre Luisa di Savoia: « Madame, de toutes choses ne m’est demeuré que l’honneur et la vie qui est sauve ».
Daniel Rogers Pinkham jr (1923 - 18 dicembre 2006): Concertante per organo, celesta e percussione (1963). Stella O’Neill, organo; Katie Hughes, celesta; Michael Barnes, percussione; Jacob Ottmer, timpani.
Eric Whitacre (1970): Cloudburst per voce recitante, coro, pianoforte e percussione (1991-95) su testo di Octavio Paz (da El cántaro roto, adattato). Brigham Young University Singers, dir. Ron Staheli.
La lluvia,
ojos de agua de sombra,
ojos de agua de pozo,
ojos de agua de sueño.
Soles azules, verdes remolinos,
picos de luz que abren astros
como granadas.
Dime, tierra quemada, ¿no hay agua?
Hay sólo sangre, sólo hay polvo,
¿hay sólo pisadas
de pies desnudos sobre la espina?
La lluvia despierta.
Hay que dormir con los ojos abiertos,
hay que soñar con las manos,
soñemos sueños activos de río buscando su cauce,
sueños de sol soñando sus mundos,
hay que soñar en voz alta,
hay que cantar hasta que el canto eche
raíces, tronco, ramas, pájaros, astros,
hay que desenterrar la palabra perdida
recordar que dicen sangre, la marea,
la tierra y el cuerpo,
volver al punto de partida.
La lluvia.
Isang Yun (17 settembre 1917 - 1995): Ein Schmetterlingstraum per coro misto a 8 voci con percussione ad libitum (1968); testo di Ma Zhiyuan (c1250 - 1321). Groot Omroepkoor; membri del Radio Symfonie Orkest Hilversum, dir. Simon Halsey.
Cento anni di luci e ombre sono come il sogno di una farfalla…
Gioachino Rossini (29 febbraio 1792-1868): Sonata a quattro (2 violini, violoncello e contrabbasso) n. 1 in sol maggiore (1804). Membri dello Slovenský komorný orchester (Orchestra da camera slovacca), dir. Bohdan Warchal.
Moderato
Andantino [8:59]
Allegro [13:35]
Gioachino Rossini: Sonata a quattro n. 6 in re maggiore, La tempesta. Stessi interpreti.
Urban Agnas (1961): Susato Suite.
Si tratta di una serie di brani tratti dal Terzo libriccino di musica (Het derde musyck boexken, noto anche come Danserye) pubblicato da Tielman Susato a Anversa nel 1551, qui arrangiati da Urban Agnas, primo trombettista e leader del complesso di ottoni Stockholm Chamber Brass.
Tielman Susato (c1510-c1570), probabilmente originario di Soest, antico centro anseatico della Vestfalia, si stabilì intorno al 1530 a Anversa, dove avviò poi una proficua attività di stampatore di musica. Il “libriccino” del 1551 è giustamente famoso perché contiene danze strumentali di vario genere: è una delle prime fonti a stampa interamente dedicate alla musica strumentale e testimonia perciò dell’avvenuta emancipazione di quest’ultima (in precedenza gli strumenti erano impiegati pressoché esclusivamente nell’accompagnamento delle voci). Le danze pubblicate da Susato sono in gran parte trascrizioni e adattamenti di celebri composizioni vocali dell’epoca; tutto lascia pensare che l’abile autore di queste rielaborazioni sia lo stesso stampatore, che era anche un buon musicista.
David Lang (8 gennaio 1957): The Anvil Chorus per 1 percussionista (1991). Flavio Tanzi.
« When percussionist Steve Schick asked me to write him a solo piece I wanted to do something that showed percussion’s connection to real life activities. I didn’t want to work with the pretty instruments, like vibraphone or chimes, that were invented so that percussionists could play politely with other musicians. I wanted to write a piece that reminded the listener of the glorious history of percussion — that since the beginning of time people have always banged on things as a result of their professions.
« Then I remembered that I had once read a book on the history of blacksmithing, and I had become particularly interested in how medieval blacksmiths used song to help them in their work. Although small jobs could be accomplished by individual smiths, larger jobs created an interesting problem — how could several smiths hammer on a single piece of metal without getting in each other’s way? Smiths solved this problem by singing songs together which would control the beat patterns of the hammers. There was a different song for each number of participating blacksmiths — obviously, a song that allowed for three hammer strokes would be confusing and even dangerous if used to coordinate four smiths.
« My solo percussion piece The anvil chorus also uses a “melody” to control various beat patterns. The “melody” is played on resonant junk metals of the percussionist’s choosing, and, by adding certain rules, it triggers an odd accompaniment of non-resonant junk metals, played both by hand and by foot » (David Lang)
André Jolivet (1905 - 20 dicembre 1974): Concerto per strumenti a percussione e orchestra. Masako Iguchi, percussione; San Francisco Conservatory of Music Orchestra, dir. Alasdair Neale.
Robuste
Dolent [5:35]
Rapidamente [11:20]
Allégrement [15:95]
Per Jolivet — che ha una concezione molto beethoveniana della figura del compositore, il quale deve assumersi il compito di fare da vera e propria guida morale — la musica è prima di tutto comunione: fra compositore e natura nel momento della composizione, fra compositore e pubblico nel momento dell’esecuzione. Fare musica è “far leva sul sentimento dell’umano”, dando all’arte musicale “il suo senso originale antico, quando era l’espressione magica e incantatrice della religiosità degli uomini”. Jolivet cerca costantemente, lungo l’intero arco della sua attività creativa, di ampliare il linguaggio musicale, senza però perdere mai i profondi agganci con il “sistema cosmico universale”.
