Partita per flauto solo

Johann George Tromlitz (8 novembre 1725 - 1805): Partita V in mi minore per flauto solo. Mirjam Nastasi.

  1. Largo
  2. Allegro assai [2:28]
  3. Menuet con variationi [3:58]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’architetto del suono: Johann George Tromlitz e la rivoluzione del flauto a chiavi

Johann George Tromlitz è una figura a sé stante nel panorama musicale tedesco, distinguendosi come flautista, compositore e, soprattutto, innovatore nella costruzione di strumenti.

Biografia e formazione tra legge e musica
Figlio di un granatiere, egli nacque in Turingia e completò gli studi scolastici a Gera. La sua formazione superiore si concentrò inizialmente sul diritto: dal 1750 frequentò la facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Lipsia, conseguendo il titolo di Notarius publicus caesareus (notaio imperiale). La passione per la musica, presumibilmente sviluppata in età avanzata, lo portò nel 1754 a entrare come solista di flauto al Großes Konzert di Lipsia, precursore della celebre Orchestra del Gewandhaus. La sua carriera di solista lo vide impegnato in viaggi concertistici che lo condussero fino a San Pietroburgo. Nel 1776, Tromlitz scelse di ritirarsi dalla vita pubblica. Rilevante è la sua parentela con Clara Schumann, sua pronipote.

Il contributo rivoluzionario come costruttore di flauti
L’insoddisfazione per i limiti acustici e di intonazione del flauto a una sola chiave fu la molla che spinse Tromlitz a dedicarsi all’arte della fabbricazione di strumenti già durante gli anni universitari; in seguito esercitò tale attività anche commercialmente. Egli si adoperò per sviluppare il modello di flauto di Quantz, migliorandolo tramite l’aggiunta di chiavi. Dopo quasi quarant’anni di ricerca e costruzione, raggiunse l’apice della propria attività con la realizzazione di un flauto provvisto di otto chiavi: questo strumento è storicamente significativo in quanto è considerato l’antesignano diretto del flauto che Theobald Boehm avrebbe sviluppato in seguito, segnando un fondamentale passo evolutivo. Gli strumenti di Tromlitz erano molto costosi per l’epoca (venduti tra i 6 e i 40 ducati) e, a oggi, ne sono conservati sei in collezioni e musei, tra cui uno appartenuto al poeta Eduard Mörike.

Didattica, trattatistica e produzione compositiva
Oltre all’attività di esecutore e costruttore, Tromlitz fu un influente insegnante di flauto e autore di diverse opere didattiche. Il suo testo più importante, pubblicato nel 1791, è l’Ausführlicher und gründlicher Unterricht die Flöte zu spielen (Istruzioni dettagliate e approfondite su come suonare il flauto). Questo trattato è una delle fonti primarie e più autorevoli per la comprensione delle tecniche esecutive e della prassi del flauto storico, in particolare nel periodo di fine Settecento. Come compositore, Tromlitz ha invece lasciato un repertorio che comprende varie partite per flauto solo, concerti per flauto e sonate per flauto e strumento a tastiera. Dal punto di vista stilistico, la sua opera si colloca nell’ambito dei contemporanei come Johann Joachim Quantz e Carl Philipp Emanuel Bach.

La Partita V in mi minore
Questa composizione costituisce un esempio affascinante della musica per flauto solo del tardo Settecento, collocandosi stilisticamente tra il Barocco tardo e l’emergente Classicismo.

Il primo movimento, Largo, si presenta come un brano di grande espressività e profondità emotiva e si caratterizza per un’esecuzione lenta, contemplativa e molto ornamentata. La dinamica è attentamente variata, con l’uso frequente di salti tra piano e forte, tipico dello stile espressivo dell’epoca. Questa prima parte si struttura in una serie di frasi brevi e ben definite che si susseguono senza soluzione di continuità, spesso impiegando figure retoriche musicali (come i sospiri o i salti melodici drammatici) per evocare un senso di pathos.
Dapprima il flauto stabilisce subito il tono malinconico in mi minore: le prime frasi sono ricche di fioriture e appoggiature che arricchiscono la melodia, conferendo un carattere quasi improvvisatorio e libero, come da prassi esecutiva dell’epoca. Si introduce poi una sezione di passaggi rapidi e arpeggiati, che contrastano con il tempo lento di base. Questi momenti mettono in luce la padronanza tecnica richiesta al solista, pur mantenendo un sottile lirismo. Si notano cromatismi espressivi e un gioco di scale e contro-melodie implicite.
La linea melodica successivamente si sviluppa con maggiore complessità e si sentono contrasti dinamici netti e sequenze armoniche che esplorano tonalità vicine. Si nota anche l’ampio utilizzo di trilli e ornamenti. Il ritmo si fa più serrato, anche se il tempo complessivo rimane largo: vi è una progressione di fioriture intense e dinamiche che creano tensione, per poi rilassarsi in passaggi più ariosi e virtuosistici, tipici dello stile galante.
La conclusione del movimento ritorna al carattere iniziale. Si notano figure ascendenti e discendenti, spesso risolte con grazia, che portano a un finale lento e molto espressivo, dove le note si spengono in un lungo calando.
Il secondo movimento, Allegro assai, è invece il cuore virtuosistico e contrastante dell’opera, offrendo un vivace stacco dal Largo precedente. Questo movimento è eseguito con grande energia e un tempo notevolmente veloce. È una dimostrazione di abilità tecnica, caratterizzata da rapide corse, arpeggi dinamici e ampi salti intervallari. L’atmosfera è di gioia o di brio spensierato, in tonalità maggiore. Questa parte segue una struttura che ricorda l’allegro di sonata o una forma bipartita tipica del Classicismo nascente.
Il tema principale, rapido e giocoso, è introdotto immediatamente. La melodia è composta da figure chiare e ritmicamente propulsive. La sezione è breve e conclude su una cadenza energica.
Segue un intenso lavoro di sviluppo melodico e tecnico: Tromlitz sfrutta appieno le capacità dello strumento, con una serie di passaggi cromatici rapidissimi e sequenze in registro acuto. Il ritorno a elementi quasi di fanfara dà un senso di maggiore articolazione.
Si ripresentano infine le idee tematiche iniziali, spesso con variazioni e un rinnovato impeto ritmico. La seconda parte della ricapitolazione presenta lunghe scale e arpeggi che culminano in una serie di rapidi scambi e una chiusura brillante.
Il movimento finale è un Menuet con variationi, che combina l’eleganza formale della danza con la libertà e la creatività delle variazioni. Il tema è esposto con chiarezza e grazia, aderendo al ritmo ternario tipico del minuetto: è semplice e cantabile, fungendo da base solida per le successive elaborazioni.
La prima variazione introduce figure più veloci e figurali, mantenendo l’armonia del tema sottostante. Si notano sequenze ascendenti e discendenti eseguite in sedicesimi, aggiungendo leggerezza e slancio al movimento di danza.
La seconda variazione è invece caratterizzata da passaggi più vivaci e arpeggi ampi, che coprono una vasta estensione del flauto. La musica si sposta su registri acuti, creando un effetto brillante e virtuosistico: le figurazioni sono complesse e richiedono controllo assoluto sull’articolazione rapida.
Il carattere muta, tornando a un’espressività più dolce, quasi un’eco del Largo: il ritmo è moderato, e la melodia si arricchisce di abbellimenti e legature che ne sottolineano il lirismo. Si sentono salti melodici ampi e un uso drammatico del registro grave.
Ritorna poi la brillantezza, con una sezione dominata da terzine e passaggi scalari rapidi che incorniciano il tema. È una delle variazioni tecnicamente più esigenti, mantenendo un flusso costante di note e concludendosi con un’ulteriore conferma ritmica.
La quinta variazione è più estesa ed esplora una tessitura più complessa, utilizzando fioriture barocche e cadenze veloci, spesso su registri acuti. La musica è estremamente decorativa e piena di energia, alternando sezioni basate su arpeggi veloci a momenti di maggiore concentrazione melodica.
Segue un contrasto forte, con un carattere quasi marziale o di fanfara, pur mantenendo l’ossatura del minuetto. Successivamente, la musica si evolve in un dialogo ritmico serrato, caratterizzato da figure ascendenti e discendenti molto rapide, che spingono l’esecuzione al suo limite tecnico.
Il movimento conclude con una breve coda che riassume la vivacità dell’Allegro e delle variazioni. Vi è un’ultima esplosione di virtuosismo con scale e arpeggi velocissimi, portando l’opera a una risoluzione conclusiva e trionfante.

Nel complesso, la Partita V è un’opera emblematica del periodo classico per flauto solo e riflette chiaramente la transizione stilistica dal Barocco (evidente nella struttura per movimenti di danza e l’uso intensivo di ornamenti nel Largo) al Classicismo (osservabile nella chiarezza tematica del Minuetto e la propensione per il virtuosismo brillante nell’Allegro assai). La ricchezza espressiva dei movimenti lenti e l’agilità richiesta nelle sezioni più veloci offrono un ritratto fedele della musica per flauto di questo influente costruttore e didatta tedesco.

Petite Symphonie

Charles Gounod (1818 - 18 ottobre 1893): Petite Symphonie per flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 corni e 2 fagotti (1885). The Saint Paul Chamber Orchestra, dir. Christopher Hogwood.

  1. Adagio – Allegretto
  2. Andante cantabile
  3. Scherzo: Allegro moderato
  4. Finale: Allegretto


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Charles Gounod: il maestro dalle molte anime, tra melodia sacra e trionfi lirici

Charles-François Gounod, figura eminente della musica francese del XIX secolo, ha lasciato un’impronta indelebile con un’opera vasta e variegata, che spazia dal sacro al profano, dall’opera al coro. La sua vita fu un percorso intenso di formazione, esplorazione spirituale e successi clamorosi, non senza aspre critiche.

Le origini e la formazione musicale (1818-42)
Nato a Parigi, fu il secondogenito del pittore François-Louis Gounod e di Victoire Lemachois. Rimasto orfano di padre all’età di cinque anni, fu la madre, insegnante di pianoforte, a impartirgli le prime lezioni, rivelando precocemente il suo talento. Dopo gli studi al Lycée Saint-Louis, Gounod si immerse nello studio musicale, perfezionando l’armonia con Antoine Reicha e poi, al Conservatorio di Parigi, con Jacques Fromental Halévy, e la composizione con Jean-François Lesueur. Il suo talento fu presto riconosciuto: nel 1839 vinse il prestigioso Grand Prix de Rome con la cantata Fernand. Il soggiorno a Villa Medici gli permise di approfondire la musica religiosa, in particolare quella di Palestrina. Nel 1842, a Vienna, ebbe l’opportunità di assistere a una rappresentazione del Flauto magico di Mozart, esperienza che lo segnò profondamente, e di far eseguire la sua seconda messa con orchestra.

Tra vocazione sacerdotale e debutto compositivo (1843-1860)
Tornato a Parigi nel 1843, Gounod assunse il ruolo di organista e maestro di cappella presso la Chiesa delle Missioni estere. Questo periodo fu caratterizzato da una profonda riflessione spirituale: nel 1847 ottenne il permesso di indossare l’abito ecclesiastico, frequentò corsi di teologia a Saint-Sulpice e ascoltò i sermoni di Lacordaire. Tuttavia, le giornate rivoluzionarie del 1848 lo portarono a rinunciare alla vocazione sacerdotale e a lasciare l’incarico. L’anno successivo, grazie all’appoggio della celebre Pauline Viardot, Gounod ottenne il libretto di Sapho da Émile Augier, la sua prima opera, che debuttò all’Opéra il 16 aprile 1851, senza riscuotere un grande successo. Nel 1852 sposò Anna Zimmerman. Parallelamente, presiedette gli Orphéons della Città di Parigi dal 1852 al 1860, componendo numerosi cori come Le Vin des Gaulois. Nel 1860, la sua dedizione alla musica sacra lo portò a partecipare al Congresso per la restaurazione del canto gregoriano.

L’apice dell’opera e le sfide della critica (1858-67)
Gli anni ’50 e ’60 segnarono l’apice della sua carriera operistica. Nel 1858, in occasione dell’anniversario della nascita di Molière, fu rappresentato con successo l’opéra-comique Le Médecin malgré lui, su libretto di Jules Barbier e Michel Carré, con cui avrebbe spesso collaborato. Ma fu il 1859 a consacrarlo: la sua opera Faust, basata sull’opera di Goethe, debuttò al Théâtre-Lyrique riscuotendo un successo clamoroso, con 70 repliche solo nel primo anno. Seguirono nel 1860 gli opéra-comiques Philémon et Baucis e La Colombe. Nonostante il trionfo di Faust, Gounod affrontò anche critiche feroci. La Reine de Saba, creata nel 1862, si fermò dopo sole quindici rappresentazioni e fu stroncata da Paul Scudo, critico della “Revue des deux Mondes”, che lo accusò di emulare i «cattivi musicisti della Germania moderna» come Liszt e Wagner, avvertendolo di essere «irrimediabilmente perduto» se avesse persistito. Nel marzo 1863, Gounod incontrò Frédéric Mistral, dal cui poema Mirèio (Mireille) avrebbe tratto un libretto. Si trasferì a Saint-Rémy-de-Provence, dove la musica si impregnò dell’atmosfera del Midi, un periodo di pace e ispirazione. L’opera Mireille fu creata a Parigi nel marzo 1864, ottenendo però un successo solo moderato. Il riscatto arrivò nel 1867, quando Roméo et Juliette, durante l’Esposizione universale, fu accolta con un successo entusiastico.

Gli anni britannici, il ritorno e il crepuscolo sacro (1870-93)
Nel 1870, fuggendo l’invasione tedesca della Francia, Gounod si trasferì in Inghilterra, dove instaurò una liaison di quattro anni con la cantante Georgina Weldon. Durante questo periodo, vide l’insuccesso di Les deux Reines de France (1872) e il successo patriottico di Jeanne d’Arc, un dramma storico che ravvivò lo spirito nazionale francese. Nel 1874 Gounod lasciò la Gran Bretagna e tornò in Francia, dove si stabilì a Parigi nel 1878 e vi rimase fino alla morte. Nella parte finale della sua vita, Gounod si dedicò prevalentemente alla musica religiosa, componendo un gran numero di messe e due oratori maggiori: La Rédemption (1882) e Mors et vita (1885). Morì il 18 ottobre 1893 a Saint-Cloud, appena dopo aver completato il Requiem in do maggiore, considerato il suo canto del cigno. I funerali, dieci giorni dopo, furono nazionali e si tennero nell’imponente Chiesa della Madeleine, con l’intervento di figure come Camille Saint-Saëns e Théodore Dubois all’organo, e Gabriel Fauré alla direzione della maîtrise che, secondo il desiderio di Gounod, eseguì la Messa gregoriana dei defunti.

L’impronta musicale: un catalogo vario e persistente
Gounod ha lasciato un patrimonio di circa 500 opere musicali, la cui influenza si estende ancora oggi. È celebre soprattutto per le sue opere liriche: Faust, la sua opera più iconica, con il grandioso valzer che conclude il I atto e con arie celebri come «Le Veau d’or» di Mefistofele, l’“aria dei gioielli di Marguerite” «Ah! je ris», il coro dei soldati «Gloire immortelle de nos aïeux», la musica di balletto della Notte di Valpurga e il coro finale degli angeli «Sauvée, Christ est ressuscité»; Roméo et Juliette: un altro grande successo, con la celebre valse di Giulietta «Je veux vivre» e l’aria del tenore «Ah! lève-toi, soleil!»; Mireille: basata sul poema provenzale di Frédéric Mistral; Cinq-Mars: un’opera storica, rielaborata più volte, che presenta arie come «Nuit resplendissante» e «Ô chère et vivante image».
Il catlogo delle opere di Gounod include anche altri lavori significativi: due sinfonie (1855) e una Petite Symphonie per nove strumenti a fiato (1885); cinque quartetti per archi; la celebre Ave Maria, basata sul primo preludio del Clavicembalo ben temperato di Bach (originariamente non destinato all’esecuzione liturgica), e il Requiem in do maggiore; composizioni strumentali quali la Marche funèbre d’une marionnette (1872), che divenne famosa globalmente come sigla del programma televisivo Alfred Hitchcock presenta, e la Marche pontificale (1869) che fu adottata nel 1949 come inno nazionale del Vaticano; e numerose e delicate mélodies, su testi di poeti quali Alfred de Musset, Alphonse de Lamartine, Théophile Gautier e Jean Racine, oltre a testi di sua stessa mano.

La Petite Symphonie
Dedicata alla Société de musique de chambre pour instruments à vent fondata da Paul Taffanel nel 1879, rappresenta un magnifico esempio della capacità del compositore francese di coniugare l’eleganza classica con la ricchezza melodica romantica, creando un’opera che è al contempo intima e virtuosistica. L’opera, eseguita per la prima volta il 30 aprile 1885 alla Salle Pleyel con Taffanel stesso al flauto, e pubblicata solo diciannove anni dopo, è una celebrazione delle sonorità e delle capacità espressive degli strumenti a fiato, offrendo un dialogo continuo e brillante tra le diverse voci.
La scelta di una formazione così specifica – flauto, due oboi, due clarinetti, due corni e due fagotti – permette a Gounod di esplorare una tavolozza timbrica ricca ma trasparente. L’attributo petite del titolo non si riferisce a una mancanza di sostanza musicale, ma piuttosto alla natura cameristica e all’eleganza leggera che pervade l’intera opera, lontana dalle massicce sonorità orchestrali di una sinfonia tradizionale.

Il primo movimento si apre con un Adagio, dove i due corni introducono un’atmosfera solenne e avvolgente con accordi sostenuti e caldi. Seguono le altre sezioni di fiati, aggiungendo strati armonici che costruiscono una breve ma intensa introduzione. Le dinamiche sono contenute, suggerendo un tono riflessivo e quasi contemplativo, che evoca l’aspetto più sacro della produzione di Gounod. L’espressività è palpabile, anche nella brevità di questa sezione.
Senza soluzione di continuità, il movimento si anima bruscamente con l’Allegretto. Il flauto emerge con una melodia agile, brillante e gioiosa, caratterizzata da rapide figurazioni e un piglio vivace. Subito dopo, gli oboi riprendono ed elaborano il tema, creando un dialogo serrato e spensierato. I clarinetti e i fagotti forniscono un accompagnamento ritmico e armonico dinamico, spesso con arpeggi gorgoglianti o passaggi saltellanti che aggiungono leggerezza. Il movimento è un vero e proprio tour de force di scrittura per fiati, con passaggi virtuosistici che si alternano a momenti di maggiore lirismo, ma sempre mantenendo un’energia contagiosa. L’interazione tra gli strumenti è costante: il tema passa agilmente da un flauto brillante a oboi cantabili, clarinetti arguti e fagotti giocosi. Le sezioni tutti sono incisive e dinamiche, contrastando con le tessiture più trasparenti dei passaggi solistici. Il movimento procede con una chiara forma sonata, con una ripresa espositiva evidente e uno sviluppo che esplora frammenti tematici e armonie più audaci, prima di tornare alla ricapitolazione che porta a una coda effervescente.
Il secondo movimento offre un netto contrasto, immergendosi in un’atmosfera di profonda liricità e dolcezza. Il carattere cantabile è immediatamente percepibile, con una melodia espressiva e distesa. In questa esecuzione, si nota chiaramente come gli oboi prendano il comando della melodia principale, con il flauto che spesso si unisce o raddoppia, aggiungendo brillantezza. I corni forniscono una base armonica stabile e calda, mentre clarinetti e fagotti tessono controcanti fluidi o un delicato accompagnamento. La musica si sviluppa con grazia, alternando momenti di melodia sostenuta a brevi fioriture che adornano le frasi. Le dinamiche sono attentamente calibrate, con crescendi e diminuendi che esaltano l’espressività intrinseca del movimento. Il movimento si conclude con una riproposizione del tema principale, sfumando dolcemente e lasciando un’impressione di serena bellezza.
Lo Scherzo irrompe con un’energia e un ritmo contagiosi, fedele al suo nome che suggerisce un carattere giocoso e vivace. Il tempo è veloce e il tema principale è frammentato, caratterizzato da staccati e passaggi rapidi che si scambiano tra flauto e clarinetti. I fagotti aggiungono un tocco di umorismo e leggerezza con i loro interventi puntuali. La sezione centrale, il trio, porta un cambiamento di umore, introducendo un tema più ampio e cantabile, con un sapore quasi rustico e una strumentazione più piena. Qui i corni e i fagotti sono particolarmente prominenti, creando un contrasto efficace con l’agilità dello scherzo. Dopo il trio, lo Scherzo torna nella sua forma iniziale, riprendendo il suo slancio ritmico e la sua tessitura vivace. La coda finale è un’accelerazione mozzafiato, che conduce il movimento a una conclusione scattante ed esaltante.
Il Finale si apre con un gesto grandioso e imponente, dove l’intero nonetto esegue un’affermazione forte e dichiarativa, stabilendo un carattere trionfale. Il tema principale, rapido e accattivante, è subito introdotto e presenta un’alternanza di scale veloci e arpeggi distribuiti tra i fiati. Si alternano momenti di tutti energici a sezioni più liriche o riflessive, che servono a costruire la tensione prima di nuove esplosioni di energia. Le modulazioni armoniche sono sapientemente gestite, ampliando la portata espressiva del pezzo. Verso la conclusione, il movimento si intensifica progressivamente, accumulando sonorità e virtuosismi fino a un finale enfatico e celebrativo.

Nel complesso, l’opera è molto più di un semplice esercizio di scrittura per fiati e dimostra la maestria del compositore nell’orchestrazione, la sua vena melodica inesauribile e la sua capacità di creare un’atmosfera coerente attraverso quattro movimenti distinti. Si tratta di una composizione che, pur mantenendo un respiro “piccolo” nel senso cameristico, offre una grande ricchezza musicale e un piacere d’ascolto duraturo, confermando il genio di Gounod ben oltre le sue opere liriche più celebri.

Gounod, Petite Symphonie

Concerto triplo – II

Raffaele Gervasio (26 luglio 1910 - 1994): Triplo Concerto per flauto, viola, chitarra, archi e percussioni op. 131, Concerto degli oleandri (1993). Mario Carbotta, flauto; Teresa Laera, viola; Nando Di Modugno, chitarra; Orchestra sinfonica lucana, dir. Vito Clemente.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Raffaele Gervasio, dal Carosello alle sale da concerto: ritratto di un maestro a due volti

Raffaele Gervasio è stato uno dei compositori italiani più versatili del Novecento, capace di muoversi con eguale maestria tra il mondo della “musica pura” (sinfonica e cameristica) e quello della “musica applicata” per radio, cinema e televisione, lasciando un’eredità che spazia dalle celebri sigle popolari a complesse opere orchestrali.

La formazione di un talento
Nato a Bari da Michele Gervasio – noto archeologo e direttore del museo cittadino – il giovane intraprese gli studi musicali nel 1923 presso il Liceo musicale «Niccolò Piccinni» del capoluogo pugliese, dove fu allievo di Cesare Franco (armonia), Italo Delle Cese (pianoforte) e della giovane e talentuosa Gioconda De Vito (violino).
Il suo talento fu presto notato da Amilcare Zanella che, nel 1927, lo volle con sé al Conservatorio «Rossini» di Pesaro, inserendolo nella propria classe di composizione e affidandolo al maestro Chiti per il perfezionamento del violino. Dopo il diploma in violino nel 1929, proseguì gli studi di composizione con Zanella fino al 1931, per poi trasferirsi a Firenze. Qui completò la formazione al Conservatorio «Cherubini» sotto la guida di Vito Frazzi, diplomandosi in composizione nel 1933. La sua sete di conoscenza lo portò a Roma, dove frequentò il corso di perfezionamento di Ottorino Respighi al Conservatorio di Santa Cecilia, ottenendo nel 1936 il premio come miglior allievo. Nello stesso prestigioso istituto, seguì anche il corso di Ernesto Cauda dedicato alla musica per la riproduzione meccanica (cinema, radio, discografia), un’esperienza che si rivelerà fondamentale per la sua futura carriera.

Il successo nella musica applicata: radio, cinema e televisione
Dopo gli studi, Gervasio si dedicò con grande successo alla musica applicata: dal 1940 al 1960 ricoprì il ruolo di direttore musicale della INCOM (Industrie Cortometraggi), per cui sonorizzò centinaia di documentari e cinegiornali con musiche originali e di repertorio. La sua firma divenne sinonimo di riconoscibilità e qualità, legandosi ad alcune delle sigle più iconiche della cultura di massa italiana: dal cinegiornale “Settimana Incom” alla sigla di Voci dal Mondo, che per decenni avrebbe introdotto il GR2, fino alla celeberrima e indimenticabile melodia di Carosello.
Compose musiche di scena per importanti spettacoli di prosa (Francesca da Rimini, Faust, Il mercante di Venezia) e collaborò intensamente con la radio, come nella Ballata italiana (1951) diretta da Franco Ferrara. Un capitolo di particolare rilievo fu il Carosello napoletano, grandioso spettacolo teatrale del 1950 diretto da Ettore Giannini, che gli valse il premio “Maschera d’argento” per la musica. Il successo fu tale che nel 1954 l’opera fu trasposta in un film prodotto dalla Lux Film, le cui musiche, in gran parte originali, furono dirette da Fernando Previtali.
Un altro progetto di grande impatto culturale fu l’album I Canti che hanno fatto l’Italia (1961), prodotto da RCA in occasione delle celebrazioni di Italia 61. L’opera – una raccolta di musiche originali, trascrizioni e rielaborazioni del patrimonio popolare – fu diretta da Franco Ferrara e interpretata da voci celebri. La sua importanza fu sancita dalla RAI, che la scelse per inaugurare le trasmissioni del secondo canale televisivo il 4 novembre 1961.

Il ritorno alla musica “pura”, l’insegnamento e i riconoscimenti
Nonostante i successi nella musica applicata, Gervasio non abbandonò mai la sua vocazione per la composizione pura: già nella seconda metà degli anni Cinquanta riprese a scrivere musica sinfonica e, nel 1961, lasciò definitivamente la INCOM per dedicarsi esclusivamente a questa passione. Gli anni Sessanta furono un periodo di intensa creatività, che vide la nascita di opere fondamentali come il Concerto spirituale (1961), il Preludio e Allegro concertante (1962), il Concerto per violino e orchestra (1966) e la Fantasia per pianoforte (1970), scritta su richiesta del pianista Rudolf Firkušný.
Nel 1967 – su invito dell’amico Nino Rota – accettò la cattedra di composizione al Conservatorio «Piccinni» di Bari. Due anni dopo, nel 1969, assunse la direzione del nuovo Conservatorio «Egidio Romualdo Duni» di Matera, trasformandolo in pochi anni in un’istituzione di riferimento a livello nazionale per le sue didattiche innovative. In questo periodo scrisse anche diversi lavori destinati ai suoi giovani allievi. Dopo essere tornato all’insegnamento a Bari nel 1977, si ritirò definitivamente nel 1980. Il suo prestigio fu coronato nel 1978 con l’elezione ad accademico di Santa Cecilia.

Gli ultimi anni: una prolifica stagione creativa
Libero dagli impegni didattici, Gervasio visse un’ultima, straordinaria stagione creativa, dedicandosi interamente alla composizione. In questo periodo produsse un vasto catalogo di opere cameristiche e orchestrali, tra cui spiccano: Movimenti perpetui per orchestra (1982), l’Ouverture inaugurale per organo e orchestra (1983), il Doppio Concerto per violino, chitarra e archi (1984), la Composizione orchestrale (1986) commissionata dall’Accademia di Santa Cecilia, e il Triplo Concerto degli oleandri (1993). La sua ultima opera furono le Variazioni sulla preghiera del Mosè di Rossini per tromba e organo (1994), sigillo di una vita spesa al servizio della musica in tutte le sue forme.

Il Concerto degli oleandri: analisi
Opera di rara bellezza, si distingue per la peculiare scelta strumentale e per il carattere evocativo e solare. Lontano dalle asprezze e dalle complessità intellettualistiche di molta musica contemporanea del suo tempo, Gervasio crea un affresco sonoro che profuma di Mediterraneo, fondendo la struttura classica del concerto con una sensibilità melodica quasi cinematografica. L’opera, in un unico movimento, si articola in una serie di episodi contrastanti che esplorano le molteplici possibilità timbriche e dialogiche del trio solista.

Il Concerto si apre in un’atmosfera intima e pastorale: la chitarra solista introduce il discorso musicale con una serie di arpeggi delicati e sognanti che stabiliscono immediatamente un clima di serena attesa. Questo preludio chitarristico funge da sipario, aprendo la scena all’ingresso dell’intero ensemble. Gli archi poi entrano con un tappeto sonoro morbido e avvolgente, su cui si innesta il tema principale, una melodia gioiosa, spensierata e dal carattere nettamente danzante, quasi popolaresco. Il tema viene esposto dai tre solisti che agiscono come un’unica entità: il flauto e la viola, spesso procedendo in parallelo, si scambiano e intrecciano le frasi melodiche, mentre la chitarra fornisce un indispensabile sostegno ritmico e armonico con arpeggi brillanti e accordi precisi. La scrittura è trasparente e luminosa, con le leggere percussioni che aggiungono tocchi di luce. In questa sezione, Gervasio presenta i protagonisti non come avversari dell’orchestra, ma come un “concertino” affiatato che dialoga amabilmente su un fondale orchestrale lussureggiante.
Abbandonata la solarità del tema iniziale, il Concerto si inoltra in una sezione di sviluppo più complessa e ricca di contrasti. L’atmosfera si fa più lirica e introspettiva e gli archi introducono una nuova idea tematica, più cantabile e malinconica, mentre i solisti si ritagliano spazi individuali: ascoltiamo un breve ma intenso assolo della viola, seguito da un passaggio più etereo del flauto.
Questo momento di quiete è interrotto da un episodio di grande energia e tensione drammatica: il ritmo si fa più serrato e incalzante, sostenuto dal pizzicato degli archi e da un uso più marcato delle percussioni. I tre solisti si lanciano in passaggi virtuosistici, con scale rapide e figurazioni complesse, a volte all’unisono, a volte in un rapido inseguimento. Questa sezione dimostra la maestria di Gervasio nel creare un forte contrasto dinamico e agogico, mostrando il lato più brillante e tecnicamente impegnativo del trio.
L’orchestra si ritira quasi completamente, lasciando il campo a quella che può essere definita una cadenza collettiva per i tre solisti: è un lungo momento di dialogo intimo, in cui flauto, viola e chitarra esplorano le loro potenzialità timbriche in piena libertà.
La viola emerge con un canto caldo e appassionato, seguita dal flauto con frasi più aeree e sognanti. La chitarra si lancia in un assolo di notevole bellezza, ricco di arpeggi e armonie che evocano sonorità spagnoleggianti, confermando l’ispirazione mediterranea dell’opera. Il dialogo tra gli strumenti è fitto e profondo, un vero e proprio scambio di confidenze musicali prima della conclusione.
Come in una classica forma-sonata, riappare il tema principale danzante dell’esposizione, questa volta presentato con un vigore e una pienezza orchestrale ancora maggiori. Il ritorno di questa melodia solare e riconoscibile infonde un senso di gioia e circolarità, chiudendo il cerchio narrativo del brano.
Dalle fondamenta di questa ripresa si sviluppa la coda finale: la musica acquista progressivamente velocità e intensità, in un crescendo che coinvolge l’intera orchestra. I solisti si esibiscono in un ultimo slancio virtuosistico, spingendo il discorso musicale verso una conclusione brillante, affermativa e piena di energia che si chiude con accordi decisi e perentori.

La vera originalità dell’opera risiede nella geniale fusione timbrica del trio solista; Gervasio riesce a far convivere tre strumenti dalla natura profondamente diversa: il suono aereo e cristallino del flauto, quello caldo, scuro e umano della viola e quello percussivo e armonico della chitarra. Piuttosto che metterli in competizione, li tratta come le tre facce di un unico strumento, un “super-solista” capace di passare da momenti di intimità cameristica a esplosioni di virtuosismo orchestrale. Il concerto è un magnifico esempio della maturità stilistica di Gervasio, un pezzo che, pur radicato nella tradizione formale, parla un linguaggio immediato, melodico e profondamente comunicativo, capace di dipingere con i suoni i colori, la luce e il calore di un paesaggio mediterraneo baciato dal sole.

25 aprile

Non lontano dalla mia abitazione, a Torino, c’è una via intitolata a Luigi Capriolo.
Luigi Capriolo? Carneade: chi era costui?
Bene, dovete sapere che la famiglia di mio padre è originaria di Cinzano, un paesino di campagna sito sulla collina torinese “esterna”, cioè al di fuori di quella che una volta era detta la cinta daziaria di Torino, a un’altitudine di circa 500 metri sul livello del mare e a poco meno di 20 chilometri dal capoluogo. Cinzano – che non ha niente a che vedere con il luogo in cui vengono prodotti i famosi vermouth omonimi – è noto per un castello, che in tempi recenti è stato trasformato in un condominio, e per poco altro: in sostanza, nei rari casi in cui se ne parla è perché è uno dei punti più elevati della collina torinese, esclusa ovviamente Superga.
Nel cimitero di Cinzano, poco lontano dalla tomba di mio padre, si trova un cippo che ricorda appunto Luigi Capriolo (1902 - 1944), un cugino entrato nella storia (locale) in quanto martire dell’antifascismo. Che cosa gli capitò?
Ebbene, Luigi Capriolo, che aveva subito aderito al Partito Comunista d’Italia (PCdI), fu ufficiale di collegamento fra le formazioni partigiane della Val di Lanzo e quelle della Val di Susa, nonché ispettore di comando delle brigate Garibaldi nella zona di Cuneo. Nel 1944 fu catturato dalle SS, che gli trovarono addosso i documenti di Pietro Sulis, garibaldino della Val di Lanzo: fu dunque scambiato per Sulis e torturato atrocemente per tre giorni, ma non si lasciò sfuggire una sillaba. E così fu poi impiccato, sempre scambiato per Sulis, il 3 agosto 1944 a Villafranca d’Asti.
Vabbe’, era un Capriolo, non poteva capitargli niente di meno astruso.

Alla memoria di Luigi Capriolo e di Pietro Sulis vorrei dedicare queste simpatiche variazioni per flauto solo sul tema di Bella ciao, opera di Umberto Galante, abilmente eseguite da Davide Giove.
Viva la libertà.

Boulez 100 – I

Pierre Boulez (26 marzo 1925 - 2016): Le Marteau sans maître per voce e 6 strumentisti (1954, rev. 1957) su testi di René Char (1907-1988). Ensemble Insomnio, dir. Ulrich Pöhl.

  1. Avant «l’artisanat furieux» per flauto contralto, vibrafono, chitarra e viola

  2. Commentaire I de «bourreaux de solitude» per flauto contralto, xilomarimba, tamburo basco, 2 bongo, tamburo a cornice e viola [2:48]

  3. L’artisanat furieux per voce e flauto contralto [7:53]

    La roulotte rouge au bord du clou
    Et cadavre dans le panier
    Et chevaux de labours dans le fer à cheval
    Je rêve la tête sur la pointe de mon couteau le Pérou.

  4. Commentaire II de «bourreaux de solitude» per xilomarimba, vibrafono, zill, agogô, triangolo, chitarra e viola [11:16]

  5. Bel édifice et les pressentiments, version première, per voce, flauto contralto, chitarra e viola [16:23]

    J’écoute marcher dans mes jambes
    La mer morte vagues par-dessus tête
    Enfant la jetée-promenade sauvage
    Homme l’illusion imitée
    Des yeux purs dans les bois
    Cherchent en pleurant la tête habitable.

  6. Bourreaux de solitude per voce, flauto contralto, xilomarimba, vibrafono, maracas, chitarra e viola [21:04]

    Le pas s’est éloigné le marcheur s’est tu
    Sur le cadran de l’Imitation
    Le Balancier lance sa charge de granit réflexe.

  7. Après «l’artisanat furieux» per flauto contralto, vibrafono e chitarra [26:26]

  8. Commentaire III de «bourreaux de solitude» per flauto contralto, xilomarimba, vibra­fono, claves, agogô, 2 bongo e maracas [27:42]

  9. Bel édifice et les pressentiments, double, per voce, flauto contralto, xilomarimba, vi­brafono, maracas, tam-tam piccolo, gong grave, tam-tam molto grave, piatto sospeso grande, chitarra e viola [34:21]

Adagietto – II: alla gondoliera

Daniele Zanettovich (26 gennaio 1950): Concerto per flau­to e archi detto Il Casanova (2004). Enzo Caroli, flauto; Orchestra Sinfonica Adriatica, dir. Paolo Pessina.

  1. Allegro
  2. Adagietto alla gondoliera – Un poco più mosso, ma molto liberamente (Il canto dell’usignolo) – Tempo I [5:47]
  3. Presto [12:27]

Pastorales de Noël

André Jolivet (1905 - 20 dicembre 1974): Pastorales de Noël per flauto, fagotto e arpa (1943). Hélène Boulègue, flauto; David Sattler, fagotto; Nicolas Tulliez, arpa.

  1. L’Étoile: Simple et sans lenteur
  2. Les Mages: Très modèré [3:37]
  3. La Vierge et l’enfant: Simple [6:51]
  4. Entrée et danse des bergers: Souple [9:35]

Altre composizioni di Jolivet in questo blog (cliccare sul titolo):

Quatrième Suitte

Jacques-Martin Hotteterre detto le Romain (29 settembre 1674 - 1763): Suite in mi minore, n. 4 del Premier Livre de pièces pour la flûte traversière et autres instruments avec la basse op. 2 (1715). Eduard Belmar, flauto; Lucine Musaelian, viola da gamba; Ha-na Lee, clavicembalo.

  1. Prélude
  2. Allemande la Fontainebleau [2:24]
  3. Sarabande le Départ [4:08]
  4. Air le Fleuri [6:30]
  5. Gavotte la Mitilde [7:58]
  6. Branle de village l’Auteuil [9:28]
  7. Menuet le Beaulieu [10:08]

Suoni di vetro

Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791): Adagio e Rondò per Glasharmonika, flauto, oboe, viola e violoncello K 617 (23 maggio 1791). Bruno Hoffmann (15 settembre 1913 - 1991), Glasharmonika; Karl Heinz Ulrich, flauto; Helmut Hucke, oboe; Ernst Nippes, viola; Hans Plumacher, violoncello.

