Preludio e Fuga in sol minore

Maria Giacchino Cusenza (1898 - 6 agosto 1979): Preludio e Fuga in sol minore per pianoforte [la Fuga ha inizio a 6:15]. Calogero Di Liberto.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Maria Giacchino Cusenza: l’anima musicale di Palermo

Maria Giacchino Cusenza è stata una figura poliedrica e fondamentale nel panorama musicale italiano del Novecento. Artista di eccelse qualità, ha lasciato un’impronta indelebile come pianista, compositrice, didatta e animatrice culturale, diventando un punto di riferimento per la vita artistica della sua città e non solo.

Un talento nato in famiglia
La sua vocazione musicale affonda le radici in un ambiente familiare di antiche e solide tradizioni musicali: il padre Gaetano era trombettista al prestigioso Teatro Massimo di Palermo e anche i suoi fratelli e sorelle intrapresero carriere di successo: Carmelo fu contrabbassista e direttore d’orchestra, fondò il Coro della Conca d’oro, portandolo a riscuotere grandi successi in tutta Europa; Oreste fu invece violinista e violista eclettico, svolgendo la propria attività in Europa e negli Stati Uniti, fino a stabilirsi a Milano nelle orchestre della Rai e della Scala. Ancora, Maria Antonietta fu pianista e violoncellista e, infine, Livia fu anch’ella pianista, ma pure rinomata didatta.

Formazione e carriera concertistica
Dopo essere diventata alunna interna del Conservatorio di Palermo, la giovane si diplomò brillantemente a soli 17 anni sotto la guida di Alice Ziffer Baragli; si perfezionò poi con Alfredo Casella e Alberto Fano. Dotata di un vastissimo repertorio, intraprese una brillante carriera concertistica in Italia e all’estero. Oltre all’attività solistica, si dedicò con passione alla musica da camera, collaborando in duo con la sorella Livia, in trio con G. Martorana e T. Porcelli, e fondando il Quintetto femminile palermitano: quest’ultimo – che includeva anche la sorella violoncellista Maria Antonietta – rappresenta il primo esempio in Italia di una formazione stabile interamente femminile e debuttò al Teatro Massimo di Palermo il 7 maggio 1933.

La composizione e i riconoscimenti
Parallelamente alla carriera pianistica, Maria Giacchino coltivò lo studio della composizione con Antonio Scontrino, Alberto Favara e Mario Pilati, ricevendo incoraggiamenti da illustri contemporanei come Cilea, Pizzetti e Guerrini. Il suo talento compositivo le valse numerosi e importanti riconoscimenti: il Preludio e Fuga per pianoforte fu premiato dall’Accademia d’Italia nel 1937, mentre il Canto notturno fu insignito del primo premio al Concorso «Ada Negri» nel 1942. Ancora, il Corale e Variazioni fu premiato dal Sindacato nazionale musicisti nel 1955 e, infine, la Sonata in un tempo fu segnalata al concorso Premio Barbera nel 1946. Tra le sue oltre quaranta composizioni, spiccano anche opere come Il viandante, Aria e Danza, Sei personaggi in cerca d’esecutore e Tre Canzoni per Mariolina.

L’eccellenza nella didattica
La compositrice fu anche una straordinaria insegnante: come docente di pianoforte principale al Conservatorio di Palermo, diede vita a una vera e propria scuola pianistica che formò generazioni di musicisti e musicologi, tra cui Eliodoro Sollima e la nipote Anna Maria Giacchino. Il suo metodo – che fondeva le tecniche dei grandi maestri come Cortot e Rosenthal – fu apprezzato persino dal celebre pianista e pedagogo sovietico Heinrich Neuhaus, con cui era in contatto.

Impegno culturale e sociale
La sua influenza si estese attivamente a tutta la vita culturale siciliana. Fu una figura promotrice e instancabile, ricoprendo ruoli chiave in diverse istituzioni: fondò la sezione di Palermo dell’UCAI (Unione cattolica artisti italiani) e fu una delle cinque fondatrici del Club Soroptimist di Palermo. Inoltre, collaborò con giornali d’arte come “Aretusa” e “Peregrina”. Nel 1922, invece, fu socio fondatore dell’Associazione palermitana concerti sinfonici e nel 1944 della Società dei concerti del Conservatorio, per promuovere l’attività concertistica in città.

Eredità e riconoscimenti postumi
L’impatto di Maria Giacchino sulla cultura palermitana e nazionale è stato ufficialmente riconosciuto anche dopo la sua morte: nel maggio del 2003, un’aula del Conservatorio «V. Bellini» di Palermo è stata intitolata a suo nome, mentre nel 2004 l’Amministrazione comunale di Palermo le ha dedicato una via, consacrando per sempre il suo ruolo di protagonista della storia musicale della città.

Preludio e Fuga in sol minore
Questa composizione rappresenta uno dei vertici della produzione di Maria Giacchino Cusenza. Si configura come un dittico di grande impatto, in cui la libertà rapsodica e la drammaticità post-romantica del Preludio trovano il loro perfetto contrappeso nell’architettura rigorosa e intellettuale della Fuga. Si tratta di un lavoro che dimostra non solo una profonda conoscenza della tradizione, ma anche una spiccata capacità di reinterpretarla con un linguaggio novecentesco denso e personale.
Il Preludio si apre con un carattere di toccata-fantasia, impetuoso e quasi improvvisativo. L’influenza della grande tradizione virtuosistica tardo-romantica è evidente: si avvertono echi del pianismo monumentale di Liszt e della densità armonica e tessiturale di Rachmaninov e Skrjabin. La scrittura è prevalentemente drammatica, caratterizzata da un’ampia gamma dinamica e da una costante tensione emotiva.
Il brano inizia ex abrupto con una cascata vorticosa di arpeggi discendenti nella mano destra, sostenuta da accordi potenti e minacciosi nella sinistra: questa apertura stabilisce immediatamente la tonalità di sol minore e un’atmosfera cupa e agitata. La scrittura è virtuosistica e richiede grande agilità e controllo. A questa sezione di arpeggi segue una fase più declamatoria, con accordi massicci e linee melodiche cromatiche che aumentano la tensione.
In netto contrasto con l’impeto iniziale, emerge una seconda idea tematica dal carattere lirico e cantabile: la melodia, nobile e malinconica, si dispiega su un accompagnamento arpeggiato, fitto ma trasparente. Qui Cusenza esplora armonie più complesse e cangianti, tipiche del linguaggio del primo Novecento, che arricchiscono la tonalità di base senza mai abbandonarla del tutto. Questa sezione dimostra la sua capacità di creare momenti di intensa espressività e introspezione.
La fase di sviluppo vede l’intensificarsi e l’intrecciarsi delle due idee principali: le figurazioni virtuosistiche dell’inizio ritornano con ancora più veemenza, mentre frammenti del tema lirico vengono rielaborati in un contesto sempre più teso. La scrittura si fa progressivamente più densa, sfruttando l’intera estensione della tastiera. La tensione culmina in una serie di accordi martellanti e passaggi in ottave che portano il brano al suo apice dinamico ed emotivo, un vero e proprio muro sonoro di straordinaria potenza.
Dopo il climax, una spettacolare cadenza virtuosistica, di chiara matrice lisztiana, occupa la scena. Scale cromatiche rapidissime, arpeggi spezzati e passaggi funambolici richiedono all’esecutore una tecnica trascendentale: la cadenza funge da ponte verso la coda, dove l’energia iniziale viene riaffermata con accordi tonanti nel registro grave del pianoforte, che chiudono il Preludio in modo perentorio e definitivo sulla tonica sol minore.
Se il Preludio era il regno della libertà espressiva, la Fuga è un capolavoro di rigore costruttivo e profondità intellettuale: si tratta di una fuga a quattro voci, complessa e dal carattere severo.
Il soggetto – esposto nella voce di contralto – è il cuore pulsante dell’intera costruzione ed è una linea melodica spigolosa, dal ritmo incisivo (caratterizzato da note puntate) e dal profilo marcatamente cromatico. La sua natura inquieta e quasi tormentata definisce il carattere austero di tutta la Fuga.
L’esposizione segue le regole tradizionali, presentando il soggetto in tutte e quattro le voci: questo, come anticipato, viene presentato nel registro medio (contralto) in sol minore, mentre la risposta (reale) entra nel soprano in re minore (dominante). Contemporaneamente, la prima voce introduce un controsoggetto fluido e sinuoso, basato su semicrome, che crea un perfetto contrasto ritmico con il soggetto. Il soggetto riappare poi nel basso, nuovamente in sol minore, conferendo peso e profondità alla trama polifonica e, infine, la risposta conclude l’esposizione nel tenore, in re minore. A questo punto, il tessuto contrappuntistico a quattro voci è completamente stabilito.
Terminata l’esposizione, inizia la sezione di sviluppo, in cui Cusenza dimostra maestria contrappuntistica: brevi episodi (divertimenti), basati su frammenti del soggetto e del controsoggetto, modulano verso tonalità vicine, alternandosi a nuove entrate del tema principale. La compositrice fa uso di tecniche complesse per aumentare la densità e la tensione: in diversi punti, le entrate del soggetto si sovrappongono, con una voce che inizia prima che la precedente abbia terminato e questo crea un effetto di accumulazione e di incalzante intensità drammatica. Il soggetto viene inoltre presentato con varianti armoniche e inserito in contesti sempre nuovi, mantenendo viva l’attenzione dell’ascoltatore.
La Fuga culmina in una coda monumentale. La scrittura si trasforma: la polifonia lineare lascia il posto a una potente affermazione accordale del soggetto. Il tema viene esposto con accordi pieni e ottave ribattute, assumendo una dimensione quasi orchestrale. La tensione raggiunge il suo massimo, per poi risolversi in una serie di accordi finali che ribadiscono con forza la tonalità d’impianto, chiudendo il dittico con una simmetria potente e una sensazione di ineluttabile conclusione.

In sintesi, il Preludio e Fuga di Maria Giacchino Cusenza è un’opera di grande spessore che fonde magistralmente il virtuosismo post-romantico con la sapienza costruttiva barocca, dimostrando una personalità compositiva matura, originale e di altissimo livello.

Preludi non misurati

Louis Couperin (c1626 - 1661): Prélude non mesuré in re minore. Daniel Ivo de Oliveira, clavicembalo.


Louis Marchand (1669 - 1732): Prélude non mesuré (1702). Daniel Ivo de Oliveira, clavicembalo.


Carlotta Ferrari (5 agosto 1975): 3 Preludi non misurati (2014). Matthew McConnell, clavicembalo.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’anima improvvisa del clavicembalo: guida completa al preludio non misurato

Il preludio non misurato è una delle espressioni più pure, libere ed enigmatiche della storia della musica. Sbocciato nel cuore del Barocco francese del XVII secolo, non è un semplice genere, ma una vera e propria filosofia esecutiva. Rappresenta un portale sonoro che ci trasporta direttamente nella prassi improvvisativa dell’epoca, svelando l’intima collaborazione tra compositore e interprete e celebrando l’atto creativo come un evento unico e irripetibile.

Che cos’è il preludio non misurato? Una definizione approfondita
Nella sua essenza, un preludio non misurato è una composizione, tipicamente per strumenti a corde pizzicate come il liuto o il clavicembalo, scritta deliberatamente senza indicazioni metriche convenzionali. Questo significa l’assenza di stanghette di battuta, indicazioni di metro (come 3/4 o 4/4) e, soprattutto, di un sistema di valori ritmici (minime, semiminime, crome, ecc.) che definisca gerarchicamente la durata delle note.
La partitura si presenta come una sequenza di note bianche che non indicano una durata fissa, ma fungono da pilastri armonici. Queste note tracciano una mappa sonora, un percorso attraverso un paesaggio di accordi, dissonanze e risoluzioni. È fondamentale capire che “non misurato” non significa “senza forma” o “atonale” ma, al contrario, questi preludi possiedono una logica armonica ferrea e una struttura retorica ben definita. Il loro scopo non è dettare quando suonare una nota, ma suggerire come navigare il flusso armonico, trasformando l’esecuzione in un vero e proprio discorso musicale.

Le origini: lo style brisé
Le radici del genere affondano nella prassi improvvisativa dei liutisti francesi del primo Seicento, come Ennemond e Denis Gaultier. Il preludio improvvisato aveva scopi precisi:
– funzione pratica: saggiare l’acustica della sala, verificare la tenuta della delicata accordatura del liuto e “scaldare” le dita;
– funzione drammaturgica: stabilire la tonalità e l’”affetto” (il carattere emotivo) della suite che sarebbe seguita, catturando l’attenzione e preparando l’ascoltatore.
La vera chiave del passaggio di questo stile al clavicembalo risiede nel cosiddetto style brisé (stile spezzato). Poiché sia il liuto che il clavicembalo sono strumenti a suono evanescente, i musicisti svilupparono una tecnica per dare l’illusione della polifonia e del sostegno armonico: invece di suonare gli accordi simultaneamente, li “spezzavano” in arpeggi fluidi e figure melodiche sinuose. Questo non solo risolveva un problema tecnico, ma creava anche una tessitura sonora ricca e suggestiva.
Jacques Champion de Chambonnières – considerato il padre della scuola clavicembalistica francese – fu la figura ponte. Sebbene i suoi preludi fossero ancora parzialmente misurati, egli adottò pienamente lo style brisé liutistico, aprendo la strada al suo allievo più geniale, Louis Couperin, che codificò la forma del preludio non misurato per tastiera.

L’arte dell’interpretazione: guida pratica alla decifrazione
L’interprete di un preludio non misurato non è un esecutore passivo, ma un co-creatore. La notazione è un canovaccio che richiede un intervento attivo basato sulla conoscenza e sul bon goût.
Il primo passo è un’analisi armonica approfondita: l’esecutore deve identificare le progressioni, le cadenze e, soprattutto, i punti di tensione (dissonanze, settime, none) e di rilascio (risoluzioni). Questo determinerà l’arco emotivo del pezzo: dove accelerare verso un culmine, dove soffermarsi su una dissonanza struggente, dove lasciare che la risoluzione si plachi dolcemente.
Le semibrevi sono le fondamenta armoniche, ma le legature che le collegano sono l’istruzione più importante: indicano di tenere premuti i tasti per tutta la durata dell’arco. Questo crea una nuvola di risonanza, permettendo alle armonie di fondersi e sovrapporsi, sfruttando al massimo la sonorità dello strumento. Le note scritte all’interno di una stessa legatura costituiscono un unico gesto, una singola “respirazione” armonica.
All’interno della tessitura arpeggiata si celano delle linee melodiche implicite. Il compito dell’interprete è individuarle e farle emergere con sottili variazioni di tempo e agogica, come se una voce stesse cantando sopra il tappeto armonico. L’arpeggio non è un semplice effetto decorativo, ma il motore ritmico ed espressivo del brano: l’interprete deve decidere la velocità, la direzione e il carattere di ogni arpeggio. Può essere lento e maestoso, rapido e brillante, regolare o irregolare, per creare effetti di attesa, slancio o contemplazione.
La scrittura francese del Seicento dava per scontato l’uso di abbellimenti (trilli, mordenti, appoggiature), anche quando non erano esplicitamente segnati. L’interprete deve inserirli nei punti appropriati – tipicamente su note lunghe, sulle dissonanze o nelle cadenze – per aggiungere enfasi, grazia e brillantezza al discorso musicale.
Tanto importanti quanto le note sono le pause: le pauses arbitraires sono momenti di sospensione che l’esecutore inserisce per creare dramma, separare le sezioni o semplicemente lasciare che il suono si estingua nell’aria, invitando alla riflessione.

I maestri indiscussi del genere
Louis Couperin (c. 1626-1661): il maestro assoluto. I suoi preludi, conservati principalmente nel prezioso Manoscritto Bauyn, sono monumenti di libertà inventiva e audacia armonica. Spesso alternano la sezione non misurata a sezioni misurate (fugati o gighe), creando un contrasto formidabile tra contemplazione e danza.
Jean-Henri d’Anglebert (1629-1691): le sue composizioni sono le più dense, complesse e riccamente ornate. Le sue Pièces de clavecin (1689) contengono preludi di una profondità vertiginosa e includono una celebre tavola di abbellimenti che divenne un punto di riferimento per generazioni.
Louis Marchand (1669-1732): famoso tanto per il suo virtuosismo abbagliante quanto per il suo carattere difficile (la sua leggendaria mancata sfida con J.S. Bach a Dresda ne è un esempio), Marchand ha lasciato preludi che riflettono la sua personalità. Sono opere potenti, drammatiche e dal forte sapore improvvisativo, che spingono la retorica del clavicembalo verso vertici di grande intensità teatrale.
Nicolas Lebègue (1631-1702): fu un grande divulgatore dello stile. I suoi preludi sono spesso più schematici e didattici, contribuendo a diffondere la pratica del preludio non misurato anche tra gli organisti e i musicisti meno virtuosi.
Élisabeth Jacquet de La Guerre (1665–1729): straordinaria compositrice e clavicembalista, dimostrò una totale padronanza del genere. I suoi preludi sono carichi di slancio drammatico, fantasia e un uso della dissonanza che rivela una personalità musicale forte e originale.

Il tramonto, l’eterna eredità e la rinascita contemporanea
Con l’avvento del XVIII secolo e dell’Illuminismo, il gusto si spostò verso la clarté e la razionalità. L’opera teorica di Jean-Philippe Rameau (Traité de l’harmonie, 1722) codificò l’armonia in un sistema scientifico, rendendo l’approccio intuitivo e rapsodico del preludio non misurato obsoleto. Compositori come François Couperin le Grand ne rappresentano la transizione: nel suo trattato L’Art de toucher le clavecin (1716), scrisse preludi interamente misurati, ma con l’istruzione di suonarli «con discrezione, senza attaccarsi troppo alla precisione del tempo», cercando di preservarne lo spirito libero pur controllandone la forma.
L’eredità spirituale del preludio non misurato è però immensa e riaffiora carsicamente nella storia della musica:
– nelle Fantasie rapsodiche di C.P.E. Bach;
– nel principio del rubato di Chopin, dove la mano sinistra mantiene un tempo stabile mentre la destra fluttua liberamente;
– nella musica di Debussy, che con i suoi Préludes ricrea la stessa sensazione di tempo sospeso, di colore armonico e di risonanza evocativa che erano il cuore pulsante del preludio non misurato.

Una rinascita nel XXI secolo
Sorprendentemente, la storia del preludio non misurato non si è conclusa con il Barocco o con la sua eco nel Modernismo. In anni recenti, stiamo assistendo a una vera e propria rinascita del genere. Compositori contemporanei, affascinati dalla sua libertà espressiva e dalla sua notazione unica, hanno iniziato a scrivere nuovi preludi per clavicembalo. Tra questi spiccano la figura della compositrice italiana Carlotta Ferrari e quella del compositore statunitense Carson Cooman. Questi nomi sono esempi di testimonianze della vitalità senza tempo del preludio non misurato, visto non più solo un reperto storico da studiare, ma anche come una forma d’arte viva, capace di ispirare la creatività contemporanea.
In conclusione, questo genere è molto più di una curiosità storica, rivelandosi una testimonianza di un’epoca in cui la musica era concepita come un’architettura liquida, una mappa emotiva da esplorare. Richiede all’interprete di essere contemporaneamente storico, analista, retore e poeta, ed è la celebrazione di un’arte del momento, un dialogo vivo e pulsante tra la mente del compositore, le mani dell’esecutore e l’anima risonante dello strumento. Riscoprirlo oggi, anche attraverso le opere di compositori contemporanei che ne hanno raccolto il testimone, significa entrare in contatto con l’essenza stessa della creatività musicale: un atto di libertà controllata la cui eco, potente e suggestiva, non ha mai smesso di risuonare.

Carlotta Ferrari: Preludio non misurato n. 1

Qu’est-ce?

Clément Janequin (c1485 - 1558): Qu’est-ce d’amour, chanson a 4 voci (pubblicata in 24 Chansons musicales à quatre parties composées par maistre Janequin, 1533, n. 6) su testo di Francesco I di Valois re di Francia. Ensemble «Clément Janequin».

Qu’est-ce d’amour comment le peult on paindre?
Si c’est ung feu dont l’on oyt chacun plaindre,
Dont vient le froit qui amortist ung cueur?
Si c’est froideur qui cause la chaleur
Dont toute l’eau ne peult jamais estraindre?
S’il est si doux par quoy n’est doncques moindre
L’amertume? S’il est amer sans faindre
Aprenez moy dont vient ceste doulceur.
Qu’est-ce?



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Clément Janequin: il genio errante del suono

Clément Janequin è stato uno dei più prolifici e innovativi compositori francesi del Rinascimento, la cui fama è legata indissolubilmente alle sue vivaci e descrittive chansons polifoniche. Già molto celebre ai suoi tempi, ebbe tuttavia una carriera atipica, segnata da lunghi periodi di silenzio documentario e da un percorso errante tra varie città francesi, senza mai ottenere quella posizione stabile presso la corte reale che la sua notorietà avrebbe potuto garantirgli.

Una carriera itinerante e misteriosa
La vita di Janequin si snoda attraverso diverse tappe geografiche, con lunghe parentesi enigmatiche che ancora oggi lasciano spazio a ipotesi. Nato a Châtellerault da una famiglia agiata, ricevette probabilmente la prima formazione musicale presso la locale chiesa collegiata. Le prime tracce concrete della sua carriera lo collocano nel 1505 come chierico al servizio di Lancelot du Fau, un’importante figura di ecclesiastico. Già nel 1507, lo troviamo maestro dei coristi presso la Cattedrale di Luçon, dove però la sua permanenza fu turbolenta: accusato di condotta immorale, fu scomunicato, imprigionato per un breve periodo e privato del suo incarico, eventi che lo portarono a fare appello al Parlamento di Parigi.
Tra il 1507 e il 1525 si registra un vuoto biografico di diciotto anni. Paradossalmente, è durante questo periodo oscuro che la sua fama esplode: compone la sua celebre chanson La Guerre, che fa riferimento alla battaglia di Marignano (1515), e le sue opere iniziano a circolare, tanto da essere pubblicate a Venezia già nel 1520 e da meritare un intero volume dall’editore parigino Pierre Attaingnant nel 1528. Lo ritroviamo nel 1525 al servizio dell’arcivescovo Jean de Foix a Bordeaux: qui Janequin gode di diversi benefici ecclesiastici che non richiedono un grande impegno, permettendogli presumibilmente di dedicarsi assiduamente alla composizione.
Intorno al 1533 il compositore si trasferisce ad Angers, dove assume l’incarico di maestro di cappella della cattedrale fino al 1537. In questo periodo, sotto la protezione del vescovo e poeta Jean Olivier, entra in contatto con circoli letterari vicini a Clément Marot, di cui musicherà il famoso poema erotico Du beau tétin. Segue un’altra decade di silenzio documentario (1538-48), al termine della quale lo si ritrova brevemente ad Angers come “studente”, probabilmente nel tentativo di ottenere gradi accademici per accedere a benefici più redditizi.
Dal 1549 è a Parigi e, negli ultimi anni di vita, ottiene titoli onorifici (cantore ordinario della cappella del re, compositore ordinario di musica per il re), anche se questi ruoli non sembrano corrispondere a un impiego reale e potrebbero essere stati i suoi unici mezzi di sostentamento. Muore nella capitale francese nel 1558, lasciando un testamento che testimonia la sua identità di compositore.

Il rapporto incompiuto con la corte francese
Nonostante la sua immensa popolarità, Janequin non riuscì mai a ottenere una posizione stabile e prestigiosa alla corte di Francesco I. Tentò di attirare l’attenzione del re musicando alcune sue poesie, ponendosi in diretta competizione con Claudin de Sermisy, compositore di corte. Tuttavia, i suoi sforzi non si concretizzarono, se non in tarda età e in forma puramente onorifica. La sua carriera rimane un caso atipico: brevi incarichi come maestro di cappella, una vita sostenuta da benefici ecclesiastici e la protezione di alcuni vescovi, ma senza la consacrazione di un ruolo a corte.

L’opera: un’eredità monumentale
Il corpus delle composizioni di Janequin supera le 400 composizioni, cosa che fa di lui uno dei maestri più fecondi dell’epoca. Benché la sua produzione sacra sia notevole, è nell’ambito della musica profana che risiede la sua eredità più duratura.
Janequin compose due messe, tra cui la famosa Missa La Bataille, un’auto-parodia della sua stessa chanson. La sua produzione di mottetti è quasi interamente perduta, ad eccezione di un brano, Congregati sunt. Notevole è la vasta produzione di salmi e chansons spirituali, che dimostra come Janequin abbia seguito da vicino il formarsi di un repertorio musicale protestante.
Tuttavia, è con le sue circa 250 chansons che il compositore ha rivoluzionato la musica del suo tempo. Si specializzò in ampie composizioni descrittive, dove la musica evoca suoni della natura e della vita quotidiana con un realismo senza precedenti. Brani come La Guerre, Le Chant des Oiseaux, Les Cris de Paris, La Chasse e L’Alouette comprendono ampi passaggi onomatopeici, trasformando la musica in un vivido affresco sonoro: Janequin può essere considerato il primo bruitista, capace di tradurre in partitura i suoni del suo mondo, quasi come se avesse potuto registrarli. Queste opere gli diedero una rapida e vasta celebrità in tutta Europa e furono pubblicate e ripubblicate dai maggiori editori del tempo, come Attaingnant a Parigi e Gardano a Venezia. Oltre a queste, il suo repertorio spazia da canzoni rustiche e narrative a epigrammi galanti e satirici, consolidando la sua posizione come maestro indiscusso della chanson francese.

Qu’est-ce d’amour?: analisi
Questa delicata chanson si apre con un andamento lento e solenne, quasi meditativo: le quattro voci entrano in uno stile omoritmico, ovvero cantando le stesse parole simultaneamente con il medesimo ritmo. Questo conferisce alla domanda iniziale, «Qu’est-ce d’amour?», un peso e una gravitas particolari. La musica qui è prevalentemente accordale, con armonie chiare e consonanti che creano un’atmosfera di serena riflessione, quasi sacrale, che contrasta con il tormento interrogativo del testo.
La struttura musicale segue fedelmente la forma della poesia: Janequin utilizza la ripetizione di sezioni musicali per sottolineare la struttura retorica delle domande e dei paradossi. Per esempio, la melodia e l’armonia usate per la frase «comment le peult on paindre?» vengono riprese e variate per accompagnare altre domande nel testo, creando un senso di coesione formale.
Il cuore della chanson risiede nella capacità di Janequin di tradurre musicalmente i continui ossimori del testo: quando il testo parla del “fuoco” dell’amore, la dinamica vocale si intensifica leggermente, ma è soprattutto nell’armonia che si percepisce la tensione. Subito dopo, alla menzione del “freddo”, la musica sembra invece quasi “raffreddarsi”, illustrando magistralmente il paradosso descritto.
La dolcezza dell’amore («si doux») è altresì resa attraverso passaggi melodici più fluidi e armonie prevalentemente maggiori, cantate con un timbro morbido e legato, mentre la menzione dell’amarezza («l’amertume») introduce dissonanze sottili e momentanee, piccoli attriti armonici tra le voci che creano un senso di disagio, perfettamente in linea con il significato delle parole.

In sintesi, Qu’est-ce d’amour? vive di equilibri e opposizioni: Janequin è abile a creare una cornice musicale elegante e controllata per un testo che esplora il caos emotivo dell’amore.

Quattro indiscrezioni

Louis Gruenberg (3 agosto 1884 - 1964): Vier Indiskre­tionen per quartetto d’archi op. 20 (1924). The Ebony Quartet: Marleen Asberg e Anna De Vey Mestdagh, violini; Roland Krämer, viola; Daniel Esser, violoncello.

  1. Allegro con spirito
  2. Lento sostenuto e espressivo [4:01]
  3. Moderato grazioso e delicato [7:01]
  4. Allegro giocoso [9:12]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Da Schoenberg a Hollywood: l’incredibile viaggio di Louis Gruenberg

Louis Gruenberg è stato un compositore e pianista russo-americano la cui opera ha attraversato mondi musicali apparentemente distanti, dall’avanguardia europea al cinema di Hollywood, passando per il jazz e il grande repertorio operistico.

Introduzione e formazione di un talento transatlantico
Nato vicino a Brest-Litovsk (allora in Russia) nel 1884, Gruenberg emigrò con la famiglia negli Stati Uniti quando aveva pochi mesi. Cresciuto a New York, dimostrò un talento precoce per il pianoforte, studiando con Adele Margulies al Conservatorio nazionale, all’epoca diretto da Antonín Dvořák. La sua formazione fu completata in Europa, dove divenne allievo del celebre pianista e compositore Ferruccio Busoni al Conservatorio di Vienna. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale si affermò come pianista concertista e accompagnatore di talento.

L’affermazione come compositore d’avanguardia e pioniere del jazz
La svolta nella sua carriera di compositore avvenne nel 1919, quando la sua opera orchestrale The Hill of Dreams vinse il prestigioso Premio Flagler, che gli permise di dedicarsi interamente alla composizione. In questo periodo, Gruenberg sviluppò un profondo interesse per il jazz e il ragtime, integrandone ritmi e armonie nelle proprie opere. Divenne una figura centrale nella scena musicale d’avanguardia di New York, unendosi all’International Composers’ Guild (ICG) fondata da Edgard Varèse. Fu un convinto promotore della musica contemporanea, dirigendo la “prima” americana del rivoluzionario Pierrot Lunaire di Arnold Schoenberg nel 1923. A seguito di divergenze con Varèse, fondò insieme ad altri la League of Composers, consolidando il ruolo di leader nel panorama della musica moderna americana.

Il successo operistico e accademico
Il culmine della sua carriera teatrale fu raggiunto nel 1933 con la prima della sua opera espressionista The Emperor Jones, basata sul dramma di Eugene O’Neill. Messa in scena al Metropolitan, con il baritono Lawrence Tibbett nel ruolo del protagonista (in blackface), ottenne un enorme successo di critica, tanto da meritare la copertina della rivista “Time”. Negli anni successivi Gruenberg diresse il Dipartimento di composizione del Chicago Musical College (1933-36) e collaborò con personalità quali il regista Pare Lorentz e lo scrittore John Steinbeck.

La carriera a Hollywood: tra riconoscimenti e controversie
Nel 1937 il compositore si trasferì a Beverly Hills, unendosi a una comunità di esuli e compositori europei che includeva Schoenberg e Stravinskij. Iniziò una prolifica carriera nel cinema, ma non senza complessità. Lavorò alla colonna sonora del capolavoro di John Ford Ombre rosse (Stagecoach, 1939) ma, pur essendo a capo del team di compositori, inspiegabilmente non fu incluso nella lista dei candidati all’Oscar, che il film vinse per la miglior colonna sonora. Ottenne tuttavia due nomination per altrettante partiture originali: So Ends Our Night (1941), un omaggio alla cultura musicale austro-tedesca e Commandos Strike at Dawn (1942), per cui fu chiamato a sostituire Igor’ Stravinskij, il cui lavoro fu scartato perché completato prima ancora che il film fosse girato.

Il Concerto per violino e gli anni della lista nera
Nel 1944 Gruenberg raggiunse un altro importante traguardo nel mondo della musica classica: il leggendario violinista Jascha Heifetz gli commissionò il Concerto per violino op. 47, un brano vibrante e virtuosistico che fu inciso da Heifetz in quella che divenne un’esecuzione di riferimento. Nel dopoguerra, la carriera a Hollywood di Gruenberg proseguì con film importanti come All The King’s Men (1949), per cui ottenne una nomination al Golden Globe. Tuttavia, la sua carriera cinematografica si interruppe bruscamente nel 1950: si presume che le sue frequenti collaborazioni con sceneggiatori e registi finiti sulla lista nera di Hollywood durante il maccartismo abbiano portato al suo allontanamento dall’industria cinematografica.