Arvo Pärt (11 settembre 1935): Fratres, versione per violino, percussioni e archi (1992). Gil Shaham, violino; Roger Carlsson, percussioni; Göteborgs Symfoniker, dir. Neeme Järvi.
Chén Qígāng (28 agosto 1951): Luan Tan (乱弹), variazioni sinfoniche (2015). Royal Liverpool Philharmonic Orchestra, dir. Alexandre Bloch.
Tema
Variazione n. 1 [1:45]
Variazione n. 2 [4:10]
Variazione n. 3 [5:55]
Variazione n. 4 [7:22]
Variazione n. 5 [9:21]
Variazione n. 6 [11:25]
Variazione n. 7 [13:37]
Variazione n. 8 [15:48]
Variazione n. 9 [18:00]
Variazione n. 10 [18:24]
Variazione n. 11 [18:52]
«Luan tan (letteralmente: musica caotica o note casuali) è uno stile musicale proprio del teatro cinese del XVII secolo, all’epoca della cosiddetta «transizione Ming–Qing» (1618-1683). Rispetto alla consolidata tradizione del teatro kūnqǔ, la musica in stile luan tan era notevolmente più audace, più brusca e tendeva a essere più virtuosistica […]. Se per gli intenditori cinesi l’opera kūnqǔ è sinonimo di eleganza e raffinatezza, luan tan è stilisticamente il suo contrario, molto radicato nelle tradizioni popolari.
«Nel corso degli anni, la mia musica è stata spesso definita “malinconica”, “sentimentale” e “raffinata”. Sicché ho voluto provare a produrre qualcosa di molto diverso dal consueto: in questo senso, la composizione di Luan Tan è stata una specie di battaglia contro me stesso. Elementi che di solito compaiono nei miei lavori, come i prolungati melismi, le melodie suadenti e le armonie sontuose, sono quasi completamente assenti, sostituiti da schemi ritmici iterati, brevi motivi assai spiccati e ripetizioni che si fanno via via più imponenti.
«Dal momento che l’ispirazione stilistica scaturisce dal luan tan, elementi musicali caratteristici del teatro tradizionale cinese sono inevitabilmente presenti nella composizione, nella quale hanno particolare risalto l’uso dei temple-blocks e il contrappunto quasi cacofonico dei piatti cinesi» (Chén Qígāng).
Jean Barraqué (1928 - 17 agosto 1973): Chant après chant per voce, 6 percussionisti e pianoforte (1965-66), testi di Barraqué e Hermann Broch. Jamie Jordan, soprano; University of South Florida Percussion Ensemble: Jacob Dike, Armando Ayala, Kevin Cross, Beran Harp, Amanda Dezee e Christopher Herman; Corey Merenda, pianoforte; dir. Robert McCormick.
Unsuk Chin (14 luglio 1961): Allegro ma non troppo per percussionista e nastro magnetico (1994-98). Solista Ying-Hsueh Chen.
Unsuk Chin: Toccata (Studio per pianoforte n. 5, 2003). Mei Yi Foo, pianoforte.
Unsuk Chin: Mad Tea-Party Ouverture dall’opera Alice in Wonderland (libretto di David Henry Hwang, da Lewis Carroll; 2007). Orchestra Filarmonica di Seul, dir. Myung-Whun Chung.
Percy Grainger (8 luglio 1882 - 1961): In a Nutshell, «Suite for Orchestra, Piano and Deagan Percussion Instruments» (1916). BBC Philharmonic Orchestra, dir. Richard Hickox.
Galina Ivánovna Ustvól’skaja (17 giugno 1919 - 2006): Sinfonia n. 5, Amen, per voce recitante, oboe, tromba, tuba, violino e percussione (1989-90). Sergej Lejferkus, voce recitante; London Musici, dir. Mark Stephenson.
Gérard Grisey (17 giugno 1946 - 1998): Le Temps et l’écume per 4 percussionisti, 2 sintetizzatori e orchestra da camera (1989). Ensemble S; Paulo Alvares e Benjamin Kobler, sintetizzatori; WDR Sinfonieorchester Köln, dir. Emilio Pomarico.
Michael Colgrass (22 aprile 1932 - 2019): Winds of Nagual per fiati e percussione (1985) ispirato da scritti di Carlos Castaneda. University of Michigan Symphony Band, dir. Michael Haithcock.
Morton Subotnick (14 aprile 1933): Parallel Lines per ottavino solista con “ghost electronics”, oboe, clarinetto/clarinetto basso, tromba, trombone, percussione, arpa, viola e violoncello (1979).
« The “ghost” score is a parallel composition to the piccolo solo. The ghost score amplifies and shifts the frequency of the original non-amplified piccolo sound. The two (“ghost” and original piccolo sounds), like a pair of parallel lines, can never touch, no matter how quickly or intricately they move. The work is divided into three large sections: (1) a perpetual-motion-like movement in which all parts play an equal role; (2) more visceral music, starting with the piccolo alone and leading to a pulsating “crying out”, and (3) a return to the perpetual motion activity, but sweeter » (Morton Subotnick).
John Addison (16 marzo 1920 - 1998): Concerto per tromba, archi e percussione (1949). Leon Rapier, tromba; The Louisville Orchestra, dir. Jorge Mester.
Allegretto
Adagio misterioso
Allegro con brio
Addison scrisse molte colonne sonore cinematografiche (Premio Oscar per Tom Jones di Tony Richardson, 1963) e musica per la televisione. La sua composizione più famosa è indubbiamente questa: