Francesco Antonio Bonporti (1672 - 19 dicembre 1749): Concerto a quattro in re maggiore op. 11 n. 8 (c1715). I Virtuosi Italiani.
Allegro
Largo [4:13]
Vivace [7:49]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Francesco Antonio Bonporti: il gentiluomo musico tra ambiti e sonate
La vita di Francesco Antonio Bonporti, compositore e sacerdote trentino dalla solida formazione intellettuale, fu segnata da una costante, ma frustrata, ambizione di ottenere un prestigioso incarico a corte.
Formazione e carriera iniziale
Nato a Trento nel 1672, Bonporti intraprese un percorso di studi rigoroso, passando dagli studi umanistici nel seminario locale alla fisica e metafisica presso l’università di Innsbruck (1688-91). Trasferitosi a Roma nel 1691, studiò teologia presso il Collegio germanico, ma coltivò contemporaneamente la musica sotto la guida di maestri come Ottavio Pitoni e, forse per il violino, Arcangelo Corelli o il suo allievo Matteo Fornari. Dopo l’ordinazione sacerdotale (1697), il compositore tornò a Trento, dove ottenne due benefici ecclesiastici nella cattedrale. Benché si firmasse «dilettante di musica», la sua fama di compositore si diffuse rapidamente in Europa, a partire dalla pubblicazione della sua opera prima (Sonate a tre) a Venezia nel 1696.
La ricerca infruttuosa di patrocinio e status
Bonporti dedicò gran parte della sua vita a tentativi volti a migliorare la propria posizione sociale e professionale, cercando invano di passare da beneficiato a canonico ordinario della Cattedrale di Trento. Per questo obiettivo utilizzò le proprie composizioni come strumenti di appello politico e diplomatico. Esempi di questa strategia includono la dedicazione di opere con titoli politicamente significativi, come Il trionfo della Grande Alleanza (opera ottava, perduta) o La Pace (opera decima), rivolti a sollecitare il favore di figure potenti come il principe elettore di Magonza o l’imperatore Carlo VI d’Asburgo. Questi nel 1727 lo nominò “familiare aulico”, un titolo che fu spesso frainteso dai biografi, i quali erroneamente credettero che Bonporti lavorasse presso la corte di Vienna. In realtà, egli rimase per quarant’anni nel suo modesto ruolo nella Cattedrale di Trento. Nonostante l’ultima vana richiesta di canonicato a Maria Teresa d’Austria nel 1746, il compositore morì a Padova nel 1749, dopo essersi ritirato in pensione (giubilazione) nel 1740.
Il catalogo musicale e l’evoluzione stilistica
La produzione di Bonporti è prevalentemente strumentale, articolata in dodici opere pubblicate che spaziano dalle sonate a tre al concerto solistico.
Le prime opere, come l’opera prima, ricalcano le sonate da chiesa di stile corelliano. Successivamente, nelle Sonate da camera (op. II, IV, VI), il compositore sviluppa uno stile più libero e cantabile, dove la linea melodica è affidata prevalentemente al primo violino. L’opera terza (Motetti a canto solo) si collega invece al genere della cantata di scuola romana e napoletana, evidenziando una forte attenzione all’espressione del testo attraverso l’armonia.
A partire dal 1707, egli si concentra su brani per violino solo, raggiungendo la piena maturità stilistica con le Invenzioni a violino solo (Opera decima, 1712). I Concerti a quattro (Opera XI) occupano infine una posizione unica nel periodo, abbandonando la struttura “a terrazze” del concerto grosso corelliano in favore di una sinfonia concertante, dove le parti dialogano in parità, con una scrittura decisamente polifonica.
Riconoscimento postumo e il caso Bach
La qualità della musica di Bonporti è testimoniata da un singolare episodio: quattro delle sue Invenzioni (Opera X) furono copiate da Johann Sebastian Bach a scopo di studio e, a causa di un errore editoriale del XIX secolo, vennero per lungo tempo incluse nel catalogo delle opere del Kantor di Lipsia. Le sue ultime composizioni, i Concertini e serenate (Opera XII), sono invece brani estesi che uniscono virtuosismo e cantabilità, caratterizzati da recitativi di intensa espressività.
Nonostante sia stato a lungo trascurato dalla critica, l’opera del compositore è stata oggetto di rinnovato interesse negli ultimi decenni, in gran parte grazie agli studi e alle riesumazioni del musicologo Guglielmo Barblan.
Il Concerto a quattro in re maggiore
Il brano si colloca in un affascinante periodo di transizione stilistica tra il robusto concerto grosso barocco corelliano e l’emergente concerto solistico. Come suggerito dagli studiosi, Bonporti non adotta pienamente la contrapposizione netta tra concertino e ripieno, preferendo una struttura che si avvicina alla sinfonia concertante, dove tutti gli strumenti partecipano al dialogo musicale con un alto grado di parità.
Il primo movimento è un Allegro vivace e ritmicamente propulsivo, tipico del Barocco maturo. Esso si apre con un tema principale marcatamente ritmico e incisivo, dominato dal profilo ascendente degli archi. L’inizio è caratterizzato dall’impiego del pieno organico orchestrale (tutti), che stabilisce saldamente la tonalità di re maggiore. L’andamento è brillante, con rapide figure di semicrome che generano grande energia.
Ha poi inizio un serrato dialogo tra le singole parti: a differenza di molti concerti grossi coevi, dove il gruppo di solisti (il concertino) si distingue nettamente dall’orchestra (ripieno), qui l’interazione è più fluida e si notano passaggi virtuosistici che vengono scambiati tra i violini primi e secondi, mantenendo un tessuto sonoro ricco e polifonico.
La musica si evolve attraverso sezioni più distese, caratterizzate da armonie che esplorano tonalità vicine. Le linee melodiche continuano a essere distribuite tra le voci superiori, spesso con figurazioni rapide e arpeggiate che mettono in mostra l’abilità tecnica degli strumentisti. Dopo una sezione centrale complessa, si verifica un ritorno del tema principale, con una ripresa energica che riporta alla tonalità di impianto. Il movimento si conclude con una reiterazione delle frasi tematiche, ribadendo il carattere festoso e dinamico dell’Allegro.
Il movimento centrale, Largo, offre un profondo contrasto emotivo e timbrico rispetto al movimento precedente. La tonalità si sposta verso una regione vicina più malinconica. Il carattere è meditativo e lirico, mentre le dinamiche sono generalmente più contenute. Il violino prende il centro della scena, con una linea melodica espressiva e ornata, tipica del linguaggio solistico del periodo. L’accompagnamento degli altri strumenti è discreto, fornendo un supporto armonico essenziale che enfatizza la cantabilità del violino. L’attenzione si sposta dall’interazione ritmica a una profonda espressività melodica.
Bonporti mantiene l’interesse variando sottilmente la melodia e introducendo tensioni armoniche. Nonostante l’andamento lento, ci sono momenti di intensità emotiva, spesso creati attraverso dissonanze risolte dolcemente o passaggi cromatici, che accrescono il senso di introspezione. Il movimento si chiude con una riaffermazione della serenità iniziale, preparando l’ascoltatore per il finale virtuosistico. Una cadenza perfetta conclude il brano con grazia e compostezza.
L’ultimo movimento, Vivace, ripristina l’energia e il virtuosismo del primo, concludendo il concerto con brio. Il movimento si lancia in un ritmo serrato e veloce, tornando al re maggiore brillante. Il tema è agile e giocoso, con figurazioni di crome e semicrome che richiamano la vivacità delle danze.
La trama musicale è densa, con passaggi rapidi che richiedono grande coordinazione all’ensemble. C’è un forte senso di moto perpetuo, dove l’energia ritmica non si placa. Le frasi vengono scambiate rapidamente, mantenendo la natura “a quattro” del concerto. Inframezzate all’energia principale, compaiono brevi momenti di maggiore cantabilità o di minore intensità, che fungono da respiro prima di reintrodurre la spinta motoria: questi contrasti dinamici e ritmici sono fondamentali per evitare la monotonia del tempo veloce.
Segue una sezione di elevato tecnicismo, con scalette e figurazioni veloci eseguite all’unisono o in imitazione stretta tra i violini. L’elemento distintivo di Bonporti, ovvero l’attiva scrittura polifonica, è particolarmente evidente qui, creando un effetto di turbinio orchestrale. Il movimento si dirige verso la sua conclusione con una ritmica intensificazione: le ultime battute sono un’affermazione conclusiva e perentoria della tonalità di impianto, chiudendo il pezzo con la tipica brillantezza e risolutezza del Barocco italiano.
Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Sonata per viola e pianoforte op. 147 (1975). Rémi Pelletier, viola; Philip Chiu, pianoforte.
Aria: Moderato
Scherzo: Allegretto [9:23]
In ricordo del grande Beethoven: Adagio [16:32]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Sonata per viola e pianoforte op. 147
Si tratta dell’ultima, commovente dichiarazione artistica di Šostakovič: completata poche settimane prima della morte e dedicata al violista Fëdor Družinin, questa composizione è un profondo viaggio introspettivo che riassume una vita di lotte, ricordi e, infine, di trascendenza.
Il primo movimento – che il compositore descrisse come una “novella” – si apre in modo enigmatico e quasi spettrale: la viola introduce il discorso con un arpeggio pizzicato, solitario e interrogativo, che vaga nell’aria come un pensiero sospeso. Questa scelta timbrica, che evoca l’inizio del Concerto per violino di Alban Berg, stabilisce immediatamente un’atmosfera di introspezione e fragilità. L’entrata del pianoforte non offre conforto, ma piuttosto una linea austera e quasi scheletrica, che si muove in un contrappunto scarno con la viola. La sezione centrale del movimento vede un aumento dell’agitazione e il dialogo si fa più denso e serrato, quasi a rappresentare il riaffiorare di ricordi più turbolenti. Tuttavia, la tensione non esplode mai completamente, ma si ripiega su sé stessa, ritornando alla desolazione iniziale. Il movimento si conclude come era iniziato, con il ritorno del tema pizzicato della viola, lasciando l’ascoltatore con un senso di quiete rassegnata, ma non di piena risoluzione.
Il secondo movimento cambia radicalmente atmosfera, catapultandoci in una danza grottesca e sardonica, tipica dello stile del compositore: basato su materiale proveniente dalla sua opera incompiuta I giocatori, questo Allegretto è uno scherzo macabro, pieno di energia frenetica e tagliente ironia. La viola è protagonista di una serie di tecniche percussive e aspre, come il colpo d’arco secco e i passaggi veloci e scattanti, che conferiscono al suono un carattere quasi scheletrico. Il pianoforte risponde con un accompagnamento ostinato e martellante, creando un ritmo incalzante che non lascia respiro. L’interazione tra i due strumenti è un gioco di inseguimenti e scontri, una parodia di una danza popolare che sembra costantemente sul punto di deragliare: non è una musica gioiosa, ma una risata amara, un commento sarcastico sulle follie della vita, eseguito con una lucidità quasi spietata.
Il finale, un Adagio, è il cuore emotivo e testamentario dell’opera: Šostakovič lo definì “luminoso e chiaro”, un omaggio a Beethoven che si trasforma in una profonda meditazione sulla vita, la morte e la memoria musicale. Il movimento si apre in un’atmosfera rarefatta, quasi ultraterrena, con il pianoforte che stabilisce un tappeto sonoro di accordi distanziati e risonanti, mentre la viola intona una melodia lunga, cantabile e infinitamente triste. Poi, emerge inconfondibile il celebre arpeggio della Sonata al chiaro di luna di Beethoven, non come una citazione diretta, ma come un ricordo lontano, un fantasma sonoro che aleggia sulla composizione: questo riferimento non è solo un omaggio, ma un ponte tra due epoche e due anime tormentate.
Da questo punto, il movimento si evolve in un incredibile flusso di coscienza musicale: Šostakovič intreccia frammenti tematici dei due movimenti precedenti con una serie di auto-citazioni dalle sue quindici sinfonie, creando un collage di memorie della sua intera vita creativa. L’ascoltatore non ha bisogno di riconoscere ogni singolo riferimento per percepire la portata di questo gesto, in quanto si parla di un compositore al termine della sua vita che guarda indietro, ripercorrendo il proprio cammino artistico con una lucidità struggente. Il movimento si spegne lentamente, con la viola che sale verso il registro acuto, fino a svanire in un pianissimo etereo. Le ultime note, sospese nel silenzio, non rappresentano una fine tragica, ma una sorta di ascensione, un passaggio verso un’altra dimensione: è la conclusione perfetta di un’opera che non è solo l’ultimo lavoro del compositore, ma il suo epitaffio musicale, un addio sereno e profondo al mondo e alla musica stessa.
Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Quartetto per archi n. 3 in fa maggiore op. 73 (1946). Quartetto Borodin.
Allegretto
Moderato con moto [6:50]
Allegro non troppo [12:13]
Adagio [16:35]
Moderato [23:06]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Quartetto per archi n. 3 in fa maggiore op. 73
Composto nel 1946, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e prima delle nuove purghe staliniste del 1948, l’opera rivela una straordinaria profondità psicologica e complessità strutturale. La tonalità è spesso instabile, riflettendo un mondo che ha perso le proprie certezze. La suddivisione in cinque movimenti, anziché i tradizionali quattro, permette a Šostakovič di costruire un arco narrativo epico: per la prima esecuzione – per evitare accuse di “formalismo” – il compositore diede ai movimenti dei sottotitoli programmatici che tracciano una sorta di “storia di guerra”.
Il Quartetto si apre in un’atmosfera di ingannevole serenità: il primo violino introduce un tema principale quasi infantile, una melodia spensierata e saltellante in una chiara tonalità di fa maggiore. Il dialogo tra il primo violino e il violoncello è giocoso, quasi una conversazione amichevole. La forma-sonata è chiaramente delineata: dopo il primo tema, emerge un secondo tema più lirico e cantabile, ma ancora immerso in un’aura di innocenza.