Ultimi anni, eredità e riscoperta
Negli ultimi vent’anni della sua vita, Gruenberg si ritrovò sempre più isolato sia dal mondo del cinema che da quello della musica da concerto, pur mantenendo una stretta amicizia con Schoenberg. Non smise mai di comporre, lasciando un vasto catalogo di opere, tra cui cinque sinfonie e quattro opere complete. Morì a Los Angeles nel 1964. Caduto in un relativo oblio per decenni, il suo lavoro ha visto poi una rinascita di interesse: in particolare, il Concerto per violino è stato riscoperto e riproposto al pubblico dal violinista Koh Gabriel Kameda a partire dal 2002, riportando l’attenzione su una delle figure più versatili e ingiustamente trascurate della musica del XX secolo.

Le Quattro Indiscrezioni: analisi
L’opus 20 costituisce una rappresentazione perfetta dello stile eclettico e audace di Gruenberg. Il titolo suggerisce un approccio irriverente alle convenzioni, una volontà di mescolare linguaggi musicali considerati all’epoca incompatibili. Le quattro Indiscrezioni rivelano una profonda conoscenza della tradizione europea, una sincera passione per l’avanguardia espressionista e l’irresistibile fascino che i ritmi sincopati del jazz esercitavano su Gruenberg. L’opera è un microcosmo della sua identità di compositore transatlantico, capace di sintetizzare il rigore accademico con l’energia della musica popolare.
Il primo movimento è un’esplosione di energia nervosa e motoria: si apre senza preamboli con un motivo ritmico incisivo e martellante che funge da cellula generatrice per l’intero brano. La scrittura è densa e contrappuntisticamente complessa, con le quattro voci che si intrecciano in un dialogo serrato e a tratti aggressivo.
L’influenza del jazz è immediatamente percepibile: Gruenberg utilizza ritmi fortemente sincopati, quasi ragtime, soprattutto nella parte del violoncello che spesso abbandona il suo ruolo melodico per fornire un impulso percussivo e ostinato, a volte in pizzicato, che ricorda una linea di basso walking bass. L’indicazione “con spirito” è interpretata come una vitalità irrequieta, quasi meccanica, che anticipa certi aspetti del neoclassicismo di Stravinskij o del futurismo.
L’armonia è spigolosa e costantemente dissonante: sebbene non si tratti di una dodecafonia rigorosa, Gruenberg si muove liberamente in un’atonalità che genera una tensione continua. Le linee melodiche sono frammentate, spezzate e passano rapidamente da uno strumento all’altro, evitando la cantabilità tradizionale. Emergono brevi oasi più liriche, ma vengono subito travolte dal flusso ritmico inarrestabile.
Il movimento è costruito su contrasti dinamici e di densità: a sezioni di grande impeto, eseguite con forza da tutto il quartetto, si alternano momenti più rarefatti e sommessi, dove emergono dialoghi più intimi tra due strumenti. La conclusione è brusca e affermativa, sigillando un’apertura dirompente e piena di carattere.
Con il secondo movimento, si viene proiettati in un universo sonoro completamente diverso: questa sezione è il cuore emotivo e lirico dell’opera, un brano di profonda introspezione che rivela l’influenza dell’espressionismo della seconda Scuola di Vienna, in particolare di Schoenberg, di cui Gruenberg fu un grande promotore.
Il movimento si apre con un lungo e toccante canto solitario della viola, la cui melodia cromatica e dolente stabilisce immediatamente un’atmosfera di malinconia e desiderio. Questa linea melodica, piena di inflessioni espressive, è il fulcro del brano. Gradualmente, gli altri strumenti entrano, costruendo un tessuto sonoro denso e avvolgente.
L’armonia è ricca, satura di cromatismi e tensioni che non si risolvono mai completamente, creando un senso di struggimento continuo. La scrittura è caratterizzata da un contrappunto imitativo molto fitto, dove frammenti della melodia principale vengono ripresi e sviluppati dalle altre voci. L’apice emotivo viene raggiunto con l’ingresso del primo violino su un registro acutissimo, un lamento lancinante che sovrasta il denso intreccio armonico sottostante.
Qui si può anche notare un uso magistrale della dinamica, con lunghi crescendo che portano a climax di grande intensità, seguiti da improvvisi subito piano che riportano a un’atmosfera di intimità e riflessione. È un pezzo che richiede una sensibilità e un controllo del suono eccezionali, mettendo in luce l’anima tardo-romantica del compositore.
Il terzo movimento funge da scherzo, un intermezzo leggero e spiritoso che offre un momento di respiro dopo l’intensità del Lento. Qui l’”indiscrezione” sta nel giustapporre una sorta di danza spettrale e ironica tra due movimenti di grande peso drammatico.
Il carattere è elusivo e quasi impalpabile: Gruenberg ottiene questo effetto attraverso un uso quasi costante del pizzicato in tutte le parti, trasformando il quartetto d’archi in uno strumento a corde pizzicate che ricorda un mandolino o un clavicembalo surreale. L’indicazione grazioso e delicato è perfettamente resa da questa scelta timbrica.
Il movimento ha il vago andamento di una danza, forse un valzer distorto o una polka ironica: le melodie sono brevi, frammentarie e scherzose, rimbalzando tra gli strumenti con leggerezza, mentre l’atmosfera è quella di un carillon meccanico e un po’ inquietante, rimandando a certe pagine di Satie o di Ravel.
L’uso della sordina è un altro elemento chiave, che attutisce ulteriormente il suono e contribuisce all’atmosfera sognante e distante. L’interazione tra gli strumenti è giocosa, basata su rapidi scambi di brevi figure ritmiche e melodiche, in un perfetto esempio di scrittura arguta e sofisticata.
Il finale è una danza travolgente e rustica, che riprende l’energia del primo movimento ma la incanala in una direzione più popolare e giocosa: è una conclusione che celebra il vigore ritmico con un tocco di esuberanza quasi selvaggia.
Il movimento è dominato da un’energia ritmica inarrestabile, basata su ostinati percussivi e un andamento che ricorda una danza popolare dell’Europa orientale o una tarantella frenetica. Il violoncello e la viola forniscono una base ritmica potente e quasi barbarica, mentre i violini si lanciano in passaggi virtuosistici e melodie taglienti.
A differenza del primo movimento, il cui modernismo era più astratto, qui si avverte un chiaro sapore folk: le melodie – pur inserite in un contesto armonico dissonante – hanno inflessioni modali e un andamento che evoca la musica tradizionale. Questa fusione tra un linguaggio armonico moderno e un materiale tematico di matrice popolare è una delle cifre stilistiche più interessanti di Gruenberg.
Il brano impegna severamente i quattro interpreti: richiede grande precisione ritmica e agilità tecnica. La struttura rapsodica presenta sezioni susseguentisi in un crescendo di velocità e intensità fino alla coda finale, che accelera in un vortice sonoro inarrestabile per poi concludersi con accordi secchi e decisi, ponendo fine all’opera con un’affermazione di vitalità incontenibile.

In stile antico – VI

Emil von Reznicek (1860 - 2 agosto 1945): Sinfonia n. 3 in re minore-maggiore, Im alten Stil (1918). Philharmonia Hungarica, dir. Gordon Wright.

  1. Andante – Allegro ma non troppo
  2. Andante [9:21]
  3. Tempo di minuetto [16:29]
  4. Allegretto con anima [22:02]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’enigma Reznicek: fama, oblio, riscoperta

La vita di Emil Nikolaus von Reznicek, figura complessa e sfaccettata nel panorama musicale austro-tedesco, si svolse sotto l’impero asburgico, la Repubblica di Weimar e il Terzo Reich. La sua carriera fu un’altalena di successi clamorosi, scandali personali, difficili compromessi politici e un lungo oblio, cui solo di recente si sta ponendo rimedio.

Origini nobili e una vocazione musicale
Nato a Vienna in una famiglia di alto rango, Reznicek aveva radici aristocratiche e militari: il padre era tenente feldmaresciallo dell’esercito austro-ungarico, elevato al rango di barone, la madre era una principessa romena. Nonostante una giovinezza agiata, fu segnato dalla morte prematura della madre e da un rapporto difficile con la matrigna. La musica divenne presto il suo rifugio esistenziale; il padre lo aveva destinato alla carriera diplomatica, costringendolo a studiare legge a Graz, ma il giovane perseguì parallelamente la propria formazione musicale con Wilhelm Mayer, maestro anche di Busoni e Weingartner. Dopo aver fallito (forse deliberatamente) un primo esame di giurisprudenza, ottenne finalmente il permesso paterno di dedicarsi interamente alla musica, perfezionandosi al Conservatorio di Lipsia.

La formazione e l’ascesa: il successo di Donna Diana
Gli anni successivi furono quelli di un musicista itinerante. Reznicek lavorò come direttore d’orchestra e maestro di cappella in numerosi teatri tra Zurigo, Stettino, Jena, Bochum e Berlino, un percorso instabile che gli costò gran parte dell’eredità materna. Un punto di svolta avvenne a Praga: dopo essere stato congedato dall’incarico di Kapellmeister (direttore musicale) dell’88º Reggimento di fanteria a seguito di un duello, si dedicò alla composizione di un’opera, Donna Diana, la cui prima rappresentazione, a Praga nel 1894, fu un trionfo.

Maturità artistica a Berlino
Dopo un periodo a Mannheim come direttore musicale di corte, fu costretto a dimettersi a causa di uno scandalo: la sua relazione con Berta Juillerat-Chasseur, non ancora divorziata e di origini in parte ebraiche, fu considerata inaccettabile. Reznicek trasfuse questa esperienza nell’opera successiva, Till Eulenspiegel, una satira della società borghese guglielmina. Nel 1903 si trasferì a Berlino, dove visse fino alla morte; qui la sua carriera entrò in una nuova fase: dopo una crisi personale e grazie al sostegno del mecenate Hans Conrad Bodmer, inaugurò un secondo e più maturo periodo creativo. L’opera Ritter Blaubart, composta durante la prima guerra mondiale ma rappresentata solo nel 1920 a causa della censura, con la sua drammaturgia espressionista e l’analisi psicologica del protagonista ridefinì l’immagine pubblica di Reznicek, annoverato tra i più importanti musicisti della sua generazione insieme con Richard Strauss e Hans Pfitzner, ottenendo riconoscimenti come l’appartenenza all’Accademia delle arti prussiana.

Compromessi, pericoli e resistenza familiare
L’ascesa del nazismo nel 1933 rappresentò una cesura drammatica, poiché le origini ebraiche della moglie Berta misero l’intera famiglia di Reznicek in grave pericolo. La sua situazione familiare era un compendio delle contraddizioni dell’epoca: mentre il figlio Emil-Ludwig era membro del partito nazista e delle SS, la figlia Felicitas divenne un’attiva combattente della Resistenza e un’agente dei servizi segreti britannici. Reznicek aderì al Consiglio permanente per la cooperazione internazionale dei compositori, un’organizzazione fondata dall’amico Richard Strauss; benché il regime tentasse di sfruttarla a fini propagandistici, il compositore utilizzò la sua posizione di delegato tedesco per promuovere, nei festival internazionali in Germania, anche opere di compositori altrimenti osteggiati, inclusi autori ebrei. La sua posizione fu ambigua: ricevette onorificenze dal regime (come la Medaglia Goethe e la nomina a professore da parte di Hitler), ma fu anche marginalizzato e privato di significative entrate economiche, poiché le sue opere di maggior successo non poterono più essere rappresentate.

Gli ultimi anni
Nel 1942 il Consiglio permanente fu di fatto esautorato e messo sotto il controllo di persone fedeli al partito. Durante i bombardamenti su Berlino, i manoscritti di Reznicek furono requisiti e in seguito finirono nelle mani dell’Armata rossa (una parte è ancora oggi dispersa). Colpito da un ictus a fine 1943, Reznicek divenne progressivamente demente e bisognoso di cure. Tornato nella sua casa di Berlino poco prima della fine della guerra, morì il 2 agosto 1945 di tifo da fame. La sua sepoltura fu un simbolo della desolazione post-bellica: grazie a un gallone di benzina fornito da un giornalista americano, il suo corpo fu trasportato al cimitero, ma i portatori dovettero spogliarsi dei loro abiti scuri a un posto di blocco sovietico, e la sepoltura avvenne in biancheria intima.

Eredità e riscoperta: da compositore dimenticato a voce del Novecento
La ricezione postuma di Reznicek è stata problematica. L’ouverture di Donna Diana è diventata un classico della musica da concerto, resa ulteriormente popolare in Germania come sigla di un celebre quiz televisivo. L’opera stessa e il resto della sua produzione caddero invece nell’oblio. Considerato un compositore tonale epigonale in un’epoca dominata dalle avanguardie, la sua riscoperta è stata ulteriormente ostacolata dalle accuse, poi rivelatesi infondate grazie a ricerche recenti, di essere stato un simpatizzante nazista. Solo negli ultimi decenni è iniziato un processo di rivalutazione: nuove messe in scena delle sue opere principali e la pubblicazione di registrazioni discografiche delle sue opere sinfoniche hanno sancito il rilievo di Reznicek quale autore di un contributo importante e originale alla musica del Novecento.

La Terza Sinfonia: analisi
Opera affascinante che si colloca in un crocevia stilistico, benché scritta in un’epoca dominata dalle avanguardie e dal tardo-romanticismo espressionista, la Terza Sinfonia di Reznicek guarda deliberatamente indietro, omaggiando le forme e l’equilibrio del Classicismo viennese, senza però rinunciare a un linguaggio armonico e a una ricchezza orchestrale tipicamente romantici. Essa si rivela un’opera non di semplice imitazione, ma di sapiente sintesi, un dialogo tra la chiarezza di Haydn e Schubert e il calore emotivo di Dvořák o Brahms.
Il primo movimento segue la tradizionale struttura classica con un’introduzione lenta che precede un Allegro in forma-sonata. L’apertura vede un’atmosfera pensosa e pastorale in re minore, con un assolo lirico ed espressivo del violoncello che introduce il materiale tematico principale, presto raggiunto dagli altri archi in un dialogo contrappuntistico che crea una tessitura calda e malinconica. L’orchestrazione è trasparente, evocando un’intimità cameristica. Questa sezione introduttiva costruisce gradualmente la tensione, modulando e preparando con maestria l’arrivo della sezione principale.
Con un cambio di tempo e modo (in re maggiore), irrompe il primo tema, gioioso, ritmico e dal carattere quasi rustico, simile a una danza popolare. Affidato principalmente agli archi e ai legni, è caratterizzato da un’energia contagiosa e una melodia chiara e memorabile, che stabilisce immediatamente un’atmosfera ottimista. Dopo una transizione, viene introdotto il secondo tema, di carattere contrastante, cantabile, lirico e delicato. L’orchestrazione si fa più rarefatta, con i flauti e gli oboi che espongono la melodia su un tappeto gentile degli archi. È una melodia tenera e sognante che fornisce un perfetto momento di riposo emotivo.
La sezione di sviluppo è il cuore drammatico del movimento: qui Reznicek frammenta e rielabora i due temi principali, esplorandone le potenzialità contrappuntistiche e armoniche. L’atmosfera diventa più instabile e tesa, con passaggi in tonalità minori, un uso più incisivo degli ottoni e repentini cambi di dinamica. L’interazione tra le diverse sezioni orchestrali è brillante, dimostrando una grande padronanza della scrittura sinfonica.
La ricapitolazione riporta il primo tema in tutta la sua forza, riaffermando la tonalità di re maggiore. Segue il secondo tema lirico, ora anch’esso nella tonalità d’impianto, come vuole la tradizione. Il movimento si conclude con una coda vigorosa e trionfale, in cui gli ottoni guidano l’orchestra verso una chiusura energica e affermativa.
Il secondo movimento è un Andante profondamente lirico e cantabile, che costituisce il centro emotivo della sinfonia. La sua struttura può essere interpretata come una forma ternaria ABA′ con elementi di variazione.
Il movimento si apre con una melodia semplice, serena e di struggente bellezza, esposta dagli archi. Il suo carattere è intimo e pastorale, quasi una romanza o un inno. La scrittura è elegante e fluida, pervasa da un calore e una sincerità che ricordano Schubert.
La sezione centrale introduce un elemento di contrasto e l’atmosfera si fa più inquieta e passionale. La melodia passa ai legni, con splendidi assoli di clarinetto e oboe, mentre l’armonia si tinge di un cromatismo più denso: c’è un senso di nostalgia e di leggero turbamento che arricchisce la tavolozza emotiva del movimento, pur senza mai perdere la sua grazia di fondo.
Il tema principale ritorna, ma questa volta con un’orchestrazione più ricca e un’intensità emotiva maggiore: è come se la melodia, dopo aver attraversato il dubbio della sezione precedente, riemergesse con una consapevolezza più profonda. Il movimento si dissolve in una coda pacata e sognante, che conclude in un’aura di pace e tranquillità.
Come suggerisce il titolo, il terzo movimento è un omaggio diretto alla tradizione classica, un Minuetto con trio: non uno scherzo romantico e impetuoso, dunque, ma una danza elegante e misurata, dal sapore settecentesco.
La sezione principale è costruita su una melodia aggraziata e aristocratica, con il caratteristico ritmo ternario. L’orchestrazione alterna con eleganza gli archi e i fiati in un gioco di domande e risposte. Lo stile è garbato e formale, evocando le danze di corte ma con un colore armonico più ricco rispetto al Classicismo puro.
La sezione centrale, il trio, offre un netto contrasto: la tessitura orchestrale si assottiglia, diventando più leggera e trasparente. L’atmosfera è più intima e rustica, con i legni (in particolare flauto e clarinetto) che disegnano melodie bucoliche su un delicato accompagnamento degli archi pizzicati. È un intermezzo di grande fascino e semplicità. Il movimento si conclude con la ripresa esatta del Minuetto, che riporta l’atmosfera iniziale e chiude la forma in modo equilibrato e simmetrico, in perfetta aderenza allo “stile antico”.
Il finale è un movimento brillante e pieno di slancio, costruito in una forma che unisce gli elementi del rondò e della forma-sonata (rondò-sonata). È una conclusione piena di luce ed energia.
Il movimento si apre immediatamente con il tema principale, un motivo vivace, spensierato e ritmicamente incalzante, presentato dagli archi: questo tema ricorrente funge da pilastro strutturale e conferisce al finale il suo carattere gioioso e propulsivo. Il tema principale si alterna a episodi contrastanti: un primo episodio più melodico e giocoso è seguito da una sezione più complessa e drammatica che funge da vero e proprio sviluppo. Qui, Reznicek frammenta il tema del rondò, lo passa attraverso diverse tonalità e lo contrappone a fanfare degli ottoni, creando un climax di notevole tensione sinfonica.
Dopo la tempesta dello sviluppo, il tema del rondò ritorna trionfalmente, seguito dagli altri elementi tematici. La coda finale è un’esplosione di gioia orchestrale: il tempo accelera progressivamente e l’intera orchestra, con ottoni squillanti e timpani martellanti, si lancia in una conclusione esuberante e virtuosistica, suggellando la sinfonia con una potente e luminosa affermazione in re maggiore.

Ricercare primo

Fabrizio de Rossi Re (1° agosto 1960): Ricercare primo per arpa e quartetto d’archi (2004). Claudia Antonelli, arpa; Enesemble Algoritmo (Francesco Peverini e Manfred Croci, violini; Gabriele Croci, viola; Matteo Maria Zurletti, violoncello), dir. Marco Angius.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Fabrizio de Rossi Re: un cosmonauta nel mondo della musica

Fabrizio de Rossi Re è un compositore italiano la cui opera si distingue per un’eccezionale apertura a diverse esperienze artistiche, fuse in uno stile multiforme ma sempre personale e riconoscibile. La sua musica riesce a conciliare i linguaggi della ricerca sperimentale con una comunicazione diretta, posizionandolo come una figura unica nel panorama musicale contemporaneo.

Formazione e carriera accademica
Fabrizio de Rossi Re ha compiuto gli studi presso il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, dove si è diplomato sotto la guida di Mauro Bortolotti (composizione) e Raffaello Tega (strumentazione per banda). La sua formazione è stata arricchita da incontri significativi con figure di spicco del mondo musicale, tra cui il pianista jazz Umberto Cesari, Sylvano Bussotti presso la Scuola di Fiesole, Salvatore Sciarrino ai corsi di perfezionamento di Città di Castello e una proficua collaborazione con Luciano Berio, che gli ha commissionato diverse composizioni. Membro dell’associazione Nuova Consonanza dal 1986, egli ha ricoperto il ruolo di presidente di giuria in numerosi concorsi internazionali di composizione ed esecuzione musicale. La sua carriera accademica lo ha visto insegnare nei conservatori di Pesaro, L’Aquila, Bologna e Fermo. Dal 2021 è docente presso il Conservatorio di Perugia. Ha inoltre tenuto corsi e stage di perfezionamento in composizione musicale applicata alla didattica, allo spettacolo e alla multimedialità in prestigiose istituzioni.

Lo stile: tra sperimentazione e comunicazione
La cifra stilistica di Fabrizio de Rossi Re è caratterizzata da un’esplorazione a 360 gradi che accoglie e coniuga esperienze musicali eterogenee: descritto come «una sorta di cosmonauta che gira attorno al mondo della musica con antenne sensibilissime», il compositore trasfigura stimoli sonori, gestuali e antichi attraverso il filtro della sua personalità. La sua musica è costantemente in bilico tra l’eredità della sperimentazione e la volontà di una comunicazione diretta con l’ascoltatore. Questa duplice natura si riflette nella capacità di assimilare diverse tecniche musicali, dalla tradizione colta al jazz, e di integrare le lezioni delle avanguardie del Novecento in un linguaggio autonomo. Il compositore – mantenendo il gusto per l’impatto sonoro tipico dell’esecutore – dimostra come sia possibile un ascolto gratificante e non banale, rendendo compatibili universi musicali differenti.

Una prolifica produzione artistica
Autore prolifico ed eseguito a livello internazionale, Fabrizio de Rossi Re ha dedicato una particolare attenzione al teatro musicale e a una vasta gamma di generi, dalle opere radiofoniche alle composizioni sinfoniche e cameristiche.
La sua produzione teatrale include opere come Biancaneve, ovvero il perfido candore (1993), su libretto proprio; Cesare Lombroso o il corpo come principio morale (2001) e Musica senza cuore (2003), un’azione musicale grottesca tratta dal libro Cuore, che ha visto la partecipazione di Paola Cortellesi. Tra i lavori più recenti si annoverano King Kong, amore mio (2011), Animali fantastici (2019) – su testi di Leonardo da Vinci – e Magic Circles. Storia di Martin W. che sapeva contare le stelle (2022), con Vinicio Marchioni come protagonista. Spesso è anche interprete al pianoforte nelle proprie opere di teatro musicale da camera, come nel ciclo Canti di cielo e terra e in Cantopinocchio (con Simona Marchini), La scoperta dell’America (con Massimo Wertmüller) e Il Quaderno di Sonia (con Sonia Bergamasco).
Per Rai-Radio Tre ha composto diverse opere radiofoniche, tra cui Terranera (1994) – su testo di Valerio Magrelli e con la regia di Giorgio Pressburger – e Vox in bestia. Gli animali della Divina Commedia (Inferno), selezionato per il Prix Europa 2022. Ha ricevuto anche importanti commissioni da istituzioni come l’Accademia nazionale di Santa Cecilia, per cui ha scritto Rappresentatione per strumenti antichi, coro e orchestra (2001), e la Fondazione Musica per Roma, per la quale ha composto Terror vocis (2009). Altre commissioni di rilievo includono lavori per l’Orchestra «Toscanini» di Parma e l’Orchestra di Losanna.
La sua vasta produzione cameristica è infine eseguita costantemente in Italia e all’estero: tra i brani più significativi si segnalano il Ricercare per clavicembalo e archi, scritto per il quartetto d’archi dei Berliner Philharmoniker (2004), Rondò di notte, su commissione del Teatro La Fenice di Venezia (2014), e Arpie (dal canto XIII dell’Inferno di Dante) (2020). Per la danza ha composto L’ombra dentro la pietra, una produzione di Romaeuropa Festival (1996) e del Teatro Hebbel di Berlino (1997).

Il Ricercare Primo: analisi
Fin dal titolo questa composizione dichiara la propria duplice natura: un omaggio a una forma antica, il ricercare, trasfigurata attraverso una sensibilità e un linguaggio prettamente contemporanei.
Il brano si apre in un’atmosfera sospesa e rarefatta: non c’è un tema definito, ma un dialogo esitante tra gli archi. Un violino solo introduce una linea melodica frammentata, quasi un lamento, a cui rispondono gli altri strumenti del quartetto con note lunghe e armonie diafane. La scrittura è contrappuntistica e moderna e le voci si intrecciano senza una chiara gerarchia, creando un tessuto sonoro che evoca attesa e introspezione: è il paesaggio prima dell’evento, la quiete che precede la tempesta. L’arpa tace, lasciando che gli archi costruiscano lentamente una tensione armonica sottile ma persistente. Questa introduzione funge da prologo, presentando il materiale cellulare e l’ambiente emotivo da cui scaturirà l’intera narrazione musicale.
La sezione successiva è introdotta da un cambiamento radicale di carattere: il ritmo si fa più serrato e concitato. L’arpa entra in scena con una serie di arpeggi e glissandi rapidissimi, assumendo un ruolo da protagonista virtuosistico. Il quartetto d’archi risponde con figurazioni ritmiche secche e frammentate, inclusi pizzicati e colpi d’arco decisi, creando un dialogo serrato e conflittuale. La scrittura esplora timbri moderni: gli archi utilizzano tecniche come il sul ponticello per produrre suoni stridenti e metallici, quasi a evocare il ruggito del mostro marino nel dipinto. L’arpa non è solo melodia, ma diventa percussione e colore, con passaggi di estrema agilità che si intrecciano in un vortice sonoro. Il culmine di questa sezione è un climax di straordinaria potenza drammatica: il quartetto esplode in accordi dissonanti e aggressivi, mentre l’arpa li travolge con un glissando fragoroso. Immediatamente dopo, la musica si dissolve in un silenzio quasi totale, lasciando solo gli armonici eterei degli archi e i delicati arpeggi dell’arpa, come polvere che si deposita dopo la battaglia.
Da questa quiete emerge la sezione più lirica e cantabile del brano: il tempo rallenta e l’atmosfera si trasfigura in una bellezza celestiale e sognante. L’arpa introduce un tema melodico dolce e malinconico, mentre il quartetto d’archi la sostiene con accordi lunghi e morbidi, creando un tappeto sonoro caldo e avvolgente. Il dialogo tra gli strumenti è qui di pura empatia: la melodia passa fluidamente dall’arpa agli archi, che la sviluppano con un’intensità crescente ma sempre contenuta. Questa sezione è un’oasi di pace, un momento di contemplazione e sollievo che contrasta nettamente con la violenza precedente. La scrittura di Fabrizio de Rossi Re dimostra qui la sua capacità di creare un’emozione diretta e gratificante, senza mai cadere nella banalità.
L’ultima parte del brano è una celebrazione energica e gioiosa: il carattere muta ancora una volta in una sorta di danza stilizzata dal sapore neo-barocco. Il ritmo diventa il motore principale, con figurazioni ostinate e scattanti che si rimbalzano tra l’arpa e il quartetto. Questo finale ha la struttura di una toccata virtuosistica, in cui tutti gli strumenti partecipano a un gioco contrappuntistico brillante e festoso. L’energia cresce in un crescendo inarrestabile, culminando in una serie di accordi potenti e ribattuti che portano a una cadenza finale di grande impatto. Tuttavia, de Rossi Re sorprende l’ascoltatore con una coda inaspettata: invece di concludere trionfalmente, la musica si dissolve improvvisamente. L’energia si spegne, lasciando spazio agli stessi armonici acuti e ai suoni evanescenti dell’arpa sentiti dopo il climax della lotta. Il brano non si chiude, ma si smaterializza, svanendo in un silenzio carico di risonanze, come un mito che si ritira nell’eco del tempo.

Buon compleanno, Maestro!

Au tombeau de Tut Ankh Amon

Alexandre Dénéréaz (31 luglio 1875 - 25 luglio 1947): Au tombeau de Tut Ankh Amon, poema sinfonico (1925). Orchestra sinfonica di Volgograd, dir. Emmanuel Siffert.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Alexandre Dénéréaz, musicista vodese

Interessante figura di compositore, organista e didatta svizzero, Alexandre Dénéréaz si dedicò con passione allo studio delle prassi esecutive e alla riflessione teorica sulla musica.

Formazione e primi successi
Nato a Losanna da Charles-César, maestro di musica, e Charlotte-Elise Pilet, pianista, intraprese studi classici, scientifici e musicali nella città natale. Nel 1892 si trasferì a Dresda per perfezionarsi presso il locale Conservatorio reale; durante i quattro anni di studio in Germania, ebbe maestri di prim’ordine: Karl-Heinrich Doering (pianoforte), Julius Johannsen (organo) e il celebre Felix Draeseke (composizione). Il suo talento fu presto riconosciuto e, nel 1896, ottenne il primo premio di composizione per la sua Prima Sinfonia, un’opera che segnò l’inizio di una brillante carriera.

Una carriera poliedrica a Losanna
Tornato a Losanna nel 1896, Dénéréaz divenne una figura cardine della scena musicale locale: fu nominato organista della Chiesa di Saint-François, incarico che mantenne per tutta la vita e dove si distinse anche come organizzatore di grandi concerti. Nello stesso anno, succedette al suo ex maestro, Charles Blanchet, come insegnante al Conservatorio di Losanna, dove fu professore di organo e di teoria musicale dal 1896 al 1947; fu inoltre libero docente di estetica musicale all’Università dal 1918 al 1945. Parallelamente si dedicò con passione alla direzione corale, guidando il coro della Société Sainte-Cécile e il coro maschile La Recréation di Yverdon-les-Bains. Nel 1899 fu tra i membri fondatori dell’Associazione dei musicisti svizzeri, a testimonianza del suo impegno per lo sviluppo della cultura musicale nazionale.

Composizioni e opere teoriche
Dénéréaz ha lasciato un vasto e variegato catalogo di opere musicali, fra le quali spicca la Cantata per il centenario dell’Indipendenza del Vaud (1903), su testo di René Morax. La sua produzione comprende ben cinque sinfonie, un’ouverture, un poema sinfonico, una suite sinfonica, concerti per pianoforte, violino e violoncello, quartetti, un Concerto grosso per orchestra e diverse sonate per organo e cori.
Coltivò inoltre un profondo interesse per la musicologia e la teoria musicale, lasciando in eredità importanti trattati. La sua opera principale è La musique et la vie intérieure, un monumentale saggio che descrive l’evoluzione dell’arte musicale dalle origini fino all’epoca moderna, con un capitolo di particolare rilievo dedicato allo spirito della musica nel Medioevo e nel Rinascimento. Il libro suscitò l’interesse di importanti personalità del mondo musicale, come Nadia Boulanger e Alfred Cortot, che ebbero contatti epistolari con l’autore. Tra le sue altre pubblicazioni si annoverano L’évolution de l’art musical depuis ses origines jusqu’à l’epoque moderne (1919), un corso d’armonia, Rythmes cosmiques et rythmes humains e La gamme, ce problème cosmique.

