Concerto per violoncello – XVIII

Jean-Balthasar Tricklir (1750 - 29 novembre 1813): Concerto per violoncello e orchestra n. 6 in sol maggiore op. 2 n. 3 (1783). Alexander Rudin, violoncello e direzione; ensemble Musica Viva.

  1. Allegro
  2. Adagio [9:57]
  3. Allegretto [15:10]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Jean-Balthasar Tricklir: il microcosmo del violoncello tra virtuosismo di corte e innovazione tecnica

Jean-Balthasar Tricklir (anche Trickler o Triklir) fu una figura centrale nel Classicismo musicale, celebre violoncellista e compositore francese, nato a Digione (sebbene in una famiglia di origine tedesca) e deceduto a Dresda.

Formazione e circuiti europei del Settecento
La sua educazione musicale ebbe inizio presso il seminario di Digione, dove ricevette lezioni di violino e violoncello. Il suo sviluppo professionale prese una piega significativa tra il 1765 e il 1768, quando continuò la sua formazione nell’ambiente altamente influente dell’orchestra di corte di Mannheim, un epicentro dell’innovazione stilistica del periodo. Gli anni Settanta del XVIII secolo furono caratterizzati da intensi viaggi: Tricklir compì almeno tre tournée in Italia. Il suo prestigio come compositore fu confermato nel 1776, quando eseguì una delle proprie opere al prestigioso Concert Spirituel di Parigi.

L’apice della carriera istituzionale
All’inizio degli anni 1780, Tricklir ricoprì la carica di Kammervirtuose (solista di camera) presso il principe elettore di Magonza. Durante questo periodo, si dedicò attivamente alla musica da camera. Insieme al violinista Ernst Schick (1756-1815), Friedrich Wilhelm Heinrich Benda e un musicista di nome Hofmann, formò un quartetto d’archi che si esibì, tra l’altro, ad Amburgo nel 1782, portando all’ascolto anche i quartetti di Joseph Haydn. Un anno cruciale fu il 1783: a partire da marzo, il compositore entrò stabilmente a far parte della Hofkapelle di Dresda, una delle orchestre di corte più importanti d’Europa. Nonostante quest’incarico fisso, Tricklir non abbandonò i viaggi e, dopo il 1783, intraprese diverse tournée concertistiche che lo condussero in Inghilterra e Francia.

Il lascito tecnico e stilistico
Il suo stile esecutivo fu universalmente lodato dai contemporanei per due qualità distintive: una intonazione cristallina («klare Intonation») e una maniera di esecuzione sensibile ed espressiva («empfindsame Vortragsweise»). Nella storia dell’evoluzione della tecnica violoncellistica, Tricklir è considerato un anello di congiunzione fondamentale, rappresentando il punto di transizione tra Anton Fils e Bernhard Romberg. Tra i suoi allievi più noti si annovera Dominique Bideau.

Il compositore e l’inventore sfortunato
Tricklir fu un prolifico compositore, dedicandosi quasi interamente al suo strumento. La sua produzione principale si concentra in un decennio intenso (1779-89) e include vari concerti per violoncello, sei sonate per violoncello e basso continuo e diversi altri pezzi cameristici.

L’esperimento inedito
Oltre alla musica, Tricklir si dedicò a un tentativo di innovazione tecnica: a Dresda tentò di realizzare, con la collaborazione di un meccanico, un dispositivo destinato a facilitare l’accordatura degli strumenti a corda, specialmente in condizioni di repentini cambiamenti climatici; il tentativo non ebbe però successo. Le sue annotazioni e riflessioni su questo esperimento furono raccolte nell’opuscolo inedito Le Microcosmos musical.

Il Concerto per violoncello e orchestra n. 6
Questo concerto, risalente al 1783 circa e pubblicato a Parigi, riflette appieno lo stile galante e pre-classico di Tricklir, caratterizzato da una scrittura elegante, enfasi sulla melodia e un virtuosismo controllato ma espressivo, tipico del violoncello come strumento solista in quel periodo.

Il primo movimento è un tipico Allegro in forma-sonata, energico e brillante, ma bilanciato dall’eleganza del linguaggio classico. Esso si apre immediatamente con un tema vivace in sol maggiore, caratterizzato da figurazioni veloci e arpeggianti, con grande enfasi ritmica e armonica data dall’orchestra (principalmente archi). Il carattere è brillante e affermativo.
Segue un passaggio più melodico ma ancora ritmicamente propulsivo, che prepara la sezione successiva. Il secondo gruppo tematico, in re maggiore (la dominante), si presenta con una melodia più cantabile e leggermente più rilassata, benché mantenuta su un tempo vivace. Con una riaffermazione dell’energia iniziale e frasi cadenzali (in particolare un passaggio virtuosistico di violino), l’orchestra conclude la sua prima esposizione affermando la dominante, pronta per l’ingresso del solista.
Il violoncello solista entra in maniera decisa, riprendendo il tema principale con un’impronta più virtuosistica. La scrittura è arricchita da scale veloci, arpeggi complessi e passaggi. Segue l’espansione del materiale del ponte orchestrale, introducendo figurazioni tecniche più elaborate e sfruttando la corda di sol per ricavarne un suono pieno e risonante. La ripresa del secondo tema offre un momento lirico per il solista e qui Tricklir mette in mostra la capacità cantabile del violoncello, con frasi espressive sostenute dall’accompagnamento degli archi. L’esposizione si chiude con ulteriori sezioni virtuosistiche che stabilizzano la tonalità.
Il breve sviluppo esplora tonalità relative e materiali tematici. Tricklir sfrutta le possibilità armoniche per creare tensione: si notano modulazioni rapide e la frammentazione del tema iniziale, mentre il violoncello si impegna in passaggi tecnici che esplorano le regioni più alte del registro, creando contrasto dinamico e coloristico. Il passaggio a tonalità minori e il ritorno alla dominante attraverso progressioni armoniche ben delineate, preparano il rientro del tema principale.
La ripresa riporta il tema principale nell’orchestra, stavolta in sol maggiore, con il solista che spesso tesse contro-melodie e figurazioni decorative sopra. Il secondo tema viene riproposto anch’esso in sol maggiore, mantenendo il carattere lirico. Il movimento si conclude con una cadenza che culmina nell’ultimo tutti orchestrale.
L’Adagio si apre in sol minore, offrendo un profondo contrasto emotivo e agogico con il movimento precedente. Il violoncello espone una melodia intensamente espressiva, caratterizzata da intervalli ampi e un ritmo quieto. La tonalità minore conferisce immediatamente un senso di Empfindsamkeit (sensibilità) molto apprezzato all’epoca. La melodia prosegue con una scrittura intima, accompagnata da pizzicati leggeri degli archi, creando un’atmosfera cameristica. La musica modula delicatamente verso la tonalità relativa maggiore, si bemolle. Segue l’introduzione di nuovo materiale melodico, sebbene il carattere rimanga contemplativo e vi è una maggiore esplorazione del registro medio del violoncello. L’armonia si fa più ricca, con progressioni cromatiche che portano a momenti di maggiore intensità emotiva e una breve rielaborazione del materiale tematico di apertura. Un passaggio di transizione lento e contemplativo, focalizzato sulla sonorità espressiva del violoncello, conduce gradualmente a una cadenza finale non segnata o a un accordo di dominante che prepara il vivace movimento successivo. L’atmosfera rimane sospesa e meditativa, tipica degli adagi pre-classici.
Il finale è un Allegretto, più leggero e meno impegnativo del primo movimento. Il tono è giocoso e virtuosistico. L’apertura è affidata a un tema caratterizzato da rapidi passaggi e un ritmo saltellante. Tricklir include una serie di fioriture che sfruttano le agilità del violoncello, mantenendo tuttavia la chiarezza dell’intonazione. Un episodio contrastante, in una tonalità vicina, si presenta con un carattere più tranquillo, quasi pastorale, e offre un momento di riposo prima del ritorno al tema principale. Questo ritorna in sol maggiore più condensato e, su di esso, il compositore introduce variazioni più elaborate, aumentando la velocità e la complessità tecnica. La conclusione è affidata a una rapida e brillante coda nella tonalità principale, che riafferma l’energia e la stabilità del tono, concludendo il concerto con spirito tipicamente classico.

Nel complesso, l’opera mostra la maestria di Tricklir nel bilanciare il sentimento (espresso nell’Adagio) con il brillante virtuosismo (nei movimenti esterni). La sua musica si colloca perfettamente nel periodo di transizione tra il tardo Barocco e il Classicismo maturo, evidenziando una predilezione per la melodia chiara e una tecnica esecutiva sofisticata, caratteristiche che lo resero un ponte tra i grandi violoncellisti della sua epoca.

Tricklir op. 2 n. 3

Allegro risoluto – V

Amanda Röntgen-Maier (1853 - 15 luglio 1894): Concerto in re minore per violino e orchestra (1875). Claudia Bonfiglioli, violino; Orchestra filarmonica reale di Stoccolma, dir. Sakari Oramo.
Del Concerto esiste un unico movimento (Allegro risoluto), gli altri sono probabilmente andati perduti.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Amanda Röntgen-Maier: il talento riscoperto di una pioniera della musica

Figura di spicco nel panorama musicale del XIX secolo, violinista virtuosa e compositrice di grande talento, Amanda Röntgen-Maier ebbe una carriera tanto brillante quanto breve, messa in ombra dalle convenzioni sociali del suo tempo. La sua musica, riscoperta alla fine del XX secolo, rivela un’artista di calibro internazionale.

Formazione di un prodigio: primi anni e studi
Nata a Landskrona, in Svezia, Carolina Amanda Erika Maier crebbe in un ambiente intriso di musica. Suo padre, Carl Eduard Maier, un immigrato tedesco, era un pasticciere ma anche un musicista diplomato che impartì ad Amanda le prime lezioni di violino e pianoforte. Per il suo eccezionale talento fu accolta nella Kungliga musikaliska akademien (Accademia reale svedese di musica) a Stoccolma nel 1869. Lì seguì corsi diversi, tra cui violino, organo, composizione e storia della musica. Nel 1872 fu la prima donna donna a diplomarsi in direzione, ottenendo il massimo dei voti nella maggior parte delle discipline. Grazie a una borsa di studio proseguì la formazione presso il prestigioso Conservatorio di Lipsia (1873-76); qui ebbe come insegnanti Engelbert Röntgen (violino) e Carl Reinecke (composizione). Fu in questo periodo che strinse una profonda e duratura amicizia con il compositore norvegese Edvard Grieg.

La carriera di virtuosa e compositrice
Prima ancora di terminare gli studi, Maier era già un’affermata concertista e una compositrice promettente. Tra il 1876 e il 1880 intraprese tre grandi tour concertistici che la portarono a esibirsi in tutta la Scandinavia, suonando anche alla presenza del re Oscar II di Svezia. Il suo talento compositivo emerse con forza nel 1875, quando presentò il Concerto per violino e orchestra in re minore: l’opera fu eseguita per la prima volta ad Halle e successivamente a Lipsia nel 1876, dove l’autrice suonò con la celebre Orchestra del Gewandhaus diretta da Carl Reinecke, imbracciando per l’occasione un prezioso violino Stradivari. Un altro lavoro di pregio, la Sonata per violino e pianoforte in si minore, fu pubblicata nel 1878: quando le furono suggerite delle modifiche, Maier dimostrò di aver raggiunto la piena maturità artistica rifiutandosi di alterare la propria visione originale: l’opera fu dunque stampata così come l’autrice l’aveva concepita.

Vita familiare e la musica tra le mura domestiche
Nel 1880 Amanda Maier sposò il pianista e compositore Julius Röntgen, figlio del suo insegnante di violino. La coppia si stabilì ad Amsterdam ed ebbe due figli, Julius e Engelbert, che diventeranno entrambi musicisti professionisti sotto la guida della madre. Dopo il matrimonio, la sua carriera pubblica si interruppe quasi del tutto, come imponevano le convenzioni dell’epoca. Tuttavia, la musica non abbandonò mai la sua vita: la casa dei Röntgen divenne un vivace salotto musicale, un punto d’incontro per alcuni dei più grandi musicisti del tempo, tra cui Johannes Brahms, Clara Schumann, Anton Rubinštejn e Edvard Grieg. Amanda suonava frequentemente in privato con il marito, ma si esibiva raramente nei concerti di musica da camera organizzati nella sua abitazione.

Gli ultimi anni e il testamento musicale
Dopo la nascita del secondo figlio, la salute della musicista declinò. Nel 1887 Amanda Röntgen-Maier si ammalò di pleurite, cosa che la costrinse a lunghi periodi di riposo e a viaggi in cerca di cure; si recò fra l’altro a Nizza e a Davos. Nonostante la malattia, non smise mai di comporre e suonare. Proprio durante questo difficile periodo creò il suo ultimo grande capolavoro, il Quartetto con pianoforte in mi minore, completato nel 1891. Quest’opera, di respiro internazionale e profondamente influenzata da Brahms, è considerata una delle sue composizioni più mature e complesse; fu eseguito postumo. Amanda Röntgen-Maier morì serenamente nel 1894, poche ore dopo aver tenuto lezione ai suoi figli.

Le opere principali
Parte della produzione di Amanda Röntgen-Maier è andata perduta, ma le opere sopravvissute testimoniano il suo grande valore artistico.
– La Sonata per violino e pianoforte (1878) è un’opera ben strutturata e originale, caratterizzata da un primo movimento energico, un secondo movimento cantabile e un finale tecnicamente brillante;
– i Sechs Stücke (Sei Pezzi) per violino e pianoforte (1879) sono brani dal carattere intimo e personale che spaziano da dialoghi intensi a ritmi che ricordano la musica popolare ungherese e nordica;
– il Quartetto con pianoforte in mi minore (1891), considerato opera della piena maturità, dimostra una profonda conoscenza della musica da camera del suo tempo. È un lavoro su larga scala, con una timbrica tardo-romantica, melodie che evocano canti popolari e una scrittura complessa e appassionata.

Coda: un’eredità riscoperta
L’amicizia con Edvard Grieg durò tutta la vita; dopo la morte di lei, il compositore norvegese scrisse «Era una delle mie preferite». Nonostante il suo immenso talento, il nome della musicista svedese cadde nell’oblio per quasi un secolo, ma venne finalmente riscoperto negli anni 1990. Le sue opere rivelano una compositrice di considerevole statura artistica, pienamente paragonabile a quella dei suoi celebri contemporanei, offrendoci il ritratto di un potenziale straordinario, solo parzialmente espresso a causa dei limiti imposti al suo ruolo di donna e madre.

Il Concerto per violino e orchestra in re minore: analisi
Questa composizione, una delle gemme dimenticate del repertorio romantico, risale al 1875, quando l’autrice aveva solo 22 anni; ci è pervenuto un unico, ma formidabile movimento, l’Allegro risoluto. Anche se incompleta, questa composizione dimostra una maturità, una padronanza della forma e una profondità emotiva che la pongono al livello dei grandi concerti violinistici della sua epoca, come quelli di Brahms e Bruch, dai quali trae evidente ispirazione pur mantenendo una voce personale e distintiva.

Il lavoro si apre senza preamboli, con un accordo potente e drammatico in re minore affidato all’orchestra intera. L’introduzione è breve ma densa di significato: non è una semplice preparazione, ma una vera e propria dichiarazione di intenti. I ritmi puntati, le linee discendenti e l’orchestrazione piena, con ottoni e timpani in evidenza, stabiliscono immediatamente un’atmosfera tesa, eroica e passionale, tipica del tardo Romanticismo di scuola tedesca.
L’entrata del violino solista è altrettanto risoluta e virtuosistica: anziché presentare una melodia cantabile, Maier fa entrare il solista con una serie di arpeggi e corde doppie impetuose, che si slanciano verso l’alto per poi ridiscendere con forza. Questa non è un’entrata lirica, ma un’affermazione di potenza.
Il primo tema vero e proprio, introdotto dal violino, è angolare, agitato e ritmicamente incalzante. È costruito su frammenti che l’orchestra riprende e commenta, creando un dialogo serrato e drammatico. La scrittura per il solista è immediatamente impegnativa, richiedendo agilità, precisione e un suono robusto per non essere sopraffatto dalla massa orchestrale. Questa sezione è caratterizzata da una forte instabilità emotiva, che oscilla tra la passione e l’urgenza.
Dopo una breve transizione orchestrale modulante, il clima cambia radicalmente: come da manuale della forma sonata, si passa alla tonalità relativa maggiore, fa maggiore. Il secondo tema è un’oasi di lirismo e calore. Il violino solista introduce una melodia cantabile, dolce e profondamente romantica, che si dispiega con grande ampiezza.
L’orchestrazione qui si fa più rarefatta e delicata: i legni dialogano teneramente con il solista, mentre gli archi forniscono un tappeto sonoro morbido e avvolgente. Questa melodia, ricca di pathos, offre un contrasto perfetto con l’irruenza del primo tema e permette al violinista di mostrare un lato più intimo e espressivo del suo strumento. La sezione si conclude con una breve codetta che riprende un po’ di energia, preparando il terreno per lo sviluppo.
Quest’ultimo è la sezione più complessa e drammatica del movimento: Maier dimostra qui la sua straordinaria abilità nel manipolare il materiale tematico. Lo sviluppo inizia con l’orchestra che riprende frammenti del primo tema in un’atmosfera tempestosa. Il violino rientra con una serie di passaggi virtuosistici mozzafiato: scale velocissime, arpeggi spezzati e un uso intenso del registro acuto, quasi a rappresentare una lotta contro le forze orchestrali.
Segue un momento di straordinaria bellezza e introspezione: la tempesta si placa e il violino, accompagnato da un’orchestra sommessa, elabora frammenti del secondo tema in tonalità minori, conferendogli un carattere malinconico e quasi nostalgico. La tensione ricomincia a salire. Solista e orchestra si scambiano frammenti tematici in un crescendo continuo, esplorando diverse tonalità e creando un senso di grande instabilità armonica e drammatica. La scrittura diventa sempre più densa e complessa. La sezione di sviluppo si conclude con una nuova transizione, nella quale l’orchestra, con i corni in primo piano, costruisce una suspense quasi insopportabile, preparando il ritorno trionfale del tema principale.
Il primo tema ritorna con tutta la sua forza originaria, presentato dal tutti orchestrale nella tonalità d’impianto. L’effetto è quello di un ritorno a casa catartico dopo la tempesta dello sviluppo. Il violino solista riprende il tema con rinnovato vigore, quasi a suggellare la vittoria dopo la lotta. Il secondo tema non viene riproposto nella relativa maggiore, ma nella tonalità parallela (re maggiore). Questa scelta tonale trasforma il carattere della melodia: da calda e romantica, diventa radiosa, luminosa e trionfale. L’orchestrazione è brillante e solenne, e accompagna il canto del violino verso il culmine emotivo che precede la cadenza.
L’orchestra si ferma su un accordo sospeso, lasciando il palcoscenico interamente al violino solista per una cadenza virtuosistica e ben strutturata. Non si tratta di un mero sfoggio tecnico, ma di una vera e propria sintesi del materiale del movimento. Maier intreccia frammenti riconoscibili sia del primo tema (con le sue corde doppie e i suoi ritmi incalzanti) sia del secondo tema (trasformato in passaggi più lirici), il tutto arricchito da una panoplia di difficoltà tecniche:
– arpeggi su quattro corde;
– corde doppie e triple complesse;
– trilli prolungati e passaggi di agilità estrema.
Dopo la cadenza, l’orchestra rientra con intensità, riprendendo il materiale del primo tema in re maggiore. La coda è veloce, energica e decisamente affermativa. Il violino si lancia in un’ultima serie di passaggi brillanti, dialogando con l’orchestra in un crescendo finale che porta il movimento a una conclusione eroica e inequivocabilmente vittoriosa. Gli ultimi accordi, potenti e decisi, sigillano l’opera in un tripudio sonoro.

Il Concerto per violino orchestra in re minore di Amanda Röntgen-Maier sorprende per la sua architettura solida, l’equilibrio tra momenti di dramma intenso e lirismo struggente e la scrittura violinistica tanto impegnativa quanto idiomatica. Il ruolo del solista è eroico, richiedendo un interprete di altissimo livello tecnico e di grande sensibilità musicale. L’orchestra non si limita a fornire un mero accompagnamento, ma è un vero e proprio co-protagonista, in un dialogo costante e fecondo con il violino.
Possiamo a buon diritto affermare che, pur se incompleto, questo brano costituisce una testimonianza folgorante del genio di una compositrice straordinaria che merita di essere riscoperta ed eseguita molto più frequentemente.

Andante desolato

Antonio Veretti (1900 - 13 luglio 1978): Concerto per pianoforte e orchestra (1949). Sergio Perticaroli, pianoforte; Orchestra sinfonica della Rai di Torino, dir. Mario Rossi.

  1. Lento misterioso [0:17]
  2. Allegro appassionato e impetuoso [3:31]
  3. Andante desolato [14:42]
  4. Allegretto estroso [19:17]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Antonio Veretti: un viaggio musicale tra neoclassicismo, dodecafonia e impegno civile

Veretti è stato un compositore dal percorso artistico complesso e sfaccettato che ha attraversato le principali correnti musicali del Novecento – dal neoclassicismo alla dodecafonia – passando per un profondo legame con la tradizione e un significativo impegno nel panorama culturale del suo tempo.

Gli inizi e la formazione
Nato a Verona, Antonio Veretti intraprese gli studi musicali nella sua città natale, per poi perfezionarsi al Liceo musicale di Bologna sotto la guida di Guglielmo Mattioli e Franco Alfano, conseguendo il diploma in composizione nel 1921. I suoi primi lavori di rilievo, come le raccolte di brani per voce e pianoforte Tre Liriche e il Cantico dei cantici, rivelarono presto il suo talento, tanto da attirare l’attenzione del critico Giannotto Bastianelli che ne intuì la vocazione per il teatro musicale.

L’adesione al neoclassicismo e le prime opere teatrali
Dopo il diploma, Veretti si allontanò dall’influenza di Alfano per avvicinarsi allo stile di Ildebrando Pizzetti e abbracciare gli ideali di ritorno alla classicità promossi dalla rivista letteraria “La Ronda”. Questo orientamento si concretizzò nella sua prima opera teatrale, Il medico volante (1923-24), su libretto dell’amico Riccardo Bacchelli. Quest’opera, sebbene mai rappresentata, segnò la sua piena adesione allo stile neoclassico e ottenne un riconoscimento nel 1928, vincendo ex aequo un concorso indetto dal quotidiano “Il Secolo-Sera”.

Il periodo milanese e la svolta eclettica
Trasferitosi a Milano nel 1926, Veretti lavorò come critico musicale per la “Fiera letteraria” e si esibì come pianista. In questi anni, la sua produzione si arricchì di nuove composizioni da camera e del suo primo importante lavoro sinfonico, la Sinfonia italiana (1929), dedicata a Benito Mussolini. Il suo percorso teatrale proseguì con Il favorito del re (1930), opera rappresentata alla Scala di Milano nel 1932. Questo lavoro segnò un netto distacco dal neoclassicismo, proponendo uno stile eclettico che fondeva elementi antichi, accenni jazz e blues e melodie popolari, suscitando reazioni contrastanti nel pubblico.

L’impegno a Roma e la musica per il cinema
Nel 1933 Veretti si stabilì a Roma, dove fondò e diresse l’Accademia di musica della Gioventù italiana del littorio. Durante questo periodo, divenne membro di prestigiose istituzioni come l’Accademia di Santa Cecilia e compose opere significative come il balletto Il galante tiratore e l’azione mimo-sinfonica Una favola di Andersen. Parallelamente, si dedicò con successo alla musica per film, collaborando in particolare con il regista Augusto Genina per pellicole come Squadrone bianco (1936) e Bengasi (1942).

La svolta religiosa e l’avvicinamento alla dodecafonia
Gli anni della guerra videro un orientamento della sua produzione verso composizioni di ispirazione religiosa, come l’oratorio Il figliuol prodigo (1942) e la Sinfonia sacra (1947). Successivamente, Veretti si accostò gradualmente alla tecnica dodecafonica, inizialmente in modo parziale in opere come il Concerto per pianoforte e orchestra (1949), per poi adottarla come principio compositivo fondamentale in lavori come l’Ouverture della campana (1952). La sua dodecafonia si caratterizzò per la ricerca di un equilibrio tra il rigore formale e l’espressività tradizionale, in modo simile a quanto fatto da Luigi Dallapiccola.

Gli ultimi anni e l’eredità
Negli anni Cinquanta e Sessanta, Veretti ricoprì importanti incarichi come direttore dei conservatori di Pesaro, Cagliari e Firenze. In questo periodo compose capolavori come I sette peccati (1956), un mistero musicale coreografico basato su una serie dodecafonica che elabora i vizi capitali. Continuò a comporre opere dodecafoniche di rilievo, come le Elegie (1964) e la Prière pour demander une étoile (1967), mostrando una crescente influenza dello stile di Anton Webern. Sebbene oggi le sue musiche siano eseguite raramente, egli è considerato uno dei maggiori esponenti della “generazione di mezzo”, capace di fare da ponte tra l’eredità della “generazione dell’Ottanta” e le nuove frontiere dell’idioma dodecafonico.

Il Concerto per pianoforte e orchestra di Veretti: analisi
Opera di grande fascino e complessità, getta un ponte tra la tradizione e le nascenti avanguardie del secondo dopoguerra.

Il primo movimento si apre in un’atmosfera sospesa e cupa, introdotta da un dialogo sommesso tra il pianoforte e gli archi gravi. Il solista esplora le profondità della tastiera con accordi scuri e arpeggi lenti, creando un senso di attesa e di mistero. L’orchestra interviene con brevi frasi frammentate, quasi dei sussurri, che accentuano l’inquietudine generale. La scrittura pianistica si fa via via più densa e virtuosistica, con scale cromatiche ascendenti e discendenti che si intrecciano con gli interventi orchestrali. Emerge una melodia malinconica, quasi un lamento, che viene sviluppata e variata nel corso del movimento. Il dialogo tra solista e orchestra si fa più serrato, con momenti di grande tensione drammatica seguiti da improvvisi squarci di lirismo.
Il secondo movimento irrompe con un’energia travolgente: il pianoforte attacca con una serie di accordi martellanti e scale vertiginose, sostenuto da un’orchestra potente e ritmica. Si delinea un tema principale dal carattere eroico e passionale, che viene sviluppato in un crescendo di intensità. La scrittura pianistica è estremamente virtuosistica, con passaggi di grande difficoltà tecnica che mettono in luce le capacità del solista. L’orchestra dialoga costantemente con il pianoforte, ora sostenendolo, ora contrapponendosi con frasi incisive e taglienti. Non mancano momenti di maggiore lirismo, in cui la tensione si allenta per lasciare spazio a melodie più cantabili e sognanti, ma è l’impeto ritmico a dominare l’intero movimento, che si conclude in un finale travolgente e affermativo.
Con il terzo movimento, l’atmosfera cambia radicalmente: il pianoforte introduce una melodia desolata e introspettiva, di una bellezza struggente. L’orchestra interviene con sonorità rarefatte, quasi cameristiche, creando un tappeto sonoro su cui si staglia il canto solitario del solista. La scrittura pianistica è qui più intima e riflessiva, con un’attenzione particolare al timbro e alla cantabilità. Il movimento si sviluppa come un lungo monologo del pianoforte, interrotto da brevi interventi orchestrali che ne amplificano il senso di solitudine e di malinconia.
Il concerto si conclude con un finale brillante e ricco di inventiva: il pianoforte attacca con un tema vivace e giocoso, dal ritmo saltellante, che viene subito ripreso dall’orchestra. Il movimento è caratterizzato da un continuo alternarsi di episodi brillanti e virtuosistici e momenti più lirici e cantabili. La scrittura pianistica è di nuovo estremamente virtuosistica, con scale, arpeggi e passaggi di bravura che esaltano le doti del solista. L’orchestra partecipa attivamente a questo gioco di contrasti, dialogando con il pianoforte in un crescendo di energia e di vitalità. La conclusione è un’esplosione di gioia, ottimismo e trionfo.

Concerto ostinato

Yasushi Akutagawa (12 luglio 1925 - 1989): Concerto ostinato per violoncello e orchestra (1969). Ken-Ichiro Yasuda, violoncello; New Symphony Orchestra of London, dir. Shigenobu Yamaoka.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Yasushi Akutagawa: l’eredità ritmica di un gigante della musica giapponese

Il compositore e direttore d’orchestra Yasushi Akutagawa ha lasciato un’impronta indelebile sulla scena musicale giapponese, bilanciando un’eredità familiare illustre con una visione artistica unica e innovativa.

Una vita tra arte e storia
Nato a Tо̄kyо̄, terzo figlio del celebre romanziere Ryūnosuke Akutagawa, crebbe in un ambiente ricco di stimoli culturali. Nonostante la tragica morte del padre nel 1927, egli sviluppò una profonda passione per la musica ascoltando la collezione di dischi SP del padre, con una particolare predilezione per Stravinskij. Dopo un inizio difficile negli studi musicali – segnato persino da un rimprovero per essere stato ammesso alla Scuola di musica di Tōkyō con il punteggio più basso – la sua determinazione lo portò a eccellere. Durante la seconda guerra mondiale fu arruolato nella banda militare dell’Accademia militare Toyama, dove si diplomò primo del suo corso. Nel dopoguerra, l’incontro con il compositore Akira Ifukube influenzò profondamente il suo lavoro e la scoperta della vibrante scena musicale sovietica accese in lui un grande interesse. Nel 1950, la sua composizione intitolata Musica per orchestra sinfonica vinse il primo premio a un concorso della NHK, proiettandolo alla ribalta della scena musicale giapponese. Nel 1953 – insieme ai compositori Toshirо̄ Mayuzumi e Ikuma Dan – fondò il Sannin no kai (il Gruppo dei tre) per promuovere le proprie opere orchestrali. L’anno seguente intraprese un audace viaggio clandestino in Unione sovietica, dove ebbe modo di incontrare fra gli altri Šostakovič e Chačaturjan, riuscendo anche a far eseguire e pubblicare proprie composizioni.

Innovazione, direzione e ispirazioni globali
Nel 1956 Akutagawa fondò la Nuova orchestra sinfonica (Shin kо̄kyо̄ gakudan), che poi diresse gratuitamente per il resto della propria vita. Un viaggio in India nel 1957 e la visita al tempio di Kailasa nelle grotte di Ellora lo colpirono profondamente, ispirandogli una delle sue opere più rappresentative, la Sinfonia Ellora. Quest’opera segnò anche l’inizio di una fase più contemplativa e minimalista nel suo stile, definita da lui stesso «teoria della composizione negativa». Questo periodo di sperimentazione avanguardistica lo portò a esplorare il post-webernismo e l’estetica del ma (lo spazio negativo) giapponese, come nella sua Musica per archi n. 1, dedicata a Tо̄ru Takemitsu. Tuttavia, verso la fine degli anni ’60, incoraggiato dal collega Teizо̄ Matsumura, ritornò a uno stile che metteva nuovamente in primo piano il suo amato ostinato, come si evince in opere quali Concerto ostinato per violoncello e orchestra.

La figura pubblica, l’impegno e gli ultimi anni
Oltre che per la sua attività compositiva, Akutagawa divenne noto al grande pubblico grazie alla partecipazione come presentatore a programmi televisivi e radiofonici, tra cui il popolare show della NHK Ongaku no hiroba (La piazza della musica), al fianco di Tetsuko Kuroyanagi. La personalità carismatica e il modo di parlare chiaro e pacato lo resero molto amato. Fu anche una figura attiva nel sociale, impegnandosi per la tutela del diritto d’autore come presidente della JASRAC (Società giapponese per i diritti di autori, compositori ed editori), un impegno nato anche dalla sua esperienza personale di difficoltà economiche dopo l’interruzione dei proventi dai diritti d’autore del padre. La sua vita fu stroncata da un cancro ai polmoni nel 1989, all’età di 63 anni. La sua ultima opera, un brano corale intitolato Inochi (Vita), fu completata da un suo allievo e presentata per la prima volta durante un concerto commemorativo in suo onore. In sua memoria, nel 1990 è stato istituito il prestigioso Premio «Akutagawa» per la composizione.

L’evoluzione di uno stile unico
Lo stile compositivo di Akutagawa può essere suddiviso in tre periodi distinti. Il primo, successivo al diploma presso la Scuola di musica di Tōkyō, è caratterizzato da melodie e ritmi vivaci e accattivanti. In una seconda fase, egli si orientò verso uno stile avanguardistico, eliminando gli elementi precedenti per incorporare sonorità più statiche e rarefatte. Nel terzo periodo, infine, fuse la vivacità ritmica degli esordi con le sperimentazioni del secondo periodo, creando un universo sonoro nuovo e complesso. Un elemento comune a tutta la sua produzione è l’uso dell’ostinato: Akutagawa sosteneva infatti che «la musica senza ritmo muore», considerandolo l’essenza stessa della sua arte. Deve la propria celebrità, fra l’altro, alle colonne sonore di film come Hakkōda-san e Il villaggio delle otto tombe, al tema del dramma Akō Rōshi e alle canzoni per bambini, come La canzone degli uccellini.

L’uomo dietro la musica
Conosciuto per il suo carattere solare, tanto che una nipote lo soprannominò «zio brezza primaverile», Akutagawa confessò di avere in realtà una natura incline a riflessioni profonde e complesse, in netto contrasto con la vivacità della sua musica. Visse un rapporto complesso con l’ingombrante figura paterna, sentendo per anni il peso di essere «il terzo figlio del grande scrittore». Si sposò tre volte: con Saori Yamada, dalla quale ebbe due figlie (tra cui la nota presentatrice Mamiko Akutagawa), con l’attrice Mitsuko Kusabue e, infine, con la compositrice Masumi Egawa, dalla quale ebbe un figlio, Takayuki.

Concerto ostinato: analisi
Si tratta un’opera drammatica, tesa e pervasa da un senso di conflitto ineluttabile. La musica, fin dalle prime note, traduce questa lotta in un linguaggio sonoro moderno e viscerale, dove il violoncello solista si erge come protagonista di un duello implacabile contro la massa orchestrale.

L’inizio è affidato a un’atmosfera cupa e carica di presagio, con l’orchestra che introduce accordi gravi e dissonanti, creando un paesaggio sonoro scarno ma denso di tensione. Su questo sfondo emerge la voce del violoncello solista: la sua linea melodica iniziale è lamentosa, quasi un recitativo angosciato che esplora il registro grave dello strumento. Non c’è virtuosismo fine a sé stesso e ogni nota sembra pesata, carica di un’espressività cruda che stabilisce immediatamente il carattere serio e drammatico dell’intera composizione. Dopo la desolata introduzione, l’orchestra scatena una figura ritmica insistente, quasi motoria, che funge da fondamento inarrestabile per gran parte del pezzo. Questo ostinato non è un semplice accompagnamento, ma una forza primordiale, quasi un destino contro cui il violoncello è costretto a battersi.
Il rapporto tra solista e orchestra si sviluppa come un vero e proprio scontro: a tratti, il violoncello tenta di sovrastare la pulsazione orchestrale con passaggi di grande aggressività e virtuosismo tecnico, lanciandosi in scale rapide e arpeggi violenti. In altri momenti, la sua voce si trasforma in un canto lirico e dolente, una melodia struggente che si libra al di sopra del ritmo martellante, come un tentativo di trovare un momento di pace in un mondo dominato dal caos. L’orchestrazione di Akutagawa è magistrale nel sottolineare questo conflitto: gli ottoni intervengono con squilli taglienti e minacciosi, mentre le percussioni accentuano i momenti di massima tensione, spingendo il dramma verso picchi di quasi insostenibile intensità.
Successivamente, l’orchestra si placa, lasciando il violoncello completamente solo in una lunga e impegnativa cadenza. Spogliato del suo avversario ritmico, il solista si lancia in un monologo febbrile e introspettivo. La cadenza è un’esplorazione esaustiva delle capacità tecniche ed espressive dello strumento, alternando momenti di quiete quasi sussurrata a esplosioni di violenza sonora, utilizzando registri estremi e passaggi di incredibile difficoltà. È qui che la lotta, prima esterna, diventa interiore, una confessione cruda e senza filtri della solitudine e dell’angoscia del protagonista.
Dopo la cadenza, non si ha una risoluzione catartica ma, al contrario, l’orchestra rientra con una forza rinnovata e l’ostinato ritmico ritorna più implacabile che mai. Solista e orchestra vengono trascinati in una spirale finale di intensità crescente: la musica si accumula in un climax travolgente, una massa sonora compatta e brutale che, invece di sfumare, si conclude con un colpo secco e definitivo. La fine è improvvisa, quasi uno schianto, lasciando l’ascoltatore con un senso di ineluttabilità, come se l’esito della lotta rappresentata fin dall’inizio fosse già stato scritto e non potesse che concludersi in modo così perentorio e tragico.

Largo maestoso – II

Sigismund von Neukomm (10 luglio 1778 - 1858): Grand Concerto in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 12 (1804). Riko Fukuda, pianoforte; Kölner Akademie, dir. Michael Alexander Willens.

  1. Largo maestoso – Allegro non troppo
  2. Larghetto espressivo assai [13:23]
  3. Allegro assai [18:56]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Sigismund von Neukomm, compositore-viaggiatore tra due epoche

Sigismund Ritter von Neukomm fu una delle figure più poliedriche e cosmopolite della musica a cavallo tra il Classicismo e il Romanticismo. Compositore, pianista virtuoso, direttore d’orchestra, diplomatico e massone, la sua vita fu un incessante viaggio attraverso le corti e i salotti culturali d’Europa e del Nuovo Mondo. La sua influenza, un tempo considerevole, è oggi quasi dimenticata, ma la sua storia rivela un artista profondamente connesso ai grandi maestri del suo tempo e ai tumultuosi eventi storici che ne definirono l’epoca, tanto da attirare persino i sospetti di spionaggio del cancelliere Metternich.

Formazione e l’ombra dei grandi maestri a Vienna
Nato a Salisburgo, Neukomm dimostrò un talento prodigioso fin dall’infanzia: a quattro anni sapeva già leggere e a cinque scrivere. La sua formazione musicale iniziò presto sotto la guida dell’organista del duomo Franz Xaver Weissauer e, in seguito, per la teoria e l’armonia, con Michael Haydn, la cui moglie era imparentata con la madre di Neukomm. A soli 16 anni, divenne organista titolare presso la chiesa dell’Università di Salisburgo. Il punto di svolta della sua carriera avvenne nel 1797, quando, su raccomandazione di Michael Haydn, si trasferì a Vienna per studiare con il leggendario Joseph Haydn. Il rapporto tra i due divenne presto molto più di quello tra maestro e allievo: Haydn, riconoscendo le eccezionali capacità del giovane, gli affidò compiti di cruciale importanza, come la stesura delle riduzioni per pianoforte dei suoi grandi oratori La creazione e Le stagioni, l’arrangiamento dell’oratorio Il ritorno di Tobia e la trascrizione di numerose canzoni scozzesi. Nei suoi ultimi anni, Haydn trovò in Neukomm un amico devoto che lo visitava quotidianamente e che, a testimonianza di questa profonda stima, fece erigere la lapide sulla prima tomba di Haydn, incidendovi un canone enigmatico a cinque voci basato sulle parole di Orazio Non omnis moriar (Non morirò del tutto). Durante i suoi sette anni a Vienna, Neukomm fu anche un apprezzato insegnante di pianoforte e canto, annoverando tra i suoi allievi la celebre soprano Anna Milder-Hauptmann e Franz Xaver Wolfgang Mozart, il figlio minore di Wolfgang Amadeus.

Un ambasciatore della musica in Europa e nel mondo
La vita di Neukomm fu caratterizzata da un nomadismo quasi perpetuo: lasciata Vienna nel 1804, fu direttore d’orchestra a San Pietroburgo fino al 1809. Successivamente, si trasferì a Parigi, dove divenne pianista personale del potente ministro Talleyrand e strinse amicizia con compositori come Grétry e Cherubini. La sua avventura più esotica iniziò tuttavia nel 1816, quando si recò a Rio de Janeiro al seguito del duca di Lussemburgo. Lì divenne maestro di cappella alla corte dell’imperatore Giovanni VI del Portogallo, rimanendovi fino al 1821. Il suo contributo alla vita musicale brasiliana fu tale che, nel 1945, l’Academia Brasileira de Música gli dedicò una cattedra. Dopo il 1820, pur mantenendo Parigi come base principale, intraprese lunghi viaggi in Italia, Svizzera, Paesi Bassi e, soprattutto, in Gran Bretagna. Qui, negli anni ’30 dell’Ottocento, raggiunse l’apice della sua fama. I suoi oratori, come Mount Sinai e David (quest’ultimo composto appositamente per il Festival di Birmingham del 1834), ottennero un successo strepitoso. Tuttavia, la sua popolarità fu rapidamente eclissata da quella del suo amico Felix Mendelssohn, il cui oratorio Paulus trionfò al festival del 1837.