Lo sviluppo introduce le prime ombre: l’armonia si fa più complessa e cromatica, e il tema principale viene frammentato e trattato in modo più aspro, passando attraverso tonalità minori. La ripresa riporta il tema iniziale, ma la sua innocenza è ormai perduta e suona quasi come un ricordo forzato di una felicità passata. La coda accelera in un crescendo frenetico e si conclude con una serie di accordi secchi e perentori, che spazzano via ogni traccia della spensieratezza iniziale. La catastrofe non è ancora arrivata, ma la sua ombra si è proiettata in modo inequivocabile.
Il secondo movimento cambia radicalmente atmosfera: è uno scherzo spettrale, costruito su un ostinato della viola, sommesso e meccanico, che il violista esegue con una precisione glaciale, quasi disumana. Su questo tappeto sonoro, il violoncello introduce un pizzicato che suona come una minaccia in punta di piedi. L’inquietudine è palpabile e i violini entrano con melodie acute e lamentose, suonate “sul ponticello” per ottenere un suono vitreo e snervante.
La dinamica rimane per lunghi tratti in un pianissimo carico di tensione, che il quartetto gestisce con un controllo magistrale del suono: questa quiete è spezzata da improvvisi scoppi di violenza (fortissimo), brontolii che squarciano il silenzio. Il movimento non offre alcuna risoluzione e l’anticipazione della tragedia cresce costantemente, fino a dissolversi nel nulla, lasciando l’ascoltatore in uno stato di profonda ansia.
Senza alcuna pausa, il terzo movimento esplode con una violenza inaudita: tutti e quattro gli strumenti all’unisono martellano un tema brutale, dissonante e dal ritmo motoristico. Questa è la rappresentazione sonora della guerra: una macchina inarrestabile di distruzione. Le frasi sono brevi, spezzate e il tessuto musicale è saturo di dissonanze stridenti.
In un momento tipicamente šostakoviciano, il primo violino emerge con una melodia quasi banale, quasi una marcetta da circo, suonata sopra il caos implacabile degli altri strumenti: questo crea un effetto grottesco e terrificante, come se la follia della guerra avesse cancellato ogni logica. Il movimento culmina in un climax assordante, un collasso sonoro totale che rappresenta l’apice della devastazione. Lentamente, dalle macerie, emerge il tema della passacaglia del movimento successivo, introdotto prima dalla viola e dal violoncello.
Il quarto movimento, collegato attacca al precedente, è il cuore emotivo del Quartetto: è una passacaglia, una serie di variazioni su un basso ostinato. Il tema, esposto dal violoncello con un suono profondo e dolente, è una melodia di lutto e desolazione. Sopra questo tema ripetuto, gli altri strumenti intessono i loro lamenti: prima la viola con una melodia nuda e sofferente, poi il secondo violino e infine il primo, il quale si spinge al registro sovracuto, suonando pianissimo, come un pianto lontano e disperato. La musica è rarefatta, piena di silenzi che pesano quanto le note. È un vasto paesaggio di rovina e perdita, un requiem per le vittime della catastrofe. Il movimento non si conclude, ma si dissolve in un etereo armonico del primo violino, una nota fragile e sospesa che ci conduce direttamente al finale.
L’ultimo movimento s’inizia con una ripresa del tema apparentemente innocente del primo movimento, ma ora suonato dalla viola e dal violoncello in modo scarno, quasi scheletrico. L’innocenza è stata completamente prosciugata dalla tragedia e la domanda “perché?” è implicita in questa melodia svuotata.
Questo movimento è una sintesi e una riflessione sull’intero percorso del Quartetto: i temi dei movimenti precedenti riaffiorano come frammenti di memoria. Questi ricordi si scontrano, si interrompono a vicenda, senza trovare una sintesi o una risposta. Il primo violino tenta più volte di ristabilire la melodia iniziale, ma viene sempre interrotto o la sua melodia si dissolve. La lotta per trovare un senso è vana. Nell’ultima pagina, il tema del primo movimento ritorna per l’ultima volta, ma suonato pizzicato, come un fragile ricordo che si sta spegnendo. L’opera si conclude su un accordo di fa maggiore, ma è una conclusione ambigua, priva di trionfo: è una pace vuota, la pace di un cimitero e le ultime note pizzicate del violoncello suonano come l’eco finale dell’eterna domanda, lasciata senza risposta.
Louis Gruenberg (3 agosto 1884 - 1964): Vier Indiskretionen per quartetto d’archi op. 20 (1924). The Ebony Quartet: Marleen Asberg e Anna De Vey Mestdagh, violini; Roland Krämer, viola; Daniel Esser, violoncello.
Allegro con spirito
Lento sostenuto e espressivo [4:01]
Moderato grazioso e delicato [7:01]
Allegro giocoso [9:12]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Da Schoenberg a Hollywood: l’incredibile viaggio di Louis Gruenberg
Louis Gruenberg è stato un compositore e pianista russo-americano la cui opera ha attraversato mondi musicali apparentemente distanti, dall’avanguardia europea al cinema di Hollywood, passando per il jazz e il grande repertorio operistico.
Introduzione e formazione di un talento transatlantico
Nato vicino a Brest-Litovsk (allora in Russia) nel 1884, Gruenberg emigrò con la famiglia negli Stati Uniti quando aveva pochi mesi. Cresciuto a New York, dimostrò un talento precoce per il pianoforte, studiando con Adele Margulies al Conservatorio nazionale, all’epoca diretto da Antonín Dvořák. La sua formazione fu completata in Europa, dove divenne allievo del celebre pianista e compositore Ferruccio Busoni al Conservatorio di Vienna. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale si affermò come pianista concertista e accompagnatore di talento.
L’affermazione come compositore d’avanguardia e pioniere del jazz
La svolta nella sua carriera di compositore avvenne nel 1919, quando la sua opera orchestrale The Hill of Dreams vinse il prestigioso Premio Flagler, che gli permise di dedicarsi interamente alla composizione. In questo periodo, Gruenberg sviluppò un profondo interesse per il jazz e il ragtime, integrandone ritmi e armonie nelle proprie opere. Divenne una figura centrale nella scena musicale d’avanguardia di New York, unendosi all’International Composers’ Guild (ICG) fondata da Edgard Varèse. Fu un convinto promotore della musica contemporanea, dirigendo la “prima” americana del rivoluzionario Pierrot Lunaire di Arnold Schoenberg nel 1923. A seguito di divergenze con Varèse, fondò insieme ad altri la League of Composers, consolidando il ruolo di leader nel panorama della musica moderna americana.
Il successo operistico e accademico
Il culmine della sua carriera teatrale fu raggiunto nel 1933 con la prima della sua opera espressionista The Emperor Jones, basata sul dramma di Eugene O’Neill. Messa in scena al Metropolitan, con il baritono Lawrence Tibbett nel ruolo del protagonista (in blackface), ottenne un enorme successo di critica, tanto da meritare la copertina della rivista “Time”. Negli anni successivi Gruenberg diresse il Dipartimento di composizione del Chicago Musical College (1933-36) e collaborò con personalità quali il regista Pare Lorentz e lo scrittore John Steinbeck.
La carriera a Hollywood: tra riconoscimenti e controversie
Nel 1937 il compositore si trasferì a Beverly Hills, unendosi a una comunità di esuli e compositori europei che includeva Schoenberg e Stravinskij. Iniziò una prolifica carriera nel cinema, ma non senza complessità. Lavorò alla colonna sonora del capolavoro di John Ford Ombre rosse (Stagecoach, 1939) ma, pur essendo a capo del team di compositori, inspiegabilmente non fu incluso nella lista dei candidati all’Oscar, che il film vinse per la miglior colonna sonora. Ottenne tuttavia due nomination per altrettante partiture originali: So Ends Our Night (1941), un omaggio alla cultura musicale austro-tedesca e Commandos Strike at Dawn (1942), per cui fu chiamato a sostituire Igor’ Stravinskij, il cui lavoro fu scartato perché completato prima ancora che il film fosse girato.
Il Concerto per violino e gli anni della lista nera
Nel 1944 Gruenberg raggiunse un altro importante traguardo nel mondo della musica classica: il leggendario violinista Jascha Heifetz gli commissionò il Concerto per violino op. 47, un brano vibrante e virtuosistico che fu inciso da Heifetz in quella che divenne un’esecuzione di riferimento. Nel dopoguerra, la carriera a Hollywood di Gruenberg proseguì con film importanti come All The King’s Men (1949), per cui ottenne una nomination al Golden Globe. Tuttavia, la sua carriera cinematografica si interruppe bruscamente nel 1950: si presume che le sue frequenti collaborazioni con sceneggiatori e registi finiti sulla lista nera di Hollywood durante il maccartismo abbiano portato al suo allontanamento dall’industria cinematografica.
Ultimi anni, eredità e riscoperta
Negli ultimi vent’anni della sua vita, Gruenberg si ritrovò sempre più isolato sia dal mondo del cinema che da quello della musica da concerto, pur mantenendo una stretta amicizia con Schoenberg. Non smise mai di comporre, lasciando un vasto catalogo di opere, tra cui cinque sinfonie e quattro opere complete. Morì a Los Angeles nel 1964. Caduto in un relativo oblio per decenni, il suo lavoro ha visto poi una rinascita di interesse: in particolare, il Concerto per violino è stato riscoperto e riproposto al pubblico dal violinista Koh Gabriel Kameda a partire dal 2002, riportando l’attenzione su una delle figure più versatili e ingiustamente trascurate della musica del XX secolo.
Le Quattro Indiscrezioni: analisi
L’opus 20 costituisce una rappresentazione perfetta dello stile eclettico e audace di Gruenberg. Il titolo suggerisce un approccio irriverente alle convenzioni, una volontà di mescolare linguaggi musicali considerati all’epoca incompatibili. Le quattro Indiscrezioni rivelano una profonda conoscenza della tradizione europea, una sincera passione per l’avanguardia espressionista e l’irresistibile fascino che i ritmi sincopati del jazz esercitavano su Gruenberg. L’opera è un microcosmo della sua identità di compositore transatlantico, capace di sintetizzare il rigore accademico con l’energia della musica popolare.
Il primo movimento è un’esplosione di energia nervosa e motoria: si apre senza preamboli con un motivo ritmico incisivo e martellante che funge da cellula generatrice per l’intero brano. La scrittura è densa e contrappuntisticamente complessa, con le quattro voci che si intrecciano in un dialogo serrato e a tratti aggressivo.
L’influenza del jazz è immediatamente percepibile: Gruenberg utilizza ritmi fortemente sincopati, quasi ragtime, soprattutto nella parte del violoncello che spesso abbandona il suo ruolo melodico per fornire un impulso percussivo e ostinato, a volte in pizzicato, che ricorda una linea di basso walking bass. L’indicazione “con spirito” è interpretata come una vitalità irrequieta, quasi meccanica, che anticipa certi aspetti del neoclassicismo di Stravinskij o del futurismo.
L’armonia è spigolosa e costantemente dissonante: sebbene non si tratti di una dodecafonia rigorosa, Gruenberg si muove liberamente in un’atonalità che genera una tensione continua. Le linee melodiche sono frammentate, spezzate e passano rapidamente da uno strumento all’altro, evitando la cantabilità tradizionale. Emergono brevi oasi più liriche, ma vengono subito travolte dal flusso ritmico inarrestabile.
Il movimento è costruito su contrasti dinamici e di densità: a sezioni di grande impeto, eseguite con forza da tutto il quartetto, si alternano momenti più rarefatti e sommessi, dove emergono dialoghi più intimi tra due strumenti. La conclusione è brusca e affermativa, sigillando un’apertura dirompente e piena di carattere.
Con il secondo movimento, si viene proiettati in un universo sonoro completamente diverso: questa sezione è il cuore emotivo e lirico dell’opera, un brano di profonda introspezione che rivela l’influenza dell’espressionismo della seconda Scuola di Vienna, in particolare di Schoenberg, di cui Gruenberg fu un grande promotore.
Il movimento si apre con un lungo e toccante canto solitario della viola, la cui melodia cromatica e dolente stabilisce immediatamente un’atmosfera di malinconia e desiderio. Questa linea melodica, piena di inflessioni espressive, è il fulcro del brano. Gradualmente, gli altri strumenti entrano, costruendo un tessuto sonoro denso e avvolgente.
L’armonia è ricca, satura di cromatismi e tensioni che non si risolvono mai completamente, creando un senso di struggimento continuo. La scrittura è caratterizzata da un contrappunto imitativo molto fitto, dove frammenti della melodia principale vengono ripresi e sviluppati dalle altre voci. L’apice emotivo viene raggiunto con l’ingresso del primo violino su un registro acutissimo, un lamento lancinante che sovrasta il denso intreccio armonico sottostante.
Qui si può anche notare un uso magistrale della dinamica, con lunghi crescendo che portano a climax di grande intensità, seguiti da improvvisi subito piano che riportano a un’atmosfera di intimità e riflessione. È un pezzo che richiede una sensibilità e un controllo del suono eccezionali, mettendo in luce l’anima tardo-romantica del compositore.
Il terzo movimento funge da scherzo, un intermezzo leggero e spiritoso che offre un momento di respiro dopo l’intensità del Lento. Qui l’”indiscrezione” sta nel giustapporre una sorta di danza spettrale e ironica tra due movimenti di grande peso drammatico.
Il carattere è elusivo e quasi impalpabile: Gruenberg ottiene questo effetto attraverso un uso quasi costante del pizzicato in tutte le parti, trasformando il quartetto d’archi in uno strumento a corde pizzicate che ricorda un mandolino o un clavicembalo surreale. L’indicazione grazioso e delicato è perfettamente resa da questa scelta timbrica.
Il movimento ha il vago andamento di una danza, forse un valzer distorto o una polka ironica: le melodie sono brevi, frammentarie e scherzose, rimbalzando tra gli strumenti con leggerezza, mentre l’atmosfera è quella di un carillon meccanico e un po’ inquietante, rimandando a certe pagine di Satie o di Ravel.
L’uso della sordina è un altro elemento chiave, che attutisce ulteriormente il suono e contribuisce all’atmosfera sognante e distante. L’interazione tra gli strumenti è giocosa, basata su rapidi scambi di brevi figure ritmiche e melodiche, in un perfetto esempio di scrittura arguta e sofisticata.
Il finale è una danza travolgente e rustica, che riprende l’energia del primo movimento ma la incanala in una direzione più popolare e giocosa: è una conclusione che celebra il vigore ritmico con un tocco di esuberanza quasi selvaggia.
Il movimento è dominato da un’energia ritmica inarrestabile, basata su ostinati percussivi e un andamento che ricorda una danza popolare dell’Europa orientale o una tarantella frenetica. Il violoncello e la viola forniscono una base ritmica potente e quasi barbarica, mentre i violini si lanciano in passaggi virtuosistici e melodie taglienti.
A differenza del primo movimento, il cui modernismo era più astratto, qui si avverte un chiaro sapore folk: le melodie – pur inserite in un contesto armonico dissonante – hanno inflessioni modali e un andamento che evoca la musica tradizionale. Questa fusione tra un linguaggio armonico moderno e un materiale tematico di matrice popolare è una delle cifre stilistiche più interessanti di Gruenberg.
Il brano impegna severamente i quattro interpreti: richiede grande precisione ritmica e agilità tecnica. La struttura rapsodica presenta sezioni susseguentisi in un crescendo di velocità e intensità fino alla coda finale, che accelera in un vortice sonoro inarrestabile per poi concludersi con accordi secchi e decisi, ponendo fine all’opera con un’affermazione di vitalità incontenibile.
Fabrizio de Rossi Re (1° agosto 1960): Ricercare primo per arpa e quartetto d’archi (2004). Claudia Antonelli, arpa; Enesemble Algoritmo (Francesco Peverini e Manfred Croci, violini; Gabriele Croci, viola; Matteo Maria Zurletti, violoncello), dir. Marco Angius.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Fabrizio de Rossi Re: un cosmonauta nel mondo della musica
Fabrizio de Rossi Re è un compositore italiano la cui opera si distingue per un’eccezionale apertura a diverse esperienze artistiche, fuse in uno stile multiforme ma sempre personale e riconoscibile. La sua musica riesce a conciliare i linguaggi della ricerca sperimentale con una comunicazione diretta, posizionandolo come una figura unica nel panorama musicale contemporaneo.
Formazione e carriera accademica
Fabrizio de Rossi Re ha compiuto gli studi presso il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, dove si è diplomato sotto la guida di Mauro Bortolotti (composizione) e Raffaello Tega (strumentazione per banda). La sua formazione è stata arricchita da incontri significativi con figure di spicco del mondo musicale, tra cui il pianista jazz Umberto Cesari, Sylvano Bussotti presso la Scuola di Fiesole, Salvatore Sciarrino ai corsi di perfezionamento di Città di Castello e una proficua collaborazione con Luciano Berio, che gli ha commissionato diverse composizioni. Membro dell’associazione Nuova Consonanza dal 1986, egli ha ricoperto il ruolo di presidente di giuria in numerosi concorsi internazionali di composizione ed esecuzione musicale. La sua carriera accademica lo ha visto insegnare nei conservatori di Pesaro, L’Aquila, Bologna e Fermo. Dal 2021 è docente presso il Conservatorio di Perugia. Ha inoltre tenuto corsi e stage di perfezionamento in composizione musicale applicata alla didattica, allo spettacolo e alla multimedialità in prestigiose istituzioni.
Lo stile: tra sperimentazione e comunicazione
La cifra stilistica di Fabrizio de Rossi Re è caratterizzata da un’esplorazione a 360 gradi che accoglie e coniuga esperienze musicali eterogenee: descritto come «una sorta di cosmonauta che gira attorno al mondo della musica con antenne sensibilissime», il compositore trasfigura stimoli sonori, gestuali e antichi attraverso il filtro della sua personalità. La sua musica è costantemente in bilico tra l’eredità della sperimentazione e la volontà di una comunicazione diretta con l’ascoltatore. Questa duplice natura si riflette nella capacità di assimilare diverse tecniche musicali, dalla tradizione colta al jazz, e di integrare le lezioni delle avanguardie del Novecento in un linguaggio autonomo. Il compositore – mantenendo il gusto per l’impatto sonoro tipico dell’esecutore – dimostra come sia possibile un ascolto gratificante e non banale, rendendo compatibili universi musicali differenti.
Una prolifica produzione artistica
Autore prolifico ed eseguito a livello internazionale, Fabrizio de Rossi Re ha dedicato una particolare attenzione al teatro musicale e a una vasta gamma di generi, dalle opere radiofoniche alle composizioni sinfoniche e cameristiche.
La sua produzione teatrale include opere come Biancaneve, ovvero il perfido candore (1993), su libretto proprio; Cesare Lombroso o il corpo come principio morale (2001) e Musica senza cuore (2003), un’azione musicale grottesca tratta dal libro Cuore, che ha visto la partecipazione di Paola Cortellesi. Tra i lavori più recenti si annoverano King Kong, amore mio (2011), Animali fantastici (2019) – su testi di Leonardo da Vinci – e Magic Circles. Storia di Martin W. che sapeva contare le stelle (2022), con Vinicio Marchioni come protagonista. Spesso è anche interprete al pianoforte nelle proprie opere di teatro musicale da camera, come nel ciclo Canti di cielo e terra e in Cantopinocchio (con Simona Marchini), La scoperta dell’America (con Massimo Wertmüller) e Il Quaderno di Sonia (con Sonia Bergamasco).
Per Rai-Radio Tre ha composto diverse opere radiofoniche, tra cui Terranera (1994) – su testo di Valerio Magrelli e con la regia di Giorgio Pressburger – e Vox in bestia. Gli animali della Divina Commedia (Inferno), selezionato per il Prix Europa 2022. Ha ricevuto anche importanti commissioni da istituzioni come l’Accademia nazionale di Santa Cecilia, per cui ha scritto Rappresentatione per strumenti antichi, coro e orchestra (2001), e la Fondazione Musica per Roma, per la quale ha composto Terror vocis (2009). Altre commissioni di rilievo includono lavori per l’Orchestra «Toscanini» di Parma e l’Orchestra di Losanna.
La sua vasta produzione cameristica è infine eseguita costantemente in Italia e all’estero: tra i brani più significativi si segnalano il Ricercare per clavicembalo e archi, scritto per il quartetto d’archi dei Berliner Philharmoniker (2004), Rondò di notte, su commissione del Teatro La Fenice di Venezia (2014), e Arpie (dal canto XIII dell’Inferno di Dante) (2020). Per la danza ha composto L’ombra dentro la pietra, una produzione di Romaeuropa Festival (1996) e del Teatro Hebbel di Berlino (1997).
Il Ricercare Primo: analisi
Fin dal titolo questa composizione dichiara la propria duplice natura: un omaggio a una forma antica, il ricercare, trasfigurata attraverso una sensibilità e un linguaggio prettamente contemporanei.
Il brano si apre in un’atmosfera sospesa e rarefatta: non c’è un tema definito, ma un dialogo esitante tra gli archi. Un violino solo introduce una linea melodica frammentata, quasi un lamento, a cui rispondono gli altri strumenti del quartetto con note lunghe e armonie diafane. La scrittura è contrappuntistica e moderna e le voci si intrecciano senza una chiara gerarchia, creando un tessuto sonoro che evoca attesa e introspezione: è il paesaggio prima dell’evento, la quiete che precede la tempesta. L’arpa tace, lasciando che gli archi costruiscano lentamente una tensione armonica sottile ma persistente. Questa introduzione funge da prologo, presentando il materiale cellulare e l’ambiente emotivo da cui scaturirà l’intera narrazione musicale.
La sezione successiva è introdotta da un cambiamento radicale di carattere: il ritmo si fa più serrato e concitato. L’arpa entra in scena con una serie di arpeggi e glissandi rapidissimi, assumendo un ruolo da protagonista virtuosistico. Il quartetto d’archi risponde con figurazioni ritmiche secche e frammentate, inclusi pizzicati e colpi d’arco decisi, creando un dialogo serrato e conflittuale. La scrittura esplora timbri moderni: gli archi utilizzano tecniche come il sul ponticello per produrre suoni stridenti e metallici, quasi a evocare il ruggito del mostro marino nel dipinto. L’arpa non è solo melodia, ma diventa percussione e colore, con passaggi di estrema agilità che si intrecciano in un vortice sonoro. Il culmine di questa sezione è un climax di straordinaria potenza drammatica: il quartetto esplode in accordi dissonanti e aggressivi, mentre l’arpa li travolge con un glissando fragoroso. Immediatamente dopo, la musica si dissolve in un silenzio quasi totale, lasciando solo gli armonici eterei degli archi e i delicati arpeggi dell’arpa, come polvere che si deposita dopo la battaglia.
Da questa quiete emerge la sezione più lirica e cantabile del brano: il tempo rallenta e l’atmosfera si trasfigura in una bellezza celestiale e sognante. L’arpa introduce un tema melodico dolce e malinconico, mentre il quartetto d’archi la sostiene con accordi lunghi e morbidi, creando un tappeto sonoro caldo e avvolgente. Il dialogo tra gli strumenti è qui di pura empatia: la melodia passa fluidamente dall’arpa agli archi, che la sviluppano con un’intensità crescente ma sempre contenuta. Questa sezione è un’oasi di pace, un momento di contemplazione e sollievo che contrasta nettamente con la violenza precedente. La scrittura di Fabrizio de Rossi Re dimostra qui la sua capacità di creare un’emozione diretta e gratificante, senza mai cadere nella banalità.
L’ultima parte del brano è una celebrazione energica e gioiosa: il carattere muta ancora una volta in una sorta di danza stilizzata dal sapore neo-barocco. Il ritmo diventa il motore principale, con figurazioni ostinate e scattanti che si rimbalzano tra l’arpa e il quartetto. Questo finale ha la struttura di una toccata virtuosistica, in cui tutti gli strumenti partecipano a un gioco contrappuntistico brillante e festoso. L’energia cresce in un crescendo inarrestabile, culminando in una serie di accordi potenti e ribattuti che portano a una cadenza finale di grande impatto. Tuttavia, de Rossi Re sorprende l’ascoltatore con una coda inaspettata: invece di concludere trionfalmente, la musica si dissolve improvvisamente. L’energia si spegne, lasciando spazio agli stessi armonici acuti e ai suoni evanescenti dell’arpa sentiti dopo il climax della lotta. Il brano non si chiude, ma si smaterializza, svanendo in un silenzio carico di risonanze, come un mito che si ritira nell’eco del tempo.
Raffaele Gervasio (26 luglio 1910 - 1994): Triplo Concerto per flauto, viola, chitarra, archi e percussioni op. 131, Concerto degli oleandri (1993). Mario Carbotta, flauto; Teresa Laera, viola; Nando Di Modugno, chitarra; Orchestra sinfonica lucana, dir. Vito Clemente.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Raffaele Gervasio, dal Carosello alle sale da concerto: ritratto di un maestro a due volti
Raffaele Gervasio è stato uno dei compositori italiani più versatili del Novecento, capace di muoversi con eguale maestria tra il mondo della “musica pura” (sinfonica e cameristica) e quello della “musica applicata” per radio, cinema e televisione, lasciando un’eredità che spazia dalle celebri sigle popolari a complesse opere orchestrali.
La formazione di un talento
Nato a Bari da Michele Gervasio – noto archeologo e direttore del museo cittadino – il giovane intraprese gli studi musicali nel 1923 presso il Liceo musicale «Niccolò Piccinni» del capoluogo pugliese, dove fu allievo di Cesare Franco (armonia), Italo Delle Cese (pianoforte) e della giovane e talentuosa Gioconda De Vito (violino).
Il suo talento fu presto notato da Amilcare Zanella che, nel 1927, lo volle con sé al Conservatorio «Rossini» di Pesaro, inserendolo nella propria classe di composizione e affidandolo al maestro Chiti per il perfezionamento del violino. Dopo il diploma in violino nel 1929, proseguì gli studi di composizione con Zanella fino al 1931, per poi trasferirsi a Firenze. Qui completò la formazione al Conservatorio «Cherubini» sotto la guida di Vito Frazzi, diplomandosi in composizione nel 1933. La sua sete di conoscenza lo portò a Roma, dove frequentò il corso di perfezionamento di Ottorino Respighi al Conservatorio di Santa Cecilia, ottenendo nel 1936 il premio come miglior allievo. Nello stesso prestigioso istituto, seguì anche il corso di Ernesto Cauda dedicato alla musica per la riproduzione meccanica (cinema, radio, discografia), un’esperienza che si rivelerà fondamentale per la sua futura carriera.
Il successo nella musica applicata: radio, cinema e televisione
Dopo gli studi, Gervasio si dedicò con grande successo alla musica applicata: dal 1940 al 1960 ricoprì il ruolo di direttore musicale della INCOM (Industrie Cortometraggi), per cui sonorizzò centinaia di documentari e cinegiornali con musiche originali e di repertorio. La sua firma divenne sinonimo di riconoscibilità e qualità, legandosi ad alcune delle sigle più iconiche della cultura di massa italiana: dal cinegiornale “Settimana Incom” alla sigla di Voci dal Mondo, che per decenni avrebbe introdotto il GR2, fino alla celeberrima e indimenticabile melodia di Carosello.
Compose musiche di scena per importanti spettacoli di prosa (Francesca da Rimini, Faust, Il mercante di Venezia) e collaborò intensamente con la radio, come nella Ballata italiana (1951) diretta da Franco Ferrara. Un capitolo di particolare rilievo fu il Carosello napoletano, grandioso spettacolo teatrale del 1950 diretto da Ettore Giannini, che gli valse il premio “Maschera d’argento” per la musica. Il successo fu tale che nel 1954 l’opera fu trasposta in un film prodotto dalla Lux Film, le cui musiche, in gran parte originali, furono dirette da Fernando Previtali.
Un altro progetto di grande impatto culturale fu l’album I Canti che hanno fatto l’Italia (1961), prodotto da RCA in occasione delle celebrazioni di Italia 61. L’opera – una raccolta di musiche originali, trascrizioni e rielaborazioni del patrimonio popolare – fu diretta da Franco Ferrara e interpretata da voci celebri. La sua importanza fu sancita dalla RAI, che la scelse per inaugurare le trasmissioni del secondo canale televisivo il 4 novembre 1961.
Il ritorno alla musica “pura”, l’insegnamento e i riconoscimenti
Nonostante i successi nella musica applicata, Gervasio non abbandonò mai la sua vocazione per la composizione pura: già nella seconda metà degli anni Cinquanta riprese a scrivere musica sinfonica e, nel 1961, lasciò definitivamente la INCOM per dedicarsi esclusivamente a questa passione. Gli anni Sessanta furono un periodo di intensa creatività, che vide la nascita di opere fondamentali come il Concerto spirituale (1961), il Preludio e Allegro concertante (1962), il Concerto per violino e orchestra (1966) e la Fantasia per pianoforte (1970), scritta su richiesta del pianista Rudolf Firkušný.
Nel 1967 – su invito dell’amico Nino Rota – accettò la cattedra di composizione al Conservatorio «Piccinni» di Bari. Due anni dopo, nel 1969, assunse la direzione del nuovo Conservatorio «Egidio Romualdo Duni» di Matera, trasformandolo in pochi anni in un’istituzione di riferimento a livello nazionale per le sue didattiche innovative. In questo periodo scrisse anche diversi lavori destinati ai suoi giovani allievi. Dopo essere tornato all’insegnamento a Bari nel 1977, si ritirò definitivamente nel 1980. Il suo prestigio fu coronato nel 1978 con l’elezione ad accademico di Santa Cecilia.
Gli ultimi anni: una prolifica stagione creativa
Libero dagli impegni didattici, Gervasio visse un’ultima, straordinaria stagione creativa, dedicandosi interamente alla composizione. In questo periodo produsse un vasto catalogo di opere cameristiche e orchestrali, tra cui spiccano: Movimenti perpetui per orchestra (1982), l’Ouverture inaugurale per organo e orchestra (1983), il Doppio Concerto per violino, chitarra e archi (1984), la Composizione orchestrale (1986) commissionata dall’Accademia di Santa Cecilia, e il Triplo Concerto degli oleandri (1993). La sua ultima opera furono le Variazioni sulla preghiera del Mosè di Rossini per tromba e organo (1994), sigillo di una vita spesa al servizio della musica in tutte le sue forme.
Il Concerto degli oleandri: analisi
Opera di rara bellezza, si distingue per la peculiare scelta strumentale e per il carattere evocativo e solare. Lontano dalle asprezze e dalle complessità intellettualistiche di molta musica contemporanea del suo tempo, Gervasio crea un affresco sonoro che profuma di Mediterraneo, fondendo la struttura classica del concerto con una sensibilità melodica quasi cinematografica. L’opera, in un unico movimento, si articola in una serie di episodi contrastanti che esplorano le molteplici possibilità timbriche e dialogiche del trio solista.
Il Concerto si apre in un’atmosfera intima e pastorale: la chitarra solista introduce il discorso musicale con una serie di arpeggi delicati e sognanti che stabiliscono immediatamente un clima di serena attesa. Questo preludio chitarristico funge da sipario, aprendo la scena all’ingresso dell’intero ensemble. Gli archi poi entrano con un tappeto sonoro morbido e avvolgente, su cui si innesta il tema principale, una melodia gioiosa, spensierata e dal carattere nettamente danzante, quasi popolaresco. Il tema viene esposto dai tre solisti che agiscono come un’unica entità: il flauto e la viola, spesso procedendo in parallelo, si scambiano e intrecciano le frasi melodiche, mentre la chitarra fornisce un indispensabile sostegno ritmico e armonico con arpeggi brillanti e accordi precisi. La scrittura è trasparente e luminosa, con le leggere percussioni che aggiungono tocchi di luce. In questa sezione, Gervasio presenta i protagonisti non come avversari dell’orchestra, ma come un “concertino” affiatato che dialoga amabilmente su un fondale orchestrale lussureggiante.
Abbandonata la solarità del tema iniziale, il Concerto si inoltra in una sezione di sviluppo più complessa e ricca di contrasti. L’atmosfera si fa più lirica e introspettiva e gli archi introducono una nuova idea tematica, più cantabile e malinconica, mentre i solisti si ritagliano spazi individuali: ascoltiamo un breve ma intenso assolo della viola, seguito da un passaggio più etereo del flauto.
Questo momento di quiete è interrotto da un episodio di grande energia e tensione drammatica: il ritmo si fa più serrato e incalzante, sostenuto dal pizzicato degli archi e da un uso più marcato delle percussioni. I tre solisti si lanciano in passaggi virtuosistici, con scale rapide e figurazioni complesse, a volte all’unisono, a volte in un rapido inseguimento. Questa sezione dimostra la maestria di Gervasio nel creare un forte contrasto dinamico e agogico, mostrando il lato più brillante e tecnicamente impegnativo del trio.
L’orchestra si ritira quasi completamente, lasciando il campo a quella che può essere definita una cadenza collettiva per i tre solisti: è un lungo momento di dialogo intimo, in cui flauto, viola e chitarra esplorano le loro potenzialità timbriche in piena libertà.
La viola emerge con un canto caldo e appassionato, seguita dal flauto con frasi più aeree e sognanti. La chitarra si lancia in un assolo di notevole bellezza, ricco di arpeggi e armonie che evocano sonorità spagnoleggianti, confermando l’ispirazione mediterranea dell’opera. Il dialogo tra gli strumenti è fitto e profondo, un vero e proprio scambio di confidenze musicali prima della conclusione.
Come in una classica forma-sonata, riappare il tema principale danzante dell’esposizione, questa volta presentato con un vigore e una pienezza orchestrale ancora maggiori. Il ritorno di questa melodia solare e riconoscibile infonde un senso di gioia e circolarità, chiudendo il cerchio narrativo del brano.
Dalle fondamenta di questa ripresa si sviluppa la coda finale: la musica acquista progressivamente velocità e intensità, in un crescendo che coinvolge l’intera orchestra. I solisti si esibiscono in un ultimo slancio virtuosistico, spingendo il discorso musicale verso una conclusione brillante, affermativa e piena di energia che si chiude con accordi decisi e perentori.
La vera originalità dell’opera risiede nella geniale fusione timbrica del trio solista; Gervasio riesce a far convivere tre strumenti dalla natura profondamente diversa: il suono aereo e cristallino del flauto, quello caldo, scuro e umano della viola e quello percussivo e armonico della chitarra. Piuttosto che metterli in competizione, li tratta come le tre facce di un unico strumento, un “super-solista” capace di passare da momenti di intimità cameristica a esplosioni di virtuosismo orchestrale. Il concerto è un magnifico esempio della maturità stilistica di Gervasio, un pezzo che, pur radicato nella tradizione formale, parla un linguaggio immediato, melodico e profondamente comunicativo, capace di dipingere con i suoni i colori, la luce e il calore di un paesaggio mediterraneo baciato dal sole.
Ferdinand David (1810 - 19 luglio 1873): Sestetto per archi (3 violini, viola, 2 violoncelli) in sol maggiore op. 38 (c1860). Steve’s Bedroom Band.
Molto Allegro ed espressivo
Adagio ma non troppo [7:11]
Allegretto grazioso e vivace [13:07]
Finale: Molto Allegro agitato ed appassionato [17:58]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Ferdinand David: l’arco di Mendelssohn e l’anima del Romanticismo
Ferdinand David viene ricordato come una figura centrale nella vita musicale di Lipsia del XIX secolo, stretto collaboratore di Felix Mendelssohn e influente insegnante.
Un virtuoso in viaggio: dalla formazione alla fama
Ferdinand Ernst Victor Carl David nacque ad Amburgo in una famiglia ebraica. Sebbene inizialmente avesse intrapreso studi di disegno, la sua vera vocazione si rivelò essere la musica. La sua formazione come violinista fu di altissimo livello: tra il 1823 e il 1824 studiò a Kassel sotto la guida di due maestri d’eccezione, il celebre violinista Louis Spohr e il teorico Moritz Hauptmann.
La sua carriera professionale iniziò nel 1826 come violinista al Königsstädtisches Theater di Berlino. Fu qui che strinse amicizia con il violoncellista Johann Benjamin Groß e venne accolto dalla famiglia di Felix Mendelssohn-Bartholdy, dando inizio a un legame che avrebbe segnato la sua vita. Dal 1829, ricoprì il prestigioso ruolo di primo violino nel quartetto d’archi privato del nobiluomo Carl Gotthard von Liphart a Dorpat (l’odierna Tartu, in Estonia), che gli permise di intraprendere tournée di successo a Riga, San Pietroburgo e Mosca.
La svolta decisiva avvenne nel 1836: quando il quartetto si sciolse, l’amico Mendelssohn lo chiamò a Lipsia per affidargli due ruoli di massima importanza: Konzertmeister (primo violino) del Gewandhausorchester e primo violino del celebre Quartetto Gewandhaus. A partire dal 1843, divenne anche un influente insegnante di violino presso il Conservatorio di Lipsia, formando una generazione di musicisti, tra cui Alexander Ritter, August Wilhelmj e, per un breve periodo, il leggendario Joseph Joachim. L’amicizia con Mendelssohn culminò nella composizione del Concerto per violino in mi minore op. 64, scritto appositamente per David, che ne fu il primo, storico interprete.
Sfera privata e legami familiari
La vita personale di David fu altrettanto ricca: nel 1828 si convertì dalla fede ebraica a quella protestante. Uomo inserito nel tessuto culturale della sua epoca, nel 1836 divenne membro della loggia massonica Minerva zu den drei Palmen di Lipsia.
Nello stesso anno sposò Sophie von Liphart, figlia del suo ex mecenate di Dorpat, consolidando così un legame professionale in uno familiare. La coppia ebbe cinque figli che raggiunsero l’età adulta (e altri tre che morirono prematuramente), i quali si distinsero in vari campi: Isabella sposò un diplomatico collaboratore di Bismarck, Paul seguì le orme paterne diventando violinista e direttore musicale in Inghilterra; Helene, Ottilie e Anna Maria si unirono a famiglie di spicco.
Il talento musicale era una caratteristica diffusa nella famiglia David: anche le sorelle Marie-Louise e Therese furono apprezzate pianiste concertiste.
L’eredità musicale: tra composizione e riscoperta
Come compositore, David si colloca stilisticamente tra il tardo Classicismo e il primo Romanticismo. La sua produzione include cinque concerti per violino, vari pezzi da concerto e opere per strumenti a fiato. Paradossalmente, il suo brano oggi più eseguito non è per violino, ma il Concerto per trombone op. 4, divenuto un pezzo d’obbligo nel repertorio di ogni trombonista. Compose anche due sinfonie e un’opera comica, Hans Wacht (1852), lavori purtroppo perduti; si narra che David stesso abbia distrutto l’opera dopo la prima, giudicandola «orribile».
Un aspetto fondamentale della sua eredità è il suo lavoro di revisore ed editore: David curò edizioni critiche di opere violinistiche di compositori barocchi come Veracini e Locatelli e pubblicò per l’editore C.F. Peters l’integrale dei trii per pianoforte di Beethoven. La sua revisione più celebre e duratura è quella delle Sonate e Partite per violino solo di Johann Sebastian Bach (1843), che ha influenzato generazioni di violinisti.
La fine improvvisa sulle Alpi svizzere
La vita di David si concluse in modo tragico e inaspettato: il 18 luglio 1873, durante un’escursione sulle Alpi svizzere verso il ghiacciaio del Silvretta, fu colpito da un infarto fatale. Morì alla presenza della figlia Isabella.
Il Sestetto per archi op. 38: analisi
Lavoro di grande fascino e impeto, merita un posto di rilievo nel repertorio del Romanticismo tedesco. Sebbene David sia oggi ricordato principalmente come violinista virtuoso e dedicatario del celebre Concerto di Mendelssohn, questo Sestetto rivela un compositore di notevole talento, capace di fondere la chiarezza formale classica con una profonda sensibilità romantica. La scelta di una strumentazione insolita – tre violini, una viola e due violoncelli – conferisce al brano una sonorità unica: più brillante e agile nel registro acuto grazie ai tre violini e, allo stesso tempo, più ricca e profonda nel registro grave per la presenza dei due violoncelli.
Il primo movimento è un esempio magistrale di forma-sonata, permeato da un’energia e un lirismo che ricordano da vicino lo stile di Mendelssohn e Schumann. Il brano si apre senza preamboli con un tema vigoroso e affermativo in sol maggiore: è un’idea eroica, basata su un arpeggio ascendente che trasmette un senso di slancio e ottimismo. La strumentazione è piena e compatta, con i sei strumenti che contribuiscono a creare un suono quasi orchestrale. Una sezione di transizione energica, caratterizzata da scale ascendenti e un dialogo serrato tra i violini, modula abilmente verso la tonalità della dominante. In re maggiore, emerge il secondo tema, di carattere “espressivo” come indicato dal titolo: è una melodia cantabile e dolcemente malinconica, affidata principalmente al primo violino che si libra sopra un accompagnamento più delicato degli altri strumenti. Questo contrasto tra l’energia del primo tema e il lirismo del secondo è un caposaldo della forma-sonata classica, qui reinterpretato con sensibilità romantica. L’esposizione si conclude con una ripresa dell’energia iniziale e, come da tradizione, viene interamente ripetuta.
Lo sviluppo esplora le potenzialità drammatiche del primo tema: i frammenti melodici vengono frammentati, rielaborati e passati tra i vari strumenti in un gioco contrappuntistico teso e dinamico. L’armonia si fa più instabile, esplorando tonalità minori e creando momenti di forte tensione drammatica, quasi tempestosa.
La ripresa riporta il primo tema in sol maggiore con rinnovato vigore, mentre il secondo tema viene riproposto, come da manuale, nella tonalità d’impianto, apparendo ora più risolto e sereno. Una coda brillante e concisa conclude il movimento con affermazioni decise e un senso di trionfante compimento.
Il secondo movimento è il cuore emotivo del sestetto, un “canto senza parole” di straordinaria bellezza e intimità. Strutturato in forma ternaria (ABA), contrappone una melodia serena a una sezione centrale più inquieta. La prima sezione – in do maggiore (sottodominante) – vede il primo violino introdurre una melodia sublime, calma e contemplativa, sostenuta da un accompagnamento morbido e corale degli altri archi. La melodia passa poi con eleganza al primo violoncello, creando un dialogo intimo e toccante tra i registri estremi dell’ensemble. L’indicazione “ma non troppo” è fondamentale: il tempo è scorrevole, evitando ogni pesantezza. L’atmosfera cambia radicalmente: la musica si sposta in la minore e il carattere si fa più teso e appassionato. L’accompagnamento diventa più agitato, con l’uso di tremoli e figure ritmiche più incalzanti che creano un senso di ansia e turbamento, un’ombra passeggera sulla serenità iniziale. Il tema principale ritorna, ancora più espressivo e ornato, riportando un senso di pace e risoluzione. La coda è un progressivo dissolversi del suono: un delicato pizzicato nel registro grave accompagna gli ultimi frammenti melodici, portando il movimento a una conclusione eterea e sospesa.
Il terzo movimento è uno scherzo brillante e spiritoso, che mette in luce la maestria tecnica di David e la sua capacità di creare tessiture leggere e scintillanti. Il tema principale è un motivo saltellante e giocoso, caratterizzato da un ritmo puntato e da un uso diffuso dello staccato: evoca immediatamente il mondo fantastico ed “elfico” degli scherzi di Mendelssohn. I tre violini si scambiano veloci arabeschi e passaggi virtuosistici, creando un effetto di leggerezza e brillantezza. La sezione centrale offre un netto contrasto. Il ritmo si distende in una melodia più fluida e cantabile, simile a un Ländler (danza popolare austriaca). L’atmosfera diventa più rustica e bonaria, un momento di quiete pastorale prima del ritorno dell’energia dello scherzo. Lo scherzo viene ripetuto integralmente, seguito da una breve e arguta coda che conclude il movimento con un guizzo di umorismo.
Il finale è un tour de force di energia drammatica e virtuosismo: la forma è un rondò-sonata che segue un percorso emotivo dal tumulto alla liberazione gioiosa. Il movimento si lancia in un tema principale in sol minore, furioso e incalzante. L’indicazione “agitato ed appassionato” è perfettamente rappresentata da scale veloci e ritmi martellanti. Il primo episodio contrastante introduce una melodia più lirica in si bemolle maggiore, sebbene mantenga un sottofondo di urgenza. Dopo la ripresa del tema principale, il movimento entra in una sezione di sviluppo dove il materiale tematico viene elaborato con grande intensità contrappuntistica. Il culmine drammatico arriva con la transizione, in cui l’armonia lotta per liberarsi dal modo minore. Il tema principale poi irrompe trionfalmente in un sol maggiore radioso: la trasformazione da “agitato” a eroico è completa. Il sestetto si lancia in una coda travolgente, in cui la velocità e l’intensità aumentano fino a un finale brillante e affermativo, sigillando l’opera con un’esplosione di gioia e virtuosismo.
Johann Friedrich Reichardt (1752 - 27 giugno 1814): Trio per archi in fa minore op. 4 n. 2 (1773). Trio Agora: Margarete Adorf, violino; Andreas Gerhardus, viola; Mathias Hofmann, violoncello.
Allegro moderato
Andante molto cantabile [4:48]
Un poco vivace [7:05]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Johann Friedrich Reichardt: vita e opere di un genio inquieto tra Illuminismo e Romanticismo
Insigne compositore e musicografo tedesco, Johann Friedrich Reichardt visse e operò in un’epoca segnata da importanti rivolgimenti politici e culturali.
Primi anni, formazione e l’inizio della carriera
Figlio del musicista di città Johann Reichardt, Johann Friedrich ricevette fin da bambino un’educazione musicale, eccellendo nel violino. A soli dieci anni, il padre lo presentò come ragazzo prodigio in tournée concertistiche nella Prussia Orientale. Su consiglio di Immanuel Kant, studiò giurisprudenza e filosofia a Königsberg e Lipsia (1769-71). Tuttavia nel 1771 interruppe gli studi per intraprendere un viaggio da virtuoso nello spirito dello Sturm und Drang, evitando una carriera borghese. Tornato a Königsberg nel 1774, divenne segretario di camera a Ragnit.
Kapellmeister a Berlino: riforme e frustrazioni
Nel 1775, dopo che Reichardt gli aveva inviato l’opera Le feste galanti come saggio, Federico II lo nominò regio maestro della cappella prussiana, succedendo a Johann Friedrich Agricola. Tentò di riformare l’orchestra, scontrandosi con l’opposizione dei musicisti e il gusto conservatore del re; di conseguenza Reichardt ridusse ai minimi termini il proprio impegno presso la corte prussiana. Nel 1777 sposò Juliane Benda, concentrandosi maggiormente sulla scrittura e sulla composizione di Lieder e opere strumentali.
Viaggi, incontri illustri e simpatie rivoluzionarie
Al ritorno da un viaggio in Italia, nel 1783, si recò a Vienna, dove conobbe l’imperatore Giuseppe II e Christoph Willibald Gluck. Ulteriori viaggi in Francia e Inghilterra non gli assicurarono il successo sperato, costringendolo, riluttante, a ritornare a Berlino. Dal 1786 strinse stretti legami con personalità come Johann Wolfgang von Goethe, Johann Gottfried Herder, Friedrich Schiller e Johann Georg Hamann. Falliti i suoi tentativi di stabilirsi a Parigi nel 1788, cionondimeno Reichardt si entusiasmò per le idee della Rivoluzione, di cui scrisse nelle Vertraute Briefe (Lettere confidenziali, pubblicate nel 1792); questo finì per costargli il posto alla corte di Prussia: nel 1794 fu licenziato senza pensione.
L’esilio a Giebichenstein e la disillusione napoleonica
Dopo il licenziamento visse prima ad Amburgo, dove pubblicò il giornale “Frankreich”, e nel 1794 si stabilì a Giebichenstein, presso Halle an der Saale. Nel 1796 fu nominato direttore delle saline di Halle, ma continuò a recarsi a Berlino per dirigere le proprie composizioni. La sua tenuta a Giebichenstein, l’ex Kästnersche Kossätengut, divenne un importante luogo d’incontro per i romantici (Herberge der Romantik). A seguito di un viaggio a Parigi, nel 1802, il suo entusiasmo per i francesi si raffreddò, tanto che Reichardt divenne un oppositore di Napoleone.
Gli ultimi anni e la scoperta tardiva della classicità viennese
Nel 1807 la sua tenuta fu saccheggiata dalle truppe francesi e Reichardt fuggì a Danzica. Tornato impoverito, fu nominato da Girolamo Bonaparte direttore teatrale a Kassel, incarico che durò solo nove mesi. Nel novembre 1808 cercò fortuna a Vienna, dove ebbe modo di conoscere, tardivamente, il Classicismo viennese attraverso le composizioni di Haydn, Mozart e Beethoven. Si ritirò presto a Giebichenstein, dove morì in solitudine il 27 giugno 1814 per una malattia allo stomaco. La sua tomba si trova nel cortile di San Bartolomeo a Halle. Nonostante l’intensa attività e i numerosi viaggi, i suoi contemporanei lo dimenticarono rapidamente.
Composizioni significative: Lieder e Singspiele
La fama di Reichardt come compositore è legata soprattutto ai Lieder su testi di Goethe, dove poté esprimere appieno la propria individualità, e ai Singspiele, genere che contribuì a elevare con l’aiuto di Goethe (Claudine von Villa Bella, Erwin und Elmire, Jery und Bätely). Musicò anche 49 testi di J. G. Herder e pubblicò Lieder massonici. Tra le sue composizioni più note figurano Bunt sind schon die Wälder (1799) e Wenn ich ein Vöglein wär (su testo di Herder). Una Passione di Gesù Cristo su libretto di Pietro Metastasio ottenne grande successo a Berlino, Londra e Parigi. Dedicò 12 Élégies et Romances a Ortensia de Beauharnais.
Reichardt musicografo
Fra le opere letterarie di Reichardt, ancor oggi considerate di grande valore, spiccano Briefe eines aufmerksamen Reisenden die Musik betreffend (Lettere di un attento viaggiatore sulla musica, 1774–76), Über die deutsche comische Oper (Sull’opera comica tedesca, 1774), gli articoli per la rivista “Musikalisches Kunstmagazin” (1781-92), Studien für Tonkünstler und Musikfreunde (Studi per musicisti e dilettanti di musica, 1793), le Vertraute Briefe aus Paris (Lettere confidenziali da Parigi, 1792 e 1804) e le Vertraute Briefe aus Wien (Lettere confidenziali da Vienna, 1810).
Composizioni non scritte; i cataloghi delle opere di Reichardt
La celebre raccolta di poesie Des Knaben Wunderhorn di Clemens Brentano e Achim von Arnim fu dedicata (nella postfazione) a Reichardt, nella speranza che ne musicasse i testi, cosa che però non avvenne. Esistono diversi cataloghi delle sue opere, curati da Hanns Dennerlein (opere pianistiche), Rolf Pröpper (opere teatrali) e Swantje Köhnecke (Lieder).
Analisi del Trio per archi op. 4 n. 2
Il Trio per archi in fa minore è un’opera affascinante che rappresenta pienamente il periodo dello Sturm und Drang.
Il primo movimento si apre con un’energia trattenuta ma palpabile, tipica della tonalità di fa minore, spesso associata a pathos e drammaticità. L’indicazione Allegro moderato suggerisce un tempo vivace ma non eccessivamente precipitoso, permettendo all’articolazione e al fraseggio di emergere con chiarezza. Strutturato in forma-sonata, esso vede il primo tema introdotto con decisione, caratterizzato da un motivo discendente e incisivo, spesso arpeggiato, con un forte accento ritmico e un’atmosfera inquieta. Il violino prende spesso l’iniziativa, sostenuto da un accompagnamento energico ma trasparente di viola e violoncello. La scrittura è densa e ricca di tensione armonica. Una transizione, breve ma efficace, modula verso la tonalità relativa maggiore.
Il secondo tema emerge in la bemolle maggiore, offrendo un netto contrasto. È più lirico, cantabile e disteso, spesso affidato al dialogo tra violino e viola, con il violoncello che fornisce una base armonica più morbida. Questa sezione porta un momentaneo sollievo dalla tensione iniziale. La codetta dell’esposizione conclude con materiale cadenzale affermativo in la bemolle maggiore, riprendendo un po’ dell’energia iniziale ma in un contesto più luminoso.
La sezione di sviluppo è caratterizzata da una maggiore instabilità armonica e da un’elaborazione dei motivi presentati nell’esposizione. Reichardt esplora diverse tonalità minori e maggiori più distanti, frammenta i temi e intensifica il dialogo contrappuntistico tra gli strumenti. Si percepisce un aumento della drammaticità e dell’urgenza espressiva, con passaggi cromatici e un uso più marcato delle dinamiche.
Il primo tema ritorna fedelmente in fa minore, riaffermando il carattere cupo e passionale del movimento. La transizione è modificata per preparare l’entrata del secondo tema trasposto nella tonalità d’impianto, intensificando ulteriormente il pathos del movimento e al contempo mantenendo una coerenza emotiva oscura e passionale. Una coda vigorosa e concisa conclude il movimento, ribadendo con forza la tonalità di fa minore e l’atmosfera drammatica generale, con un finale quasi brusco. L’uso di sincopi, ritmi puntati e improvvisi contrasti dinamici sono tipici della produzione musicale dello Sturm und Drang. La scrittura è idiomatica per gli archi, con un buon equilibrio tra le parti, sebbene il violino mantenga un ruolo primario.
Il secondo movimento offre un profondo contrasto con il precedente. La tonalità di la bemolle maggiore (relativa maggiore di fa minore) e l’indicazione Andante molto cantabile conducono l’ascoltatore in un’atmosfera lirica, serena e profondamente espressiva.
Il movimento si apre con una melodia squisitamente cantabile e dolcemente melanconica, affidata principalmente al violino. L’accompagnamento della viola e del violoncello è delicato e discreto, spesso con armonie tenute o leggeri pizzicati che creano un tappeto sonoro trasparente e intimo. Il fraseggio è ampio e respirato. La seconda sezione introduce un leggero contrasto e un dialogo tra gli strumenti leggermente più fitto. Ritorna la melodia principale della prima sezione, con lievi variazioni ornamentali e un diverso bilanciamento strumentale. Il movimento si conclude in un’atmosfera di serena contemplazione, spegnendosi dolcemente. La bellezza melodica è il tratto distintivo di questo movimento: Reichardt dimostra una grande sensibilità nel creare linee cantabili per gli strumenti, in particolare per il violino. L’armonia è prevalentemente consonante, contribuendo all’atmosfera pacifica e introspettiva.
Il finale ritorna alla tonalità d’impianto di fa minore, ma con un carattere un poco vivace, che suggerisce agilità e spirito, pur mantenendo una certa tensione data dalla tonalità minore. È un movimento ricco di energia ritmica e contrasti. Il tema principale, introdotto in fa minore, è energico, ritmicamente marcato, con un andamento quasi danzante ma con una sfumatura di urgenza. È conciso e memorabile. Il primo episodio contrasta con il ritornello, spesso modulando a tonalità vicine. Il materiale tematico è differente, forse più scorrevole o giocoso, con un diverso trattamento strumentale. Il tema principale riappare in fa minore, seguito da un altro episodio e dalla ripresa del tema principale. Segue una sezione che ha caratteristiche di sviluppo, con frammentazione motivica e una certa instabilità tonale, culminando in una ripresa dell’energia iniziale. Il tema principale ritorna per l’ultima volta, conducendo a una coda vivace e assertiva che conclude il trio con decisione in fa minore, riaffermando l’energia e la passionalità che hanno caratterizzato gran parte dell’opera.
Il movimento è caratterizzato da un vivace gioco ritmico, frequenti cambi di dinamica e un’abile scrittura dialogica tra i tre strumenti. La tonalità minore del ritornello conferisce al movimento un’energia inquieta, mentre gli episodi in maggiore offrono momenti di contrasto più sereno o giocoso.
Nel complesso, l’opera riflette pienamente lo spirito del suo tempo. L’influenza dello Sturm und Drang è evidente nella passionalità del primo movimento e nell’energia inquieta del finale, entrambi ancorati alla drammatica tonalità di fa minore. Il lirismo toccante dell’Andante centrale dimostra la versatilità di Reichardt e la sua capacità di creare melodie di grande bellezza. La scrittura per trio d’archi è efficace, con un buon bilanciamento tra gli strumenti, che dialogano costantemente tra loro. Questo Trio è una testimonianza significativa del talento del compositore e del vivace panorama musicale tedesco della seconda metà del XVIII secolo.
Joseph Ignaz Schnabel (24 maggio 1767 - 1831): Quintetto concertante in do maggiore per chitarra, 2 violini, viola e violoncello. Siegfried Behrend, chitarra); Quartetto di Zagabria.
Larghetto – Allegro
Larghetto [7:44]
Menuetto [10:36]
Rondò [13:44]
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Joseph Ignaz Schnabel: pilastro della vita musicale slesiana tra chiesa e accademia
Percorso formativo e prime esperienze
Nato in una famiglia di musicisti, Schnabel ricevette i primi rudimenti musicali dal padre. Da bambino, fu cantore nel coro della Vincenzkirche (Chiesa di San Vincenzo) a Breslavia. All’età di 12 anni, invece, intraprese gli studi presso il Matthias-Gymnasium con l’intento di diventare sacerdote ma, a causa di una caduta accidentale in acqua, ebbe un’otite cronica e ciò compromise la sua idoneità alla carriera ecclesiastica. Abbandonato perciò il ginnasio dopo la sesta classe, Schnabel si dedicò alla formazione per diventare insegnante.
Ascesa professionale e ruoli chiave a Breslavia
Nel 1790 divenne maestro di scuola elementare in un villaggio, distinguendosi per le eccellenti prestazioni musicali dei suoi allievi. A partire dal 1797 la sua carriera si spostò a Breslavia, dove fu prima violinista alla Vincenzkirche e poi organista presso la Chiesa di Santa Chiara. Nel 1798, invece, entrò a far parte dell’orchestra del teatro come violinista e primo violino (Konzertmeister), sostituendo spesso il direttore. La sua carriera conobbe una svolta decisiva con nomine di grande rilievo: maestro di cappella del Duomo (1° aprile 1805), direttore dei Richtersche Winterkonzerte (1806) e della Montags- und Freitagsgesellschaft (1810), nonché direttore musicale universitario, insegnante di musica presso il seminario cattolico e direttore del Regio istituto di musica sacra (1812).
Nel 1819, insieme a Friedrich Wilhelm Berner (anch’egli docente di musica sacra) e Johann Theodor Mosewius (suo successore come direttore musicale dell’università), fondò l’Associazione per la musica sacra all’Università per la promozione della musica slesiana e alla diffusione del repertorio europeo dal XVI al XVIII secolo. Nel 1823, infine, fu insignito del dottorato honoris causa.
Contributo alla diffusione musicale, stile compositivo e produzione musicale
Schnabel fu un attivo promotore delle opere di Wolfgang Amadeus Mozart e Joseph Haydn a Breslavia. In particolare, dal 1800, eseguiva annualmente La Creazione di Haydn il Giovedì Santo. Il corpus compositivo di Schnabel è dominato dalla musica sacra con accompagnamento strumentale. Con le sue opere, diede vita a una tradizione specificamente slesiana, nota come “Scuola di Breslavia”, la quale mantenne una propria vitalità e indipendenza dalle tendenze restaurative coeve fino alla seconda guerra mondiale.
La sua opera più celebre è probabilmente l’arrangiamento di una pastorale natalizia di un compositore anonimo del primo Settecento, Transeamus usque Bethlehem, rinvenuta nell’archivio del Duomo di Breslavia. Questa rielaborazione è oggi un classico del repertorio di molti cori ecclesiastici. La sua produzione include anche 5 messe, offertori, inni e vespri, musica militare, quartetti per voci maschili, Lieder, un Concerto per clarinetto e un Quintetto per quartetto d’archi e chitarra.
Quintetto concertante: analisi
Il Quintetto concertante di Schnabel è un ottimo esempio di lavoro appartenente al tardo periodo classico, con elementi che lo fanno tendere al primo Romanticismo. Il termine “concertante” suggerisce un ruolo prominente per uno o più strumenti: in questo caso, la chitarra emerge chiaramente come strumento solista principale, dialogando attivamente con il quartetto d’archi.
Il primo movimento s’inizia in do minore, la parallela minore della tonalità principale del Quintetto. Questa è una pratica comune nel periodo classico per creare un’introduzione dal carattere più serio e contemplativo prima di passare alla tonalità maggiore, più brillante. L’introduzione è solenne, espressiva e leggermente malinconica. Gli archi creano un tappeto sonoro ricco e armonioso. Le linee melodiche sono cantabili, spesso con un andamento discendente che accentua il senso di introspezione. L’armonia è densa, con un uso efficace di accordi diminuiti e progressioni cromatiche che aumentano la tensione emotiva. Il violoncello e la viola forniscono una solida base armonica e ritmica. In questa sezione introduttiva, solo gli archi sono presenti. La chitarra attende di fare il proprio ingresso nell’Allegro. Verso la fine del Larghetto, l’armonia inizia a virare decisamente verso il do maggiore, preparando l’arrivo dell’Allegro.
L’Allegro segue una struttura che ricorda la forma-sonata, tipica del periodo classico. Il primo tema entra immediatamente in do maggiore, presentato dagli archi con un carattere brillante, energico e affermativo. La chitarra riprende e abbellisce il tema, dimostrando subito il suo ruolo concertante con passaggi agili e arpeggi. Una sezione di transizione, guidata principalmente dalla chitarra con scale veloci e passaggi virtuosistici, modula verso la tonalità della dominante (sol maggiore). Il secondo tema è più lirico e cantabile rispetto al primo ed è spesso affidato alla chitarra supportata dagli archi con un accompagnamento più delicato. C’è un bel dialogo tra la chitarra e il primo violino. Segue l’esposizione di materiale cadenzale che rafforza la tonalità di Sol maggiore, spesso con la chitarra che esegue arpeggi brillanti.
Lo sviluppo esplora frammenti dei temi presentati nell’esposizione, modulando attraverso diverse tonalità. C’è un aumento della tensione armonica e un dialogo più intenso tra gli strumenti. La chitarra continua a brillare con passaggi tecnicamente impegnativi (arpeggi rapidi, scale). Si notano momenti di maggiore intensità drammatica e passaggi in tonalità minori. Seguono la ripresa dei temi precedenti e una sezione conclusiva che rafforza energicamente la tonalità di do maggiore. La chitarra ha un ultimo momento di spicco virtuosistico prima che l’intero ensemble chiuda il movimento con accordi decisi e brillanti. L’uso di progressioni cadenzali forti è evidente.
Il secondo movimento è nella tonalità di fa maggiore (la sottodominante di do maggiore), una scelta tradizionale per il movimento lento. Questa parte è profondamente lirica, cantabile, espressiva e intima ed evoca una sensazione di serenità e dolce malinconia. La forma è ternaria (ABA’) o forma-Lied estesa. La chitarra è la protagonista indiscussa, presentando la melodia principale con grande delicatezza e ornamentazione. Gli archi forniscono un accompagnamento discreto e soffuso, spesso con note tenute o delicati pizzicati, creando un’atmosfera sognante. La chitarra espone una melodia bellissima e fluente, caratterizzata da un fraseggio elegante e un uso raffinato di abbellimenti (trilli, appoggiature). L’accompagnamento degli archi è leggero e trasparente. Segue una sezione centrale contrastante con un dialogo tra la chitarra e gli archi, in particolare il primo violino, più evidente. Il materiale melodico è nuovo, ma mantiene il carattere lirico generale. Si ha infine il ritorno variato della melodia principale e la sezione si conclude in un’atmosfera di pace e tranquillità, sfumando dolcemente.
Il terzo movimento introduce un carattere elegante, aggraziato e dal ritmo di danza ben marcato. la parte centrale (trio) offre un contrasto, spesso più intimo, pastorale o leggermente più scuro. Il tema principale è robusto e ritmico, presentato dall’ensemble, mentre la chitarra partecipa attivamente, raddoppiando le linee melodiche o fornendo un ripieno armonico e ritmico. La struttura interna è chiaramente bipartita con ritornelli. Il trio offre un netto contrasto e la tonalità sembra spostarsi verso do minore, conferendo un carattere più raccolto e forse un po’ più austero. La strumentazione è più rarefatta, con un focus maggiore sul dialogo tra la chitarra e i singoli strumenti ad arco. Il materiale melodico è nuovo e più cantabile, meno marcatamente ritmico del Menuetto. Dopo la ripetizione letterale del Menuetto iniziale, il movimento si conclude con decisione in do maggiore.
Il finale è vivace, brillante, gioioso e pieno di energia. Ha un carattere giocoso e spensierato, tipico di un rondò classico. Il tema principale è orecchiabile, ritmico e allegro, presentato con brio dall’intero ensemble, con la chitarra che spesso raddoppia o armonizza la melodia principale. È chiaramente in do maggiore. Il primo episodio presenta materiale melodico e armonico contrastante. La chitarra assume un ruolo solistico più spiccato, con passaggi virtuosistici, scale, arpeggi e figurazioni brillanti. Dopo il ritorno del tema principale, segue un altro episodio contrastante che sposta la tonalità verso do minore, conferendo una coloritura più scura e drammatica, prima di tornare a un carattere più brillante. La chitarra continua a dialogare con gli archi, esplorando nuovo materiale tematico. Segue una nuova riaffermazione del tema principale che porta a una breve sezione che elabora il materiale del ritornello, portando a una ripetizione del ritornello un’ultima volta, seguito da una coda vivace e conclusiva. La musica accelera leggermente (stringendo) e aumenta di intensità, portando a una chiusura brillante e affermativa in do maggiore, con la chitarra che spesso ha l’ultima parola con arpeggi finali.
La chitarra è trattata come un vero strumento solista, non semplicemente come strumento d’armonia. Schnabel sfrutta le sue capacità melodiche, armoniche e virtuosistiche, facendola dialogare efficacemente con il quartetto d’archi, con i passaggi solistici ben integrati nella struttura formale. Gli archi forniscono un supporto solido e flessibile, passando da accompagnamenti discreti a momenti tematici importanti, creando un ricco tessuto contrappuntistico e armonico. Nonostante la prominenza della chitarra, Schnabel riesce a mantenere un buon equilibrio tra la solista e l’ensemble d’archi, creando un vero e proprio dialogo cameristico.
Anna Weesner (13 maggio 1965): The Eight Lost Songs of Orlando Underground per quartetto d’archi (2018). Lark Quartet.
Early Days
Music in Five Pulses (How You Broke My Heart)
Parenthetical Blues (Timing Is Everything)
A Few Questions for Arnold
Parenthetical Folk Song
Music in Five Pulses (How We Used to Dance)
Lament
Oh, to Live in a World Symphonic
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Anna Weesner: ritratto di una compositrice e accademica americana
Origini familiari e formazione accademica
Nata a Iowa City in una famiglia di artisti — la madre era insegnante di musica (specializzata in pianoforte) al liceo e suo padre un romanziere —, è cresciuta a Durham, New Hampshire, dove il padre lavorava all’Università del New Hampshire. Inizialmente interessata al violino da bambina, è passata al flauto durante l’adolescenza, strumento che suonava già in pubblico nel 1987. Ha studiato composizione e pianoforte con Martin Amlin alla Phillips Exeter Academy. Successivamente ha conseguito la laurea in musica (1987) presso la Yale University, studiando con Jonathan Berger, Michael Friedman e Thomas Nyfenger. Ha poi ottenuto la laurea magistrale (1993) e un dottorato (1995) alla Cornell University, sotto la guida di Karel Husa, Roberto Sierra e Steven Stucky.
Carriera compositiva e riconoscimenti
L’attività artistica di Anna Weesner ha preso slancio negli anni ’90. Nel 1995, è stata tra i vincitori della Young Americans’ Art Song Competition con una composizione basata sulla poesia Alter! When the Hills do di Emily Dickinson. È stata anche borsista presso la MacDowell Colony in tre occasioni (1995, 1998, 2001). La sua musica ha ricevuto attenzione critica: Bernard Holland del “New York Times” ha notato una "visione spirituale che preferisce dure verità a calde rassicurazioni", mentre Peter Dobrin del “Philadelphia Inquirer” ha offerto recensioni contrastanti, criticando inizialmente "un’espressività nervosa e poco attraente" nel brano Sudden, Unbidden (2000), ma lodando l’anno successivo la sua capacità di usare la ripetizione e la comunicatività nel ciclo Early, After, Ever, Now (2001). Il suo pezzo Still Things Move (2002, commissionato dalla Metamorphosen Chamber Orchestra) è stato infine lodato da Ellen Pfeifer del “Boston Globe” come "un saggio molto attraente" e da Allan Kozinn del “New York Times” per essere "animato e pieno di svolte sorprendenti".
Impegno accademico e insegnamento
Parallelamente alla composizione, Weesner ha sviluppato una significativa carriera accademica. Ha iniziato insegnando flauto privatamente durante gli studi universitari ed è stata assistente didattica a Cornell. Nel 1997 è entrata a far parte del corpo docente dell’Università della Pennsylvania come assistente professore di musica, venendo promossa a professore associato (2004) e a professore ordinario (2012). All’interno del Dipartimento di Musica di Penn, è diventata responsabile dei corsi di laurea (2006) e successivamente direttrice del dipartimento. Nel 2019 è stata “Maurice Abravanel Distinguished Visiting Composer” presso l’Università dello Utah, mentre tre anni più tardi è stata nominata “Dr. Robert Weiss Professor of Music” a Penn, consolidando ulteriormente la sua posizione accademica.
Analisi dell’opera. Introduzione generale The Eight Lost Songs of Orlando Underground furono commissionati dal Lark Quartet ed eseguiti in prima assoluta dallo stesso quartetto insieme alla clarinettista Romie de Guise-Langlois il 17 settembre 2018 a Salt Lake City. La fonte di ispirazione di questa composizione è la figura immaginaria di Orlando Underground, un chitarrista blues che, contrariamente alla sua immagine pubblica, nutriva per tutta la vita un profondo e segreto interesse per la composizione di musica "colta" o "annotata". Questa passione nacque durante gli anni del college, quando scoprì e si innamorò perdutamente della musica classica, citando esperienze formative come l’ascolto di Mahler e Beethoven. Tuttavia, consapevole che una laurea e tale interesse non fossero ben visti nel mondo del rock and roll dell’epoca, tenne nascosta questa parte di sé. Orlando era particolarmente affascinato dalla sensazione di "ordine" presente in alcune composizioni classiche, percependola quasi fisicamente, come se disegni microscopici sulla sua pelle venissero rivelati dal suono organizzato. Questa passione segreta lo portò spesso a riflettere su come avrebbe potuto essere la sua vita se avesse coltivato questi interessi musicali invece di dedicarsi completamente alla band. Si chiedeva se questo percorso alternativo avrebbe influenzato anche le sue relazioni personali, in particolare quella con la sua ex compagna, Jess. La frase di Jess al momento della loro separazione, "Immagino che il tempismo sia tutto, dopotutto", lo tormentò a lungo, apparendogli quasi come un’affermazione carica di musicalità intrinseca.
Musicalmente, Orlando era affascinato da concetti specifici come la tecnica della "retrogradazione" (suonare un tema al contrario), trovandola capace di rendere qualcosa sia riconoscibile che nuovo, ben oltre gli esempi più semplici come quelli beatlesiani. Aveva anche una predilezione per certi numeri, in particolare il cinque, che riteneva avesse qualità mistiche e mitiche. Un esempio emblematico fu la frase di cinque sillabe "How you broke my heart" (Come mi hai spezzato il cuore) che lo perseguitò per anni dopo la rottura con Jess, diventando un mantra a cinque pulsazioni che col tempo si trasformò comicamente in altre frasi quotidiane della stessa lunghezza, come "Where’d I put my keys" (Dove ho messo le chiavi). Il testo rivela anche l’influenza di Arnold Schoenberg: Jess lo prendeva in giro perché leggeva il saggio Stile e idea e i manoscritti ritrovati mostrano tentativi di Orlando di esplorare la dodecafonia, con annotazioni ingenue come "L’ho fatto bene? Arnold?". Inoltre, nei suoi Eight Lost Songs compaiono echi del celebre riff di Smoke on the Water dei Deep Purple, a volte quasi citazioni, altre volte come frammenti rielaborati, forse a simboleggiare la riflessione sulle scelte di vita fatte. Il testo sottolinea l’ironia della sua posizione: mentre Orlando, dal rock, guardava alla classica, molti compositori classici iniziavano a guardare con interesse al rock and roll, un fenomeno di cui lui era probabilmente inconsapevole. Si apprende, infine, che fu Jess a scoprire gli Eight Lost Songs in un cassetto dopo la morte di Orlando. Lei ipotizzò che la scelta di includere il clarinetto fosse un omaggio silenzioso a Maya Ochoa, una clarinettista che abitava al quinto piano del suo stesso edificio e che incrociavano spesso, ma a cui Orlando non aveva mai parlato.
Analisi dei singoli brani
Il primo pezzo si apre in un’atmosfera sospesa e introspettiva. L’armonia è prevalentemente dissonante, ma non caotica e crea una sensazione di ricerca e di tensione latente. Le linee melodiche iniziali, spesso frammentate e affidate agli strumenti gravi (viola e violoncello), hanno un carattere quasi vocale, seppur angolare. Un primo contrasto significativo arriva con l’introduzione di armonici acuti e cristallini nei violini che aprono lo spazio sonoro verso l’alto, creando un effetto etereo e quasi spettrale. Man mano che il pezzo procede, si ha un aumento graduale dell’attività ritmica e della complessità contrappuntistica. Brevi motivi vengono scambiati e sviluppati tra gli strumenti, generando un dialogo serrato e a tratti inquieto. La Weesner utilizza una varietà di tecniche d’arco e timbriche, inclusi pizzicati e leggeri tremoli per variare la sonorità e accrescere la tensione. La sezione centrale sembra costituire un climax emotivo, con figure ritmiche più insistenti e armonie più aspre, trasmettendo un senso di agitazione o urgenza. Verso la conclusione, si avverte un ritorno parziale all’atmosfera iniziale, più lenta e riflessiva, ma l’inquietudine armonica non si risolve completamente. Il brano termina in modo piuttosto tronco, quasi sospeso a mezz’aria, lasciando l’ascoltatore con una sensazione di incompiutezza o di domanda aperta, perfettamente in linea con il titolo "Early Days" (Primi Giorni/Inizi) che suggerisce qualcosa di ancora in formazione o incerto.
Il secondo brano si apre in un’atmosfera rarefatta e introspettiva, tipica del linguaggio cameristico contemporaneo. L’organico del quartetto d’archi viene utilizzato fin da subito per creare una tessitura delicata e quasi esitante. Le prime battute sono caratterizzate da note tenute lunghe e motivi melodici frammentati, spesso affidati a strumenti singoli o a coppie, suggerendo un senso di vulnerabilità e di ricerca. La scrittura armonica è moderna, con frequenti dissonanze espressive che creano una tensione emotiva sottile e persistente. Non c’è una melodia tradizionalmente intesa, ma brevi cellule motiviche, a volte costituite da semplici intervalli o gesti sonori, passate tra gli strumenti, quasi come frammenti di un pensiero o di un ricordo spezzato, in linea con il sottotitolo "How You Broke My Heart". Il titolo "Music in Five Pulses", invece, non si traduce necessariamente in una scansione ritmica regolare e prevedibile. Anziché un battito costante, gli "impulsi" sembrano riferirsi a blocchi strutturali o a momenti di energia ritmica più definita che emergono e si dissolvono all’interno di un flusso temporale più flessibile e organico. Il ritmo generale è spesso lento e contemplativo, ma presenta anche accelerazioni improvvise e momenti di maggiore agitazione, specialmente quando la tessitura si infittisce e l’interazione tra gli strumenti diventa più complessa e dialogica. Le dinamiche giocano un ruolo cruciale, spaziando da pianissimi quasi impercettibili a momenti di maggiore intensità sonora (crescendo e sforzando), sottolineando i picchi emotivi del brano.
Il terzo brano si apre in un’atmosfera sospesa e quasi interrogativa. La scrittura è fin dall’inizio moderna e rarefatta, lontana dalle armonie tradizionali o da una struttura blues convenzionale, nonostante il titolo. Il termine "Parenthetical" (parentetico) sembra suggerire fin da subito un carattere frammentario, quasi un inciso o un pensiero laterale all’interno di un discorso più ampio. La tessitura è dapprima scarna, con le singole voci strumentali che entrano in modo quasi esitante, disegnando brevi frammenti melodici o accordi tenuti che creano uno spazio sonoro delicato ma carico di tensione sottile. Anche qui vi sono motivi brevi, a volte quasi dei gesti sonori, che vengono scambiati tra gli strumenti. Man mano che il brano procede, la tessitura si infittisce leggermente. L’armonia rimane ambigua, esplorando sonorità contemporanee che evitano una chiara tonalità, contribuendo all’atmosfera introspettiva e vagamente malinconica — forse è questo l’aspetto "Blues" a cui allude il titolo, inteso più come stato d’animo che come forma musicale. L’elemento "Timing Is Everything" (Il tempismo è tutto) si manifesta nella precisione ritmica richiesta agli esecutori. L’interazione tra le voci, le pause, gli attacchi quasi sfalsati e le risonanze che si creano dipendono da una sincronizzazione estremamente accurata. Non c’è un impulso ritmico forte o regolare, ma piuttosto un gioco di durate e silenzi che definisce il flusso del pezzo. Le dinamiche rimangono generalmente contenute (piano, mezzo piano), con leggere inflessioni che sottolineano l’interazione tra gli strumenti. L’impressione generale è quella di una musica intima, riflessiva, che costruisce la sua espressività attraverso la sottigliezza delle interazioni e la qualità esplorativa del linguaggio armonico e melodico.
Il quarto pezzo si apre con un’energia nervosa e frammentata. Anche qui continua a permanere una serie di gesti motivici brevi, incisivi e interrogativi, passati rapidamente tra gli strumenti. L’armonia è decisamente moderna e spesso dissonante, caratterizzata da intervalli stretti, cluster e accordi secchi che contribuiscono a creare una sensazione di tensione e instabilità. La scrittura è molto idiomatica e sfrutta appieno le diverse possibilità timbriche degli archi. Si notano contrasti dinamici netti, passaggi ritmicamente complessi e sincopati che si alternano a momenti più sospesi o quasi statici. La tessitura è prevalentemente contrappuntistica, con le linee strumentali che si intrecciano, si scontrano e dialogano costantemente, ma non mancano brevi momenti di scrittura più omoritmica che creano punti di enfasi. Strutturalmente, il pezzo sembra procedere per episodi contrastanti, quasi come una serie di domande (come suggerisce il titolo) o riflessioni che non trovano una risposta definitiva. C’è un senso di continua ricerca e agitazione, con sezioni più ritmiche e motorie che lasciano spazio a momenti più lirici o rarefatti, dove la tensione sembra allentarsi brevemente prima di ricrescere. L’uso di tecniche specifiche come pizzicati incisivi, sforzando e, forse, glissandi contribuisce alla varietà timbrica e all’espressività inquieta del brano.
Il quinto brano si apre in un’atmosfera sommessa e quasi esitante, stabilita da un dialogo rarefatto tra gli strumenti. Il titolo "Parenthetical folk song" (Canzone popolare parentetica) suggerisce un approccio non convenzionale al materiale "popolare", in quanto non ci troviamo di fronte a una melodia folk riconoscibile e pienamente sviluppata, quanto piuttosto a frammenti, echi e allusioni. L’armonia è moderna, spesso costruita su intervalli semplici ma accostati in modo da creare tensioni sottili e colori cangianti. Si percepisce una sorta di staticità fluttuante, con lunghi pedali o note tenute, specialmente nel registro grave del violoncello, che fungono da ancoraggio armonico su cui si innestano le linee più mobili dei violini e della viola. Non emerge una linea principale continua, ma piuttosto brevi motivi, spesso di carattere modale o pentatonico (un possibile richiamo al "folk"), che appaiono, si trasformano leggermente e svaniscono, passandosi il testimone l’un l’altro. La tessitura è prevalentemente trasparente, permettendo di distinguere le singole voci, anche se ci sono momenti in cui la scrittura si fa leggermente più densa e contrappuntistica, creando un breve picco di intensità emotiva prima di tornare alla calma iniziale. Il ritmo è generalmente lento e flessibile, con un senso di respiro libero che contribuisce all’atmosfera sospesa e riflessiva. Le dinamiche rimangono prevalentemente contenute (piano e pianissimo), rafforzando l’intimità e la delicatezza del brano. L’impressione generale è quella di una rievocazione sognante o di un commento laterale su un’ipotetica canzone popolare, filtrata attraverso una sensibilità contemporanea, dove l’essenza del "folk" risiede più nell’evocazione di una semplicità perduta o di uno stato d’animo che nella citazione diretta.
Il sesto brano si apre in un’atmosfera rarefatta e introspettiva. La scrittura è inizialmente frammentaria, quasi esitante, caratterizzata da brevi motivi melodici e ritmici che vengono scambiati tra i vari strumenti, in particolare tra i due violini e la viola. C’è un senso di interrogazione, accentuato dall’uso di pause e da un’armonia che evita centri tonali definiti, creando una sonorità moderna e a tratti dissonante, ma non aspra. Questa sezione iniziale evoca forse il ricordo vago e frammentato suggerito dal sottotitolo "(How We Used to Dance)". Progressivamente, la tessitura si infittisce leggermente. Emergono linee più sostenute, soprattutto al violoncello, che offrono un contrasto con i motivi più brevi e spezzati degli strumenti superiori. Si percepisce un accumulo di tensione, una sorta di ricerca inquieta, pur mantenendo una certa fluidità ritmica che non si cristallizza mai in un metro di danza regolare e prevedibile. Verso la metà del pezzo, la musica si sposta verso registri più acuti, spesso utilizzando armonici eterei e suoni quasi sospesi nel tempo. La tensione accumulata si dissolve in una sezione più statica e contemplativa, quasi trasognata, che offre un momento di respiro e riflessione prima della ripresa. La parte finale sembra riprendere elementi dell’inizio, ma trasformati. Ricompaiono figure ritmiche più mosse e frammentate, quasi un’eco agitata della sezione centrale, ma l’energia si disperde rapidamente. La musica ritorna alla rarefazione iniziale, con motivi spezzati e un progressivo diradarsi della tessitura, fino a sfumare nel silenzio. Il titolo potrebbe riferirsi ai cinque impulsi energetici che strutturano il pezzo (apertura frammentata, sviluppo/intensificazione, culmine agitato, sezione eterea sospesa, conclusione/dissoluzione). L’intero brano gioca efficacemente sul contrasto tra momenti di introspezione quasi statica e sezioni di maggiore movimento e complessità, evocando la natura mutevole e talvolta sfuggente del ricordo, in particolare quello di un’attività fisica ed emotiva come la danza, qui rievocata più che rappresentata direttamente.
Il settimo brano si apre in un’atmosfera rarefatta ed esitante, incarnando perfettamente il suo titolo. L’inizio è caratterizzato da suoni isolati e frammentati, quasi sussurrati dagli strumenti. Lunghe pause e silenzi assai tensivi separano queste prime cellule sonore, creando un senso immediato di vuoto e introspezione dolente. La scrittura è estremamente minimale, quasi puntillistica in questi primi istanti, suggerendo un dolore che fatica ad articolarsi. Progressivamente, la tessitura si infittisce leggermente. Emergono linee melodiche più sostenute, sebbene ancora frammentate e dal carattere discendente, che evocano sospiri o gemiti. L’armonia è decisamente moderna, basata su dissonanze espressive che creano cluster sonori e sovrapposizioni che intensificano la sensazione di angoscia e ricerca. Verso metà pezzo, il discorso musicale acquista maggiore continuità. Le linee degli strumenti si intrecciano in un contrappunto lento e lamentoso. Il violoncello fornisce una base profonda e risonante, mentre i violini e la viola disegnano arabeschi dolenti e armonie pungenti nei registri superiori. La dinamica, prevalentemente contenuta nel piano e pianissimo, presenta sottili crescendo e diminuendo che modellano le frasi, conferendo loro un respiro quasi vocale. Verso la fine, si nota un leggero aumento dell’intensità e della complessità ritmica, con figure leggermente più mosse e un dialogo più fitto tra le parti, forse a rappresentare un culmine emotivo del lamento, prima che la musica sembri ritornare gradualmente alla rarefazione iniziale, suggerendo una sorta di rassegnazione o dissolvenza nel silenzio.
L’ultimo pezzo si apre con gesti forti, quasi aggressivi e dissonanti, che stabiliscono immediatamente un linguaggio armonico moderno e un’atmosfera tesa. L’organico viene utilizzato per creare trame frammentate e ritmicamente incisive nei primi secondi, suggerendo conflitto o agitazione. Presto, la musica evolve introducendo contrasti ed emergono sezioni con tremoli sottili e scintillanti negli strumenti interni che creano uno sfondo di tensione su cui si sviluppano linee melodiche più agitate e frammentate, spesso caratterizzate da rapidi passaggi scalari o arpeggiati e salti intervallari marcati. Weesner esplora una vasta gamma dinamica e timbrica, passando da momenti di intensa energia quasi virtuosistica, specialmente nel registro acuto del primo violino, a passaggi più rarefatti e introspettivi. Dopodiché, la trama si dirada, le dinamiche si attenuano e le linee diventano più sostenute, quasi liriche, sebbene mantengano una qualità armonica instabile e ricercata. Qui si esplorano sonorità più eteree, utilizzando armonici e, forse, effetti come il sul ponticello, creando momenti di stasi contemplativa o di inquieta sospensione. Il pezzo continua a giustapporre momenti di energia ritmica quasi motoria e sezioni più lente e interrogative. Trame dense e contrappuntistiche lasciano spazio a dialoghi più spogli tra gli strumenti o a sonorità quasi puntillistiche. C’è un senso costante di ricerca e trasformazione del materiale musicale. Verso la fine, dopo un’ultima intensa ascesa culminante in registri acutissimi e sonorità quasi stridenti, la musica si dissolve gradualmente, ritornando un’atmosfera più calma e sostenuta, anche se la sensazione di risoluzione armonica completa rimane elusiva. Il brano si conclude in modo molto sommesso e rarefatto, con note lunghe e tenui che svaniscono nel silenzio, lasciando l’ascoltatore con un senso di apertura o forse di malinconica contemplazione sul desiderio espresso nel titolo – vivere in un mondo sinfonico che forse rimane frammentato o irraggiungibile.
Pierre Boulez (26 marzo 1925 - 2016): Le Marteau sans maître per voce e 6 strumentisti (1954, rev. 1957) su testi di René Char (1907-1988). Ensemble Insomnio, dir. Ulrich Pöhl.
Avant «l’artisanat furieux» per flauto contralto, vibrafono, chitarra e viola
Commentaire I de «bourreaux de solitude» per flauto contralto, xilomarimba, tamburo basco, 2 bongo, tamburo a cornice e viola [2:48]
L’artisanat furieux per voce e flauto contralto [7:53]
La roulotte rouge au bord du clou
Et cadavre dans le panier
Et chevaux de labours dans le fer à cheval
Je rêve la tête sur la pointe de mon couteau le Pérou.
Commentaire II de «bourreaux de solitude» per xilomarimba, vibrafono, zill, agogô, triangolo, chitarra e viola [11:16]
Bel édifice et les pressentiments, version première, per voce, flauto contralto, chitarra e viola [16:23]
J’écoute marcher dans mes jambes
La mer morte vagues par-dessus tête
Enfant la jetée-promenade sauvage
Homme l’illusion imitée
Des yeux purs dans les bois
Cherchent en pleurant la tête habitable.
Bourreaux de solitude per voce, flauto contralto, xilomarimba, vibrafono, maracas, chitarra e viola [21:04]
Le pas s’est éloigné le marcheur s’est tu
Sur le cadran de l’Imitation
Le Balancier lance sa charge de granit réflexe.
Après «l’artisanat furieux» per flauto contralto, vibrafono e chitarra [26:26]
Commentaire III de «bourreaux de solitude» per flauto contralto, xilomarimba, vibrafono, claves, agogô, 2 bongo e maracas [27:42]
Bel édifice et les pressentiments, double, per voce, flauto contralto, xilomarimba, vibrafono, maracas, tam-tam piccolo, gong grave, tam-tam molto grave, piatto sospeso grande, chitarra e viola [34:21]
Georg Philipp Telemann (14 marzo 1681 - 1767): Concerto per viola e archi in sol maggiore TWV 51:G9 (c1716-21). Liisa Randalu, viola; hr-Sinfonieorchester Frankfurt, dir. Richard Egarr.
Ludwig Thuille (30 novembre 1861 - 1907): Quintetto n. 2 in mi bemolle maggiore per quartetto d’archi e pianoforte op. 20 (1901). Gigli Quartet; Gianluca Luisi, pianoforte.
Allegro con brio
Adagio assai sostenuto [12:35]
Allegro [28:28]
Finale: Quasi cadenza (Allegro) – Maestoso – Allegro risoluto [35:07]
Carl Maria von Weber (18 novembre 1786 – 1826): Quintetto in si bemolle maggiore per clarinetto e archi op. 34 (J 182). Venancio Rius, clarinet; Enrique Palomares e Albert Skuratov, violini; Santiago Cantó, viola; David Barona, violoncello.
Charles Ives (1874 - 1954): Hallowe’en per quintetto con pianoforte (Three Outdoor Scenes, n. 1; 1906-07, rev. 1911). John Celentano e Millard Taylor, violini; Francis Tursi, viola; Alan Harris, violoncello; Frank Glazer, pianoforte.
Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791): Adagio e Rondò per Glasharmonika, flauto, oboe, viola e violoncello K 617 (23 maggio 1791). Bruno Hoffmann (15 settembre 1913 - 1991), Glasharmonika; Karl Heinz Ulrich, flauto; Helmut Hucke, oboe; Ernst Nippes, viola; Hans Plumacher, violoncello.
Arnold Schoenberg (13 settembre 1874 - 1951): Verklärte Nacht, versione originale per sestetto d’archi op. 4 (1899), ispirata dall’omonima poesia di Richard Dehmel (da Weib und Welt, 1896). Amaryllis Quartett (Gustav Frielinghaus e Lena Sandoz, violini; Mareike Hefti, viola; Yves Sandoz, violoncello) con Volker Jacobsen, viola, e Jens Peter Maintz, violoncello.
Zwei Menschen gehn durch kahlen, kalten Hain;
der Mond läuft mit, sie schaun hinein.
Der Mond läuft über hohe Eichen;
kein Wölkchen trübt das Himmelslicht,
in das die schwarzen Zacken reichen.
Die Stimme eines Weibes spricht:
« Ich trag ein Kind, und nit von Dir,
ich geh in Sünde neben Dir.
Ich hab mich schwer an mir vergangen.
Ich glaubte nicht mehr an ein Glück
und hatte doch ein schwer Verlangen
nach Lebensinhalt, nach Mutterglück
und Pflicht; da hab ich mich erfrecht,
da ließ ich schaudernd mein Geschlecht
von einem fremden Mann umfangen,
und hab mich noch dafür gesegnet.
Nun hat das Leben sich gerächt:
nun bin ich Dir, o Dir, begegnet. »
Sie geht mit ungelenkem Schritt.
Sie schaut empor; der Mond läuft mit.
Ihr dunkler Blick ertrinkt in Licht.
Die Stimme eines Mannes spricht:
« Das Kind, das Du empfangen hast,
sei Deiner Seele keine Last,
o sieh, wie klar das Weltall schimmert!
Es ist ein Glanz um alles her;
Du treibst mit mir auf kaltem Meer,
doch eine eigne Wärme flimmert
von Dir in mich, von mir in Dich.
Die wird das fremde Kind verklären,
Du wirst es mir, von mir gebären;
Du hast den Glanz in mich gebracht,
Du hast mich selbst zum Kind gemacht. »
Er faßt sie um die starken Hüften.
Ihr Atem küßt sich in den Lüften.
Zwei Menschen gehn durch hohe, helle Nacht.
Richard Dehmel
Due persone vanno per un boschetto spoglio, freddo;
la luna li segue, essi la guardano fissi.
La luna splende sopra le alte querce,
nessuna nube offusca la luce celeste,
fin dove arrivano le cime nere.
La voce di una donna parla:
« Io porto un figlio che non è tuo,
cammino nel peccato accanto a te.
Contro me stessa ho gravemente peccato.
Non credevo più alla felicità,
e tuttavia desideravo ardentemente
uno scopo nella vita, la gioia d’esser madre
e una mèta; così mi son fatta sfrontata,
e rabbrividendo ho lasciato che il mio sesso
fosse avvolto in un amplesso da un estraneo,
e me ne sono sentita benedetta.
Ora la vita si è vendicata:
ora ho incontrato te, ho incontrato te. »
Ella cammina con passo vacillante.
Guarda in alto; la luna la segue.
Il suo sguardo buio annega nella luce.
La voce di un uomo risponde:
« Il figlio che hai concepito
non sia di peso all’anima tua:
guarda com’è chiaro e lucente l’universo!
Ovunque intorno tutto è splendore,
tu avanzi con me su un mare freddo,
ma un calore singolare sfavilla
da te entro me, da me entro te.
Esso trasfigurerà il bambino estraneo,
ma tu lo partorirai a me, da me;
tu mi hai dato questo fulgore,
tu hai trasformato anche me in un bambino. »
Egli l’avvince intorno ai fianchi forti.
I loro respiri si congiungolo in un bacio.
Due persone vanno nella notte alta, chiara.
Antonín Vranický ovvero Anton Wranitzky (1761 - 6 agosto 1820): Concerto in do maggiore per 2 viole e orchestra. Lubomír Malý, viole; Dvořákův komorní orchestr, dir. Miloš Konvalinka.
Carolus Luython (c1557 - 2 agosto 1620): Fuga suavissima in sol maggiore, adattata per quartetto d’archi e con versi e foto di Poetella. Ensemble Pro Arte Antiqua.
Johann Friedrich Reichardt (1752 - 27 giugno 1814) Trio per archi in re magg. op. 4 n. 1 (1773). Trio Agora: Margarete Adorf, violino; Andreas Gerhardus, viola; Mathias Hofmann, violoncello.
Paolo Ugoletti (7 giugno 1956): Easy links per viola, clavicembalo e archi (2022). Elena Laffranchi, viola; Natalija Martynova, clavicembalo; Orchestra d’archi di Leopoli, dir. Filippo Ferruggiara.
Composizioni di Leone Sinigaglia (1868 - 16 maggio 1944), musicista e alpinista, vittima dell’Olocausto.
Regenlied per archi op. 35 n. 1 (1910). Orchestra Città di Ferrara, dir. Marco Zuccarini.
Due Pezzi per violoncello e orchestra op. 16 (1902). Fernando Caida Greco, violoncello; Orchestra Città di Ferrara, dir. Marco Zuccarini.
Romanze
Humoresque [4:50]
Hora mystica in la maggiore per quartetto d’archi (1894). Quartetto Tamborini: Bruno Raiteri e Antonio Sacco, violini; Fabrizio Montagner viola; Marco Pasquino violoncello.
La pastora e il lupo (da Diciotto vecchie canzoni popolari del Piemonte op. 40b). Coro da Camera di Torino, dir. Dario Tabbia.
La bërgera larga ij moton [bis]
al long de la riviera;
’l sol levà l’era tant caod,
la s’è seta a l’ombrëta.
J’è sortì ’l gran lüv dël bòsc
con la boca ambajeja,
l’ha pijà ’l pi bel barbin
ch’i era ’nt la tropeja.
La bërgera ’s bota a criar:
«Ahi mi, pòvra fijeta!
Se quaidon m’agioteis,
saria soa morosëta».
Da lì passa gentil galant,
con la soa bela speja
j’à dait tre colp al lüv,
barbin l’è saotà ’n tera.
«Mi v’ ringrassio, gentil galant,
mi v’ ringrassio ’d vòstra pena.
Quand ch’i tonda ’l me barbin
’v donerai la lena.»
«Mi son pa marcant de pann
e gnianca de la lena:
un basin dël vòst bochin
’m pagherà la pena.»
(La pastora fa pascolare le pecore lungo la riva; il sole alto è molto caldo, così si è seduta all’ombra.
Il gran lupo è uscito dal bosco con la bocca spalancata, ha preso il più bell’agnello del gregge.
La pastora si mette a gridare: «Ahimè, povera ragazza! Se qualcuno mi aiutasse sarei la sua amorosa.»
Da lì passa il gentil galante: con la sua bella spada dà tre colpi al lupo, l’agnello salta a terra.
«Vi ringrazio della vostra pena, gentil galante: quando toserò il mio agnello vi regalerò la lana.»
«Non sono mercante di stoffe e neppure di lana: un bacio della vostra bocca mi ripagherà della pena.»)
Sinigaglia amava molto la montagna. In gioventù si dedicò con passione all’alpinismo, segnalandosi in particolare per le sue arrampicate sulle Dolomiti: a lui si devono fra l’altro le prime ascensioni della Croda da Lago e del Monte Cristallo. Il 25 agosto 1990 era fortunosamente scampato alla morte sul Cervino in tempesta: fu tratto in salvo dalla sua guida, il leggendario Jean-Antoine Carrel di Valtournenche, che dopo aver portato Sinigaglia al sicuro morì di sfinimento; dell’impresa compiuta dal rude e coraggioso montanaro, e del suo sacrificio, il giovane musicista lasciò una toccante testimonianza.