Analisi di Au tombeau de Tut Ankh Amon
Questo poema sinfonico testimonia l’ondata di “egittomania” che travolse l’Europa in seguito alla sensazionale scoperta della tomba del faraone fanciullo da parte di Howard Carter il 4 novembre 1922. Lungi dall’essere un mero esercizio di stile, il brano è un affresco sonoro ricco, evocativo e magistralmente orchestrato, che guida l’ascoltatore in un viaggio narrativo attraverso il mistero, la grandezza e la sacralità dell’antico Egitto.

Il poema sinfonico si apre in un’atmosfera di profondo mistero e sospensione, con i primi suoni che evocano l’oscurità silenziosa e immobile di una tomba inviolata da millenni. L’orchestrazione è da subito protagonista: gli archi suonano con la sordina, creando un tappeto sonoro ovattato e teso, mentre i legni gravi (fagotti, controfagotto) disegnano linee cromatiche discendenti che suggeriscono una lenta discesa nel sottosuolo. L’arpa, con i suoi arpeggi eterei, aggiunge un tocco di magia e antichità. Il vero cuore di questa introduzione è la melodia lamentosa e arcaica del corno inglese, un tema che funge da Leitmotiv del mistero: il suo carattere orientaleggiante è ottenuto attraverso l’uso di intervalli modali e di seconda aumentata, un cliché stilistico dell’epoca per rappresentare l’esotico, ma qui utilizzato con grande efficacia per creare un senso di tempo remoto e di sacralità. È come se la musica descrivesse il primo sguardo di Carter attraverso il foro, un mondo di meraviglie avvolto dalle tenebre.
La musica cambia poi carattere ed emerge un ritmo più marcato e solenne, introdotto dai timpani e dagli archi gravi. Le trombe e i corni, inizialmente con sordina, intonano frammenti di fanfara che evocano una processione funebre, un corteo rituale proveniente da un passato lontano. La dinamica cresce gradualmente, costruendo una tensione che non è più solo di mistero, ma di grandezza imminente. L’armonia si fa più densa e imponente, suggerendo la solennità di una cerimonia antica, forse la deposizione stessa del sarcofago del faraone.
Arriva il primo grande climax emotivo e sonoro del poema e la musica esplode in un tutti orchestrale che incarna lo splendore e la potenza della civiltà egizia: gli archi si lanciano in ampie frasi melodiche ascendenti, cariche di pathos tardo-romantico, mentre gli ottoni (ora senza sordina) risuonano con accordi potenti e squillanti. È un momento di pura magnificenza visiva tradotta in suono, quasi cinematografico, che potrebbe rappresentare la visione abbagliante della camera del tesoro, con l’oro e le gemme che brillano alla luce delle torce.
Dopo la maestosità del climax, l’atmosfera si placa improvvisamente, diventando trasognata, intima e lirica. Questa è la sezione della contemplazione: l’orchestrazione si fa nuovamente delicata e cameristica. Splendidi assoli del flauto e del clarinetto dialogano con gli arpeggi dell’arpa, creando un’atmosfera di incanto e meraviglia quasi impressionista. La musica assume un andamento quasi di danza stilizzata, un ritmo cullante che sembra descrivere la quieta ammirazione per i dettagli finemente lavorati degli oggetti ritrovati, dalla maschera d’oro ai gioielli preziosi.
Il brano si avvia verso la sua conclusione con una seconda, ancora più imponente, ondata di energia. Il tema processionale ritorna, ma questa volta in modo trionfale e inarrestabile, non più come un’eco lontana ma come una visione vivida e presente. L’intera orchestra è mobilitata in un crescendo travolgente che culmina nella riaffermazione gloriosa del tema principale, simbolo della maestà immortale del faraone.
Tuttavia, questa grandezza è effimera: la coda vede l’orchestra diradarsi bruscamente, tornando all’atmosfera misteriosa dell’inizio. I suoni si smorzano, gli archi tornano in sordina, i legni gravi riprendono le loro frasi discendenti. È come se la porta della tomba si richiudesse, lasciando la visione del passato alle spalle e restituendo l’ascoltatore al silenzio del presente. Il brano si conclude su un accordo sommesso e un ultimo pizzicato, sigillando definitivamente il mistero.
Dénéréaz si dimostra un maestro della tavolozza orchestrale. L’uso sapiente dei timbri è fondamentale per la narrazione: il corno inglese per il lamento arcaico, l’arpa per l’incanto, i legni solisti per la contemplazione, gli ottoni per la maestà regale e le percussioni (timpani, piatti, tam-tam) per marcare il ritmo rituale. Il contrasto tra le sezioni cameristiche e i potenti tutti orchestrali è il motore principale della dinamica del pezzo.
La scrittura melodica attinge a piene mani dal linguaggio tardo-romantico, con ampi slanci espressivi, ma lo colora di esotismo attraverso l’impiego di scale modali e intervalli caratteristici (come la seconda aumentata). L’armonia è ricca e cangiante, saldamente ancorata alla tonalità ma con frequenti deviazioni cromatiche e accordi “coloristici” di stampo impressionista, che servono a creare atmosfera più che a seguire una progressione funzionale tradizionale.

Nel complesso, Au tombeau de Tut Ankh Amon è un eccellente esempio di musica a programma, in cui ogni elemento musicale è al servizio di un’idea narrativa chiara e potente. Denéréaz riesce a fondere la grandiosità armonica e melodica della tradizione tardo-romantica tedesca (eredità dei suoi studi a Dresda) con la sensibilità per il colore timbrico tipica della scuola francese. Il risultato è un poema sinfonico affascinante, visivo e coinvolgente, una gemma nascosta del repertorio del primo Novecento che merita di essere riscoperta, capace di trasportare l’ascoltatore direttamente tra le sabbie del tempo, al cospetto di un re immortale.

Grave maestoso energico

Barone Herman Severin Løvenskiold (30 luglio 1815 - 1870): Ouverture del balletto Sylfiden (La Sylphide; 1836). Det Kongelige Kapel, dir. David Garforth.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Herman Severin Løvenskiold, il compositore norvegese che conquistò la Danimarca

Løvenskiold è una figura emblematica della musica romantica scandinava, compositore di origine norvegese la cui carriera e fama sono indissolubilmente legate alla Danimarca. La sua opera più celebre, la partitura per il balletto Sylfiden, non solo lo ha consacrato nella storia della musica, ma è diventata un pilastro della cultura danese.

La nascita tra i fiordi e il trasferimento in Danimarca
Nato in Norvegia presso la ferriera di Holden Jernværk, Herman Severin era figlio di Eggert Løvenskiold, il direttore dell’impianto. La sua vita prese una svolta decisiva nel 1829, quando la famiglia si trasferì in Danimarca. Fin da bambino, Herman mostrò un talento musicale così eccezionale da convincere il padre ad abbandonare il progetto di avviarlo alla carriera militare. Il giovane Løvenskiold poté così dedicarsi alla sua vera passione, formandosi sotto la guida del compositore Peter Casper Krossing.

La consacrazione: il successo imperituro di Sylfiden
Il suo debutto fu tanto precoce quanto trionfale: nel 1836, a soli 21 anni, compose la musica per la storica versione di August Bournonville del balletto Sylfiden per il Balletto reale danese. Il lavoro ottenne un successo immediato e duraturo, tanto da rimanere un punto fermo nel repertorio del Teatro reale di Copenaghen fino ai giorni nostri. La sua fama ha varcato i confini nazionali e il balletto è stato inserito nel Canone culturale danese, a testimonianza della sua importanza per le arti sceniche del Paese.

Il perfezionamento in Europa e la maturità artistica
Incoraggiato da questo successo, il compositore intraprese un viaggio di perfezionamento in Europa. Studiò a Vienna con Ignaz von Seyfried e trascorse un periodo a Lipsia, dove le sue composizioni ottennero l’attenzione e il plauso di Robert Schumann. Il suo tour formativo lo portò anche in Italia e a San Pietroburgo, avendo così modo di arricchire ulteriormente il proprio bagaglio culturale e musicale. Tornato in Danimarca, produsse una notevole quantità di opere per il Teatro reale. Tra queste spiccano i balletti Hulen i Kullafjeld (1841) e Den ny Penelope (1847), e l’opera Turandot (1854). La sua produzione non si limitò al teatro, ma incluse anche ouverture da concerto, musica da camera e numerosi brani per pianoforte, come i celebri Impromptus op. 8.
A coronamento della carriera, dal 1851 fino alla morte Løvenskiold ricoprì la prestigiosa carica di organista presso la Chiesa del Castello (Slotskirken) di Copenaghen.
Lo stile musicale di Løvenskiold è caratterizzato da una fresca inventiva e da uno spiccato slancio poetico. Tuttavia, la sua produzione è a volte diseguale, alternando lavori di pregio a composizioni meno ispirate.

L’ouverture del balletto Sylfiden
Notevole esempio di ouverture romantica in stile pot-pourri, il brano anticipa i temi musicali e le atmosfere emotive dell’opera che seguirà. Più che un’elaborazione sinfonica complessa, essa agisce come un prologo sonoro, guidando l’ascoltatore attraverso i contrastanti mondi del balletto: quello etereo e magico delle silfidi e quello terreno e passionale degli esseri umani.

La composizione si apre in un’atmosfera di cupo mistero: le note gravi e sostenute dei violoncelli, dei contrabbassi e dei corni creano un’ambientazione notturna e presaga, mentre la tonalità minore e il movimento lento evocano l’ambientazione scozzese, forse una nebbiosa alba o il sonno inquieto del protagonista, James. Improvvisamente, questa quiete viene squarciata da un potente e drammatico accordo fortissimo dell’intera orchestra: questo non è un semplice accento, ma un vero e proprio colpo di scena sonoro, un presagio del conflitto e del destino tragico che incombe sulla storia.
La musica ritorna alla calma, ma con una nuova sfumatura: un dialogo malinconico e sognante si sviluppa tra il fagotto e i violoncelli, suggerendo un sentimento di desiderio e nostalgia. Brevi interventi leggeri e quasi trasparenti dei legni (flauto e oboe) su un pizzicato degli archi sembrano rappresentare la prima, fugace apparizione della silfide, eterea e inafferrabile. Il tema iniziale viene ripreso dai violini, guadagnando gradualmente intensità. L’orchestrazione si infittisce in un grande crescendo che culmina in un secondo, maestoso tutti orchestrale. Questo passaggio finale dell’introduzione serve a creare una tensione crescente, preparando il terreno per la sezione successiva e chiudendo il sipario sul mondo onirico e misterioso.
Senza alcuna pausa, l’ouverture si lancia in un Allegro agitato che rappresenta il cuore drammatico della vicenda. Gli archi eseguono un moto perpetuo rapido e pulsante, creando una base di tensione inarrestabile. Su questa trama ritmica, l’orchestra espone un tema vigoroso e passionale, pieno di slancio e urgenza. Questo tema incarna perfettamente il conflitto interiore di James, diviso tra il mondo reale (la fidanzata Effie) e l’attrazione soprannaturale per la silfide. La sezione si sviluppa con un’energia crescente, utilizzando brevi frammenti tematici che si rincorrono tra le diverse sezioni dell’orchestra. I colpi dei timpani e gli accenti degli ottoni rafforzano il carattere tempestoso e drammatico del passaggio, che si conclude con una cadenza decisa, quasi a simboleggiare una scelta fatale.
Dopo la tempesta emotiva, Løvenskiold introduce un netto cambio di atmosfera, trasportandoci in un quadro sonoro idilliaco e pastorale. L’oboe intona una melodia dolce e semplice, dal chiaro sapore popolare scozzese. Accompagnato da un ondeggiante tappeto d’archi, questo tema evoca la serenità della campagna e l’innocenza dell’amore terreno di Effie. La melodia viene poi ripresa e variata dal flauto, che le conferisce una qualità ancora più leggera e sognante. L’intero corpo degli archi si appropria del tema, sviluppandolo con maggiore calore e pienezza espressiva: questo episodio rappresenta il mondo rassicurante e familiare che James è destinato a lasciare, un’oasi di pace prima del ritorno del dramma.
La scena si sposta ora verso un momento di celebrazione collettiva: l’orchestra attacca un valzer brillante e festoso, caratterizzato da un ritmo trascinante e da una melodia elegante e gioiosa. Questo è chiaramente un tema associato a una danza o a una festa di nozze, un momento di gioia comunitaria che contrasta nettamente con la dimensione intima e soprannaturale della silfide. La strumentazione è piena e ricca, con gli ottoni che aggiungono un tocco di solennità e pompa alla celebrazione.
L’ouverture si conclude con una coda che riassume l’energia dell’opera e la proietta verso un finale mozzafiato. Il tempo accelera in un Presto incalzante e l’orchestra riprende frammenti dei temi precedenti, in particolare quello drammatico dell’Allegro, in un crescendo di intensità ed eccitazione. Il ritmo si fa sempre più serrato e la dinamica cresce costantemente, creando un senso di corsa irrefrenabile verso il finale. La sezione finale è un’esplosione di energia orchestrale: il tema principale viene affermato in modo trionfale, con squilli di ottoni, rulli di timpani e vorticosi passaggi degli archi. Løvenskiold chiude l’ouverture con una serie di accordi potenti e perentori, lasciando il pubblico con il fiato sospeso e un forte senso di attesa per l’inizio del balletto.

Sinfonia di primavera

Robert Schumann (1810 - 29 luglio 1856): Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore op. 38, Frühlingssymphonie (1841). Wiener Philharmoniker, dir. Leonard Bernstein.

  1. Andante un poco maestoso – Allegro molto vivace
  2. Larghetto [11:37]
  3. Scherzo: Molto vivace [19:30]
  4. Allegro animato e grazioso [25:35]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

La Sinfonia n. 1 rappresenta un punto di svolta fondamentale nella carriera di Robert Schumann. Composta nel 1841, l’anno successivo al suo agognato matrimonio con Clara Wieck, quest’opera segna il suo primo grande successo nel campo della musica sinfonica, un genere che fino ad allora aveva affrontato con esitazione. Incoraggiato proprio da Clara, che vedeva nella scrittura orchestrale il campo d’azione ideale per l’immaginazione del marito, Schumann riversò in questa sinfonia un’energia creativa travolgente, completando lo schizzo in soli quattro giorni. Il sottotitolo assegnato alla composizione non è casuale: benché Schumann abbia poi eliminato i titoli programmatici che in un primo tempo aveva dato a ciascun movimento, la sua intenzione era chiara, come rivelato in una sua lettera: evocare il risveglio della natura e le passioni che la primavera suscita nell’animo umano.
La sinfonia ha inizio con una fanfara di trombe e corni, un «richiamo al risveglio» che, secondo le parole di Schumann, dovrebbe suonare «come se venisse dall’alto». L’orchestra subito risponde con un suono nobile e solenne, per poi lasciare spazio a un’atmosfera più cupa e misteriosa, dove archi e legni introducono un senso di attesa, come la natura che attende di germogliare sotto la coltre invernale. Un improvviso accelerando scatena l’Allegro: l’orchestra esplode in un tema gioioso e ritmico, che incarna «tutto ciò che riguarda la primavera che prende vita». I violini si scambiano agili frasi melodiche, mentre i legni dialogano con leggerezza, quasi a rappresentare «una farfalla che volteggia nell’aria». Il secondo tema è più cantabile e lirico, affidato ai clarinetti e ai violini, e offre un momentaneo respiro prima che l’energia ritmica riprenda il sopravvento. Lo sviluppo è un turbinio di frammenti tematici, in cui Schumann dimostra la propria maestria contrappuntistica: particolarmente suggestivo è il dialogo tra i corni e i legni, e l’uso innovativo dei timpani, il cui rullare aggiunge una tensione drammatica. La ripresa riporta la gioia iniziale, culminando in una coda trionfale dove l’intera orchestra celebra la piena esplosione della primavera.
Il secondo movimento – originariamente intitolato Sera – è un momento di pura poesia lirica: gli archi intonano una melodia tenera e sognante, quasi una romanza senza parole. L’atmosfera è intima e contemplativa e un dialogo delicato si sviluppa tra gli archi, in particolare tra violini e violoncelli e i legni. La conclusione del movimento è magistrale: anziché chiudere nella tonalità di mi bemolle maggiore, una solenne chiamata dei tromboni modula verso il re maggiore, creando un ponte sonoro che si collega direttamente, senza alcuna pausa, al movimento successivo.
Attaccandosi senza soluzione di continuità al Larghetto, lo Scherzo irrompe con un tema vigoroso e quasi rustico, in re minore: il ritmo è martellante e l’energia palpabile, evocando l’idea delle «allegre compagnie». La struttura dello scherzo è insolita, con due trii: il primo porta un cambio di umore e tonalità, con una sezione più leggera e giocosa, un valzer stilizzato in cui i legni e gli archi dialogano con vivacità, mentre il secondo trio (in si bemolle maggiore) introduce un’atmosfera più intima e riflessiva, quasi un ricordo del tema dell’introduzione del primo movimento, con i corni in evidenza. Lo Scherzo ritorna per una breve ripresa prima di una coda accelerata che conduce a una conclusione energica e affermativa in re maggiore.
Il movimento conclusivo – «Primavera in pieno rigoglio» – si apre con una scala ascendente piena di grazia e slancio, suonata dall’intera orchestra che introduce subito un’atmosfera di gioia festosa. Il primo tema è leggero e danzante, pieno di eleganza (“grazioso”), con i violini che eseguono con agilità le veloci figurazioni. Un momento di particolare bellezza è l’assolo del flauto che introduce una cadenza virtuosistica prima che il tema principale ritorni con ancora più forza. L’elemento più caratteristico del finale è la fanfara dei corni, un richiamo gioioso che attraversa l’intero movimento, conferendogli un carattere eroico e celebrativo. Lo sviluppo è un crescendo continuo di energia, con l’orchestra che si lancia in un vortice sonoro inarrestabile. La coda accelera ulteriormente, spingendo la sinfonia verso una conclusione esuberante e trionfale, suggellata da un potente accordo finale dell’intera orchestra.

Schumann, op. 38

Verschiedene Canones

Canon alla ottava di J. S. Bach (da Die Kunst der Fuge BWV 1080).


Canon alla duodecima, sempre da BWV 1080.


Canone cancrizzante (dal Musicalisches Opfer BWV 1079) scritto sopra un nastro di Möbius.


Canone «a ventaglio» (ancora da BWV 1079). Si tratta di un particolare tipo di canone infinito nel quale ogni ripresa del tema avviene in una tonalità diversa; generalmente le riprese si susseguono a intervallo di un tono l’una dall’altra (come in questo caso), ragion per cui il canone a ventaglio è anche chiamato, con locuzione latina, canon per tonos.


Quattordici canoni composti da Bach sul basso delle Variazioni Goldberg in un video didattico-divulgativo molto interessante (attenzione, v’è una lunga coda “vuota”: il video ha termine in realtà a 14:45).
Fra i commenti degli utenti di YouTube mi è piaciuto molto quello a firma di SeanPi314: «Se ne evince che Bach non era umano» 🙂

La Seconda Sinfonia di Ernő Dohnányi

Ernő Dohnányi (27 luglio 1877 - 1960): Sinfonia n. 2 in mi minore op. 40 (1944, rev. 1957). BBC Philharmonic Orchestra, dir. Matthias Bamert.

  1. Allegro con brio ma energico e appassionato
  2. Adagio pastorale, molto con sentimento [13:46]
  3. Burla: Allegro [26:09]
  4. Variazioni [30:45]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Ernő Dohnányi: la musica, la guerra, la fede e la pace

L’ungherese Ernő (alias Ernst von) Dohnányi è stato un acclamato compositore, un pianista virtuoso, un direttore d’orchestra di prima grandezza e un didatta influente.

Formazione e primi successi: sotto l’ala di Brahms e Liszt
Nato a Pozsony (l’odierna Bratislava), Dohnányi ricevette la sua prima educazione musicale dal padre, un professore di matematica e violoncellista dilettante. Il suo talento lo portò all’Accademia reale di musica di Budapest, dove studiò con figure chiave che plasmarono la sua duplice identità artistica: István Thomán, allievo di Liszt, che ne forgiò il virtuosismo pianistico, e Hans von Koessler, devoto di Brahms, che ne influenzò lo stile compositivo. Questa doppia influenza si rivelò cruciale: il suo primo lavoro pubblicato, il Quintetto per pianoforte in do minore, ricevette l’approvazione personale di Johannes Brahms, che lo promosse a Vienna. Dimostrando una precocità eccezionale, Dohnányi si diplomò a meno di vent’anni, ottenendo il massimo dei voti sia come pianista che come compositore. Il suo debutto a Berlino nel 1897 fu un trionfo, seguito da tournée di successo in tutta Europa e negli Stati Uniti, dove si distinse non solo come solista ma anche come musicista da camera, una pratica non comune per i grandi pianisti dell’epoca.

La carriera a Budapest e la vita privata
Dopo un periodo di insegnamento a Berlino (1905-15), Dohnányi tornò a Budapest, diventando una figura centrale della vita musicale ungherese. Fu nominato direttore musicale dell’Orchestra filarmonica di Budapest e, a più riprese, direttore dell’Accademia di musica. In questi ruoli, si impegnò attivamente a promuovere la musica dei suoi contemporanei, inclusi compositori come Béla Bartók e Zoltán Kodály, dimostrando grande apertura artistica. Fu anche un insegnante di fama mondiale, formando una generazione di musicisti di spicco come Georg Solti, Annie Fischer e Géza Anda. La sua vita personale fu altrettanto intensa e complessa: ebbe tre matrimoni e diversi figli. Tra questi, Hans von Dohnányi, nato dal primo matrimonio, divenne un’importante figura della resistenza tedesca anti-nazista; internato nel campo di concentramento di Sachsenhausen, vi morì poco prima della fine della guerra.

Gli anni di guerra e le controversie
Il periodo della seconda guerra mondiale gettò un’ombra sulla reputazione di Dohnányi: nonostante le accuse successive, si impegnò contro le crescenti influenze naziste in Ungheria. Nel 1941 si dimise dalla carica di direttore dell’Accademia di musica per non dover applicare le leggi anti-ebraiche. Inoltre, protesse i membri ebrei della sua orchestra fino a due mesi dopo l’invasione tedesca del marzo 1944, quando fu costretto a sciogliere la compagine. La sua decisione di trasferirsi in Austria nel novembre 1944 attirò molte critiche. Tuttavia, ricerche successive, in particolare quelle dello storico James A. Grymes, lo hanno riabilitato, definendolo «un eroe dimenticato della resistenza all’Olocausto» per aver aiutato attivamente numerosi colleghi ebrei a fuggire.

Il periodo americano e gli ultimi anni
Nel 1949 Dohnányi si trasferì negli Stati Uniti, dove iniziò un nuovo capitolo della sua vita. Per dieci anni insegnò presso la School of Music della Florida State University a Tallahassee, diventando cittadino americano nel 1955: in questo periodo continuò a comporre, mostrando interesse per la musica popolare americana, come dimostra la sua American Rhapsody (1953). La sua ultima esibizione pubblica avvenne il 30 gennaio 1960, proprio alla Florida State University. Morì di polmonite a New York dieci giorni dopo.

Eredità e stile musicale
L’eredità di Dohnányi è vasta e multiforme. Il governo ungherese gli ha conferito postumo il Premio Kossuth, la sua più alta onorificenza civile, nel 1990. Le sue registrazioni continuano a essere ristampate e i suoi scritti didattici, come gli Esercizi giornalieri per il pianista avanzato, sono ancora in uso. Dal punto di vista compositivo, il suo stile è profondamente radicato nel Romanticismo, conservatore ma personale: sebbene influenzato strutturalmente da Brahms, la sua musica mantiene una voce unica. A differenza di Bartók e Kodály, il suo uso di elementi folcloristici ungheresi è più un colore che il fondamento del suo linguaggio musicale. Tra le sue opere più celebri e durature spiccano la Serenata in do maggiore per trio d’archi, op. 10 e le brillanti Variazioni su una melodia infantile per pianoforte e orchestra, op. 25. La sua Seconda Sinfonia – composta durante la guerra – rivela un lato insolitamente cupo e dissonante, riflettendo la tragicità del suo tempo.

Analisi della Seconda Sinfonia
Questa opera monumentale e profondamente personale testimonia l’epoca tragica in cui fu composta; si articola in un percorso emotivo magistrale che conduce l’ascoltatore dalle tenebre di un mondo in guerra alla trascendenza della fede e della pace.
Il primo movimento è un imponente affresco in forma-sonata, che stabilisce fin da subito un clima di conflitto e tensione eroica. La sinfonia si apre senza preamboli con il primo tema in mi minore, un motivo impetuoso e frammentato, enunciato con vigore dall’intera orchestra (tutti). La sua caratteristica principale è una figura ritmica secca e martellante (marcatissimo), costruita su arpeggi ascendenti che creano un senso di lotta e di urgenza inarrestabile. L’orchestrazione è densa e potente, dominata dagli ottoni e dagli archi.
Dopo la furia iniziale, la musica si placa brevemente: la tensione diminuisce, lasciando spazio a un episodio più lirico e preparatorio, sebbene ancora percorso da un’inquietudine latente. Il secondo tema, in sol maggiore, offre un contrasto netto: è una melodia ampia, cantabile e intensamente romantica, affidata agli archi. Questo tema rappresenta un’oasi di lirismo e calore umano, un momento di respiro nostalgico che si contrappone alla brutalità del primo tema. Dohnányi sviluppa questa melodia con grande maestria, creando un crescendo passionale di straordinaria bellezza.
Lo sviluppo è la sezione più drammatica e complessa del movimento: il compositore frammenta e contrappone i due temi principali in un magistrale gioco contrappuntistico. Il primo tema viene trasformato, variato ritmicamente e armonicamente, apparendo in diverse sezioni dell’orchestra con un carattere sempre più minaccioso. Il secondo tema lirico viene anch’esso travolto da questa turbolenza, riapparendo in contesti armonici tesi che ne alterano il carattere sereno. L’orchestrazione diventa un campo di battaglia sonoro, con dialoghi serrati tra legni, ottoni e archi, e con improvvisi picchi dinamici che mantengono altissima la tensione.
La ricapitolazione riesplode con il ritorno del primo tema in tutta la sua potenza originaria. Il secondo tema è invece esposto nella tonalità di mi maggiore (tonica maggiore), portando un raggio di luce e speranza dopo il tumulto. Tuttavia, la vittoria non è ancora definitiva. La coda riprende la drammaticità iniziale: la musica accelera in un vortice finale, in cui frammenti del primo tema si scontrano in un climax di furia implacabile. Il movimento si conclude con accordi secchi e potenti in mi minore, affermando il carattere tragico e combattivo del brano.
Dopo la tempesta del primo movimento, l’Adagio offre un momento di profonda riflessione e serenità. È strutturato in una forma ternaria (ABA). Il movimento si apre con una melodia pastorale di incantevole dolcezza, introdotta dal flauto e poi ripresa dal corno inglese. L’accompagnamento degli archi con sordina e dell’arpa crea un’atmosfera idilliaca e quasi sognante: è una musica intrisa di nostalgia per un mondo perduto, un ricordo di pace e bellezza naturale. L’armonia è ricca e cromatica, tipica dello stile tardo-romantico.
La sezione centrale introduce un elemento di maggiore passione e inquietudine: la melodia diventa più intensa e drammatica, l’orchestrazione si infittisce con l’ingresso degli ottoni e il volume cresce fino a un climax emotivo. Questo episodio sembra rappresentare un ricordo doloroso o un’ombra della tragedia del primo movimento che turba la quiete pastorale.
Il tema pastorale iniziale ritorna, questa volta ancora più trasfigurato e malinconico: la pace è riconquistata, ma ora è una pace consapevole della sofferenza passata. Il movimento si conclude in un sussurro, con gli strumenti che si diradano fino a lasciare solo poche note sospese, spegnendosi in un’atmosfera di serena rassegnazione.
Il terzo movimento è uno scherzo dal carattere grottesco e demoniaco, una vera e propria danza macabra che riflette l’assurdità e l’orrore della guerra. Esso inizia con un ritmo ostinato, quasi meccanico e spettrale, affidato ai legni e agli archi in pizzicato. Su questo sfondo si innestano temi brevi, spigolosi e dissonanti: Dohnányi utilizza brillantemente gli ottoni con sordina e glissandi per creare un effetto sarcastico e terrificante. L’atmosfera è quella di una parata infernale, piena di energia selvaggia e sinistra.
La sezione centrale offre un contrasto surreale: si tratta di un valzer distorto, dal sapore quasi mahleriano, che suona come il ricordo sbiadito di una festa elegante in un mondo ormai in rovina. La melodia è più semplice ma pervasa da un’ironia amara.
Lo Scherzo iniziale ritorna con una furia ancora maggiore, portando il caos al suo apice. La coda è un Prestissimo travolgente che si conclude con un colpo secco e brutale dell’intera orchestra, lasciando l’ascoltatore senza fiato.
Il finale è il cuore spirituale della sinfonia: è un vasto movimento strutturato come tema e variazioni, basato sul corale di J.S. Bach Komm, süßer Tod, komm sel’ge Ruh. Un’introduzione lenta e solenne prepara l’ingresso del tema e il corale viene presentato in modo semplice e austero dagli archi, creando un’atmosfera di profonda devozione e contemplazione della mortalità.
Dohnányi costruisce una serie di variazioni magistrali che esplorano ogni aspetto emotivo del corale: le prime variazioni mantengono un carattere lirico e riflessivo; seguono episodi più mossi e drammatici, che richiamano la lotta del primo movimento; una variazione assume i contorni di una marcia funebre, maestosa e dolente; altre esplorano la grazia e la leggerezza, quasi come uno scherzo etereo.
La sezione culminante è una grandiosa fuga a piena orchestra. Il tema del corale di Bach funge da soggetto e viene elaborato con un contrappunto denso e complesso, in un crescendo di tensione e magnificenza che dimostra la straordinaria abilità tecnica del compositore: la fuga rappresenta il trionfo dell’ordine spirituale sul caos terreno.
La sinfonia si conclude con un’apoteosi finale: il tema del corale risuona trionfalmente in mi maggiore, trasformato da preghiera per la morte a inno di speranza e redenzione. L’orchestra intera celebra una vittoria luminosa e trascendente: la Seconda Sinfonia, iniziata nel fragore della battaglia, si chiude così con un messaggio di pace e di fede incrollabile.

Concerto triplo – II

Raffaele Gervasio (26 luglio 1910 - 1994): Triplo Concerto per flauto, viola, chitarra, archi e percussioni op. 131, Concerto degli oleandri (1993). Mario Carbotta, flauto; Teresa Laera, viola; Nando Di Modugno, chitarra; Orchestra sinfonica lucana, dir. Vito Clemente.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Raffaele Gervasio, dal Carosello alle sale da concerto: ritratto di un maestro a due volti

Raffaele Gervasio è stato uno dei compositori italiani più versatili del Novecento, capace di muoversi con eguale maestria tra il mondo della “musica pura” (sinfonica e cameristica) e quello della “musica applicata” per radio, cinema e televisione, lasciando un’eredità che spazia dalle celebri sigle popolari a complesse opere orchestrali.