Opere, eredità e riconoscimenti
La sua produzione musicale è monumentale, annoverando oltre 1300 composizioni, tra le quali si ricordano 10 opere, 8 oratori, 48 messe, circa 200 Lieder, 2 sinfonie e una vasta quantità di musica da camera, per pianoforte e per organo. La sua musica era spesso legata a grandi eventi storici: sue composizioni risuonarono durante l’ingresso solenne del re Luigi XVIII a Parigi dopo la caduta di Napoleone e, soprattutto, durante la cerimonia funebre per Luigi XVI tenutasi a Vienna durante il Congresso del 1815. Per quest’ultima occasione, commissionata da Talleyrand, compose il suo celebre Requiem in do minore, che gli valse da parte del re di Francia il titolo di cavaliere della Legion d’Onore, onorificenza che Neukomm esibì con orgoglio per il resto della sua vita. Profondamente devoto ai suoi predecessori, Neukomm non si limitò a onorare Haydn: grande ammiratore di Mozart, che non conobbe mai di persona, compose un responsorio, Libera me, per completare il Requiem mozartiano in occasione della sua prima esecuzione a Rio de Janeiro. Nel 1842 ebbe anche un ruolo di primo piano durante l’inaugurazione del monumento a Mozart a Salisburgo, tenendo il discorso celebrativo e dirigendo la Messa dell’Incoronazione e il Requiem.

Gli ultimi anni e l’oblio
Neukomm continuò a viaggiare instancabilmente fino alla fine, dividendo il suo tempo principalmente tra Londra e Parigi. Morì nella capitale francese il 3 aprile 1858, all’età di 79 anni, e fu sepolto nel cimitero di Montmartre. Nonostante la sua enorme produzione e la fama internazionale di cui godette in vita, la sua musica, radicata nella tradizione classica ma con chiare aperture innovative verso il Romanticismo, cadde presto nell’oblio. La sua figura rimane quella di un testimone e protagonista eccezionale di un’epoca di profonde trasformazioni, un ponte musicale tra due mondi e due secoli.

Il Grand Concerto in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 12: analisi
Questo lavoro si colloca perfettamente nel crocevia tra il Classicismo maturo e il primo Romanticismo. Essendo stato allievo prediletto di Joseph Haydn e contemporaneo dell’ascesa di Beethoven, Neukomm assorbì la lezione formale e la chiarezza strutturale dei suoi maestri, infondendole però con un’energia drammatica, una libertà espressiva e un virtuosismo pianistico che guardano decisamente al nuovo secolo. Quale Grand Concerto, la composizione ambisce a una monumentalità e a una ricchezza sonora che la distinguono dai modelli più contenuti del Settecento.

Il primo movimento segue la tradizionale forma-sonata con doppia esposizione, tipica del concerto classico, ma preceduta da un’introduzione lenta e imponente che definisce fin da subito un carattere grandioso e un’atmosfera drammatica e solenne. L’orchestra attacca con accordi potenti e ritmi puntati, creando un’atmosfera di attesa quasi tragica che ricorda da vicino l’inizio delle sinfonie di Haydn (come la n. 104, Londra) o del Quinto Concerto op. 73, Imperatore, di Beethoven. Successivamente, il pianoforte fa il suo ingresso con una serie di arpeggi e scale virtuosistiche, quasi una cadenza improvvisata, che stabilisce immediatamente il suo ruolo di protagonista eroico e passionale. Il dialogo tra gli austeri accordi orchestrali e le fioriture pianistiche prosegue, costruendo una tensione che si risolve magistralmente nell’Allegro non troppo. L’orchestra introduce il primo tema, un motivo energico e marziale in do maggiore, dal carattere positivo e affermativo, pienamente nello stile classico. Segue una transizione che conduce al secondo tema in sol maggiore (la dominante), più cantabile e delicato, affidato principalmente agli archi e ai legni.
Il pianoforte riprende il primo tema, non limitandosi a ripeterlo ma arricchendolo con brillanti ornamentazioni e passaggi di bravura. La scrittura pianistica è densa e tecnicamente impegnativa, con scale, arpeggi e ottave spezzate che riempiono lo spazio tra le frasi tematiche. Il pianoforte presenta la sua versione del secondo tema, rendendolo ancora più intimo ed espressivo. Segue una sezione caratterizzata da maggiore instabilità armonica e drammaticità: Neukomm esplora frammenti dei temi principali, trasponendoli in tonalità minori e creando un intenso dialogo tra il solista e l’orchestra. Il virtuosismo pianistico si fa qui ancora più audace, con passaggi tempestosi che esprimono un’inquietudine tipicamente protoromantica. L’orchestra e il pianoforte riaffermano con forza i temi principali nella tonalità d’impianto. Lasciato solo, il pianoforte si lancia in una cadenza estesa e complessa: basandosi sui temi del movimento, il solista esplora tutte le potenzialità tecniche ed espressive dello strumento, alternando momenti di lirismo a passaggi di straordinaria agilità. Il lungo trillo finale annuncia il ritorno dell’orchestra. Il movimento si conclude con una coda brillante e trionfale, in cui l’orchestra e il pianoforte sigillano l’atmosfera affermativa del do maggiore.
Il secondo movimento è un’oasi di lirismo e introspezione, come suggerisce la sua indicazione agogica. La tonalità si sposta a la bemolle maggiore, una tonalità calda e distante da quella del primo movimento. Il pianoforte introduce da solo il tema principale, una melodia cantabile, intima e riccamente ornata, che ricorda un’aria operistica per la sua grazia e il suo pathos. L’orchestrazione è delicata, con gli archi che forniscono un tappeto sonoro discreto e i legni che dialogano dolcemente con il solista. Il movimento evolve verso una sezione centrale più inquieta e modulante, con la musica che si tinge di colori più scuri e con passaggi in tonalità minori che creano un contrasto drammatico con la serenità iniziale. La scrittura pianistica si fa più densa e appassionata. Il tema principale ritorna, ancora più abbellito e trasfigurato dall’esperienza della sezione centrale. Il dialogo tra pianoforte e orchestra si intensifica, raggiungendo un culmine espressivo prima di dissolversi in una coda tranquilla e sognante, che chiude il movimento in un’atmosfera di pace contemplativa.
Il finale è un rondò brillante e pieno di slancio, che conclude il concerto con energia e virtuosismo. Il pianoforte espone immediatamente il tema principale, un motivo vivace, danzante e scherzoso in do maggiore, caratterizzato da un ritmo saltellante e da una scrittura pianistica scintillante. Il primo episodio, invece, introduce un’idea musicale più lirica e modulante. Dopo il ritornello, il secondo episodio rappresenta il cuore del movimento: la musica si sposta in la minore e assume un carattere “alla turca” o zingaresco, un elemento esotico molto in voga all’epoca. Questa sezione è ritmicamente incisiva e armonicamente audace, creando un forte contrasto con la gaiezza del tema principale. Dopo l’ultimo ritorno del tema principale, il movimento si lancia in una coda travolgente: il tempo accelera progressivamente e il dialogo tra pianoforte e orchestra diventa un turbine di scale, arpeggi e passaggi virtuosistici che spingono la musica verso una conclusione trionfale, enfatica e piena di luce.

Concerto per oboe – XV

Giovanni Benedetto Platti (9 luglio 1697 [forse] - 1763): Concerto in sol minore per oboe e orchestra. Alfredo Bernardini, oboe; Bremer Barockorchester.

  1. Allegro
  2. Largo [3:53]
  3. Allegro [8:44]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Giovanni Benedetto Platti: l’innovatore dimenticato, tra Venezia e Würzburg

Figura poliedrica e di grande raffinatezza, Platti rappresenta un importante ponte tra la tradizione musicale barocca italiana e il nascente stile classico in terra tedesca. Musicista eclettico e compositore pionieristico, la sua carriera si snoda tra la vivace scena musicale veneziana e la prestigiosa corte dei principi-vescovi di Würzburg, lasciando un’eredità che, sebbene a lungo trascurata, è oggi oggetto di una meritata riscoperta.