Bruno Hoffmann

Un omaggio di Rimskij-Korsakov a Beethoven

Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov (1844 - 21 giugno 1908): Quintetto in si bemolle maggiore per flauto, clarinetto, fagotto, corno e pianoforte (1876). Les Vents Français: Emmanuel Pahud, flauto; Paul Meyer, clarinetto; Gilbert Audin, fagotto; Radovan Vlatković, corno; Eric Le Sage, pianoforte.

  1. Allegro con brio
  2. Andante
  3. Rondò: Allegretto

Nel repertorio di composizioni da camera per strumenti a fiato ho trovato diverse cose preziose, come l’Ottetto op. 103 di Beethoven, la Serenata op. 44 di Dvořák, quella op. 7 di Richard Strauss e molto altro. Il Quintetto di Rimskij-Korsakov non sarà forse un capolavoro, ma a me è par­ti­co­lar­mente caro. L’autore affermò di aver composto il I movimento «nello stile classico di Beethoven»; in realtà l’omaggio al Maestro di Bonn non si limita all’imitazione dello stile beethoveniano né alla mera adozione di uno schema strutturale. Ascoltate con attenzione i due temi, adeguatamente contrastanti l’uno con l’altro, e scoprirete che sono direttamente ispirati dalla Nona Sinfonia: l’uno scaturisce da un motivo del primo tema del I movimento, l’altro è una sorta di parafrasi dell’inno Alla Gioia.

Alluvione (Fabbriciani 75)

Roberto Fabbriciani (13 giugno 1949): Alluvione per flauti (1 esecutore) e suoni elettronici di Alvise Vidolin (2017). Esegue l’autore.

  1. Fantasioso sognante
  2. Alluvione
  3. Abyss II
  4. Corrente
  5. Suono sommerso
  6. Dal profondo
  7. Suono sommerso II
  8. Deflusso
  9. Fantasy Falls

Qui un articolo di Fabio Zannoni sulla composizione di Fabbriciani.

Andante grazioso

Andreas Jakob Romberg (27 aprile 1767 - 1821): Quintetto in fa maggiore per flauto, violino, 2 viole e violoncello op. 41 n. 3 (1811). Vladislav Brunner, flauto; Viktor Šimčisko, violino; Milan Telecký e Ján Cút, viole; Juraj Alexander, violoncello.

  1. Allegro
  2. Adagio – Andante grazioso [8:46]
  3. Minuetto: Allegretto
  4. Vivace [5:16]

Greensleeves – XIX 🇮🇹

Con il suo ensemble, The Broadside Band, Jeremy Barlow ha lavorato a lungo e proficuamente sulle musiche utilizzate da Johann Christoph Pepusch nell’Opera del mendicante (The Beggar’s Opera, 1728) di John Gay: la quale è l’unica ballad opera di cui si parli ancora ai nostri giorni, grazie anche al rifacimento brechtiano del 1928, Die Drei­groschenoper, che adotta però musiche originali composte da Kurt Weill. Per l’Opera del mendicante invece, com’è noto, Pepusch adattò i testi di Gay a melodie che all’epoca avevano una certa notorietà, prendendole a prestito da broadside ballads, arie d’opera, inni religiosi e canti di tradizione popolare.
Oltre a produrre un’edizione completa del lavoro di Gay e Pepusch, Barlow e la sua band hanno inciso (per Harmonia Mundi, 1982) anche un’antologia degli airs più famosi (in tutto nove brani), di ciascuno dei quali proponendo non solo la versione dell’Opera del mendicante ma anche la composizione originale e eventuali altre sue trasformazioni, varianti e parodie.
L’ultima sezione dell’antologia, che qui sottopongo alla vostra attenzione, è dedicato a Greensleeves. Comprende, nell’ordine:

  1. una improvvisazione sul passamezzo antico, eseguita al liuto da George Weigand

  2. Greensleeves, la più antica versione nota della melodia (dal William Ballet’s Lute Book, c1590-1603) con la più antica versione nota del testo (da A Handful of Pleasant Delights, 1584), cantata da Paul Elliott accompagnato al liuto da Weigand [1:13]

    Alas, my love, you do me wrong,
    To cast me off discourteously.
    And I have loved you so long,
    Delighting in your company.

     Greensleeves was all my joy,
     Greensleeves was my delight,
     Greensleeves was my heart of gold,
     And who but my Lady Greensleeves.

    I have been ready at your hand,
    To grant whatever you wouldst crave,
    I have both waged life and land,
    Your love and goodwill for to have.

    Well I will pray to God on high
    That thou my constancy mayst see,
    And that yet once before I die,
    Thou wilt vouchsafe to love me.

    Greensleeves, now farewell, adieu,
    God I pray to prosper thee,
    For I am still thy lover true,
    Come once again and love me.

  3. Greensleeves, la versione più diffusa all’inizio del Seicento, secondo William Cobbold (1560 - 1639) e altri autori, con improvvisazioni eseguite da Weigand alla chitarra barocca e da Rosemary Thorndycraft al bass viol [4:07]

  4. la versione dell’Opera del mendicante che già conosciamo, interpretata ancora da Elliott a solo [5:27]

  5. un misto di tre jigs irlandesi eseguito da Barlow al flauto e da Alastair McLachlan al violino [6:03]:
    A Basket of Oysters (da Moore’s Irish Melodies, 1834)
    A Basket of Oysters or Paddythe Weaver (Aird’s selection, 1788)
    Greensleeves (versione raccolta a Limerick nel 1852)