La formazione di un talento
Nato a Bari da Michele Gervasio – noto archeologo e direttore del museo cittadino – il giovane intraprese gli studi musicali nel 1923 presso il Liceo musicale «Niccolò Piccinni» del capoluogo pugliese, dove fu allievo di Cesare Franco (armonia), Italo Delle Cese (pianoforte) e della giovane e talentuosa Gioconda De Vito (violino).
Il suo talento fu presto notato da Amilcare Zanella che, nel 1927, lo volle con sé al Conservatorio «Rossini» di Pesaro, inserendolo nella propria classe di composizione e affidandolo al maestro Chiti per il perfezionamento del violino. Dopo il diploma in violino nel 1929, proseguì gli studi di composizione con Zanella fino al 1931, per poi trasferirsi a Firenze. Qui completò la formazione al Conservatorio «Cherubini» sotto la guida di Vito Frazzi, diplomandosi in composizione nel 1933. La sua sete di conoscenza lo portò a Roma, dove frequentò il corso di perfezionamento di Ottorino Respighi al Conservatorio di Santa Cecilia, ottenendo nel 1936 il premio come miglior allievo. Nello stesso prestigioso istituto, seguì anche il corso di Ernesto Cauda dedicato alla musica per la riproduzione meccanica (cinema, radio, discografia), un’esperienza che si rivelerà fondamentale per la sua futura carriera.

Il successo nella musica applicata: radio, cinema e televisione
Dopo gli studi, Gervasio si dedicò con grande successo alla musica applicata: dal 1940 al 1960 ricoprì il ruolo di direttore musicale della INCOM (Industrie Cortometraggi), per cui sonorizzò centinaia di documentari e cinegiornali con musiche originali e di repertorio. La sua firma divenne sinonimo di riconoscibilità e qualità, legandosi ad alcune delle sigle più iconiche della cultura di massa italiana: dal cinegiornale “Settimana Incom” alla sigla di Voci dal Mondo, che per decenni avrebbe introdotto il GR2, fino alla celeberrima e indimenticabile melodia di Carosello.
Compose musiche di scena per importanti spettacoli di prosa (Francesca da Rimini, Faust, Il mercante di Venezia) e collaborò intensamente con la radio, come nella Ballata italiana (1951) diretta da Franco Ferrara. Un capitolo di particolare rilievo fu il Carosello napoletano, grandioso spettacolo teatrale del 1950 diretto da Ettore Giannini, che gli valse il premio “Maschera d’argento” per la musica. Il successo fu tale che nel 1954 l’opera fu trasposta in un film prodotto dalla Lux Film, le cui musiche, in gran parte originali, furono dirette da Fernando Previtali.
Un altro progetto di grande impatto culturale fu l’album I Canti che hanno fatto l’Italia (1961), prodotto da RCA in occasione delle celebrazioni di Italia 61. L’opera – una raccolta di musiche originali, trascrizioni e rielaborazioni del patrimonio popolare – fu diretta da Franco Ferrara e interpretata da voci celebri. La sua importanza fu sancita dalla RAI, che la scelse per inaugurare le trasmissioni del secondo canale televisivo il 4 novembre 1961.

Il ritorno alla musica “pura”, l’insegnamento e i riconoscimenti
Nonostante i successi nella musica applicata, Gervasio non abbandonò mai la sua vocazione per la composizione pura: già nella seconda metà degli anni Cinquanta riprese a scrivere musica sinfonica e, nel 1961, lasciò definitivamente la INCOM per dedicarsi esclusivamente a questa passione. Gli anni Sessanta furono un periodo di intensa creatività, che vide la nascita di opere fondamentali come il Concerto spirituale (1961), il Preludio e Allegro concertante (1962), il Concerto per violino e orchestra (1966) e la Fantasia per pianoforte (1970), scritta su richiesta del pianista Rudolf Firkušný.
Nel 1967 – su invito dell’amico Nino Rota – accettò la cattedra di composizione al Conservatorio «Piccinni» di Bari. Due anni dopo, nel 1969, assunse la direzione del nuovo Conservatorio «Egidio Romualdo Duni» di Matera, trasformandolo in pochi anni in un’istituzione di riferimento a livello nazionale per le sue didattiche innovative. In questo periodo scrisse anche diversi lavori destinati ai suoi giovani allievi. Dopo essere tornato all’insegnamento a Bari nel 1977, si ritirò definitivamente nel 1980. Il suo prestigio fu coronato nel 1978 con l’elezione ad accademico di Santa Cecilia.

Gli ultimi anni: una prolifica stagione creativa
Libero dagli impegni didattici, Gervasio visse un’ultima, straordinaria stagione creativa, dedicandosi interamente alla composizione. In questo periodo produsse un vasto catalogo di opere cameristiche e orchestrali, tra cui spiccano: Movimenti perpetui per orchestra (1982), l’Ouverture inaugurale per organo e orchestra (1983), il Doppio Concerto per violino, chitarra e archi (1984), la Composizione orchestrale (1986) commissionata dall’Accademia di Santa Cecilia, e il Triplo Concerto degli oleandri (1993). La sua ultima opera furono le Variazioni sulla preghiera del Mosè di Rossini per tromba e organo (1994), sigillo di una vita spesa al servizio della musica in tutte le sue forme.

Il Concerto degli oleandri: analisi
Opera di rara bellezza, si distingue per la peculiare scelta strumentale e per il carattere evocativo e solare. Lontano dalle asprezze e dalle complessità intellettualistiche di molta musica contemporanea del suo tempo, Gervasio crea un affresco sonoro che profuma di Mediterraneo, fondendo la struttura classica del concerto con una sensibilità melodica quasi cinematografica. L’opera, in un unico movimento, si articola in una serie di episodi contrastanti che esplorano le molteplici possibilità timbriche e dialogiche del trio solista.

Il Concerto si apre in un’atmosfera intima e pastorale: la chitarra solista introduce il discorso musicale con una serie di arpeggi delicati e sognanti che stabiliscono immediatamente un clima di serena attesa. Questo preludio chitarristico funge da sipario, aprendo la scena all’ingresso dell’intero ensemble. Gli archi poi entrano con un tappeto sonoro morbido e avvolgente, su cui si innesta il tema principale, una melodia gioiosa, spensierata e dal carattere nettamente danzante, quasi popolaresco. Il tema viene esposto dai tre solisti che agiscono come un’unica entità: il flauto e la viola, spesso procedendo in parallelo, si scambiano e intrecciano le frasi melodiche, mentre la chitarra fornisce un indispensabile sostegno ritmico e armonico con arpeggi brillanti e accordi precisi. La scrittura è trasparente e luminosa, con le leggere percussioni che aggiungono tocchi di luce. In questa sezione, Gervasio presenta i protagonisti non come avversari dell’orchestra, ma come un “concertino” affiatato che dialoga amabilmente su un fondale orchestrale lussureggiante.
Abbandonata la solarità del tema iniziale, il Concerto si inoltra in una sezione di sviluppo più complessa e ricca di contrasti. L’atmosfera si fa più lirica e introspettiva e gli archi introducono una nuova idea tematica, più cantabile e malinconica, mentre i solisti si ritagliano spazi individuali: ascoltiamo un breve ma intenso assolo della viola, seguito da un passaggio più etereo del flauto.
Questo momento di quiete è interrotto da un episodio di grande energia e tensione drammatica: il ritmo si fa più serrato e incalzante, sostenuto dal pizzicato degli archi e da un uso più marcato delle percussioni. I tre solisti si lanciano in passaggi virtuosistici, con scale rapide e figurazioni complesse, a volte all’unisono, a volte in un rapido inseguimento. Questa sezione dimostra la maestria di Gervasio nel creare un forte contrasto dinamico e agogico, mostrando il lato più brillante e tecnicamente impegnativo del trio.
L’orchestra si ritira quasi completamente, lasciando il campo a quella che può essere definita una cadenza collettiva per i tre solisti: è un lungo momento di dialogo intimo, in cui flauto, viola e chitarra esplorano le loro potenzialità timbriche in piena libertà.
La viola emerge con un canto caldo e appassionato, seguita dal flauto con frasi più aeree e sognanti. La chitarra si lancia in un assolo di notevole bellezza, ricco di arpeggi e armonie che evocano sonorità spagnoleggianti, confermando l’ispirazione mediterranea dell’opera. Il dialogo tra gli strumenti è fitto e profondo, un vero e proprio scambio di confidenze musicali prima della conclusione.
Come in una classica forma-sonata, riappare il tema principale danzante dell’esposizione, questa volta presentato con un vigore e una pienezza orchestrale ancora maggiori. Il ritorno di questa melodia solare e riconoscibile infonde un senso di gioia e circolarità, chiudendo il cerchio narrativo del brano.
Dalle fondamenta di questa ripresa si sviluppa la coda finale: la musica acquista progressivamente velocità e intensità, in un crescendo che coinvolge l’intera orchestra. I solisti si esibiscono in un ultimo slancio virtuosistico, spingendo il discorso musicale verso una conclusione brillante, affermativa e piena di energia che si chiude con accordi decisi e perentori.

La vera originalità dell’opera risiede nella geniale fusione timbrica del trio solista; Gervasio riesce a far convivere tre strumenti dalla natura profondamente diversa: il suono aereo e cristallino del flauto, quello caldo, scuro e umano della viola e quello percussivo e armonico della chitarra. Piuttosto che metterli in competizione, li tratta come le tre facce di un unico strumento, un “super-solista” capace di passare da momenti di intimità cameristica a esplosioni di virtuosismo orchestrale. Il concerto è un magnifico esempio della maturità stilistica di Gervasio, un pezzo che, pur radicato nella tradizione formale, parla un linguaggio immediato, melodico e profondamente comunicativo, capace di dipingere con i suoni i colori, la luce e il calore di un paesaggio mediterraneo baciato dal sole.

Battaglia in re maggiore

Clamor Heinrich Abel (1634 - 25 luglio 1696): Battaille in re maggiore per 2 violini e basso continuo. Musica Antiqua Köln, dir. Reinhard Goebel.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Clamor Heinrich Abel: ritratto di un musicista barocco

Una vita tra musica e nobiltà
Clamor Heinrich Abel è un importante musicista tedesco del periodo barocco. Nacque nel 1634 a Burg Hünnefeld, presso Bad Essen in Vestfalia, figlio di Ernst Abel, un musicista attivo presso la cappella di corte di Hannover; l’insolito nome Clamor gli fu dato in onore di Clamor Eberhard von dem Bussche, signore del castello di Hünnefeld, presso il quale era stato attivo il nonno paterno di Abel. La famiglia Abel fu una vera e propria dinastia di musicisti, influente nel Nord e Centro della Germania tra il XVII e il XVIII secolo. Intorno al 1685 Abel sposò Magdalene Herbof; fu padre del gambista e violinista Christian Ferdinand Abel e nonno del celebre virtuoso di viola da gamba e compositore Carl Friedrich Abel.

Una carriera itinerante
La carriera di Abel si svolse in diverse corti e città tedesche: attivo dapprima a Celle (1662–64) quale musicista di corte e organista, fu poi a Hannover (1665-85), dove ricoprì il ruolo di musicista da camera ducale in un periodo significativo della sua carriera; dopo il 1685 si presume che sia tornato a lavorare a Celle per un certo periodo; concluse la propria carriera come Obermusicus (primo musicista) a Brema, dove fu attivo dal 1694 circa fino alla morte.

Le opere musicali
Abel fu un compositore particolarmente prolifico (conosciamo però solo una parte della sua produzione); fra le sue opere principali si ricorda la raccolta Erstlinge musikalischer Blumen, comprendente 59 brani strumentali, pubblicata in tre parti tra il 1674 e il 1677: le composizioni delle prime due parti (1674, 1676) sono scritte per quattro strumenti e basso continuo, mentre la terza (1677) contiene allemande, correnti, sarabande e gighe per violino o viola da gamba e basso. Tra i lavori di Abel più noti si annoverano la Battaille in re maggiore per due violini e basso continuo, la Sonata sopra Cuccu per violino e viola da gamba e una versione della celebre Folie d’Espagne (1685).

La Battaille in re maggiore
Si tratta di un superbo esempio di musica descrittiva del periodo barocco. Questo genere, popolare all’epoca, mirava a descrivere eventi o scene attraverso il linguaggio musicale. In questo caso, Abel dipinge un quadro sonoro vivace e drammatico di una battaglia, utilizzando i due violini e il basso continuo non solo come strumenti, ma come veri e propri protagonisti di un’azione teatrale.
Il brano si apre senza preamboli con una sezione solenne e marziale: la tonalità di re maggiore, spesso associata alla festa e al trionfo, stabilisce immediatamente un’atmosfera eroica. I due violini procedono in modo omoritmico, quasi all’unisono, con passaggi in terze e seste parallele che evocano il suono squillante di una fanfara di trombe. Il basso continuo fornisce una base armonica robusta e un andamento ritmico puntato che ricorda una marcia cerimoniale: questa introduzione funge da “chiamata alle armi”, preparando il campo per lo scontro imminente.
Con un improvviso cambio di carattere, la battaglia ha inizio: il tempo si anima e la scrittura diventa un fitto dialogo tra i due violini. Abel abbandona la compattezza iniziale per lanciare i due solisti in un vero e proprio duello. Assistiamo a un brillante gioco di imitazione: un violino propone una rapida figurazione di semicrome e l’altro risponde immediatamente, come in un incrociarsi di lame. Questo dialogo si intensifica in passaggi di scale e arpeggi vertiginosi che mettono in luce l’abilità tecnica richiesta agli esecutori.
Segue un’inaspettata oasi di lirismo: la musica rallenta, trasformandosi in un breve interludio cantabile e malinconico, quasi un momento di riflessione nel cuore della battaglia o il lamento per i caduti. Questa tregua drammatica serve ad aumentare la tensione, rendendo ancora più efficace il ritorno all’azione: la seconda parte dello scontro è ancora più furente, con i violini che si scambiano figure virtuosistiche sempre più complesse e veloci, culminando in una cadenza decisa che chiude la fase più accesa del combattimento.
Abel ora arricchisce la sua tavolozza sonora con effetti prettamente descrittivi e sentiamo i violini imitare segnali militari: uno tiene una nota lunga e vibrante (un pedale, quasi un bordone), mentre l’altro esegue brevi e ritmiche chiamate che ricordano i segnali di una tromba da campo. Questa sezione, basata più sul ritmo e sull’effetto timbrico che sulla melodia, è un chiaro elemento programmatico che ci trasporta direttamente sul campo di battaglia.
La coda finale è una travolgente dichiarazione di vittoria: Abel scatena tutta la potenza virtuosistica degli strumenti, con cascate di note velocissime, passaggi accordali e un’energia ritmica inarrestabile. I due violini, non più in duello ma uniti in un impeto trionfale, corrono verso la conclusione. L’intera composizione si chiude con una serie di accordi forti e assertivi nella tonica, sigillando la narrazione con un senso di inequivocabile trionfo.
Nel complesso, la Battaille di Abel è molto più di un semplice pezzo per violini: è un piccolo dramma strumentale che dimostra la straordinaria capacità del compositore di fondere rigore formale, invenzione melodica e un potente senso narrativo.

Satiric Dances

Norman Dello Joio (1913 - 24 luglio 2008): Satiric Dances for a Comedy by Aristophanes per banda (1975). Hov Musikkorps, dir. Morten Fagerjord.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’armonia di due mondi: la vita e la musica di Norman Dello Joio

Norman Dello Joio è stato un influente compositore americano di origine italiana, la cui carriera si è estesa per oltre cinquant’anni. Noto principalmente per la sua musica corale e vincitore del prestigioso Premio Pulitzer, la sua opera rappresenta una sintesi unica tra la tradizione musicale europea e il dinamismo ritmico americano.

Le origini e la formazione musicale
Nato a New York da immigrati italiani, Dello Joio fu immerso nella musica fin dalla tenera età. Suo padre, Casimiro, era organista, pianista e insegnante di canto, e lavorava con le stelle del Metropolitan Opera; gli impartì le prime lezioni di pianoforte quando Norman aveva quattro anni. Il talento del giovane sbocciò rapidamente: a 14 anni era già organista e direttore di coro presso la Star of the Sea Church. La sua formazione si consolidò sotto la guida di figure di spicco: studiò organo con il suo padrino, Pietro Yon – organista della Cattedrale di San Patrizio – e, nel 1939, ottenne una borsa di studio per la prestigiosa Juilliard School, dove studiò composizione con Bernard Wagenaar. Un incontro decisivo fu quello con il compositore Paul Hindemith, che lo incoraggiò a sviluppare la sua naturale vena lirica e melodica, anziché aderire ai più rigidi sistemi atonali dell’epoca, un consiglio che avrebbe definito il suo stile per tutta la vita.

La carriera: capolavori e riconoscimenti
Dello Joio è stato un compositore prolifico e versatile, ma è celebre soprattutto per i suoi lavori corali. Tra i suoi successi più importanti si annoverano:
– il Premio Pulitzer (1957), conferitogli per le Meditations on Ecclesiastes, un’opera profonda eseguita per la prima volta alla Juilliard School l’anno precedente;
– le Fantasies on a Theme by Haydn sono diventate un caposaldo del repertorio internazionale per ensemble di fiati; inoltre, Variations, Chaconne and Finale valsero a Dello Joio il New York Critics Circle Award nel 1948.
– a partire dal 1948 Dello Joio strinse un’importante collaborazione con la leggendaria danzatrice e coreografa Martha Graham, per la quale scrisse opere iconiche come Diversion of Angels e Seraphic Dialogue;
– il Premio Emmy (1965) per la miglior colonna sonora televisiva, vinto con lo speciale della NBC The Louvre; da questa partitura ebbe poi origine la celebre suite in cinque movimenti per banda Scenes from The Louvre.

Lo stile musicale: un ponte tra antico e moderno
Lo stile di Dello Joio è caratterizzato da una sintesi creativa e spontanea di elementi apparentemente distanti: le sue opere fondono la solennità dei canti gregoriani e delle melodie della musica antica, spesso usate come cantus firmus, con la vitalità e l’energia dei ritmi jazzistici. Il risultato è una musica ricca di contrappunto, ma sempre accessibile e profondamente lirica, che riflette perfettamente il consiglio ricevuto da Hindemith.

L’eredità e gli ultimi anni
Oltre che per la sua attività di compositore, Dello Joio fu apprezzato anche quale didatta: insegnò al Sarah Lawrence College e al Mannes College of Music e ricoprì il ruolo di professore e preside presso il College of Fine Arts della Boston University.
Dopo il suo ritiro nel 1978, donò il proprio archivio personale di manoscritti alla New York Public Library for the Performing Arts, assicurando la conservazione della sua eredità. Rimase musicalmente attivo fino agli ultimi anni, continuando a comporre. Si spense nel sonno il 24 luglio 2008, all’età di 95 anni, lasciando un’eredità portata avanti anche dai suoi figli, tra cui il compositore Justin Dello Joio e il cavaliere olimpico Norman Dello Joio.

Analisi delle Satiric Dances
Questa composizione incapsula perfettamente lo stile maturo di Dello Joio. Ispirato dal genio comico e satirico del commediografo greco Aristofane, Dello Joio crea un’opera in tre movimenti che non è una semplice narrazione, ma un’evocazione dello spirito teatrale: grottesco, energico, a tratti irriverente ma capace anche di inaspettata tenerezza.
Il primo movimento funge da ouverture sfacciata e pomposa, introducendo immediatamente l’ascoltatore in un mondo di satira e parodia. Il brano si apre con un motivo stentoreo e quasi marziale, affidato agli ottoni e sostenuto da percussioni incisive. L’atmosfera non è eroica in senso tradizionale, ma piuttosto una parodia dell’eroismo, come se una compagnia di attori goffi stesse mettendo in scena una grande processione.
Emerge il tema principale, una melodia spigolosa e danzante suonata dai legni (in particolare clarinetti e oboi). Il suo carattere è giocoso e quasi sgraziato, con un ritmo zoppicante e sincopato che suggerisce una danza comica e disarticolata: Dello Joio alterna brillantemente questo tema tra le diverse sezioni, creando un dialogo vivace. La scrittura è ricca di contrappunto, con linee melodiche secondarie che si intrecciano costantemente, mantenendo alta la tensione e l’interesse.
La musica cambia carattere, diventando più aggressiva e frammentata: gli ottoni esplodono con accordi dissonanti e ritmi martellanti, quasi a rappresentare una discussione accesa o una scena caotica sul palco. Le armonie si fanno più aspre, con l’uso di bitonalità che accentuano il carattere satirico. Questa sezione dimostra la maestria del compositore nell’usare l’intera gamma dinamica e timbrica della banda, costruendo la tensione verso un climax potente e fragoroso.
Il movimento si conclude con una riaffermazione del materiale iniziale, spinto a un’intensità ancora maggiore. Il finale è brusco e definitivo, chiudendo il sipario su questa prima scena con un’energia travolgente e senza compromessi.
Dopo la turbolenza del primo movimento, Dello Joio introduce un momento di profonda introspezione e lirismo. Il movimento si apre con un assolo struggente e cantabile dell’oboe, una melodia lunga e sinuosa che evoca un senso di solitudine e riflessione. È qui che emerge con chiarezza l’inclinazione lirica del compositore, in netto contrasto con la satira precedente: l’accompagnamento è scarno e trasparente, permettendo alla linea solistica di fiorire.
La melodia viene ripresa e sviluppata da altre sezioni, in particolare dai corni e dagli altri ottoni, che creano un ricco corale dal sapore quasi sacro. L’armonia, sebbene moderna, è calda e consolatoria. La musica si gonfia in un crescendo emotivo di grande intensità (attorno a 4:10), un’onda di passione che però si ritira quasi subito, tornando alla quiete iniziale. Questo movimento non è semplicemente “triste”, ma complesso, passando dalla malinconia a un calore nostalgico.
Il movimento si dissolve nel silenzio. L’oboe riprende un frammento della sua melodia, accompagnato da accordi tenui e delicati. La chiusura è sospesa e interrogativa, lasciando l’ascoltatore in uno stato di contemplazione prima della sfrenata danza finale.
Il finale è una danza travolgente e virtuosistica, un tour de force ritmico che incarna il significato di “spumante”. Il movimento esplode senza preavviso con figure rapide e staccato dei legni, sostenute da un impulso ritmico inarrestabile delle percussioni e degli ottoni gravi. Il carattere è quello di una tarantella frenetica o di una danza popolare selvaggia. I temi sono brevi, frammentati e vengono scagliati da una sezione all’altra dell’ensemble in un dialogo serrato e giocoso, che richiede un’incredibile precisione tecnica.
La musica cambia brevemente marcia, introducendo un tema più pesante e grottesco guidato dai sassofoni e dai tromboni: ha il sapore di una marcia goffa, quasi da circo, che interrompe la danza scatenata con un momento di umorismo più pesante e caricaturale. Questo intermezzo funge da perfetto contrasto prima della corsa finale.
L’energia iniziale ritorna con vigore raddoppiato: il tempo accelera progressivamente in un accelerando mozzafiato, spingendo l’ensemble ai suoi limiti tecnici. Ogni sezione contribuisce a costruire un vortice sonoro che culmina in una serie di accordi finali potenti e percussivi. La conclusione è netta, esuberante e affermativa, un finale perfetto per una commedia che termina in una celebrazione caotica e gioiosa.

Nel complesso, le Satiric Dances costituiscono una dimostrazione magistrale della capacità di Dello Joio di fondere energia ritmica, profondo lirismo e un acuto senso del teatro. Attraverso l’abile uso dei colori della banda, crea un’opera che è allo stesso tempo divertente, toccante e tecnicamente brillante, un omaggio sonoro perfetto allo spirito immortale di Aristofane.

Adagio e cantabile (Scarlatti K 208)


Domenico Scarlatti (1685 - 23 luglio 1757): Sonata in la maggiore K 208. Jean Rondeau, clavicembalo, e András Schiff, pianoforte.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Domenico Scarlatti: ritratto di un genio inafferrabile

Origini e formazione a Napoli: all’ombra del padre
Giuseppe Domenico Scarlatti, soprannominato Mimmo, nacque a Napoli in un ambiente straordinariamente musicale: sesto figlio del celebre compositore Alessandro Scarlatti, maestro della cappella reale, egli crebbe circondato da parenti musicisti. La sua formazione fu curata principalmente dal padre e non da altri maestri illustri come talvolta ipotizzato. Il suo talento precoce fu subito riconosciuto: a soli quindici anni, nel 1701, fu nominato organista e compositore della cappella reale di Napoli.
In questo periodo giovanile, Scarlatti si cimentò nei tre generi che avrebbero caratterizzato la sua intera produzione: la musica sacra (un mottetto), la musica per tastiera (tre sonate per organo, K 287, 288, 328) e la musica vocale profana (cantate da camera). Il padre – consapevole del genio del giovane – cercò attivamente di promuoverne la carriera, portandolo con sé a Firenze e Roma. In una famosa lettera, definì il figlio «un’aquila cui son cresciute l’ali», che non poteva rimanere in un “nido” come Napoli, ma doveva spiccare il volo. Dopo aver composto la sua prima opera, L’Ottavia ristituita al trono, fu mandato a Venezia nel 1705 per ampliare le proprie esperienze.

Gli anni romani: tra mecenatismo e carriera ecclesiastica
Stabilitosi a Roma nel 1708, Scarlatti entrò a far parte della vibrante scena musicale della città: qui si colloca il leggendario aneddoto di una “sfida” virtuosistica al clavicembalo e all’organo con il coetaneo Georg Friedrich Händel, promossa dal cardinale Ottoboni. Inizialmente assistente del padre, il compositore si affermò rapidamente, ottenendo il prestigioso incarico di maestro di cappella per la regina in esilio Maria Casimira di Polonia. Per il suo teatrino privato compose un oratorio e sette opere, tra cui Tolomeo et Alessandro e Tetide in Sciro, caratterizzate da uno stile elegante e patetico.
Dopo la partenza della regina, nel 1714 trovò un nuovo protettore nel marchese de Fontes, ambasciatore portoghese, un legame che si rivelerà decisivo per il suo futuro. Parallelamente, intraprese una brillante carriera ecclesiastica, diventando maestro della Cappella Giulia in San Pietro. Di questa intensa produzione sacra, che secondo un inventario comprendeva decine di opere, rimangono oggi poche tracce, tra cui il celebre Stabat Mater a 10 voci. A Roma continuò anche a comporre per i teatri, come l’opera Ambleto e gli intermezzi satirici La Dirindina, la cui rappresentazione fu inizialmente censurata.

La svolta iberica: il periodo portoghese
Nel 1719, Scarlatti lasciò Roma per Lisbona, assumendo l’incarico di compositore della cappella patriarcale e maestro di musica della famiglia reale di Giovanni V di Portogallo. Il suo ruolo principale divenne quello di insegnante per i due talentuosi allievi reali, l’infante don António e, soprattutto, la principessa Maria Barbara di Braganza. Con quest’ultima, eccellente clavicembalista, stabilì un rapporto artistico e didattico destinato a durare tutta la vita.
Il soggiorno portoghese fu intervallato da viaggi in Italia e a Parigi e, durante una sosta a Roma nel 1728, sposò la sedicenne Maria Caterina Gentili. A Lisbona compose un gran numero di opere vocali di grandi dimensioni, come serenate e cantate per le celebrazioni di corte, ma la maggior parte di questa produzione è andata perduta, probabilmente a causa del devastante terremoto del 1755. Anche le fonti delle sue sonate di questo periodo sono scarse, sebbene la sua fama come compositore per tastiera fosse già consolidata.

La maturità in Spagna: maestro della regina e compositore di sonate
Nel 1729, Scarlatti seguì l’allieva Maria Barbara in Spagna, dopo il suo matrimonio con l’erede al trono spagnolo, il futuro Fernando VI. Il suo status cambiò: da musicista con un ruolo pubblico a Lisbona, divenne il maestro di musica privato della principessa. Questo spiega la sua minore visibilità pubblica rispetto al celebre castrato Farinelli, che dominava la scena operistica di corte.
Fu in Spagna che la sua produzione di sonate per clavicembalo fiorì in modo straordinario. L’ispirazione proveniva da un insieme di fattori unici: la simbiosi artistica con la sua regale allieva, il contatto con le vivaci tradizioni musicali iberiche e la disponibilità di una ricca collezione di strumenti a tastiera (cembali, clavicordi e i primi pianoforti). La pubblicazione a Londra nel 1738 degli Essercizi per gravicembalo (K 1-30) gli conferì una vasta notorietà europea, tanto da meritargli il titolo di cavaliere dell’Ordine di Santiago da parte del re del Portogallo. Nell’ultima fase della sua carriera, su richiesta della regina Maria Barbara, supervisionò la copiatura delle sue sonate in quindici volumi manoscritti, oggi conservati principalmente a Venezia e Parma, che rappresentano il nucleo del suo lascito.

Gli ultimi anni e la sfera privata
Rimasto vedovo nel 1739, Scarlatti si risposò nel 1741 con Anastasia Ximenes, da cui ebbe altri quattro figli, oltre ai cinque del primo matrimonio. Negli ultimi anni, forse a causa di un’invalidità, condusse una vita ritirata, esprimendo in una lettera il proprio disprezzo per i «moderni teatristi compositori» ignoranti del contrappunto. Nonostante ciò, riconobbe di aver infranto egli stesso le regole nelle proprie sonate, con l’unico scopo di piacere all’udito. Le sue ultime composizioni, una Messa in stile antico e un commovente Salve regina in stile napoletano, testimoniano la sua versatilità fino alla fine.
Morì a Madrid il 23 luglio 1757. Contrariamente alla leggenda che lo voleva rovinato dal gioco, l’inventario dei suoi beni rivela una condizione agiata, assicurata anche dalle pensioni concesse dai sovrani di Spagna e Portogallo alla sua famiglia.

Eredità e fortuna critica: la sopravvivenza di un genio
L’eredità di Domenico Scarlatti è rimasta viva soprattutto attraverso le sue 555 sonate per tastiera. La loro fama si diffuse rapidamente in Europa grazie a musicisti come Thomas Roseingrave in Inghilterra e a edizioni stampate a Parigi. Nel corso dell’Ottocento, il suo ricordo fu perpetuato da collezionisti come l’abate Santini e da musicisti come Liszt, Czerny e Brahms. La riscoperta moderna iniziò con l’edizione completa di Alessandro Longo (1906) e culminò con la fondamentale monografia di Ralph Kirkpatrick (1953), che stabilì la catalogazione (K) tuttora in uso. Il suo stile ha influenzato profondamente anche compositori del Novecento come Stravinskij, Falla e Bartók.

L’arte della sonata: “lo scherzo ingegnoso” al gravicembalo
Nella prefazione agli Essercizi, Scarlatti descrive la propria musica non come un’opera di «profondo intendimento», ma come uno «scherzo ingegnoso dell’arte». Questa formula racchiude l’essenza delle sue sonate, che si fondano su tre pilastri:
– padronanza tecnica dissimulata: una profonda conoscenza del contrappunto e dell’armonia, nascosta sotto un’apparenza di eleganza e spontaneità;
– invenzione estrosa: un caleidoscopio di idee musicali, caratterizzato da contrasti improvvisi, passaggi repentini tra maggiore e minore, ripetizioni ossessive, ritmi di danza, imitazioni di chitarra, dissonanze audaci e modulazioni vertiginose;
– sfruttamento virtuosistico dello strumento: un uso spavaldo e completo delle potenzialità del clavicembalo, con arpeggi, salti, incroci di mani acrobatici e note ribattute che mettono a dura prova l’esecutore.

Un artista inclassificabile: ritratto di un musicista unico
Domenico Scarlatti sfida ogni semplice etichetta: il suo “splendido isolamento” nelle corti iberiche lo rende un artista unico, sospeso tra il contegno stilizzato del Barocco e l’inquietudine indagatrice dell’Illuminismo. Conteso tra le sue radici italiane e la sua assimilata “ispanitudine”, la sua musica continua a generare dibattiti appassionati tra interpreti e musicologi su questioni come la scelta dello strumento (cembalo o pianoforte), l’influenza del folklore spagnolo e la sua intrinseca teatralità. Le sue sonate, in particolare, esercitano ancora oggi un fascino irresistibile, confermandolo come un miracolo senza paragoni nella musica del suo secolo.

La Sonata K 208: analisi
Non un saggio di virtuosismo pirotecnico, ma un brano di straordinaria intimità, lirismo e bellezza pastorale: in questa Sonata Scarlatti dimostra di non essere solo un compositore di fuochi d’artificio, ma anche un poeta del suono, capace di dipingere con poche, essenziali pennellate un paesaggio sonoro di struggente bellezza.
Come la stragrande maggioranza delle sonate scarlattiane, anche la K 208 è strutturata in una forma bipartita, con due sezioni ciascuna delle quali viene ripetuta. L’equilibrio e la simmetria armonica sono i pilastri su cui si regge l’intera composizione.
La sonata si apre con un tema principale di una semplicità disarmante: è un arpeggio ascendente in la maggiore, suonato con delicatezza, che evoca l’immagine di un liuto o di una chitarra barocca. La melodia è limpida e si muove con grazia, stabilendo immediatamente un’atmosfera serena e pastorale. La mano sinistra fornisce un sostegno armonico essenziale e discreto. Il materiale tematico viene ripreso e variato con l’introduzione di figure melodiche discendenti, simili a “sospiri”, che aggiungono un tocco di dolce malinconia. Armonicamente, Scarlatti inizia un graduale percorso di allontanamento dalla tonica per preparare la modulazione alla tonalità della dominante. La prima sezione si conclude nella tonalità di mi maggiore (la dominante). Questa conclusione è preparata con grande maestria e segna il punto di arrivo armonico della prima parte, creando un senso di sospensione che richiede la prosecuzione nella seconda parte. La ripetizione della sezione permette di apprezzare nuovamente la perfezione di questo piccolo arco narrativo.
La seconda sezione ha inizio nella tonalità di mi maggiore, riprendendo il materiale tematico della prima parte ma trasfigurandolo armonicamente. L’atmosfera è leggermente più inquieta, come un’ombra che passa su un paesaggio soleggiato. Scarlatti si sposta poi brevemente verso tonalità minori: questo passaggio conferisce al brano la sua profondità patetica e malinconica, un momento di introspezione prima del ritorno alla luce, Attraverso un percorso armonico sapiente, la musica ritorna gradualmente alla tonalità originale. Il tema principale riappare nella sua veste originale, portando un senso di risoluzione e serenità ritrovata. La sonata si chiude con la stessa grazia con cui era iniziata, spegnendosi su un accordo finale che lascia l’ascoltatore in uno stato di pacata contemplazione. La ripetizione consolida questo senso di chiusura del cerchio.

Ah! vous dirai-je, Igudesman

Aleksej Igudesman e Alexandra Tirsu alle prese con alcune bizzarre variazioni sul tema di una famosa canzoncina infantile (Ah! vous dirai-je, maman ossia Quand trois poules vont au champ, nota ai bambini di lingua inglese come Twinkle, Twinkle, Little Star ovvero Baa, Baa, Black Sheep), rivelando a un tratto una sua insospettabile relazione con il cinquecentesco Ballo di Mantova altrimenti detto Fuggi fuggi fuggi dal mondo bugiardo.

Oggi è il compleanno di Aleksej: auguri!

Ah

Allegretto capriccioso

Carl Engel (21 luglio 1883 - 1944): Triptych per violino e pianoforte (c1920). William Kroll, violino; Frank Sheridan, pianoforte.

  1. Liberamente (ben sostenuto)
  2. Allegretto capriccioso [9:40]
  3. Allegro, ma non troppo [14:32]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Carl Engel, architetto della scena musicale americana

Carl Engel ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo delle istituzioni musicali statunitensi durante la prima metà del XX secolo. Benché noto principalmente come compositore, la sua eredità risiede soprattutto nel suo ruolo di manager culturale, musicologo, editore e organizzatore, che lo rese uno dei principali artefici della moderna vita musicale americana.

Le origini e la formazione europea
Nato a Parigi, ricevette una solida educazione musicale nel cuore dell’Europa. Studiò composizione presso le Università di Strasburgo e di Monaco di Baviera, dove ebbe come mentore Ludwig Thuille, importante esponente della Scuola musicale di Monaco. Questa formazione gli fornì le basi tecniche e culturali che avrebbe poi portato con sé nel Nuovo Mondo.

L’ascesa professionale negli Stati Uniti
Nel 1905 Engel si trasferì negli Stati Uniti, dove il suo talento organizzativo e la sua profonda conoscenza musicale gli permisero una rapida ascesa. Nel 1909 divenne direttore artistico della Boston Music Company, ruolo che mantenne con successo fino al 1922. Nel 1917 ottenne la cittadinanza statunitense. Il passo successivo fu ancora più prestigioso: nel 1922 assunse la direzione del dipartimento di musica della Library of Congress di Washington. Durante i suoi dodici anni di mandato (fino al 1934), trasformò il dipartimento in un centro di ricerca e conservazione di caratura internazionale. Parallelamente, la sua influenza si estese al mondo dell’editoria: verso la fine degli anni Venti divenne direttore della celebre rivista “The Musical Quarterly” e nel 1929 fu nominato presidente della storica Casa editrice musicale G. Schirmer.

Un’eredità poliedrica: musicologia, editoria e composizione
Engel fu anche un pioniere nel campo della musicologia accademica americana. Nel 1934, dopo aver lasciato la direzione attiva alla Library of Congress (di cui rimase consulente onorario), insieme con Oscar Sonneck, Otto Kinkeldey e altri fondò l’American Musicological Society, la più importante associazione di musicologi del Paese, di cui fu anche presidente tra il 1937 e il 1938. Accanto a questi impegni istituzionali, fu un prolifico saggista, pubblicando numerosi articoli e scritti su varie riviste di settore. La sua attività di compositore, sebbene meno centrale nella sua carriera pubblica, non fu trascurabile: la sua produzione si concentrò principalmente sulla musica da camera, con brani per violino, pianoforte e per canto, riflettendo il suo gusto raffinato e la sua solida formazione europea.

Triptych per violino e pianoforte: analisi
Come suggerisce il titolo, il brano è concepito come un’opera d’arte in tre pannelli, ognuno con un carattere emotivo distinto, ma legati da un linguaggio armonico ricco e da una scrittura strumentale superbamente bilanciata.
Il primo movimento funge da preludio atmosferico e rapsodico, un’esplorazione libera e profondamente espressiva del materiale tematico. La sua struttura è fluida e organica, guidata più dalle onde emotive che da uno schema formale rigido.
Si apre con il violino solo che espone una melodia solitaria e interrogativa nel suo registro acuto: la linea è cantabile, quasi improvvisata, intrisa di una dolce malinconia. Subito, il pianoforte entra con accordi arpeggiati, delicati e sospesi, creando un tappeto sonoro tipicamente impressionista che avvolge il suono del violino senza mai sovrastarlo. L’armonia è ambigua e fluttuante, ricca di settime e none che evitano una chiara risoluzione tonale, evocando un’atmosfera sognante.
Gradualmente, la musica acquista slancio: il dialogo tra i due strumenti si intensifica, con il pianoforte che assume un ruolo più ritmico e il violino che risponde con frasi sempre più ardenti e l’uso di ricche doppie corde. La dinamica cresce costantemente, culminando in una sezione potente e drammatica. Qui il linguaggio di Engel si tinge di un cromatismo più denso e di una passione tardo-romantica, prima di placarsi nuovamente in una transizione riflessiva.
Emerge una nuova idea tematica, più serena e lirica: il pianoforte crea un’atmosfera quasi pastorale con un accompagnamento cullante, mentre il violino canta una melodia tenera e introspettiva. Questa sezione offre un contrasto di pace e contemplazione, prima che l’agitazione ritorni con passaggi più veloci e un nuovo crescendo emotivo.
Il movimento si conclude tornando all’atmosfera misteriosa dell’inizio. Il tema principale del violino riappare frammentato, arricchito da effetti timbrici come il pizzicato e gli armonici eterei che suonano come campane lontane. Il pianoforte si dirada, lasciando solo accordi cristallini nel registro acuto. La musica non termina con una cadenza decisa, ma si dissolve lentamente nel silenzio, lasciando l’ascoltatore in uno stato di sospensione.
Il secondo movimento è un cambiamento radicale di umore: è uno scherzo vivace e spiritoso, pieno di arguzia e leggerezza, che segue una chiara struttura tripartita ABA.
Il violino introduce subito il carattere capriccioso con un tema saltellante, dominato dal pizzicato e da veloci scale staccate, mentre il pianoforte risponde con accordi secchi e ritmicamente incisivi, creando un dialogo scoppiettante e giocoso. L’atmosfera è elfica e scherzosa, quasi una danza impertinente.
Il cuore del movimento è un trio contrastante, più lento e cantabile: il violino abbandona il pizzicato per una melodia lunga e appassionata, piena di calore e nostalgia. L’accompagnamento del pianoforte si fa più morbido e armonioso, sostenendo la linea lirica con accordi pieni. Questa sezione è un’oasi di romanticismo sognante, un ricordo dolce in mezzo al gioco vivace.
Il tema iniziale ritorna, riportando l’energia e la malizia della prima parte. Il dialogo tra gli strumenti è ora ancora più fitto e ironico. Il movimento si chiude con una breve coda che gioca con frammenti del tema dello scherzo, accelerando verso una conclusione improvvisa e quasi comica, affidata a un ultimo, secco pizzicato del violino. È una fine che svanisce con un sorriso.
Il finale è un movimento grandioso, eroico e affermativo, che funge da culmine emotivo dell’intero trittico: la sua scrittura è densa e virtuosistica, e la sua struttura si avvicina a quella di una forma-sonata, con temi contrastanti e uno sviluppo drammatico.
Il pianoforte apre il movimento con un’introduzione potente e ritmica, stabilendo un tono epico. Il violino poi entra con il primo tema: una melodia ampia, passionale e trascinante, dal sapore quasi sinfonico. La scrittura è ricca di slancio e di un’intensità drammatica che non si era ancora sentita. Segue un secondo tema, più lirico e dolce, che offre un momento di tregua e di tenerezza, creando un perfetto equilibrio emotivo.
Lo sviluppo è la sezione più turbolenta e complessa del brano: Engel frammenta e rielabora i motivi dei due temi principali, creando un tessuto musicale denso e carico di tensione. Entrambi gli strumenti sono spinti ai limiti del loro virtuosismo: il pianoforte con accordi massicci e arpeggi impetuosi, il violino con scale vertiginose e doppie corde potenti. La musica attraversa una serie di climax e momenti di calma, in un continuo crescendo di energia.
Il primo tema eroico ritorna con ancora più forza e grandiosità, confermando il carattere trionfante del finale. Anche il secondo tema lirico viene ripreso, prima che il brano si lanci in una coda travolgente. Il ritmo accelera, la dinamica raggiunge il suo apice e l’opera si conclude con una serie di accordi potenti e una brillante affermazione finale, portando a compimento il viaggio emotivo del pezzo con una risoluzione potente e catartica.

Danceries – II

Kenneth Hesketh (20 luglio 1968): Danceries per banda sinfonica, 1ª serie (1999). The Symphonic Band of the Bob Cole Conservatory of Music at California State University, Long Beach,, dir. Ricardo J. Espinosa.

  1. Lull me beyond thee: Andante espressivo
  2. Catching of Quails: Vivace vigoroso [3:21]
  3. My Lady’s Rest: Andantino con sentimento [5:50]
  4. Quodling’s Delight: Allegro vivace – Con fuoco [11:05]

Se la suite prende il titolo da famose raccolte rinascimentali di musiche per danza, e in particolare dal celebre Het derde musyck boexken… alderhande danserye (Il terzo libriccino di musica… ovvero danserye) pubblicato nel 1551 ad Anversa da Tielman Susato, e più volte ospitato in questo blog, alcuni dei brani che la compongono sono libere rielaborazioni di brani che fanno parte del repertorio tradizionale britannico, e in special modo della famosa antologia curata da John Playford ed eredi e pubblicata, con il titolo The English Dancing Master, per la prima volta giusto cent’anni dopo la silloge di Susato. Mentre Catching of Quails e My Lady’s Rest sono a tutti gli effetti creazioni originali di Hesketh, il primo e l’ultimo movimento riprendono i brani intitolati rispettivamente Poor Robin’s Maggot e Goddesses nella silloge di Playford. Di quest’ultimo componimento ci eravamo già occupati tempo fa nella nostra personale crestomazia di folk songs (vedere qui).



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Kenneth Hesketh, architetto di mondi sonori tra entropia e incanto

Hesketh è un compositore britannico di spicco nel panorama della musica classica contemporanea. La sua produzione è vasta e diversificata, spaziando da opere orchestrali e da camera a composizioni vocali, per strumenti solisti, per banda di fiati, fino alla musica corale.

Formazione e primi passi: un talento precoce
Nato a Liverpool, Hesketh mostrò fin da giovanissimo una considerevole predisposizione per la musica. Completò un primo lavoro sinfonico all’età di soli tredici anni, quando era fanciullo cantore presso la Cattedrale anglicana di Liverpool. Il suo talento non passò inosservato: a diciannove anni ricevette una prima commissione ufficiale dalla Royal Liverpool Philharmonic Orchestra, diretta da sir Charles Groves.
La formazione accademica di Hesketh è di altissimo livello: ha studiato al Royal College of Music di Londra con Edwin Roxburgh e Simon Bainbridge fra gli altri. Un’esperienza formativa cruciale è stata la partecipazione al Festival di Tanglewood nel 1995 come “Leonard Bernstein Fellow”: in tale occasione ha avuto l’opportunità di studiare con il compositore francese Henri Dutilleux. Dopo un corso di perfezionamento all’Università del Michigan, la sua carriera è stata costellata di premi e riconoscimenti, tra cui una borsa di studio dalla Fondazione Toepfer su indicazione di sir Simon Rattle, che si rivelerà una figura chiave nel suo percorso.

L’evoluzione dello stile musicale
Lo stile di Hesketh è riconoscibile per la sua strumentazione ricca e colorata, le armonie dense e un linguaggio ritmico estremamente dinamico e mobile. L’evoluzione artistica di questo musicista può essere suddivisa in due fasi tematiche.
Prima fase: simbolismo e letteratura fantastica. Le prime opere di Hesketh sono spesso ispirate da idee extra-musicali, in particolare dal simbolismo e dall’iconografia medievale. Brani come Theatrum (1996) e Torturous Instruments (1997-98) – quest’ultimo ispirato all’Inferno musicale di Hieronymus Bosch – ne sono un esempio. Il punto di svolta è arrivato con The Circling Canopy of Night (1999), commissionato per il Birmingham Contemporary Music Group e diretto per la prima volta da Sir Simon Rattle. L’opera, descritta come “un vortice scintillante di colori notturni”, è stata poi sostenuta da un altro gigante della musica contemporanea, Oliver Knussen, e ha ricevuto esecuzioni ai BBC Proms e al Concertgebouw di Amsterdam. In questo periodo, Hesketh ha anche esplorato la natura sinistra e malinconica della letteratura per l’infanzia, come in Netsuke (2000-1), ispirato a Il Piccolo Principe e allo Struwwelpeter, e in Small Tales, tall tales (2009), basato sulle fiabe dei Fratelli Grimm.
Fase della maturità: macchine inaffidabili, entropia e labirinti. L’interesse del compositore si sposta verso quelle che egli stesso definisce “macchine inaffidabili”: brevi frammenti di materiale musicale meccanicistico che si ripetono, si trasformano e infine si esauriscono. Questo concetto si è ampliato per includere temi filosofici come l’entropia (in termini umanistici), l’invecchiamento, la morte e il fallimento dei sistemi fisici. Opere come Knotted Tongues (2012) e In Ictu Oculi (cui è stato conferito il British Composer Award nel 2017) riflettono questa fascinazione. Parallelamente, Hesketh inizia a integrare aspetti della composizione assistita dal computer e procedure randomizzate limitate, che hanno reso il suo approccio più libero e astratto. Questo interesse per la mutazione e l’esistenzialismo coesiste con una notevole attenzione per il disegno formale, ispirato a “percorsi” come labirinti e dedali, e alla nozione paradossale di raggiungere la chiarezza attraverso la densità.

Una carriera coronata dal successo
La carriera di Hesketh è un susseguirsi di commissioni prestigiose, premi e collaborazioni di alto profilo. È stato Composer in the House presso la Royal Liverpool Philharmonic Orchestra, un ruolo che è culminato nella prima esecuzione di Graven Image ai BBC Proms del 2008. La composizione Forms entangled, shapes collided, nata come parte di una collaborazione fra l’ensemble di musica contemnporanea Psappha e la coreografa Sharon Watson, direttore artistico del Phoenix Dance Theatre di Leeds è infine approdata alla Royal Opera House.
All’attività di compositore, Hesketh affianca quella didattica e accademica: professore di composizione presso il Royal College of Music, è inoltre professore onorario all’Università di Liverpool. Vive a Londra con la moglie, la compositrice statunitense Arlene Sierra, e il loro figlio.

Danceries, 1ª serie: analisi
Composta nel 1999, la prima serie di Danceries di Hesketh rappresenta lo stile del compositore nella sua fase giovanile. Il titolo stesso evoca le suite di danze rinascimentali e barocche, ma il compositore non si limita a una semplice imitazione: al contrario, utilizza queste forme storiche come trampolino di lancio per esplorare il suo personalissimo linguaggio musicale, caratterizzato da una strumentazione vivida e colorata, armonie dense e un’energia ritmica inarrestabile.
Il primo movimento si presenta come una ninna-nanna trasfigurata, un brano di una bellezza lirica e introspettiva. L’inizio è affidato a un delicato intreccio di legni: clarinetti e flauti espongono una melodia dolce e sinuosa, sostenuta da armonie calde ma velate di malinconia. La scrittura è trasparente e cameristica, permettendo di apprezzare ogni singola sfumatura timbrica. L’uso discreto delle percussioni aggiunge tocchi di luce scintillante, creando un’atmosfera notturna e sognante, che rimanda a opere coeve come The Circling Canopy of Night. La struttura del movimento segue un arco dinamico ed emotivo: dalla quiete iniziale, la musica si sviluppa gradualmente, coinvolgendo progressivamente l’intera compagine. La melodia viene poi ripresa con maggiore intensità dagli ottoni, costruendo una sonorità piena e sontuosa, tipica della densità armonica di Hesketh. Questo climax emotivo, tuttavia, non è mai aggressivo e mantiene sempre un carattere espressivo e cantabile prima di dissolversi lentamente, tornando alla serenità dell’apertura. Il finale è un sussurro, un suono che si spegne dolcemente, lasciando l’ascoltatore sospeso in un’atmosfera di pace contemplativa.
Con un contrasto netto, il secondo movimento irrompe con un’energia giocosa e scattante. “A caccia di quaglie”, i legni si lanciano in rapidi fraseggi staccati e agili che imitano il cinguettio e il volo frenetico degli uccelli. Questo è un chiaro esempio della scrittura ritmicamente “mobile” e complessa di Hesketh. Il brano è un brillante scherzo, un mosaico di brevi frammenti ritmici e melodici che vengono scambiati tra le varie sezioni dell’ensemble in un dialogo serrato e spiritoso. Le percussioni assumono un ruolo di primo piano, sottolineando il carattere vivace e quasi meccanicistico della musica, un’anticipazione di quell’interesse per le “macchine inaffidabili” che caratterizzerà le sue opere successive. Nonostante la sua brevità, il movimento è denso di idee e mette in mostra la straordinaria abilità di Hesketh nel creare trame complesse e piene di vita, per poi concludersi con un gesto tanto improvviso quanto efficace.
Il terzo movimento è il cuore emotivo della suite: il titolo nobiliare e il carattere “con sentimento” ci trasportano in un’atmosfera completamente diversa: solenne, riflessiva e profondamente lirica. L’inizio è un maestoso corale affidato ai registri gravi, con gli ottoni e i legni bassi che creano un tappeto armonico ricco e profondo. Da questo sfondo emergono diverse voci soliste: un lungo e struggente assolo del flauto si libra con grazia sopra l’accompagnamento, seguito da interventi espressivi dell’oboe, del clarinetto e di altri legni. Hesketh dimostra qui la sua maestria nella strumentazione “colorata”, mettendo in risalto la bellezza timbrica di ogni strumento. La musica costruisce lentamente una tensione emotiva che culmina in un climax grandioso e appassionato, dove l’intera forza della banda sinfonica viene scatenata in un’ondata sonora potente e catartica. Come nel primo movimento, la tensione si allenta progressivamente, e il brano si conclude in una lunga coda serena, una discesa verso una pace quasi ultraterrena che evoca perfettamente l’idea del “riposo”.
Il finale è una danza sfrenata, un’esplosione di gioia ed energia rustica e popolare, e la musica è un turbine di vitalità “con fuoco”. L’inizio è percussivo e travolgente, con ritmi ostinati e figure di fanfara che si rincorrono tra le sezioni. Questo movimento è un tour de force ritmico e strumentale: i tempi veloci, le sincopi accentuate e i continui cambi di metro creano una sensazione di instabilità controllata, come una danza popolare sull’orlo del caos. Tutto l’insieme strumentale è impegnato al massimo: i legni eseguono passaggi virtuosistici, gli ottoni intonano temi trionfali e le percussioni forniscono una spinta ritmica inesorabile. Il brano è un susseguirsi di idee che vengono continuamente trasformate e sviluppate, mantenendo alta la tensione fino alla coda finale, dove Hesketh scatena tutta la potenza dell’ensemble in una conclusione brillante, affermativa e spettacolare, chiudendo la suite con un’impronta di esuberanza indimenticabile.

Molto Allegro agitato ed appassionato

Ferdinand David (1810 - 19 luglio 1873): Sestetto per archi (3 violini, viola, 2 violoncelli) in sol maggiore op. 38 (c1860). Steve’s Bedroom Band.

  1. Molto Allegro ed espressivo
  2. Adagio ma non troppo [7:11]
  3. Allegretto grazioso e vivace [13:07]
  4. Finale: Molto Allegro agitato ed appassionato [17:58]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Ferdinand David: l’arco di Mendelssohn e l’anima del Romanticismo

Ferdinand David viene ricordato come una figura centrale nella vita musicale di Lipsia del XIX secolo, stretto collaboratore di Felix Mendelssohn e influente insegnante.

Un virtuoso in viaggio: dalla formazione alla fama
Ferdinand Ernst Victor Carl David nacque ad Amburgo in una famiglia ebraica. Sebbene inizialmente avesse intrapreso studi di disegno, la sua vera vocazione si rivelò essere la musica. La sua formazione come violinista fu di altissimo livello: tra il 1823 e il 1824 studiò a Kassel sotto la guida di due maestri d’eccezione, il celebre violinista Louis Spohr e il teorico Moritz Hauptmann.
La sua carriera professionale iniziò nel 1826 come violinista al Königsstädtisches Theater di Berlino. Fu qui che strinse amicizia con il violoncellista Johann Benjamin Groß e venne accolto dalla famiglia di Felix Mendelssohn-Bartholdy, dando inizio a un legame che avrebbe segnato la sua vita. Dal 1829, ricoprì il prestigioso ruolo di primo violino nel quartetto d’archi privato del nobiluomo Carl Gotthard von Liphart a Dorpat (l’odierna Tartu, in Estonia), che gli permise di intraprendere tournée di successo a Riga, San Pietroburgo e Mosca.
La svolta decisiva avvenne nel 1836: quando il quartetto si sciolse, l’amico Mendelssohn lo chiamò a Lipsia per affidargli due ruoli di massima importanza: Konzertmeister (primo violino) del Gewandhausorchester e primo violino del celebre Quartetto Gewandhaus. A partire dal 1843, divenne anche un influente insegnante di violino presso il Conservatorio di Lipsia, formando una generazione di musicisti, tra cui Alexander Ritter, August Wilhelmj e, per un breve periodo, il leggendario Joseph Joachim. L’amicizia con Mendelssohn culminò nella composizione del Concerto per violino in mi minore op. 64, scritto appositamente per David, che ne fu il primo, storico interprete.

Sfera privata e legami familiari
La vita personale di David fu altrettanto ricca: nel 1828 si convertì dalla fede ebraica a quella protestante. Uomo inserito nel tessuto culturale della sua epoca, nel 1836 divenne membro della loggia massonica Minerva zu den drei Palmen di Lipsia.
Nello stesso anno sposò Sophie von Liphart, figlia del suo ex mecenate di Dorpat, consolidando così un legame professionale in uno familiare. La coppia ebbe cinque figli che raggiunsero l’età adulta (e altri tre che morirono prematuramente), i quali si distinsero in vari campi: Isabella sposò un diplomatico collaboratore di Bismarck, Paul seguì le orme paterne diventando violinista e direttore musicale in Inghilterra; Helene, Ottilie e Anna Maria si unirono a famiglie di spicco.
Il talento musicale era una caratteristica diffusa nella famiglia David: anche le sorelle Marie-Louise e Therese furono apprezzate pianiste concertiste.

L’eredità musicale: tra composizione e riscoperta
Come compositore, David si colloca stilisticamente tra il tardo Classicismo e il primo Romanticismo. La sua produzione include cinque concerti per violino, vari pezzi da concerto e opere per strumenti a fiato. Paradossalmente, il suo brano oggi più eseguito non è per violino, ma il Concerto per trombone op. 4, divenuto un pezzo d’obbligo nel repertorio di ogni trombonista. Compose anche due sinfonie e un’opera comica, Hans Wacht (1852), lavori purtroppo perduti; si narra che David stesso abbia distrutto l’opera dopo la prima, giudicandola «orribile».
Un aspetto fondamentale della sua eredità è il suo lavoro di revisore ed editore: David curò edizioni critiche di opere violinistiche di compositori barocchi come Veracini e Locatelli e pubblicò per l’editore C.F. Peters l’integrale dei trii per pianoforte di Beethoven. La sua revisione più celebre e duratura è quella delle Sonate e Partite per violino solo di Johann Sebastian Bach (1843), che ha influenzato generazioni di violinisti.

La fine improvvisa sulle Alpi svizzere
La vita di David si concluse in modo tragico e inaspettato: il 18 luglio 1873, durante un’escursione sulle Alpi svizzere verso il ghiacciaio del Silvretta, fu colpito da un infarto fatale. Morì alla presenza della figlia Isabella.

Il Sestetto per archi op. 38: analisi
Lavoro di grande fascino e impeto, merita un posto di rilievo nel repertorio del Romanticismo tedesco. Sebbene David sia oggi ricordato principalmente come violinista virtuoso e dedicatario del celebre Concerto di Mendelssohn, questo Sestetto rivela un compositore di notevole talento, capace di fondere la chiarezza formale classica con una profonda sensibilità romantica. La scelta di una strumentazione insolita – tre violini, una viola e due violoncelli – conferisce al brano una sonorità unica: più brillante e agile nel registro acuto grazie ai tre violini e, allo stesso tempo, più ricca e profonda nel registro grave per la presenza dei due violoncelli.
Il primo movimento è un esempio magistrale di forma-sonata, permeato da un’energia e un lirismo che ricordano da vicino lo stile di Mendelssohn e Schumann. Il brano si apre senza preamboli con un tema vigoroso e affermativo in sol maggiore: è un’idea eroica, basata su un arpeggio ascendente che trasmette un senso di slancio e ottimismo. La strumentazione è piena e compatta, con i sei strumenti che contribuiscono a creare un suono quasi orchestrale. Una sezione di transizione energica, caratterizzata da scale ascendenti e un dialogo serrato tra i violini, modula abilmente verso la tonalità della dominante. In re maggiore, emerge il secondo tema, di carattere “espressivo” come indicato dal titolo: è una melodia cantabile e dolcemente malinconica, affidata principalmente al primo violino che si libra sopra un accompagnamento più delicato degli altri strumenti. Questo contrasto tra l’energia del primo tema e il lirismo del secondo è un caposaldo della forma-sonata classica, qui reinterpretato con sensibilità romantica. L’esposizione si conclude con una ripresa dell’energia iniziale e, come da tradizione, viene interamente ripetuta.
Lo sviluppo esplora le potenzialità drammatiche del primo tema: i frammenti melodici vengono frammentati, rielaborati e passati tra i vari strumenti in un gioco contrappuntistico teso e dinamico. L’armonia si fa più instabile, esplorando tonalità minori e creando momenti di forte tensione drammatica, quasi tempestosa.
La ripresa riporta il primo tema in sol maggiore con rinnovato vigore, mentre il secondo tema viene riproposto, come da manuale, nella tonalità d’impianto, apparendo ora più risolto e sereno. Una coda brillante e concisa conclude il movimento con affermazioni decise e un senso di trionfante compimento.
Il secondo movimento è il cuore emotivo del sestetto, un “canto senza parole” di straordinaria bellezza e intimità. Strutturato in forma ternaria (ABA), contrappone una melodia serena a una sezione centrale più inquieta. La prima sezione – in do maggiore (sottodominante) – vede il primo violino introdurre una melodia sublime, calma e contemplativa, sostenuta da un accompagnamento morbido e corale degli altri archi. La melodia passa poi con eleganza al primo violoncello, creando un dialogo intimo e toccante tra i registri estremi dell’ensemble. L’indicazione “ma non troppo” è fondamentale: il tempo è scorrevole, evitando ogni pesantezza. L’atmosfera cambia radicalmente: la musica si sposta in la minore e il carattere si fa più teso e appassionato. L’accompagnamento diventa più agitato, con l’uso di tremoli e figure ritmiche più incalzanti che creano un senso di ansia e turbamento, un’ombra passeggera sulla serenità iniziale. Il tema principale ritorna, ancora più espressivo e ornato, riportando un senso di pace e risoluzione. La coda è un progressivo dissolversi del suono: un delicato pizzicato nel registro grave accompagna gli ultimi frammenti melodici, portando il movimento a una conclusione eterea e sospesa.
Il terzo movimento è uno scherzo brillante e spiritoso, che mette in luce la maestria tecnica di David e la sua capacità di creare tessiture leggere e scintillanti. Il tema principale è un motivo saltellante e giocoso, caratterizzato da un ritmo puntato e da un uso diffuso dello staccato: evoca immediatamente il mondo fantastico ed “elfico” degli scherzi di Mendelssohn. I tre violini si scambiano veloci arabeschi e passaggi virtuosistici, creando un effetto di leggerezza e brillantezza. La sezione centrale offre un netto contrasto. Il ritmo si distende in una melodia più fluida e cantabile, simile a un Ländler (danza popolare austriaca). L’atmosfera diventa più rustica e bonaria, un momento di quiete pastorale prima del ritorno dell’energia dello scherzo. Lo scherzo viene ripetuto integralmente, seguito da una breve e arguta coda che conclude il movimento con un guizzo di umorismo.
Il finale è un tour de force di energia drammatica e virtuosismo: la forma è un rondò-sonata che segue un percorso emotivo dal tumulto alla liberazione gioiosa. Il movimento si lancia in un tema principale in sol minore, furioso e incalzante. L’indicazione “agitato ed appassionato” è perfettamente rappresentata da scale veloci e ritmi martellanti. Il primo episodio contrastante introduce una melodia più lirica in si bemolle maggiore, sebbene mantenga un sottofondo di urgenza. Dopo la ripresa del tema principale, il movimento entra in una sezione di sviluppo dove il materiale tematico viene elaborato con grande intensità contrappuntistica. Il culmine drammatico arriva con la transizione, in cui l’armonia lotta per liberarsi dal modo minore. Il tema principale poi irrompe trionfalmente in un sol maggiore radioso: la trasformazione da “agitato” a eroico è completa. Il sestetto si lancia in una coda travolgente, in cui la velocità e l’intensità aumentano fino a un finale brillante e affermativo, sigillando l’opera con un’esplosione di gioia e virtuosismo.

Taratantara

Jacobus Gallus Carniolus (ovvero Jacob Handl; 3 luglio 1550 - 18 luglio 1591): Musica noster amor, mottetto latino a 6 voci (n. 28 della raccolta Moralia, 1596, postuma). Maulbronner Kammerchor, dir. Jürgen Budday.

Musica noster amor, sit fida pedissequa vatum,
molliter ad cunas fingere nata melos.
Exulet hostiles acuens, taratantara, motus,
vivat, et Aonidum castra Poesis amet.
Et lachrimas vatum colit, et suspiria, Caesar.
Vivat io magnis turba superba Diis.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

La voce della Carniola: Jacobus Gallus, genio del tardo Rinascimento

Jacobus Gallus è stato uno dei più prolifici e influenti compositori del tardo Rinascimento, una figura di transizione che ha saputo fondere magistralmente le tradizioni musicali del proprio tempo con innovative spinte verso la modernità. Nato nelle terre asburgiche della Carniola (l’odierna Slovenia), trascorse l’ultima e più feconda parte della sua vita in Moravia e Boemia, lasciando un’eredità di oltre 500 composizioni.

Vita e origini: un musicista itinerante
Jacobus Gallus è noto anche come Jacob Handl e Jakob Petelin: i termini gallus, Handl e petelin significano “gallo” rispettivamente in latino, in tedesco e in sloveno; tuttavia il compositore non usò mai la forma slovena: preferiva infatti la forma latina, cui spesso aggiungeva l’aggettivo “Carniolus” per rivendicare con orgoglio le proprie origini. Nato presumibilmente a Reifnitz (oggi Ribnica), egli ricevette la prima educazione musicale presso l’abbazia cisterciense di Stična. Tra il 1564 e il 1566 lasciò la terra natale per viaggiare tra Austria, Boemia, Moravia e Slesia. Fu membro della cappella di corte viennese nel 1574 e, tra il 1579 e il 1585, ricoprì il prestigioso incarico di Kapellmeister per il vescovo di Olomouc. Infine, nel 1585 si stabilì a Praga, dove lavorò come organista presso la Chiesa di San Giovanni alla Balustrata fino alla morte.

L’arte della composizione: un ponte tra stili
Gallus fu un esponente musicale della Controriforma in Boemia. La sua grandezza risiede nella capacità di sintetizzare stili diversi: da un lato, la complessa polifonia della scuola franco-fiamminga; dall’altro, la grandiosità sonora e spaziale della scuola veneziana. La sua produzione, vastissima e versatile, spazia dal sacro al profano, includendo opere monumentali che impiegano più cori e fino a 24 parti vocali indipendenti.
Il suo capolavoro è senza dubbio l’Opus musicum (1586-90), una monumentale raccolta di 374 mottetti destinati a coprire le necessità liturgiche dell’intero anno ecclesiastico. Quest’opera, così come la maggior parte delle sue messe, fu stampata a Praga. Nei mottetti, come il celebre O magnum mysterium, è evidente l’influenza veneziana, soprattutto nell’uso della tecnica del “coro spezzato” (cori separati che dialogano tra loro). Gallus fondeva con maestria arcaismo e modernità: se da un lato era un profondo conoscitore delle tecniche imitative tradizionali, dall’altro preferiva la nuova pratica policorale veneziana, utilizzando raramente la tecnica del cantus firmus. La sua audacia si manifesta in transizioni cromatiche che anticipano la dissoluzione del sistema modale, come nel mottetto a cinque voci Mirabile mysterium, la cui complessità armonica è stata paragonata a quella di Carlo Gesualdo. Era inoltre un abile inventore di madrigalismi, ma sapeva anche scrivere brani di intensa e semplice spiritualità, come il suo mottetto più famoso, Ecce quomodo moritur justus, il cui tema fu successivamente ripreso da G.F. Händel.

La produzione profana
Oltre al vasto corpus sacro, egli compose circa 100 brani profani, raccolti principalmente in due raccolte: Harmoniae morales (1589-90) e Moralia (1596). Questa produzione dimostra la sua versatilità, includendo madrigali in latino (una scelta linguistica insolita per il genere, che era prevalentemente italiano), canti in tedesco e altre composizioni in latino.

Musica noster amor: analisi
Questo mottetto è un gioiello della produzione profana, un’ode umanistica alla musica e alla poesia che dimostra in modo esemplare la maestria di Gallus nel tradurre il significato e l’emozione del testo in vivida materia sonora. Il testo è una celebrazione del potere della musica: da un lato, la sua capacità di generare dolcezza e conforto; dall’altro, la sua forza nel bandire gli istinti bellicosi, per poi abbracciare la nobiltà della poesia. Il mottetto è strutturato in una serie di sezioni contrastanti che seguono fedelmente la progressione emotiva del testo, utilizzando la tecnica del madrigalismo con straordinaria efficacia.

Il brano si apre con una dichiarazione solenne e affettuosa: Gallus sceglie una tessitura prevalentemente omoritmica, dove tutte e sei le voci si muovono insieme, conferendo al testo un’immediata chiarezza e un senso di unità. La dinamica è contenuta e l’armonia è prevalentemente consonante, creando un’atmosfera di serena devozione all’arte musicale.
Pur mantenendo un carattere dolce, Gallus introduce poi un delicato contrappunto imitativo: le voci entrano in successione, creando un intreccio morbido e fluttuante che evoca l’immagine del dondolio di una culla. Il termine “fingere” viene impreziosito da un breve ma elegante melisma, dipingendo musicalmente l’atto creativo. La dinamica si attenua ulteriormente, quasi a suggerire un sussurro.
Il carattere cambia bruscamente: “Exulet” è cantato con forza e decisione, segnando una netta rottura con la dolcezza precedente. Il culmine è raggiunto sulla parola onomatopeica “taratantara”, che imita lo squillo delle trombe di guerra. Qui Gallus scatena un vorticoso gioco imitativo: le voci, specialmente tenori e bassi, si rincorrono con ritmi puntati, veloci e staccati, creando una cascata sonora percussiva e brillante.
Dopo il tumulto del “taratantara”, la musica si placa e si eleva nuovamente verso una nobile solennità: la parola “vivat” è presentata in un potente blocco omoritmico, un’affermazione di speranza e resilienza. La frase successiva – che celebra l’unione tra Poesia e Muse – ritorna a una polifonia fluida e complessa, con lunghe linee melodiche che si intrecciano con eleganza, simboleggiando la raffinatezza dell’arte.
La dinamica scende poi a un piano quasi impercettibile. Per dipingere le parole “lachrimas” e “suspiria”, Gallus utilizza un sottile gioco cromatico e armonie dissonanti. Si avvertono dei ritardi che si risolvono lentamente, imitando musicalmente un sospiro. L’atmosfera diventa intima e patetica, quasi malinconica. È in passaggi come questo che si riconosce la modernità di Gallus e la sua capacità di esplorare la profondità psicologica del testo, anticipando sensibilità quasi barocche.
Il mottetto si conclude con un’esplosione di giubilo: la parola “vivat” ritorna, questa volta come un’esclamazione trionfale. Gallus utilizza di nuovo la massima potenza dell’omoritmia: tutte le sei voci sono unite in un accordo pieno e sonoro, proiettato con una dinamica fortissimo. L’effetto è quello di un coro magnifico e unitario che canta una lode finale. La frase si ripete con crescente intensità, culminando in un accordo maggiore finale.

Nel complesso, Musica noster amor è una sintesi perfetta dello stile di Jacobus Gallus: la sua capacità di alternare la complessità polifonica franco-fiamminga a una scrittura omoritmica di derivazione veneziana, il suo uso geniale e quasi teatrale dei madrigalismi, e la sua sensibilità armonica audace e moderna.

Allegro con fuoco – II

Luise Adolpha Le Beau (1850 - 17 luglio 1927): Trio in re minore per violino, violoncello e pianoforte op. 15 (1877). Helga Wähdel, violino; Dietrich Panke, violoncello; Viola Mokrosch, pianoforte.

  1. Allegro con fuoco
  2. Andante [7:44]
  3. Scherzo: Allegro [13:19]
  4. Finale: Allegro molto [15:50]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Il talento ostinato di una pioniera: vita e arte di Luise Adolpha Le Beau

Pianista virtuosa, compositrice prolifica, insegnante e critico musicale, Luise Adolpha Le Beau lottò per affermarsi in un mondo dominato dagli uomini, lasciando un’eredità di opere significative e una testimonianza di tenacia intellettuale.

La formazione iniziale e i primi passi (1850-73)
Nata a Rastatt, nel granducato di Baden, Luise Le Beau ricevette la sua prima educazione direttamente dai genitori, dopo che il padre, Wilhelm, si era ritirato dalla carriera militare. Fu proprio il padre, anch’egli musicista, a impartirle le prime lezioni di pianoforte dall’età di cinque anni. A sedici anni, dopo aver completato la sua istruzione generale, decise di dedicarsi interamente alla musica.
Si perfezionò poi a Karlsruhe, dove studiò con Wilhelm Kalliwoda (pianoforte) e con Anton Haizinger (canto). Il suo talento emerse rapidamente: già nel 1868, a diciotto anni, debuttò come pianista eseguendo concerti di Beethoven e Mendelssohn. Su raccomandazione del celebre direttore Hermann Levi, studiò per un’estate con la leggendaria pianista Clara Schumann.

Il periodo di Monaco: apice creativo e riconoscimenti (1874-85)
Il trasferimento della famiglia a Monaco segnò l’inizio del periodo più fertile e di successo per Le Beau. Grazie a una lettera di raccomandazione di Hans von Bülow, fu ammessa come allieva privata del rinomato compositore e organista Josef Gabriel Rheinberger, dopo avergli presentato la sua Sonata per violino op. 10. Parallelamente, approfondì il contrappunto e l’armonia con Ernst Melchior Sachs.
In questi anni Le Beau non solo si dedicò alla composizione, ma si affermò attivamente sulla scena musicale come concertista: intraprese una tournée in Baviera nel 1877, eseguendo le proprie opere; dal 1878 collaborò come critico per la rivista «Allgemeine deutsche Musikzeitung»; fondò inoltre un corso privato di musica e teoria «per figlie di ceti colti», dimostrando una forte vocazione pedagogica.
Il suo spirito indipendente la portò a distaccarsi progressivamente dall’influenza di Rheinberger, studiando autonomamente le opere di compositori come Berlioz e Wagner, fino alla rottura del rapporto didattico nel 1880. Questo periodo culminò con la composizione e la prima esecuzione trionfale del suo oratorio Ruth op. 27 nel 1883 a Monaco. Nello stesso anno il suo Quartetto con pianoforte op. 28 venne eseguito nel prestigioso Gewandhaus di Lipsia. Gli anni di Monaco portarono a Le Beau vari riconoscimenti ufficiali, come il primo premio in un concorso di composizione per la Sonata per violoncello op. 17, nonché incontri cruciali con musicisti quali Franz Liszt e Johannes Brahms.

Una vita itinerante: le tappe di Wiesbaden e Berlino (1885-93)
Nel 1885, la famiglia si trasferì a Wiesbaden: qui Le Beau continuò a comporre, insegnare e vedere le sue opere eseguite. Tra le composizioni di questo periodo spiccano l’oratorio Hadumoth op. 40 e il Concerto per pianoforte op. 37. La sua fama divenne internazionale: il Quartetto con pianoforte fu eseguito a Sydney e l’oratorio Ruth a Costantinopoli. Un successivo trasferimento a Berlino nel 1890 le offrì nuove opportunità: sfruttò le vaste risorse della Biblioteca reale per approfondire i suoi studi e qui emerse il suo interesse per la musicologia: condusse ricerche sulle compositrici del passato e pubblicò nel 1890 un saggio pionieristico, Compositrici del secolo precedente, con particolare attenzione per Marianna von Martines, contemporanea di Haydn.

L’ultimo capitolo a Baden-Baden: opere della maturità e anni finali (1893-1927)
Nel 1893 la famiglia si stabilì definitivamente a Baden-Baden; qui furono eseguiti l’oratorio Hadumoth e la Sinfonia per grande orchestra op. 41. La sua vita fu però segnata da lutti personali: il padre morì nel 1896 e la madre nel 1900. Nonostante le difficoltà, la sua creatività non si arrestò: compose il poema sinfonico Hohenbaden op. 43 e, nel 1902, la sua unica opera lirica, Der verzauberte Kalif op. 55, basata su una fiaba di Wilhelm Hauff; difficoltà burocratiche ne impedirono la messa in scena. Continuò a comporre musica da camera, brani per pianoforte e corali fino agli ultimi anni. Scrisse la sua autobiografia, Memorie di una compositrice (1910) e continuò a viaggiare, insegnare e scrivere critiche per il giornale locale. Morì a Baden-Baden nel 1927 e oggi la città la ricorda con una targa commemorativa e intitolandole la Biblioteca musicale.

La ricezione critica: una voce nel dibattito musicale
La critica del suo tempo riconobbe il talento di Le Beau, pur inquadrandolo spesso attraverso la lente del pregiudizio di genere. Una recensione del 1878 loda i suoi duetti per la loro semplicità e piacevolezza, definendoli «vocalmente naturali»; il Riemann Musiklexikon (1882) descrive l’oratorio Ruth come un’opera piena di «calore del sentimento, senso per la melodia gradevole e gioia per le armonie ben suonanti», lodandola per aver evitato pretenziosità e per aver sviluppato con naturalezza le proprie doti; un altro critico, Alfred Christlieb Kalischer, sottolinea esplicitamente il suo ruolo nel «frantumare il radicato pregiudizio contro le creazioni musicali nate da mente femminile», riconoscendole il merito di contribuire a una battaglia culturale più ampia.

Trio con pianoforte in re minore: analisi
Composto nel 1877, durante il fertile e acclamato periodo di Monaco, questo lavoro rappresenta uno dei vertici della produzione cameristica di Luise Le Beau. L’opera, di stampo tardo-romantico, rivela una profonda padronanza della forma e un’ispirazione melodica e armonica che la colloca a pieno titolo nella tradizione di grandi maestri come Schumann e Brahms. L’interazione fra i tre strumenti è gestita con superba abilità, alternando momenti di impeto drammatico, lirismo cantabile e leggerezza virtuosistica.

Il primo movimento è un esempio magistrale di forma-sonata, caratterizzato da un forte contrasto tematico e da una scrittura densa e passionale. Il movimento si apre “con fuoco” e in fortissimo con un tema principale vigoroso e drammatico in re minore. Tutti e tre gli strumenti entrano all’unisono con una figura potente, seguita da accordi arpeggiati e possenti del pianoforte che ne sottolineano l’impeto. Questa introduzione stabilisce immediatamente un’atmosfera di urgenza e passione. Una sezione di transizione agitata, dominata da veloci passaggi del pianoforte, modula abilmente verso la tonalità relativa. In netto contrasto, emerge un secondo tema lirico e cantabile in fa maggiore. Viene introdotto dal violoncello con una melodia calda e sognante, cui risponde poco dopo il violino, mentre il pianoforte abbandona i risonanti accordi iniziali per fornire un accompagnamento più morbido e ondulato. Il dialogo tra gli archi crea un’oasi di serenità. L’esposizione si chiude con una ripresa dell’energia iniziale, utilizzando frammenti del primo tema per concludere con forza in fa maggiore.
Nello sviluppo, Le Beau rivela la propria maestria nel contrappunto: i due temi vengono frammentati, rielaborati e passati abilmente da uno strumento all’altro. Si attraversano diverse tonalità, prevalentemente minori, aumentando la tensione armonica. La scrittura pianistica diventa particolarmente virtuosistica, con scale rapide e arpeggi complessi che dialogano con le linee melodiche degli archi. Il primo tema ritorna con tutta la forza originaria nella tonalità d’impianto. La transizione viene modificata per rimanere nella tonalità principale e il secondo tema lirico riappare nella tonalità parallela (re maggiore), che dà un senso di speranza e trionfo sulla drammaticità iniziale. Il movimento si conclude con una coda estesa e travolgente. Il tempo accelera, spingendo la tensione al massimo. Frammenti del primo tema vengono portati a un culmine di intensità, chiudendo il movimento in modo deciso e inequivocabilmente drammatico nella tonalità iniziale.
Il movimento successivo rappresenta il cuore lirico e introspettivo del Trio: scritto in si bemolle maggiore, offre un profondo contrasto con la passione del movimento precedente. Si apre con una melodia semplice e meravigliosamente cantabile, introdotta dal violoncello su un delicato accompagnamento accordale del pianoforte. La melodia, dal carattere quasi di romanza senza parole, viene poi ripresa e arricchita dal violino, creando un dialogo intimo e toccante tra i due archi. La sezione centrale cambia drasticamente carattere: la tonalità si sposta (in sol minore) e la musica diventa più agitata e inquieta. Il pianoforte assume un ruolo più turbolento con arpeggi densi, mentre gli archi suonano con maggiore intensità e con l’indicazione marcato, creando un’onda di passione contenuta che spezza la serenità iniziale. Il tema principale ritorna, ma variato e impreziosito. L’atmosfera si rasserena nuovamente, portando il movimento a una conclusione estremamente delicata e pacifica, spegnendosi in pianissimo.
Il terzo movimento è uno Scherzo vivace e ritmicamente arguto in re minore, che ricorda la leggerezza di Mendelssohn. Esso inizia con un motivo leggero e giocoso in pizzicato per violino e violoncello, cui il pianoforte risponde con accordi staccati. Questa sezione è caratterizzata da una spiccata energia ritmica e da improvvisi contrasti dinamici che le conferiscono un carattere spiritoso e imprevedibile. Nella sezione centrale, in re maggiore, l’atmosfera cambia completamente. Il tempo rallenta leggermente in un sostenuto, e la musica assume un andamento più lirico e aggraziato, simile a un valzer sognante. Questa melodia fluida e cantabile offre un perfetto momento di contrasto prima del ritorno dell’energia dello Scherzo. Come da tradizione, la prima sezione viene ripetuta, per poi concludersi con una breve e scattante coda.
Il Finale è un movimento di grande impeto e complessità strutturale, costruito in una forma che unisce elementi del rondò e della sonata. Si inizia in re minore con un tema principale energico e martellante, caratterizzato da note staccate e da una spinta ritmica inarrestabile. Viene presentato prima dal pianoforte e poi ripreso con forza dagli archi. A questo tema principale si alternano episodi contrastanti: il primo, in fa maggiore, è più lirico e offre un breve respiro. Il tema principale ritorna per poi condurre a una sezione centrale più elaborata che funge da vero e proprio sviluppo. Qui, i motivi del tema principale vengono frammentati e rielaborati in un complesso intreccio contrappuntistico, dimostrando ancora una volta la grande abilità compositiva di Le Beau. Il Finale culmina in una coda spettacolare. Il tempo accelera progressivamente e l’intensità cresce in un vortice di virtuosismo: scale rapide del pianoforte e accordi potenti di tutti gli strumenti portano l’opera a una conclusione trionfale e affermativa in un brillante re maggiore, risolvendo definitivamente la drammaticità del re minore che aveva caratterizzato gran parte del Trio.

Les neiges d’antan!

Eugène Ysaÿe (16 luglio 1858 - 1931): Les neiges d’antan!, poème per violino e archi op. 23 (1921). Christine Raphael, violino; Rheinisches Kammerorchester, dir. Jan Corazolla.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Eugène Ysaÿe, il titano del violino

Eugène Auguste Ysaÿe non fu semplicemente un musicista, bensì una figura poliedrica e un pilastro della vita musicale europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La sua carriera, che abbracciò il ruolo di violinista virtuoso, compositore innovativo, influente pedagogo, direttore d’orchestra e organizzatore culturale, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della musica classica.

Origini e formazione di un predestinato
Nato a Liegi in una famiglia di musicisti, il destino di Ysaÿe sembrava segnato fin dalla culla: suo padre, violinista e direttore d’orchestra, fu il suo primo maestro; il giovane prese le prime lezioni all’età di quattro anni. Il suo talento precoce lo portò al Conservatorio di Liegi, ma fu l’incontro quasi leggendario con il celebre violinista Henri Vieuxtemps a cambiargli la vita: impressionato dal suo modo di suonare, Vieuxtemps si assunse personalmente la responsabilità della sua istruzione musicale, garantendogli un percorso d’apprendimento di altissimo livello. Più tardi Ysaÿe si perfezionò con Henryk Wieniawski a Bruxelles e poi con lo stesso Vieuxtemps a Parigi, entrando così in contatto con il cuore pulsante della musica europea e con musicisti di prima grandezza.

L’ascesa del virtuoso e gli incontri fondamentali
La carriera di Ysaÿe decollò rapidamente: dopo un’esperienza come primo violino nell’orchestra che sarebbe poi diventata la Filarmonica di Berlino, dove impressionò il grande Joseph Joachim, intraprese una serie di tournée che lo consacrarono a livello internazionale. I suoi viaggi lo portarono a collaborare e a stringere legami con le più importanti figure musicali dell’epoca: suonò con Clara Schumann, conobbe Edvard Grieg in Norvegia e partecipò a un festival organizzato da Franz Liszt a Zurigo. Stabilitosi a Parigi, divenne una figura centrale nel circolo di César Franck. Il loro sodalizio artistico e umano culminò in un dono immortale: in occasione del matrimonio di Ysaÿe nel 1886, Franck gli dedicò la sua celeberrima Sonata per violino e pianoforte, un capolavoro del repertorio cameristico.

Ispiratore e animatore della vita musicale
L’influenza di Ysaÿe andò ben oltre le sue esecuzioni: le sue qualità artistiche, non ultimo l’interesse per la musica contemporanea, fecero di lui l’ispiratore di un’intera generazione di compositori. Oltre a Franck, gli dedicarono opere fondamentale Claude Debussy (Quartetto per archi), Ernest Chausson (Poème per violino e orchestra), Camille Saint-Saëns e Gabriel Fauré. Ysaÿe non fu solo un destinatario passivo, ma un promotore attivo di queste nuove composizioni, imponendole con determinazione nei programmi dei suoi concerti. La sua visione si concretizzò anche nella fondazione di due importanti istituzioni, il Quatuor Ysaÿe (1889) e i Concerts Ysaÿe (1896), una società di concerti con orchestra propria a Bruxelles, attraverso cui diffuse la musica dei suoi contemporanei.

Il maestro e il lascito pedagogico
La reputazione di Ysaÿe come pedagogo eguagliò quella di virtuoso: fu professore al Conservatorio reale di Bruxelles dal 1886 al 1898 e, successivamente, direttore dell’Orchestra sinfonica di Cincinnati (1918-22). Violinisti da tutto il mondo accorrevano per studiare privatamente con lui. Tra i suoi allievi figurano Josef Gingold, William Primrose, Louis Persinger e Nathan Milstein. Anche i suoi strumenti, un Guadagnini e soprattutto un prezioso Guarneri del Gesù del 1740 (poi appartenuto a Isaac Stern), fanno parte della sua leggenda.

Gli ultimi anni e l’eredità istituzionale
Il prestigio di Ysaÿe fu consacrato da un forte legame con la famiglia reale belga: nominato Maestro della Cappella di corte dal re Alberto I, divenne il consigliere musicale della regina Elisabetta, sua allieva. Da questa collaborazione nacque l’idea di un concorso per giovani talenti, inizialmente chiamato Concours Ysaÿe, che dal 1951 è conosciuto in tutto il mondo come il Concours musical international Reine-Élisabeth-de-Belgique, una delle competizioni più prestigiose al mondo.
Poco prima di morire, nel suo letto d’ospedale, Ysaÿe poté vivere un’ultima, commovente emozione: ascoltare in diretta radio la “prima” della sua opera in lingua vallona, Piére li houyeû, e rivolgere un saluto al pubblico grazie a un collegamento audio-visivo all’avanguardia per l’epoca.

Les neiges d’antan!: analisi
Il titolo del brano è tratto da un verso della Ballade des dames du temps jadis del poeta medievale francese François Villon, ed è la chiave per comprendere l’essenza della composizione. Non si tratta di un’opera strutturata secondo le forme classiche, ma di un brano rapsodico, una meditazione musicale profondamente introspettiva e nostalgica sul tema della memoria, della bellezza effimera e della perdita.

Il brano si apre non con il solista, ma con il quartetto d’archi, che stabilisce immediatamente un’atmosfera rarefatta e sognante. Gli archi, probabilmente con sordina, suonano accordi lenti, cromatici e armonicamente instabili. Questa introduzione crea un paesaggio sonoro nebbioso, quasi impressionista, che non evoca il freddo della neve, ma piuttosto la sua immagine vista attraverso il velo malinconico del ricordo.
Subito, il violino solista fa il suo ingresso nel registro acuto: la sua linea è un recitativo libero, quasi un lamento improvvisato, carico di un lirismo struggente. Non è ancora un tema definito, ma piuttosto la voce del narratore che inizia a rievocare il passato. La dinamica è estremamente contenuta e il suono del violino, sottile e vulnerabile, sembra fluttuare sopra il tappeto armonico del quartetto, come un pensiero che emerge lentamente dalla nebbia della memoria.
Successivamente, la melodia del violino si cristallizza in un tema principale, cantabile e appassionato: la melodia è ampia, romantica, caratterizzata da un intenso vibrato e da un uso sapiente del rubato, che le conferisce un respiro quasi umano. Il quartetto assume un ruolo più dialogico, ora sostenendo, ora rispondendo alle frasi del solista con frammenti contrappuntistici, creando un tessuto sonoro denso e avvolgente.
La natura ciclica della memoria porta a un cambiamento di umore: il carattere si fa più inquieto e il tempo leggermente più mosso. Il violino abbandona il lirismo cantabile per lanciarsi in passaggi tecnicamente più ardui: arpeggi veloci, scale cromatiche e un’esplorazione di tutta la tessitura dello strumento. Questa sezione sembra rappresentare un ricordo più vivido, forse più doloroso o tormentato, che irrompe con forza.
La scrittura si fa più frammentata e febbrile: il quartetto accompagna con accordi sincopati e passaggi in pizzicato che aumentano la tensione ritmica. L’apice di questa sezione si ha con un culmine di grande potenza espressiva, dove il violino si lancia in un passaggio virtuosistico nel registro più acuto, sostenuto da un fortissimo di tutto l’ensemble. È il momento di massima intensità emotiva del brano, il ricordo che brucia prima di affievolirsi.
La musica si placa: segue una sezione che funge da cadenza per il violino solista. Qui il virtuosismo è completamente al servizio dell’introspezione. Il solista, quasi senza accompagnamento, riesplora i frammenti tematici precedenti in una sorta di monologo interiore. Ysaÿe impiega armonici ed effetti di eco per creare un senso di solitudine e riflessione profonda.
Segue il quartetto che reintroduce l’atmosfera nebbiosa dell’inizio, preparando la ripresa del tema principale. Quando il tema ricompare nel violino solista, è trasfigurato: ha perso la passione ardente della sua prima esposizione ed è ora tinto di una rassegnazione dolce e dolente. È lo stesso ricordo, ma visto con la saggezza e la distanza del tempo. La passione si è trasformata in una serena nostalgia.
La conclusione del pezzo è un lento e progressivo dissolvimento: il tempo rallenta ulteriormente e la dinamica si riduce a un impercettibile pianissimo. Il violino solista sale verso il registro sovracuto, utilizzando eterei flautati (armonici artificiali) che rendono il suono spettrale, quasi smaterializzato. È l’immagine sonora perfetta della neve che si scioglie e svanisce o del ricordo che si dissolve nell’oblio. Il quartetto sostiene questo congedo con accordi lunghi e immobili che si estinguono lentamente nel silenzio. L’ultima nota del violino, un armonico fragile e altissimo, rimane sospesa per un istante prima di scomparire del tutto, lasciando l’ascoltatore in uno stato di contemplazione malinconica.

Nel complesso, Les neiges d’antan! è un gioiello di scrittura idiomatica per il violino, in cui la tecnica virtuosistica non è mai fine a sé stessa ma è strumento per un’indagine psicologica di rara profondità. L’opera segue un percorso narrativo chiaro – evocazione, passione, tormento, riflessione e dissolvenza – che rispecchia fedelmente il ciclo agrodolce del ricordo.

Isaye, op. 23

Allegro risoluto – V

Amanda Röntgen-Maier (1853 - 15 luglio 1894): Concerto in re minore per violino e orchestra (1875). Claudia Bonfiglioli, violino; Orchestra filarmonica reale di Stoccolma, dir. Sakari Oramo.
Del Concerto esiste un unico movimento (Allegro risoluto), gli altri sono probabilmente andati perduti.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Amanda Röntgen-Maier: il talento riscoperto di una pioniera della musica

Figura di spicco nel panorama musicale del XIX secolo, violinista virtuosa e compositrice di grande talento, Amanda Röntgen-Maier ebbe una carriera tanto brillante quanto breve, messa in ombra dalle convenzioni sociali del suo tempo. La sua musica, riscoperta alla fine del XX secolo, rivela un’artista di calibro internazionale.

Formazione di un prodigio: primi anni e studi
Nata a Landskrona, in Svezia, Carolina Amanda Erika Maier crebbe in un ambiente intriso di musica. Suo padre, Carl Eduard Maier, un immigrato tedesco, era un pasticciere ma anche un musicista diplomato che impartì ad Amanda le prime lezioni di violino e pianoforte. Per il suo eccezionale talento fu accolta nella Kungliga musikaliska akademien (Accademia reale svedese di musica) a Stoccolma nel 1869. Lì seguì corsi diversi, tra cui violino, organo, composizione e storia della musica. Nel 1872 fu la prima donna donna a diplomarsi in direzione, ottenendo il massimo dei voti nella maggior parte delle discipline. Grazie a una borsa di studio proseguì la formazione presso il prestigioso Conservatorio di Lipsia (1873-76); qui ebbe come insegnanti Engelbert Röntgen (violino) e Carl Reinecke (composizione). Fu in questo periodo che strinse una profonda e duratura amicizia con il compositore norvegese Edvard Grieg.

La carriera di virtuosa e compositrice
Prima ancora di terminare gli studi, Maier era già un’affermata concertista e una compositrice promettente. Tra il 1876 e il 1880 intraprese tre grandi tour concertistici che la portarono a esibirsi in tutta la Scandinavia, suonando anche alla presenza del re Oscar II di Svezia. Il suo talento compositivo emerse con forza nel 1875, quando presentò il Concerto per violino e orchestra in re minore: l’opera fu eseguita per la prima volta ad Halle e successivamente a Lipsia nel 1876, dove l’autrice suonò con la celebre Orchestra del Gewandhaus diretta da Carl Reinecke, imbracciando per l’occasione un prezioso violino Stradivari. Un altro lavoro di pregio, la Sonata per violino e pianoforte in si minore, fu pubblicata nel 1878: quando le furono suggerite delle modifiche, Maier dimostrò di aver raggiunto la piena maturità artistica rifiutandosi di alterare la propria visione originale: l’opera fu dunque stampata così come l’autrice l’aveva concepita.