Origini incerte e formazione a Venezia
Le esatte coordinate biografiche della giovinezza di Platti rimangono avvolte nell’incertezza. Sebbene una tradizione, basata su una lettera di dubbia autenticità, fissi la sua nascita a Padova il 9 luglio 1697, fonti più concrete, come il suo atto di morte registrato a Würzburg l’11 gennaio 1763, lo indicano come sessantaquattrenne, suggerendo quindi una nascita intorno al 1699. Indipendentemente dal luogo e dalla data precisi, il suo percorso formativo è saldamente ancorato a Venezia: è qui che il padre, Carlo Platti, lavorava come suonatore di violetta nella cappella della Basilica di San Marco. Il giovane Giovanni Benedetto ebbe la fortuna di studiare con un maestro del calibro di Francesco Gasparini e, già nel 1711, il suo nome compare nei registri dell’Arte de’ sonadori – la corporazione dei musicisti veneziani – a testimonianza di un talento precoce e riconosciuto.

Una vita alla corte di Franconia: il sodalizio con gli Schönborn
Come molti talenti italiani dell’epoca, Platti cercò fortuna oltralpe. La svolta avvenne il 2 aprile 1722, quando fu assunto nella cappella di corte del principe-vescovo di Würzburg, Johann Philipp Franz von Schönborn. Iniziò la sua carriera come oboista e violinista, ma le sue straordinarie capacità lo portarono a diventare una figura di spicco e insostituibile per oltre quarant’anni, al servizio di ben sei principi vescovi. La sua versatilità era eccezionale: fu virtuoso di violoncello e clavicembalo, ma anche tenore e apprezzato maestro di canto. A Würzburg costruì anche la propria famiglia: nel 1723 sposò la soprano di corte Maria Theresia Lambrucker (o Langsprücker), dalla quale ebbe dieci figli. La sua carriera fu profondamente legata alla famiglia Schönborn, che ne plasmò il percorso artistico in tre modi determinanti:
– Johann Philipp Franz von Schönborn fu colui che lo chiamò a corte, intuendone il potenziale;
– suo fratello e successore, Friedrich Carl von Schönborn, ne ampliò le mansioni nominandolo cantante e maestro di canto, facendolo talvolta spostare con la cappella nella seconda sede arcivescovile di Bamberga;
– un ruolo cruciale fu giocato dal terzo fratello, il conte e diplomatico Rudolf Franz Erwein von Schönborn: appassionato melomane e provetto violoncellista dilettante, egli divenne il principale committente di Platti. Per lui, che risiedeva nel palazzo di Wiesentheid, il compositore scrisse il nucleo più significativo della propria produzione strumentale, oggi conservato proprio in quella residenza.

La produzione musicale: un corpus vario e innovativo
Il corpus delle composizioni di Platti, sebbene non vastissimo, è di notevole qualità e importanza storica. Si può suddividere in tre categorie principali:
– la musica per il conte di Wiesentheid: per il suo mecenate Rudolf Franz Erwein, Platti compose una sessantina di opere (pervenute manoscritte), tra cui spiccano 28 Concerti con violoncello obbligato, oltre 20 Sonate a tre con il violoncello in ruolo melodico (una formazione piuttosto inusuale), Duetti per violino e violoncello, e 12 Sonate per violoncello solo;
– le opere a stampa: la fama di Platti in Europa fu assicurata dalla pubblicazione a Norimberga, tra il 1742 e il 1746, di quattro raccolte di pregio per l’editore Ulrich Haffner. Queste includono le Sonates pour le clavessin sur le goût italien op. 1, le Sonate a flauto traversiere solo op. 3 e le Sonate per cembalo solo op. 4. Purtroppo, i Concerti a cembalo obligato op. 2 risultano oggi perduti;
– la musica sacra e vocale: per la corte di Würzburg compose anche musica sacra (4 Messe, un Requiem, uno Stabat Mater, un Miserere) e opere vocali profane, come oratori e applausi festosi, dei quali sfortunatamente oggi rimangono soltanto i libretti.

Stile e rilevanza storica: pioniere della sonata moderna
L’importanza del compositore risiede soprattutto nel suo ruolo di pioniere nello sviluppo delle forme strumentali che avrebbero dominato l’era classica. Fu il suo “moderno scopritore”, il musicologo Fausto Torrefranca, a definirlo il principale ideatore della sonata moderna. Analizzando gli allegri iniziali delle sue sonate per clavicembalo, si nota infatti una struttura già chiaramente bitematica e tripartita, con un’esposizione dei temi, uno sviluppo centrale divagante e una regolare ripresa, anticipando la forma-sonata che sarebbe stata codificata solo più tardi.
Il suo stile è descritto come «disinvolto e mai banale». L’invenzione tematica è accesa e brillante nei tempi veloci, mentre i movimenti lenti si distinguono per un’opulenza armonica e una grande ricchezza melodica, in un perfetto equilibrio tra fluente cantabilità e solida scrittura contrappuntistica. Le sue opere per clavicembalo e violoncello appartengono alla primissima fase di sviluppo di questi generi come repertorio solistico, e le sue originali combinazioni timbriche, come nelle Sonate a tre, dimostrano un’instancabile ricerca sonora.

Concerto in sol minore per oboe e orchestra: analisi
Il suo Concerto in sol minore per oboe e orchestra è un’opera esemplare che si colloca artisticamente al crocevia tra il tardo Barocco e il nascente Stile galante. In esso si fondono la solidità strutturale della forma a ritornello di stampo vivaldiano con una sensibilità melodica e una chiarezza espressiva che anticipano il Classicismo.

Il primo movimento si apre con un’energia drammatica e vigorosa, tipica della tonalità di sol minore. La struttura è quella della forma a ritornello, in cui l’orchestra presenta un tema principale che ritorna, intero o frammentato, a scandire le diverse sezioni solistiche. Il tema d’apertura è incisivo e caratterizzato da un forte impulso ritmico: figure arpeggiate ascendenti e ritmi puntati conferiscono al discorso un carattere deciso e quasi marziale. Armonicamente, il tema stabilisce saldamente la tonalità con chiare cadenze.
L’ingresso dell’oboe segna un netto cambio di carattere: la scrittura solistica è virtuosistica e al contempo lirica. Qui si modula abilmente alla tonalità relativa maggiore, si bemolle maggiore, in cui l’orchestra ripropone una parte del ritornello, come da prassi barocca. La sezione centrale del movimento vede l’oboe impegnato in passaggi ancora più complessi, mentre l’armonia esplora tonalità vicine. È qui che emerge lo Stile galante di Platti: le frasi sono tendenzialmente più brevi e simmetriche rispetto al contrappunto denso del Barocco maturo e l’enfasi è posta su una melodia chiara e orecchiabile, splendidamente sostenuta da un’armonia funzionale e diretta. L’interazione tra solista e orchestra è un dialogo costante: il tutti non si limita a fare da cornice, ma interviene con frammenti del ritornello, creando un discorso dinamico e coeso. Il movimento si conclude con la riaffermazione del ritornello orchestrale nella tonalità d’impianto, chiudendo il cerchio in modo energico e affermativo.
Nel secondo movimento, l’atmosfera cambia radicalmente: abbandonato il dramma del sol minore, Platti si sposta nella luminosa e serena tonalità di mi bemolle maggiore (la sottodominante della relativa maggiore), una scelta armonica che evoca un senso di pace e contemplazione. Questo Largo è concepito come un’aria d’opera strumentale. L’orchestra d’archi, con il delicato pizzicato del continuo, crea un tappeto sonoro discreto e rarefatto, lasciando il palcoscenico interamente al solista. La linea melodica dell’oboe è di una bellezza struggente: si tratta di una lunga e sinuosa cantilena che permette al solista di esprimere il massimo del lirismo. Le armonie sono chiare e funzionali, progettate per sostenere il canto dell’oboe senza mai sopraffarlo. Il movimento si conclude in un clima di serena sospensione, lasciando l’ascoltatore cullato dalla sua dolce malinconia.
Il finale riporta l’energia e la vitalità, ma con un carattere completamente diverso dal primo movimento. Si tratta di un Allegro brillante e spensierato che assume le sembianze di una danza veloce e gioiosa, simile a una giga. Il tema principale, esposto dall’orchestra, è leggero, saltellante e immediatamente memorizzabile. Il suo carattere giocoso e la sua ritmica scattante creano un’atmosfera di festa e buonumore, fungendo da perfetto contrappeso alla gravità del movimento precedente. Anche qui la forma a ritornello organizza il discorso musicale. Gli episodi solistici sono un tripudio di virtuosismo brillante: scale veloci, arpeggi spezzati e passaggi agili si susseguono senza sosta. Questa è forse la parte più “moderna” del concerto, dove lo Stile galante si manifesta in tutta la sua chiarezza: le frasi brevi e ripetute, la trama orchestrale leggera e l’assoluto predominio di una melodia brillante e divertente sono tutti elementi che guardano già verso il Classicismo. L’interazione tra solista e orchestra è vivace e serrata, quasi una gara di abilità e brio. Il Concerto si conclude con un’ultima, scoppiettante affermazione del ritornello.