Vita familiare e la musica tra le mura domestiche
Nel 1880 Amanda Maier sposò il pianista e compositore Julius Röntgen, figlio del suo insegnante di violino. La coppia si stabilì ad Amsterdam ed ebbe due figli, Julius e Engelbert, che diventeranno entrambi musicisti professionisti sotto la guida della madre. Dopo il matrimonio, la sua carriera pubblica si interruppe quasi del tutto, come imponevano le convenzioni dell’epoca. Tuttavia, la musica non abbandonò mai la sua vita: la casa dei Röntgen divenne un vivace salotto musicale, un punto d’incontro per alcuni dei più grandi musicisti del tempo, tra cui Johannes Brahms, Clara Schumann, Anton Rubinštejn e Edvard Grieg. Amanda suonava frequentemente in privato con il marito, ma si esibiva raramente nei concerti di musica da camera organizzati nella sua abitazione.

Gli ultimi anni e il testamento musicale
Dopo la nascita del secondo figlio, la salute della musicista declinò. Nel 1887 Amanda Röntgen-Maier si ammalò di pleurite, cosa che la costrinse a lunghi periodi di riposo e a viaggi in cerca di cure; si recò fra l’altro a Nizza e a Davos. Nonostante la malattia, non smise mai di comporre e suonare. Proprio durante questo difficile periodo creò il suo ultimo grande capolavoro, il Quartetto con pianoforte in mi minore, completato nel 1891. Quest’opera, di respiro internazionale e profondamente influenzata da Brahms, è considerata una delle sue composizioni più mature e complesse; fu eseguito postumo. Amanda Röntgen-Maier morì serenamente nel 1894, poche ore dopo aver tenuto lezione ai suoi figli.

Le opere principali
Parte della produzione di Amanda Röntgen-Maier è andata perduta, ma le opere sopravvissute testimoniano il suo grande valore artistico.
– La Sonata per violino e pianoforte (1878) è un’opera ben strutturata e originale, caratterizzata da un primo movimento energico, un secondo movimento cantabile e un finale tecnicamente brillante;
– i Sechs Stücke (Sei Pezzi) per violino e pianoforte (1879) sono brani dal carattere intimo e personale che spaziano da dialoghi intensi a ritmi che ricordano la musica popolare ungherese e nordica;
– il Quartetto con pianoforte in mi minore (1891), considerato opera della piena maturità, dimostra una profonda conoscenza della musica da camera del suo tempo. È un lavoro su larga scala, con una timbrica tardo-romantica, melodie che evocano canti popolari e una scrittura complessa e appassionata.

Coda: un’eredità riscoperta
L’amicizia con Edvard Grieg durò tutta la vita; dopo la morte di lei, il compositore norvegese scrisse «Era una delle mie preferite». Nonostante il suo immenso talento, il nome della musicista svedese cadde nell’oblio per quasi un secolo, ma venne finalmente riscoperto negli anni 1990. Le sue opere rivelano una compositrice di considerevole statura artistica, pienamente paragonabile a quella dei suoi celebri contemporanei, offrendoci il ritratto di un potenziale straordinario, solo parzialmente espresso a causa dei limiti imposti al suo ruolo di donna e madre.

Il Concerto per violino e orchestra in re minore: analisi
Questa composizione, una delle gemme dimenticate del repertorio romantico, risale al 1875, quando l’autrice aveva solo 22 anni; ci è pervenuto un unico, ma formidabile movimento, l’Allegro risoluto. Anche se incompleta, questa composizione dimostra una maturità, una padronanza della forma e una profondità emotiva che la pongono al livello dei grandi concerti violinistici della sua epoca, come quelli di Brahms e Bruch, dai quali trae evidente ispirazione pur mantenendo una voce personale e distintiva.

Il lavoro si apre senza preamboli, con un accordo potente e drammatico in re minore affidato all’orchestra intera. L’introduzione è breve ma densa di significato: non è una semplice preparazione, ma una vera e propria dichiarazione di intenti. I ritmi puntati, le linee discendenti e l’orchestrazione piena, con ottoni e timpani in evidenza, stabiliscono immediatamente un’atmosfera tesa, eroica e passionale, tipica del tardo Romanticismo di scuola tedesca.
L’entrata del violino solista è altrettanto risoluta e virtuosistica: anziché presentare una melodia cantabile, Maier fa entrare il solista con una serie di arpeggi e corde doppie impetuose, che si slanciano verso l’alto per poi ridiscendere con forza. Questa non è un’entrata lirica, ma un’affermazione di potenza.
Il primo tema vero e proprio, introdotto dal violino, è angolare, agitato e ritmicamente incalzante. È costruito su frammenti che l’orchestra riprende e commenta, creando un dialogo serrato e drammatico. La scrittura per il solista è immediatamente impegnativa, richiedendo agilità, precisione e un suono robusto per non essere sopraffatto dalla massa orchestrale. Questa sezione è caratterizzata da una forte instabilità emotiva, che oscilla tra la passione e l’urgenza.
Dopo una breve transizione orchestrale modulante, il clima cambia radicalmente: come da manuale della forma sonata, si passa alla tonalità relativa maggiore, fa maggiore. Il secondo tema è un’oasi di lirismo e calore. Il violino solista introduce una melodia cantabile, dolce e profondamente romantica, che si dispiega con grande ampiezza.
L’orchestrazione qui si fa più rarefatta e delicata: i legni dialogano teneramente con il solista, mentre gli archi forniscono un tappeto sonoro morbido e avvolgente. Questa melodia, ricca di pathos, offre un contrasto perfetto con l’irruenza del primo tema e permette al violinista di mostrare un lato più intimo e espressivo del suo strumento. La sezione si conclude con una breve codetta che riprende un po’ di energia, preparando il terreno per lo sviluppo.
Quest’ultimo è la sezione più complessa e drammatica del movimento: Maier dimostra qui la sua straordinaria abilità nel manipolare il materiale tematico. Lo sviluppo inizia con l’orchestra che riprende frammenti del primo tema in un’atmosfera tempestosa. Il violino rientra con una serie di passaggi virtuosistici mozzafiato: scale velocissime, arpeggi spezzati e un uso intenso del registro acuto, quasi a rappresentare una lotta contro le forze orchestrali.
Segue un momento di straordinaria bellezza e introspezione: la tempesta si placa e il violino, accompagnato da un’orchestra sommessa, elabora frammenti del secondo tema in tonalità minori, conferendogli un carattere malinconico e quasi nostalgico. La tensione ricomincia a salire. Solista e orchestra si scambiano frammenti tematici in un crescendo continuo, esplorando diverse tonalità e creando un senso di grande instabilità armonica e drammatica. La scrittura diventa sempre più densa e complessa. La sezione di sviluppo si conclude con una nuova transizione, nella quale l’orchestra, con i corni in primo piano, costruisce una suspense quasi insopportabile, preparando il ritorno trionfale del tema principale.
Il primo tema ritorna con tutta la sua forza originaria, presentato dal tutti orchestrale nella tonalità d’impianto. L’effetto è quello di un ritorno a casa catartico dopo la tempesta dello sviluppo. Il violino solista riprende il tema con rinnovato vigore, quasi a suggellare la vittoria dopo la lotta. Il secondo tema non viene riproposto nella relativa maggiore, ma nella tonalità parallela (re maggiore). Questa scelta tonale trasforma il carattere della melodia: da calda e romantica, diventa radiosa, luminosa e trionfale. L’orchestrazione è brillante e solenne, e accompagna il canto del violino verso il culmine emotivo che precede la cadenza.
L’orchestra si ferma su un accordo sospeso, lasciando il palcoscenico interamente al violino solista per una cadenza virtuosistica e ben strutturata. Non si tratta di un mero sfoggio tecnico, ma di una vera e propria sintesi del materiale del movimento. Maier intreccia frammenti riconoscibili sia del primo tema (con le sue corde doppie e i suoi ritmi incalzanti) sia del secondo tema (trasformato in passaggi più lirici), il tutto arricchito da una panoplia di difficoltà tecniche:
– arpeggi su quattro corde;
– corde doppie e triple complesse;
– trilli prolungati e passaggi di agilità estrema.
Dopo la cadenza, l’orchestra rientra con intensità, riprendendo il materiale del primo tema in re maggiore. La coda è veloce, energica e decisamente affermativa. Il violino si lancia in un’ultima serie di passaggi brillanti, dialogando con l’orchestra in un crescendo finale che porta il movimento a una conclusione eroica e inequivocabilmente vittoriosa. Gli ultimi accordi, potenti e decisi, sigillano l’opera in un tripudio sonoro.

Il Concerto per violino orchestra in re minore di Amanda Röntgen-Maier sorprende per la sua architettura solida, l’equilibrio tra momenti di dramma intenso e lirismo struggente e la scrittura violinistica tanto impegnativa quanto idiomatica. Il ruolo del solista è eroico, richiedendo un interprete di altissimo livello tecnico e di grande sensibilità musicale. L’orchestra non si limita a fornire un mero accompagnamento, ma è un vero e proprio co-protagonista, in un dialogo costante e fecondo con il violino.
Possiamo a buon diritto affermare che, pur se incompleto, questo brano costituisce una testimonianza folgorante del genio di una compositrice straordinaria che merita di essere riscoperta ed eseguita molto più frequentemente.

La più bella del mondo

Cervino Sud Goillet
Cervino, parete sud, dal Lago Goillet (2516 m slm)

« Il Cervino è la più bella montagna del mondo », mi spiegò mio padre quando ero bambino: « a differenza di tutte le altre, da qualsiasi parte tu la guardi trova il modo di affascinarti ».
Il 14 luglio di centosessant’anni fa la più bella del mondo fu scalata per la prima volta. Incantato dalla storia di quella prima ascensione, ho provato a narrarla a modo mio. Se pensate che il racconto possa interessarvi, lo troverete qui.
Saluti alpestri 🙂

Aleksandr Kopylov, opus 14

Aleksandr Aleksandrovič Kopylov (14 luglio 1854 - 1911): Sinfonia in do minore op. 14 (1888). Orchestra sinfonica di Mosca, dir. Antonio de Almeida.

  1. Andante – Poco più mosso – Animato – Allegro
  2. Scherzo: Presto – Allegretto – Presto [19:38]
  3. Andante [25:12]
  4. Finale: Allegro [36:54]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Aleksandr Kopylov: l’equilibrio tra forma e sentimento nella Russia imperiale

Aleksandr Aleksandrovič Kopylov è stato un violinista e compositore russo che, pur non raggiungendo la fama dei suoi più celebri contemporanei, ha lasciato un’impronta significativa nella musica da camera e sinfonica del suo tempo, meritando l’ammirazione di critici e musicisti di spicco.

Una formazione atipica
La carriera musicale di Kopylov ebbe inizio in un ambiente prestigioso: per molti anni fu corista e violinista presso il Coro imperiale di corte di San Pietroburgo, un’istituzione modellata sul celebre coro dei Piccoli cantori di Vienna. Successivamente, divenne egli stesso un insegnante all’interno della stessa Cappella di corte, un ruolo che mantenne per gran parte della sua vita. Nonostante questo background, Kopylov non riuscì a ottenere l’ammissione nei principali conservatori russi. Questa battuta d’arresto non spense però le sue ambizioni: intraprese studi privati, affidandosi alla guida di due figure fondamentali della musica russa: studiò con Anatolij Ljadov (composizione) e con Nikolaj Rimskij-Korsakov (orchestrazione). Questa formazione privata fu fondamentale per affinare la sua tecnica e sviluppare il suo talento compositivo.

La produzione musicale: dalla sinfonia alla musica da camera
Inizialmente, Kopylov si guadagnò una solida reputazione come compositore di sinfonie e romanze. Tra le sue opere più importanti di questo periodo figurano la Sinfonia in do minore op. 14, una Ouverture da concerto op. 31 e uno Scherzo in la maggiore per orchestra. Fu grazie alla sua amicizia con Rimskij-Korsakov e alla sua partecipazione alle riunioni del Circolo di Beljaev che Kopylov si interessò profondamente alla musica da camera. In questo ambito trovò la sua espressione più riuscita, componendo quattro quartetti per archi che furono molto apprezzati dai contemporanei. Partecipò attivamente ai progetti del circolo, contribuendo con brani come un Andantino e un Preludio e Fuga sul tema si-la-fa, dedicati al mecenate e fondatore Mitrofan Petrovič Beljaev.

I quartetti per archi: vertice della maestria compositiva
I suoi quattro quartetti per archi sono considerati il culmine della sua produzione. Nello Handbuch für Streichquartettspieler il celebre studioso di musica da camera Wilhelm Altmann ne offre una valutazione entusiastica: «I quattro quartetti per archi di Kopylov sono scritti con attenzione e mostrano una assoluta ed eccezionale padronanza del corretto stile del quartetto. Egli dà a tutti gli strumenti, reciprocamente, ricche parti da eseguire, alternandole in modo squisito. La sua eccellenza è particolarmente forte nei temi spumeggianti. Egli è in grado di coniugare la bellezza della forma con idee efficaci di ottime armonie e ritmi». A testimonianza del loro valore, almeno uno dei suoi quartetti entrò nel repertorio del famoso Quartetto Kneisel e, inoltre, una copia del Quartetto per archi n. 2 in fa maggiore op. 23 (pubblicato da Beljaev nel 1894) – conservata presso la biblioteca della Cornell University – reca delle annotazioni a margine sulla parte del primo violino realizzate dal leggendario violinista Eugène Ysaÿe.

Stile e critica
Secondo il Nuovo dizionario enciclopedico dell’epoca, lo stile di Kopylov – benché non particolarmente originale e anzi chiaramente influenzato da Čajkovskij e Borodin – è caratterizzato da notevole eleganza e perfezione formale. Le sue opere furono definite «interessanti nei dettagli e perfette nella scrittura». Nel complesso, Kopylov riuscì a creare una musica formalmente impeccabile, ricca di idee efficaci e pregevoli armonie, pur muovendosi nel solco della grande tradizione romantica russa.

La Sinfonia in do minore op. 14: analisi
Questa composizione bene si inquadra nella grande tradizione del Romanticismo russo e rivela una grande padronanza della forma, una brillante abilità orchestrale e una profonda sensibilità melodica. La composizione segue un percorso emotivo classico, dal pathos drammatico del do minore iniziale alla conclusione trionfale in do maggiore.
Il primo movimento si apre con una cupa e solenne introduzione (Andante): i legni, in particolare fagotti e clarinetti, espongono un tema meditativo e malinconico che stabilisce immediatamente un’atmosfera tipicamente russa, carica di un senso di fatalità che ricorda le introduzioni sinfoniche di Čajkovskij. L’orchestrazione è scura e densa, con gli archi gravi che forniscono un tappeto sonoro su cui si sviluppa la melodia. Una progressione graduale (Poco più mosso – Animato) aumenta la tensione e la velocità, preparando l’ascoltatore all’esplosione dell’Allegro. Quest’ultimo è strutturato in una chiara forma-sonata. Il primo tema, in do minore, è eroico e ansimante, affidato principalmente agli archi e caratterizzato da un ritmo incalzante e da una forte carica drammatica. Dopo una transizione energetica, emerge il secondo tema: in contrasto netto, questo è una melodia lirica e cantabile, introdotta dai legni e poi ripresa dagli archi. Il suo carattere più dolce e sognante, nella tonalità relativa maggiore (mi bemolle) offre un’oasi di serenità rispetto alla turbolenza iniziale. La sezione centrale è un elaborato intreccio dei due temi principali: Kopylov dimostra qui la propria abilità contrappuntistica e orchestrale, mettendo i temi in dialogo tra le varie sezioni dell’orchestra, esplorando diverse tonalità e creando potenti ondate di tensione, con interventi decisi degli ottoni e delle percussioni. La ripresa riporta il primo tema con forza rinnovata, mentre il secondo tema ricompare ora nella tonalità parallela (do maggiore), trasformando la sua natura sognante in un’affermazione luminosa e ottimista. La coda finale è grandiosa e conclude il movimento con un’affermazione energica e positiva.
Il secondo movimento è uno scherzo scattante e spiritoso: Il Presto iniziale è caratterizzato da un tema leggero e danzante, affidato a rapidi passaggi degli archi e a giocosi interventi dei legni. L’atmosfera è brillante e piena di energia, con un’orchestrazione trasparente che ricorda la leggerezza di Mendelssohn, pur mantenendo un robusto sapore ritmico russo. La sezione centrale (Allegretto) offre un magnifico contrasto, con il tempo che rallenta e il carattere che diventa pastorale e lirico. Un tema dolcissimo che evoca una melodia popolare russa viene introdotto dai legni su un delicato pizzicato degli archi: è un momento di pura poesia e semplicità, che mostra un lato più intimo e nazionale della sensibilità di Kopylov. La ripresa del Presto iniziale chiude il movimento con la stessa energia e brillantezza.
Il movimento lento è il cuore pulsante e lirico della sinfonia: si apre con una melodia ampia e appassionata negli archi, guidata dai violoncelli, che esprime un sentimento di profonda nostalgia e calore. L’orchestrazione è ricca e avvolgente e il tema principale viene magnificamente sviluppato e passato tra le diverse sezioni, con un ruolo di spicco per il clarinetto solista che ne offre una versione ancora più intima e riflessiva. La struttura del movimento segue una forma tripartita (ABA), con la sezione centrale più drammatica e inquieta: la musica si fa più densa e il volume cresce, raggiungendo un climax emotivo che interrompe temporaneamente la serenità iniziale. Il ritorno del tema principale è ancora più toccante, presentato in una veste orchestrale più tenue e quasi sussurrata, prima di dissolversi in una conclusione di pace trasognata e malinconica. È il movimento in cui l’influenza di Čajkovskij è più evidente, sia nell’intensità melodica che nella ricchezza armonica.
Il Finale trionfale riprende e porta a compimento il percorso emotivo dell’intera sinfonia: il movimento esplode con un tema festoso e baldanzoso in do maggiore, caratterizzato da un ritmo vigoroso e da un’orchestrazione brillante che coinvolge l’intera orchestra, con ottoni squillanti e percussioni incisive. Il carattere è quello di una danza popolare russa, piena di vitalità e slancio. La struttura – riconducibile a una forma di rondò-sonata – alterna il tema principale a episodi più lirici, ma è il sentimento di giubilo a dominare. Kopylov utilizza efficacemente tutta la tavolozza orchestrale, creando un finale pieno di colore e dinamismo. La musica accelera progressivamente verso una coda grandiosa e affermativa che sigilla l’opera in maniera radiosa e definitiva.

Kopylov, op. 14

Andante desolato

Antonio Veretti (1900 - 13 luglio 1978): Concerto per pianoforte e orchestra (1949). Sergio Perticaroli, pianoforte; Orchestra sinfonica della Rai di Torino, dir. Mario Rossi.

  1. Lento misterioso [0:17]
  2. Allegro appassionato e impetuoso [3:31]
  3. Andante desolato [14:42]
  4. Allegretto estroso [19:17]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Antonio Veretti: un viaggio musicale tra neoclassicismo, dodecafonia e impegno civile

Veretti è stato un compositore dal percorso artistico complesso e sfaccettato che ha attraversato le principali correnti musicali del Novecento – dal neoclassicismo alla dodecafonia – passando per un profondo legame con la tradizione e un significativo impegno nel panorama culturale del suo tempo.

Gli inizi e la formazione
Nato a Verona, Antonio Veretti intraprese gli studi musicali nella sua città natale, per poi perfezionarsi al Liceo musicale di Bologna sotto la guida di Guglielmo Mattioli e Franco Alfano, conseguendo il diploma in composizione nel 1921. I suoi primi lavori di rilievo, come le raccolte di brani per voce e pianoforte Tre Liriche e il Cantico dei cantici, rivelarono presto il suo talento, tanto da attirare l’attenzione del critico Giannotto Bastianelli che ne intuì la vocazione per il teatro musicale.

L’adesione al neoclassicismo e le prime opere teatrali
Dopo il diploma, Veretti si allontanò dall’influenza di Alfano per avvicinarsi allo stile di Ildebrando Pizzetti e abbracciare gli ideali di ritorno alla classicità promossi dalla rivista letteraria “La Ronda”. Questo orientamento si concretizzò nella sua prima opera teatrale, Il medico volante (1923-24), su libretto dell’amico Riccardo Bacchelli. Quest’opera, sebbene mai rappresentata, segnò la sua piena adesione allo stile neoclassico e ottenne un riconoscimento nel 1928, vincendo ex aequo un concorso indetto dal quotidiano “Il Secolo-Sera”.

Il periodo milanese e la svolta eclettica
Trasferitosi a Milano nel 1926, Veretti lavorò come critico musicale per la “Fiera letteraria” e si esibì come pianista. In questi anni, la sua produzione si arricchì di nuove composizioni da camera e del suo primo importante lavoro sinfonico, la Sinfonia italiana (1929), dedicata a Benito Mussolini. Il suo percorso teatrale proseguì con Il favorito del re (1930), opera rappresentata alla Scala di Milano nel 1932. Questo lavoro segnò un netto distacco dal neoclassicismo, proponendo uno stile eclettico che fondeva elementi antichi, accenni jazz e blues e melodie popolari, suscitando reazioni contrastanti nel pubblico.

L’impegno a Roma e la musica per il cinema
Nel 1933 Veretti si stabilì a Roma, dove fondò e diresse l’Accademia di musica della Gioventù italiana del littorio. Durante questo periodo, divenne membro di prestigiose istituzioni come l’Accademia di Santa Cecilia e compose opere significative come il balletto Il galante tiratore e l’azione mimo-sinfonica Una favola di Andersen. Parallelamente, si dedicò con successo alla musica per film, collaborando in particolare con il regista Augusto Genina per pellicole come Squadrone bianco (1936) e Bengasi (1942).

La svolta religiosa e l’avvicinamento alla dodecafonia
Gli anni della guerra videro un orientamento della sua produzione verso composizioni di ispirazione religiosa, come l’oratorio Il figliuol prodigo (1942) e la Sinfonia sacra (1947). Successivamente, Veretti si accostò gradualmente alla tecnica dodecafonica, inizialmente in modo parziale in opere come il Concerto per pianoforte e orchestra (1949), per poi adottarla come principio compositivo fondamentale in lavori come l’Ouverture della campana (1952). La sua dodecafonia si caratterizzò per la ricerca di un equilibrio tra il rigore formale e l’espressività tradizionale, in modo simile a quanto fatto da Luigi Dallapiccola.

Gli ultimi anni e l’eredità
Negli anni Cinquanta e Sessanta, Veretti ricoprì importanti incarichi come direttore dei conservatori di Pesaro, Cagliari e Firenze. In questo periodo compose capolavori come I sette peccati (1956), un mistero musicale coreografico basato su una serie dodecafonica che elabora i vizi capitali. Continuò a comporre opere dodecafoniche di rilievo, come le Elegie (1964) e la Prière pour demander une étoile (1967), mostrando una crescente influenza dello stile di Anton Webern. Sebbene oggi le sue musiche siano eseguite raramente, egli è considerato uno dei maggiori esponenti della “generazione di mezzo”, capace di fare da ponte tra l’eredità della “generazione dell’Ottanta” e le nuove frontiere dell’idioma dodecafonico.

Il Concerto per pianoforte e orchestra di Veretti: analisi
Opera di grande fascino e complessità, getta un ponte tra la tradizione e le nascenti avanguardie del secondo dopoguerra.

Il primo movimento si apre in un’atmosfera sospesa e cupa, introdotta da un dialogo sommesso tra il pianoforte e gli archi gravi. Il solista esplora le profondità della tastiera con accordi scuri e arpeggi lenti, creando un senso di attesa e di mistero. L’orchestra interviene con brevi frasi frammentate, quasi dei sussurri, che accentuano l’inquietudine generale. La scrittura pianistica si fa via via più densa e virtuosistica, con scale cromatiche ascendenti e discendenti che si intrecciano con gli interventi orchestrali. Emerge una melodia malinconica, quasi un lamento, che viene sviluppata e variata nel corso del movimento. Il dialogo tra solista e orchestra si fa più serrato, con momenti di grande tensione drammatica seguiti da improvvisi squarci di lirismo.
Il secondo movimento irrompe con un’energia travolgente: il pianoforte attacca con una serie di accordi martellanti e scale vertiginose, sostenuto da un’orchestra potente e ritmica. Si delinea un tema principale dal carattere eroico e passionale, che viene sviluppato in un crescendo di intensità. La scrittura pianistica è estremamente virtuosistica, con passaggi di grande difficoltà tecnica che mettono in luce le capacità del solista. L’orchestra dialoga costantemente con il pianoforte, ora sostenendolo, ora contrapponendosi con frasi incisive e taglienti. Non mancano momenti di maggiore lirismo, in cui la tensione si allenta per lasciare spazio a melodie più cantabili e sognanti, ma è l’impeto ritmico a dominare l’intero movimento, che si conclude in un finale travolgente e affermativo.
Con il terzo movimento, l’atmosfera cambia radicalmente: il pianoforte introduce una melodia desolata e introspettiva, di una bellezza struggente. L’orchestra interviene con sonorità rarefatte, quasi cameristiche, creando un tappeto sonoro su cui si staglia il canto solitario del solista. La scrittura pianistica è qui più intima e riflessiva, con un’attenzione particolare al timbro e alla cantabilità. Il movimento si sviluppa come un lungo monologo del pianoforte, interrotto da brevi interventi orchestrali che ne amplificano il senso di solitudine e di malinconia.
Il concerto si conclude con un finale brillante e ricco di inventiva: il pianoforte attacca con un tema vivace e giocoso, dal ritmo saltellante, che viene subito ripreso dall’orchestra. Il movimento è caratterizzato da un continuo alternarsi di episodi brillanti e virtuosistici e momenti più lirici e cantabili. La scrittura pianistica è di nuovo estremamente virtuosistica, con scale, arpeggi e passaggi di bravura che esaltano le doti del solista. L’orchestra partecipa attivamente a questo gioco di contrasti, dialogando con il pianoforte in un crescendo di energia e di vitalità. La conclusione è un’esplosione di gioia, ottimismo e trionfo.

Concerto ostinato

Yasushi Akutagawa (12 luglio 1925 - 1989): Concerto ostinato per violoncello e orchestra (1969). Ken-Ichiro Yasuda, violoncello; New Symphony Orchestra of London, dir. Shigenobu Yamaoka.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Yasushi Akutagawa: l’eredità ritmica di un gigante della musica giapponese

Il compositore e direttore d’orchestra Yasushi Akutagawa ha lasciato un’impronta indelebile sulla scena musicale giapponese, bilanciando un’eredità familiare illustre con una visione artistica unica e innovativa.

Una vita tra arte e storia
Nato a Tо̄kyо̄, terzo figlio del celebre romanziere Ryūnosuke Akutagawa, crebbe in un ambiente ricco di stimoli culturali. Nonostante la tragica morte del padre nel 1927, egli sviluppò una profonda passione per la musica ascoltando la collezione di dischi SP del padre, con una particolare predilezione per Stravinskij. Dopo un inizio difficile negli studi musicali – segnato persino da un rimprovero per essere stato ammesso alla Scuola di musica di Tōkyō con il punteggio più basso – la sua determinazione lo portò a eccellere. Durante la seconda guerra mondiale fu arruolato nella banda militare dell’Accademia militare Toyama, dove si diplomò primo del suo corso. Nel dopoguerra, l’incontro con il compositore Akira Ifukube influenzò profondamente il suo lavoro e la scoperta della vibrante scena musicale sovietica accese in lui un grande interesse. Nel 1950, la sua composizione intitolata Musica per orchestra sinfonica vinse il primo premio a un concorso della NHK, proiettandolo alla ribalta della scena musicale giapponese. Nel 1953 – insieme ai compositori Toshirо̄ Mayuzumi e Ikuma Dan – fondò il Sannin no kai (il Gruppo dei tre) per promuovere le proprie opere orchestrali. L’anno seguente intraprese un audace viaggio clandestino in Unione sovietica, dove ebbe modo di incontrare fra gli altri Šostakovič e Chačaturjan, riuscendo anche a far eseguire e pubblicare proprie composizioni.

Innovazione, direzione e ispirazioni globali
Nel 1956 Akutagawa fondò la Nuova orchestra sinfonica (Shin kо̄kyо̄ gakudan), che poi diresse gratuitamente per il resto della propria vita. Un viaggio in India nel 1957 e la visita al tempio di Kailasa nelle grotte di Ellora lo colpirono profondamente, ispirandogli una delle sue opere più rappresentative, la Sinfonia Ellora. Quest’opera segnò anche l’inizio di una fase più contemplativa e minimalista nel suo stile, definita da lui stesso «teoria della composizione negativa». Questo periodo di sperimentazione avanguardistica lo portò a esplorare il post-webernismo e l’estetica del ma (lo spazio negativo) giapponese, come nella sua Musica per archi n. 1, dedicata a Tо̄ru Takemitsu. Tuttavia, verso la fine degli anni ’60, incoraggiato dal collega Teizо̄ Matsumura, ritornò a uno stile che metteva nuovamente in primo piano il suo amato ostinato, come si evince in opere quali Concerto ostinato per violoncello e orchestra.

La figura pubblica, l’impegno e gli ultimi anni
Oltre che per la sua attività compositiva, Akutagawa divenne noto al grande pubblico grazie alla partecipazione come presentatore a programmi televisivi e radiofonici, tra cui il popolare show della NHK Ongaku no hiroba (La piazza della musica), al fianco di Tetsuko Kuroyanagi. La personalità carismatica e il modo di parlare chiaro e pacato lo resero molto amato. Fu anche una figura attiva nel sociale, impegnandosi per la tutela del diritto d’autore come presidente della JASRAC (Società giapponese per i diritti di autori, compositori ed editori), un impegno nato anche dalla sua esperienza personale di difficoltà economiche dopo l’interruzione dei proventi dai diritti d’autore del padre. La sua vita fu stroncata da un cancro ai polmoni nel 1989, all’età di 63 anni. La sua ultima opera, un brano corale intitolato Inochi (Vita), fu completata da un suo allievo e presentata per la prima volta durante un concerto commemorativo in suo onore. In sua memoria, nel 1990 è stato istituito il prestigioso Premio «Akutagawa» per la composizione.

L’evoluzione di uno stile unico
Lo stile compositivo di Akutagawa può essere suddiviso in tre periodi distinti. Il primo, successivo al diploma presso la Scuola di musica di Tōkyō, è caratterizzato da melodie e ritmi vivaci e accattivanti. In una seconda fase, egli si orientò verso uno stile avanguardistico, eliminando gli elementi precedenti per incorporare sonorità più statiche e rarefatte. Nel terzo periodo, infine, fuse la vivacità ritmica degli esordi con le sperimentazioni del secondo periodo, creando un universo sonoro nuovo e complesso. Un elemento comune a tutta la sua produzione è l’uso dell’ostinato: Akutagawa sosteneva infatti che «la musica senza ritmo muore», considerandolo l’essenza stessa della sua arte. Deve la propria celebrità, fra l’altro, alle colonne sonore di film come Hakkōda-san e Il villaggio delle otto tombe, al tema del dramma Akō Rōshi e alle canzoni per bambini, come La canzone degli uccellini.

L’uomo dietro la musica
Conosciuto per il suo carattere solare, tanto che una nipote lo soprannominò «zio brezza primaverile», Akutagawa confessò di avere in realtà una natura incline a riflessioni profonde e complesse, in netto contrasto con la vivacità della sua musica. Visse un rapporto complesso con l’ingombrante figura paterna, sentendo per anni il peso di essere «il terzo figlio del grande scrittore». Si sposò tre volte: con Saori Yamada, dalla quale ebbe due figlie (tra cui la nota presentatrice Mamiko Akutagawa), con l’attrice Mitsuko Kusabue e, infine, con la compositrice Masumi Egawa, dalla quale ebbe un figlio, Takayuki.

Concerto ostinato: analisi
Si tratta un’opera drammatica, tesa e pervasa da un senso di conflitto ineluttabile. La musica, fin dalle prime note, traduce questa lotta in un linguaggio sonoro moderno e viscerale, dove il violoncello solista si erge come protagonista di un duello implacabile contro la massa orchestrale.

L’inizio è affidato a un’atmosfera cupa e carica di presagio, con l’orchestra che introduce accordi gravi e dissonanti, creando un paesaggio sonoro scarno ma denso di tensione. Su questo sfondo emerge la voce del violoncello solista: la sua linea melodica iniziale è lamentosa, quasi un recitativo angosciato che esplora il registro grave dello strumento. Non c’è virtuosismo fine a sé stesso e ogni nota sembra pesata, carica di un’espressività cruda che stabilisce immediatamente il carattere serio e drammatico dell’intera composizione. Dopo la desolata introduzione, l’orchestra scatena una figura ritmica insistente, quasi motoria, che funge da fondamento inarrestabile per gran parte del pezzo. Questo ostinato non è un semplice accompagnamento, ma una forza primordiale, quasi un destino contro cui il violoncello è costretto a battersi.
Il rapporto tra solista e orchestra si sviluppa come un vero e proprio scontro: a tratti, il violoncello tenta di sovrastare la pulsazione orchestrale con passaggi di grande aggressività e virtuosismo tecnico, lanciandosi in scale rapide e arpeggi violenti. In altri momenti, la sua voce si trasforma in un canto lirico e dolente, una melodia struggente che si libra al di sopra del ritmo martellante, come un tentativo di trovare un momento di pace in un mondo dominato dal caos. L’orchestrazione di Akutagawa è magistrale nel sottolineare questo conflitto: gli ottoni intervengono con squilli taglienti e minacciosi, mentre le percussioni accentuano i momenti di massima tensione, spingendo il dramma verso picchi di quasi insostenibile intensità.
Successivamente, l’orchestra si placa, lasciando il violoncello completamente solo in una lunga e impegnativa cadenza. Spogliato del suo avversario ritmico, il solista si lancia in un monologo febbrile e introspettivo. La cadenza è un’esplorazione esaustiva delle capacità tecniche ed espressive dello strumento, alternando momenti di quiete quasi sussurrata a esplosioni di violenza sonora, utilizzando registri estremi e passaggi di incredibile difficoltà. È qui che la lotta, prima esterna, diventa interiore, una confessione cruda e senza filtri della solitudine e dell’angoscia del protagonista.
Dopo la cadenza, non si ha una risoluzione catartica ma, al contrario, l’orchestra rientra con una forza rinnovata e l’ostinato ritmico ritorna più implacabile che mai. Solista e orchestra vengono trascinati in una spirale finale di intensità crescente: la musica si accumula in un climax travolgente, una massa sonora compatta e brutale che, invece di sfumare, si conclude con un colpo secco e definitivo. La fine è improvvisa, quasi uno schianto, lasciando l’ascoltatore con un senso di ineluttabilità, come se l’esito della lotta rappresentata fin dall’inizio fosse già stato scritto e non potesse che concludersi in modo così perentorio e tragico.

Fandango de España

Fandango de España attribuito a José de Nebra (1702 - 11 luglio 1768). Carlos García-Bernalt, organo.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’eredità di José de Nebra: un pilastro del Barocco spagnolo

José Melchor Baltasar Gaspar Nebra Blasco (1702-1768) è stato una figura centrale della musica spagnola del periodo Barocco. Compositore e organista di eccezionale talento, la sua carriera e la sua produzione artistica hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia musicale del suo paese, non solo per il valore delle sue opere ma anche per il suo ruolo cruciale nella conservazione del patrimonio musicale della corona spagnola.

Un talento nato in famiglia
La vocazione musicale di Nebra affonda le radici in un contesto familiare profondamente legato all’arte dei suoni. Suo padre, José Antonio Nebra Mezquita, fu un musicista affermato, organista della Cattedrale di Cuenca e maestro del coro: da lui José ricevette i primi e fondamentali insegnamenti. La musica era una vera e propria tradizione di famiglia: anche i suoi fratelli, Francisco Javier e Joaquín Ignacio, intrapresero la carriera di organisti, consolidando la reputazione familiare nel panorama musicale spagnolo. L’influenza del giovane si estese ulteriormente, poiché divenne anche maestro di composizione per suo nipote, il futuro compositore e organista Manuel Blasco de Nebra, perpetuando così il lascito artistico familiare.

L’ascesa alla corte di Madrid
La carriera di Nebra decollò rapidamente dopo il suo trasferimento a Madrid. Intorno al 1719 ottenne il prestigioso posto di organista presso il Monastero delle Descalzas reales. Parallelamente, a partire dal 1723, iniziò una fruttuosa attività come compositore di musica scenica, vendendo le sue opere ai teatri della capitale e guadagnandosi una notevole fama. Il suo talento lo portò, l’anno successivo, alla nomina di secondo organista della Cappella reale. Sebbene un cambio di sovrani lo relegò temporaneamente a una posizione di sovranumerario, la sua ascesa fu inarrestabile: nel 1751 divenne vicemaestro della Cappella reale e, nel 1761, fu nominato maestro di clavicembalo per l’infante Gabriele di Borbone, un incarico di grande prestigio che testimoniava la stima di cui godeva a corte.

Il custode della memoria musicale del regno
Un evento catastrofico segnò una svolta fondamentale nella sua carriera e ne definì il ruolo storico: l’incendio del Real Alcázar di Madrid nel 1734. Le fiamme distrussero completamente l’inestimabile archivio musicale della Cappella reale, un patrimonio accumulato in secoli. Insieme ad altri maestri come José de Torres e Antonio de Literes, Nebra si assunse il compito monumentale di ricostruire questa biblioteca. In qualità di responsabile dell’archivio, non solo contribuì con le proprie composizioni per ripopolarlo, ma si adoperò attivamente per acquisire opere dei più grandi musicisti dell’epoca, tra cui gli italiani Francesco Corselli (all’epoca maestro della Cappella reale), Alessandro Scarlatti, Leonardo Leo e Domenico Sarro. Grazie al suo instancabile lavoro, garantì la rinascita e l’arricchimento della biblioteca musicale di corte, salvando di fatto la memoria musicale del regno.

Un’eredità vasta e preziosa
La produzione di José de Nebra è tanto vasta quanto diversificata: a oggi si conservano oltre 170 opere liturgiche, tra cui messe, salmi, litanie e un commovente Stabat mater. Compose inoltre decine di cantate, villancicos e circa 30 brani per strumenti a tastiera (organo e clavicembalo); la ricerca musicologica continua a portare alla luce nuove partiture. Tra i suoi lavori migliori spiccano il solenne Requiem composto per la morte della regina Barbara di Braganza e la sua importante produzione teatrale, che conta circa 20 zarzuelas, tra cui le celebri Iphigenia en Tracia e Viento es la dicha de amor.

Il Fandango de España
Questo brano attribuito a Nebra è un magnifico esempio di musica per tastiera del XVIII secolo e si rivela non una semplice danza, ma un’opera complessa e profondamente espressiva, costruita sulla forma della variazione su un basso ostinato.

La composizione s’inizia con un’esposizione del tema dal carattere nobile, quasi malinconico e solenne. La melodia della mano destra è elegante, ricca di abbellimenti raffinati che ne sottolineano l’espressività. Le prime variazioni introducono un graduale aumento della densità ritmica, con la melodia che si frammenta in note più veloci, creando un’impressione di crescente agitazione, pur mantenendo un controllo formale perfetto. Il basso ostinato rimane una presenza costante e rassicurante, un’ancora sulla quale si sviluppa il virtuosismo. Successivamente, quest’ultimo cede il passo a un’intensità più lirica e introspettiva: l’esecuzione si fa più delicata, la dinamica sembra ammorbidirsi e la melodia si distende in frasi più lunghe e cantabili. Le cascate di note non sono più puro sfoggio tecnico, ma diventano sospiri carichi di pathos. È un momento di riflessione, una pausa contemplativa che esplora il lato più intimo e vulnerabile del tema, prima della tempesta successiva.
La fase culminante del Fandango vede l’energia esplodere in un virtuosismo brillante e infuocato: la mano destra si lancia in scale velocissime, arpeggi spezzati e note ribattute che spingono la tensione al suo apice. L’elemento più affascinante e tipicamente spagnolo emerge qui: in diversi punti, vengono utilizzati accordi pieni e percussivi che evocano il rasgueado, la caratteristica pennata della chitarra flamenca. Questa tecnica prevede l’utilizzo di mignolo, anulare, medio e indice per eseguire una serie di “strappate” (tipicamente tre o quattro) sulle corde in rapida successione, mentre il palmo viene abbassato per ottenere un effetto di smorzatura e il pollice esegue note basse o un ulteriore strappo. Dopo il climax, il brano inizia a placarsi: l’energia si dissipa gradualmente, la tessitura si dirada e il Fandango ritorna al suo carattere iniziale, più misurato e solenne. È come se, dopo la sfuriata passionale, si tornasse a una compostezza consapevole. L’opera si conclude con un ritardando e una cadenza finale potente.
La struttura basata sulle variazioni non risulta mai monotona, ma diventa un motore per un viaggio emotivo ricco e sfaccettato. L’attribuzione a José de Nebra è stilisticamente plausibile, poiché il brano mostra una padronanza della forma e un’espressività che si allineano con la sua produzione nota. Tuttavia, è anche stilisticamente affine a opere di altri grandi compositori attivi in Spagna, come Domenico Scarlatti o padre Antonio Soler che, spesso, fusero il rigore contrappuntistico con i colori e i ritmi della musica popolare spagnola. Indipendentemente dalla certezza dell’autore, questo Fandango rimane una testimonianza eccezionale della ricchezza e della vitalità della musica per tastiera spagnola del XVIII secolo, un perfetto equilibrio tra forma, emozione e colore locale.

Largo maestoso – II

Sigismund von Neukomm (10 luglio 1778 - 1858): Grand Concerto in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 12 (1804). Riko Fukuda, pianoforte; Kölner Akademie, dir. Michael Alexander Willens.

  1. Largo maestoso – Allegro non troppo
  2. Larghetto espressivo assai [13:23]
  3. Allegro assai [18:56]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Sigismund von Neukomm, compositore-viaggiatore tra due epoche

Sigismund Ritter von Neukomm fu una delle figure più poliedriche e cosmopolite della musica a cavallo tra il Classicismo e il Romanticismo. Compositore, pianista virtuoso, direttore d’orchestra, diplomatico e massone, la sua vita fu un incessante viaggio attraverso le corti e i salotti culturali d’Europa e del Nuovo Mondo. La sua influenza, un tempo considerevole, è oggi quasi dimenticata, ma la sua storia rivela un artista profondamente connesso ai grandi maestri del suo tempo e ai tumultuosi eventi storici che ne definirono l’epoca, tanto da attirare persino i sospetti di spionaggio del cancelliere Metternich.

Formazione e l’ombra dei grandi maestri a Vienna
Nato a Salisburgo, Neukomm dimostrò un talento prodigioso fin dall’infanzia: a quattro anni sapeva già leggere e a cinque scrivere. La sua formazione musicale iniziò presto sotto la guida dell’organista del duomo Franz Xaver Weissauer e, in seguito, per la teoria e l’armonia, con Michael Haydn, la cui moglie era imparentata con la madre di Neukomm. A soli 16 anni, divenne organista titolare presso la chiesa dell’Università di Salisburgo. Il punto di svolta della sua carriera avvenne nel 1797, quando, su raccomandazione di Michael Haydn, si trasferì a Vienna per studiare con il leggendario Joseph Haydn. Il rapporto tra i due divenne presto molto più di quello tra maestro e allievo: Haydn, riconoscendo le eccezionali capacità del giovane, gli affidò compiti di cruciale importanza, come la stesura delle riduzioni per pianoforte dei suoi grandi oratori La creazione e Le stagioni, l’arrangiamento dell’oratorio Il ritorno di Tobia e la trascrizione di numerose canzoni scozzesi. Nei suoi ultimi anni, Haydn trovò in Neukomm un amico devoto che lo visitava quotidianamente e che, a testimonianza di questa profonda stima, fece erigere la lapide sulla prima tomba di Haydn, incidendovi un canone enigmatico a cinque voci basato sulle parole di Orazio Non omnis moriar (Non morirò del tutto). Durante i suoi sette anni a Vienna, Neukomm fu anche un apprezzato insegnante di pianoforte e canto, annoverando tra i suoi allievi la celebre soprano Anna Milder-Hauptmann e Franz Xaver Wolfgang Mozart, il figlio minore di Wolfgang Amadeus.

Un ambasciatore della musica in Europa e nel mondo
La vita di Neukomm fu caratterizzata da un nomadismo quasi perpetuo: lasciata Vienna nel 1804, fu direttore d’orchestra a San Pietroburgo fino al 1809. Successivamente, si trasferì a Parigi, dove divenne pianista personale del potente ministro Talleyrand e strinse amicizia con compositori come Grétry e Cherubini. La sua avventura più esotica iniziò tuttavia nel 1816, quando si recò a Rio de Janeiro al seguito del duca di Lussemburgo. Lì divenne maestro di cappella alla corte dell’imperatore Giovanni VI del Portogallo, rimanendovi fino al 1821. Il suo contributo alla vita musicale brasiliana fu tale che, nel 1945, l’Academia Brasileira de Música gli dedicò una cattedra. Dopo il 1820, pur mantenendo Parigi come base principale, intraprese lunghi viaggi in Italia, Svizzera, Paesi Bassi e, soprattutto, in Gran Bretagna. Qui, negli anni ’30 dell’Ottocento, raggiunse l’apice della sua fama. I suoi oratori, come Mount Sinai e David (quest’ultimo composto appositamente per il Festival di Birmingham del 1834), ottennero un successo strepitoso. Tuttavia, la sua popolarità fu rapidamente eclissata da quella del suo amico Felix Mendelssohn, il cui oratorio Paulus trionfò al festival del 1837.

Opere, eredità e riconoscimenti
La sua produzione musicale è monumentale, annoverando oltre 1300 composizioni, tra le quali si ricordano 10 opere, 8 oratori, 48 messe, circa 200 Lieder, 2 sinfonie e una vasta quantità di musica da camera, per pianoforte e per organo. La sua musica era spesso legata a grandi eventi storici: sue composizioni risuonarono durante l’ingresso solenne del re Luigi XVIII a Parigi dopo la caduta di Napoleone e, soprattutto, durante la cerimonia funebre per Luigi XVI tenutasi a Vienna durante il Congresso del 1815. Per quest’ultima occasione, commissionata da Talleyrand, compose il suo celebre Requiem in do minore, che gli valse da parte del re di Francia il titolo di cavaliere della Legion d’Onore, onorificenza che Neukomm esibì con orgoglio per il resto della sua vita. Profondamente devoto ai suoi predecessori, Neukomm non si limitò a onorare Haydn: grande ammiratore di Mozart, che non conobbe mai di persona, compose un responsorio, Libera me, per completare il Requiem mozartiano in occasione della sua prima esecuzione a Rio de Janeiro. Nel 1842 ebbe anche un ruolo di primo piano durante l’inaugurazione del monumento a Mozart a Salisburgo, tenendo il discorso celebrativo e dirigendo la Messa dell’Incoronazione e il Requiem.

Gli ultimi anni e l’oblio
Neukomm continuò a viaggiare instancabilmente fino alla fine, dividendo il suo tempo principalmente tra Londra e Parigi. Morì nella capitale francese il 3 aprile 1858, all’età di 79 anni, e fu sepolto nel cimitero di Montmartre. Nonostante la sua enorme produzione e la fama internazionale di cui godette in vita, la sua musica, radicata nella tradizione classica ma con chiare aperture innovative verso il Romanticismo, cadde presto nell’oblio. La sua figura rimane quella di un testimone e protagonista eccezionale di un’epoca di profonde trasformazioni, un ponte musicale tra due mondi e due secoli.

Il Grand Concerto in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 12: analisi
Questo lavoro si colloca perfettamente nel crocevia tra il Classicismo maturo e il primo Romanticismo. Essendo stato allievo prediletto di Joseph Haydn e contemporaneo dell’ascesa di Beethoven, Neukomm assorbì la lezione formale e la chiarezza strutturale dei suoi maestri, infondendole però con un’energia drammatica, una libertà espressiva e un virtuosismo pianistico che guardano decisamente al nuovo secolo. Quale Grand Concerto, la composizione ambisce a una monumentalità e a una ricchezza sonora che la distinguono dai modelli più contenuti del Settecento.

Il primo movimento segue la tradizionale forma-sonata con doppia esposizione, tipica del concerto classico, ma preceduta da un’introduzione lenta e imponente che definisce fin da subito un carattere grandioso e un’atmosfera drammatica e solenne. L’orchestra attacca con accordi potenti e ritmi puntati, creando un’atmosfera di attesa quasi tragica che ricorda da vicino l’inizio delle sinfonie di Haydn (come la n. 104, Londra) o del Quinto Concerto op. 73, Imperatore, di Beethoven. Successivamente, il pianoforte fa il suo ingresso con una serie di arpeggi e scale virtuosistiche, quasi una cadenza improvvisata, che stabilisce immediatamente il suo ruolo di protagonista eroico e passionale. Il dialogo tra gli austeri accordi orchestrali e le fioriture pianistiche prosegue, costruendo una tensione che si risolve magistralmente nell’Allegro non troppo. L’orchestra introduce il primo tema, un motivo energico e marziale in do maggiore, dal carattere positivo e affermativo, pienamente nello stile classico. Segue una transizione che conduce al secondo tema in sol maggiore (la dominante), più cantabile e delicato, affidato principalmente agli archi e ai legni.
Il pianoforte riprende il primo tema, non limitandosi a ripeterlo ma arricchendolo con brillanti ornamentazioni e passaggi di bravura. La scrittura pianistica è densa e tecnicamente impegnativa, con scale, arpeggi e ottave spezzate che riempiono lo spazio tra le frasi tematiche. Il pianoforte presenta la sua versione del secondo tema, rendendolo ancora più intimo ed espressivo. Segue una sezione caratterizzata da maggiore instabilità armonica e drammaticità: Neukomm esplora frammenti dei temi principali, trasponendoli in tonalità minori e creando un intenso dialogo tra il solista e l’orchestra. Il virtuosismo pianistico si fa qui ancora più audace, con passaggi tempestosi che esprimono un’inquietudine tipicamente protoromantica. L’orchestra e il pianoforte riaffermano con forza i temi principali nella tonalità d’impianto. Lasciato solo, il pianoforte si lancia in una cadenza estesa e complessa: basandosi sui temi del movimento, il solista esplora tutte le potenzialità tecniche ed espressive dello strumento, alternando momenti di lirismo a passaggi di straordinaria agilità. Il lungo trillo finale annuncia il ritorno dell’orchestra. Il movimento si conclude con una coda brillante e trionfale, in cui l’orchestra e il pianoforte sigillano l’atmosfera affermativa del do maggiore.
Il secondo movimento è un’oasi di lirismo e introspezione, come suggerisce la sua indicazione agogica. La tonalità si sposta a la bemolle maggiore, una tonalità calda e distante da quella del primo movimento. Il pianoforte introduce da solo il tema principale, una melodia cantabile, intima e riccamente ornata, che ricorda un’aria operistica per la sua grazia e il suo pathos. L’orchestrazione è delicata, con gli archi che forniscono un tappeto sonoro discreto e i legni che dialogano dolcemente con il solista. Il movimento evolve verso una sezione centrale più inquieta e modulante, con la musica che si tinge di colori più scuri e con passaggi in tonalità minori che creano un contrasto drammatico con la serenità iniziale. La scrittura pianistica si fa più densa e appassionata. Il tema principale ritorna, ancora più abbellito e trasfigurato dall’esperienza della sezione centrale. Il dialogo tra pianoforte e orchestra si intensifica, raggiungendo un culmine espressivo prima di dissolversi in una coda tranquilla e sognante, che chiude il movimento in un’atmosfera di pace contemplativa.
Il finale è un rondò brillante e pieno di slancio, che conclude il concerto con energia e virtuosismo. Il pianoforte espone immediatamente il tema principale, un motivo vivace, danzante e scherzoso in do maggiore, caratterizzato da un ritmo saltellante e da una scrittura pianistica scintillante. Il primo episodio, invece, introduce un’idea musicale più lirica e modulante. Dopo il ritornello, il secondo episodio rappresenta il cuore del movimento: la musica si sposta in la minore e assume un carattere “alla turca” o zingaresco, un elemento esotico molto in voga all’epoca. Questa sezione è ritmicamente incisiva e armonicamente audace, creando un forte contrasto con la gaiezza del tema principale. Dopo l’ultimo ritorno del tema principale, il movimento si lancia in una coda travolgente: il tempo accelera progressivamente e il dialogo tra pianoforte e orchestra diventa un turbine di scale, arpeggi e passaggi virtuosistici che spingono la musica verso una conclusione trionfale, enfatica e piena di luce.

Concerto per oboe – XV

Giovanni Benedetto Platti (9 luglio 1697 [forse] - 1763): Concerto in sol minore per oboe e orchestra. Alfredo Bernardini, oboe; Bremer Barockorchester.

  1. Allegro
  2. Largo [3:53]
  3. Allegro [8:44]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Giovanni Benedetto Platti: l’innovatore dimenticato, tra Venezia e Würzburg

Figura poliedrica e di grande raffinatezza, Platti rappresenta un importante ponte tra la tradizione musicale barocca italiana e il nascente stile classico in terra tedesca. Musicista eclettico e compositore pionieristico, la sua carriera si snoda tra la vivace scena musicale veneziana e la prestigiosa corte dei principi-vescovi di Würzburg, lasciando un’eredità che, sebbene a lungo trascurata, è oggi oggetto di una meritata riscoperta.

Origini incerte e formazione a Venezia
Le esatte coordinate biografiche della giovinezza di Platti rimangono avvolte nell’incertezza. Sebbene una tradizione, basata su una lettera di dubbia autenticità, fissi la sua nascita a Padova il 9 luglio 1697, fonti più concrete, come il suo atto di morte registrato a Würzburg l’11 gennaio 1763, lo indicano come sessantaquattrenne, suggerendo quindi una nascita intorno al 1699. Indipendentemente dal luogo e dalla data precisi, il suo percorso formativo è saldamente ancorato a Venezia: è qui che il padre, Carlo Platti, lavorava come suonatore di violetta nella cappella della Basilica di San Marco. Il giovane Giovanni Benedetto ebbe la fortuna di studiare con un maestro del calibro di Francesco Gasparini e, già nel 1711, il suo nome compare nei registri dell’Arte de’ sonadori – la corporazione dei musicisti veneziani – a testimonianza di un talento precoce e riconosciuto.

Una vita alla corte di Franconia: il sodalizio con gli Schönborn
Come molti talenti italiani dell’epoca, Platti cercò fortuna oltralpe. La svolta avvenne il 2 aprile 1722, quando fu assunto nella cappella di corte del principe-vescovo di Würzburg, Johann Philipp Franz von Schönborn. Iniziò la sua carriera come oboista e violinista, ma le sue straordinarie capacità lo portarono a diventare una figura di spicco e insostituibile per oltre quarant’anni, al servizio di ben sei principi vescovi. La sua versatilità era eccezionale: fu virtuoso di violoncello e clavicembalo, ma anche tenore e apprezzato maestro di canto. A Würzburg costruì anche la propria famiglia: nel 1723 sposò la soprano di corte Maria Theresia Lambrucker (o Langsprücker), dalla quale ebbe dieci figli. La sua carriera fu profondamente legata alla famiglia Schönborn, che ne plasmò il percorso artistico in tre modi determinanti:
– Johann Philipp Franz von Schönborn fu colui che lo chiamò a corte, intuendone il potenziale;
– suo fratello e successore, Friedrich Carl von Schönborn, ne ampliò le mansioni nominandolo cantante e maestro di canto, facendolo talvolta spostare con la cappella nella seconda sede arcivescovile di Bamberga;
– un ruolo cruciale fu giocato dal terzo fratello, il conte e diplomatico Rudolf Franz Erwein von Schönborn: appassionato melomane e provetto violoncellista dilettante, egli divenne il principale committente di Platti. Per lui, che risiedeva nel palazzo di Wiesentheid, il compositore scrisse il nucleo più significativo della propria produzione strumentale, oggi conservato proprio in quella residenza.

La produzione musicale: un corpus vario e innovativo
Il corpus delle composizioni di Platti, sebbene non vastissimo, è di notevole qualità e importanza storica. Si può suddividere in tre categorie principali:
– la musica per il conte di Wiesentheid: per il suo mecenate Rudolf Franz Erwein, Platti compose una sessantina di opere (pervenute manoscritte), tra cui spiccano 28 Concerti con violoncello obbligato, oltre 20 Sonate a tre con il violoncello in ruolo melodico (una formazione piuttosto inusuale), Duetti per violino e violoncello, e 12 Sonate per violoncello solo;
– le opere a stampa: la fama di Platti in Europa fu assicurata dalla pubblicazione a Norimberga, tra il 1742 e il 1746, di quattro raccolte di pregio per l’editore Ulrich Haffner. Queste includono le Sonates pour le clavessin sur le goût italien op. 1, le Sonate a flauto traversiere solo op. 3 e le Sonate per cembalo solo op. 4. Purtroppo, i Concerti a cembalo obligato op. 2 risultano oggi perduti;
– la musica sacra e vocale: per la corte di Würzburg compose anche musica sacra (4 Messe, un Requiem, uno Stabat Mater, un Miserere) e opere vocali profane, come oratori e applausi festosi, dei quali sfortunatamente oggi rimangono soltanto i libretti.

Stile e rilevanza storica: pioniere della sonata moderna
L’importanza del compositore risiede soprattutto nel suo ruolo di pioniere nello sviluppo delle forme strumentali che avrebbero dominato l’era classica. Fu il suo “moderno scopritore”, il musicologo Fausto Torrefranca, a definirlo il principale ideatore della sonata moderna. Analizzando gli allegri iniziali delle sue sonate per clavicembalo, si nota infatti una struttura già chiaramente bitematica e tripartita, con un’esposizione dei temi, uno sviluppo centrale divagante e una regolare ripresa, anticipando la forma-sonata che sarebbe stata codificata solo più tardi.
Il suo stile è descritto come «disinvolto e mai banale». L’invenzione tematica è accesa e brillante nei tempi veloci, mentre i movimenti lenti si distinguono per un’opulenza armonica e una grande ricchezza melodica, in un perfetto equilibrio tra fluente cantabilità e solida scrittura contrappuntistica. Le sue opere per clavicembalo e violoncello appartengono alla primissima fase di sviluppo di questi generi come repertorio solistico, e le sue originali combinazioni timbriche, come nelle Sonate a tre, dimostrano un’instancabile ricerca sonora.

Concerto in sol minore per oboe e orchestra: analisi
Il suo Concerto in sol minore per oboe e orchestra è un’opera esemplare che si colloca artisticamente al crocevia tra il tardo Barocco e il nascente Stile galante. In esso si fondono la solidità strutturale della forma a ritornello di stampo vivaldiano con una sensibilità melodica e una chiarezza espressiva che anticipano il Classicismo.

Il primo movimento si apre con un’energia drammatica e vigorosa, tipica della tonalità di sol minore. La struttura è quella della forma a ritornello, in cui l’orchestra presenta un tema principale che ritorna, intero o frammentato, a scandire le diverse sezioni solistiche. Il tema d’apertura è incisivo e caratterizzato da un forte impulso ritmico: figure arpeggiate ascendenti e ritmi puntati conferiscono al discorso un carattere deciso e quasi marziale. Armonicamente, il tema stabilisce saldamente la tonalità con chiare cadenze.
L’ingresso dell’oboe segna un netto cambio di carattere: la scrittura solistica è virtuosistica e al contempo lirica. Qui si modula abilmente alla tonalità relativa maggiore, si bemolle maggiore, in cui l’orchestra ripropone una parte del ritornello, come da prassi barocca. La sezione centrale del movimento vede l’oboe impegnato in passaggi ancora più complessi, mentre l’armonia esplora tonalità vicine. È qui che emerge lo Stile galante di Platti: le frasi sono tendenzialmente più brevi e simmetriche rispetto al contrappunto denso del Barocco maturo e l’enfasi è posta su una melodia chiara e orecchiabile, splendidamente sostenuta da un’armonia funzionale e diretta. L’interazione tra solista e orchestra è un dialogo costante: il tutti non si limita a fare da cornice, ma interviene con frammenti del ritornello, creando un discorso dinamico e coeso. Il movimento si conclude con la riaffermazione del ritornello orchestrale nella tonalità d’impianto, chiudendo il cerchio in modo energico e affermativo.
Nel secondo movimento, l’atmosfera cambia radicalmente: abbandonato il dramma del sol minore, Platti si sposta nella luminosa e serena tonalità di mi bemolle maggiore (la sottodominante della relativa maggiore), una scelta armonica che evoca un senso di pace e contemplazione. Questo Largo è concepito come un’aria d’opera strumentale. L’orchestra d’archi, con il delicato pizzicato del continuo, crea un tappeto sonoro discreto e rarefatto, lasciando il palcoscenico interamente al solista. La linea melodica dell’oboe è di una bellezza struggente: si tratta di una lunga e sinuosa cantilena che permette al solista di esprimere il massimo del lirismo. Le armonie sono chiare e funzionali, progettate per sostenere il canto dell’oboe senza mai sopraffarlo. Il movimento si conclude in un clima di serena sospensione, lasciando l’ascoltatore cullato dalla sua dolce malinconia.
Il finale riporta l’energia e la vitalità, ma con un carattere completamente diverso dal primo movimento. Si tratta di un Allegro brillante e spensierato che assume le sembianze di una danza veloce e gioiosa, simile a una giga. Il tema principale, esposto dall’orchestra, è leggero, saltellante e immediatamente memorizzabile. Il suo carattere giocoso e la sua ritmica scattante creano un’atmosfera di festa e buonumore, fungendo da perfetto contrappeso alla gravità del movimento precedente. Anche qui la forma a ritornello organizza il discorso musicale. Gli episodi solistici sono un tripudio di virtuosismo brillante: scale veloci, arpeggi spezzati e passaggi agili si susseguono senza sosta. Questa è forse la parte più “moderna” del concerto, dove lo Stile galante si manifesta in tutta la sua chiarezza: le frasi brevi e ripetute, la trama orchestrale leggera e l’assoluto predominio di una melodia brillante e divertente sono tutti elementi che guardano già verso il Classicismo. L’interazione tra solista e orchestra è vivace e serrata, quasi una gara di abilità e brio. Il Concerto si conclude con un’ultima, scoppiettante affermazione del ritornello.