Fantasie und Kanon + Variationen

 
Giselher Klebe (28 giugno 1925-2009): Concerto per violoncello e orchestra (1956). Arthur Troester, violoncello; NDR-Sinfonieorchester, dir. Jean Martinon.

  1. Fantasie und Kanon
  2. Variationen [9:10]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Giselher Klebe: una vita per la musica – dal palco alla cattedra

Giselher Klebe viene ricordato come un influente compositore tedesco, la cui carriera è stata segnata non solo dalla sua prolifica produzione artistica ma anche da un significativo impegno istituzionale, culminato nella presidenza dell’Akademie der Künste di Berlino dal 1986 al 1989.

Primi anni e formazione musicale itinerante
La sua predisposizione per la musica emerse precocemente grazie agli insegnamenti della madre, la violinista Gertrud Klebe. La sua infanzia fu caratterizzata da diversi spostamenti: nel 1932 la famiglia si trasferì a Monaco, dove Giselher frequentò la scuola privata Schönherr e proseguì lo studio del violino con la zia materna, Melanie Michaelis. Un successivo trasferimento del padre per motivi professionali portò la famiglia a Rostock nel 1936. Nello stesso anno, a seguito della separazione dei genitori, Klebe si trasferì con la madre e la sorella a Berlino. Fu qui che, nel 1938, iniziò a delineare i suoi primi abbozzi compositivi, preludio a studi musicali più formali in violino, viola e composizione, intrapresi nel 1940 con il sostegno della città di Berlino.

Gli anni della Guerra e l’interruzione degli studi
Il percorso formativo di Klebe subì una brusca interruzione a causa della seconda guerra mondiale. Dopo aver adempiuto all’obbligo del servizio di lavoro (Arbeitsdienstpflicht), nel 1943 fu arruolato come marconista in un’unità di osservazione. La fine del conflitto lo vide prigioniero di guerra sovietico, ma fu rilasciato poco dopo a causa delle sue precarie condizioni di salute.

Ripresa degli studi e inizio carriera nel dopoguerra
Dopo un lungo periodo di convalescenza, Klebe riprese gli studi di composizione nel 1950. Inizialmente frequentò l’Internationale Musikinstitut di Berlino sotto la guida di Josef Rufer, per poi perfezionarsi nella classe magistrale di Boris Blacher. Parallelamente agli studi, ottenne un impiego presso la sezione di musica colta della Berliner Rundfunk (l’allora emittente radiofonica di Berlino) come revisore di nastri e programmatore musicale. Il 10 settembre 1946 sposò la violinista Lore Schiller (1924-2001), dalla quale ebbe due figlie, Sonja Katharina e Annette Marianne.

Dalla libera professione alla cattedra accademica
Alla fine del 1948, Klebe lasciò il suo incarico alla radio per dedicarsi a tempo pieno alla composizione come libero professionista a Berlino. Tuttavia, nel 1957, optò nuovamente per una posizione stabile, succedendo a Wolfgang Fortner come docente di composizione e teoria musicale presso la Nordwestdeutsche Musikakademie di Detmold. Qui, nel 1962, fu nominato professore, formando dalla sua classe magistrale numerosi compositori di rilievo. Anche dopo il pensionamento nel 1990, Klebe mantenne uno stretto legame con l’Accademia di Detmold. Morì nel 2009 dopo una grave malattia.

Eredità artistica: un vasto corpus operistico e strumentale
Il lascito compositivo di Klebe è imponente, comprendendo oltre 140 opere. La sua produzione spazia attraverso vari generi: 7 sinfonie, 15 concerti solistici, musica da camera per diverse formazioni, opere pianistiche e lavori di musica sacra. Un posto di rilievo è occupato dalle sue 14 opere liriche, per le quali la moglie Lore Klebe fu frequentemente la librettista. Tra queste si annoverano:
Die Räuber, la sua prima opera, basata sul dramma di Friedrich Schiller, presentata a Düsseldorf nel 1957;
Jacobowsky und der Oberst, commissionata dalla Hamburgische Staatsoper e basata sulla pièce teatrale di Franz Werfel, la cui “prima” ebbe luogo nel novembre 1965;
Die Fastnachtsbeichte, scritta su commissione dello Staatstheater Darmstadt, con libretto redatto insieme a Lore Klebe sulla base del racconto di Carl Zuckmayer, e rappresentata per la prima volta a Darmstadt il 20 dicembre 1983;
Chlestakows Wiederkehr, la sua ultima opera, il cui libretto si ispira alla commedia L’ispettore generale di Nikolaj Gogol’, presentata a Detmold nel 2008.

Concerto per violoncello e orchestra: analisi
Opera significativa del repertorio modernista tedesco del dopoguerra, si articola in due movimenti distinti, ognuno con una propria logica interna e un carattere ben definito, i quali insieme creano un percorso emotivo e intellettuale di grande impatto. L’opera riflette le tendenze compositive dell’epoca, probabilmente influenzate da tecniche seriali e da un linguaggio atonale, ma sempre al servizio di una forte espressività.
Il primo movimento è un affascinante dittico che contrappone la libertà rapsodica della fantasia al rigore strutturale del canone. Il movimento si apre in un’atmosfera cupa e introspettiva. L’orchestra, con i suoi timbri scuri e le armonie tese, crea un paesaggio sonoro misterioso e a tratti inquietante. Il violoncello solista emerge con una melodia lamentosa e lirica, spesso nel registro acuto, che si staglia nettamente contro il fondale orchestrale. Questa sezione iniziale è caratterizzata da un andamento libero, quasi improvvisativo, tipico della forma della fantasia. Il dialogo tra solista e orchestra è serrato: a momenti di lirismo intenso del violoncello si contrappongono interventi orchestrali più frammentati e incisivi, che aumentano la tensione. L’orchestrazione è curata e ricca di sfumature: gli archi forniscono un tessuto denso ma mobile, i fiati (legni e ottoni) intervengono con accenti taglienti o con sonorità più soffuse che arricchiscono la paletta timbrica. La dinamica è ampia, passando da sussurri quasi impercettibili a esplosioni di energia sonora. Il violoncello esplora una vasta gamma di registri e tecniche, dalle melodie cantabili a passaggi più virtuosistici e frammentati, sottolineando la natura emotivamente instabile e ricercatrice della fantasia. C’è un senso di lotta, di interrogazione profonda, che permea questa prima parte. La scrittura armonica è prevalentemente atonale, con dissonanze che contribuiscono all’intensità espressiva, senza però sfociare in un serialismo eccessivamente rigido; piuttosto, sembra una libera atonalità guidata da esigenze espressive.
La transizione verso il canone è preparata da una progressiva diradazione della tessitura e da un cambiamento di carattere. L’elemento canonico non si presenta come un esercizio accademico, ma piuttosto come una tecnica contrappuntistica integrata nel flusso musicale. Si percepiscono linee melodiche che si imitano tra diverse sezioni dell’orchestra e il solista, creando un intreccio polifonico complesso. Il violoncello continua il suo ruolo protagonistico, talvolta partecipando direttamente al gioco canonico, talvolta commentandolo o contrastandolo con materiale melodico più indipendente.
L’atmosfera, pur mantenendo una certa tensione, acquista una maggiore chiarezza strutturale. L’orchestra qui assume un ruolo più attivo nel definire le linee contrappuntistiche, con un uso sapiente dei diversi gruppi strumentali per delineare le voci del canone. La scrittura per il solista rimane impegnativa, con passaggi che richiedono agilità e precisione. Il canone si sviluppa attraverso diverse sezioni, variando in densità e intensità, fino a un progressivo diradarsi della sonorità. Il movimento si conclude in modo sospeso, con il violoncello che si dissolve su note tenute e l’orchestra che svanisce in un pianissimo enigmatico, lasciando l’ascoltatore in uno stato di attesa.
Il secondo movimento è un insieme di variazioni basate su un tema distintivo. Il tema viene presentato inizialmente dal violoncello solo. È una melodia austera, a tratti spigolosa ma con un lirismo intrinseco, caratterizzata da ampi intervalli e un profilo ritmico incisivo. Questa presentazione solistica mette immediatamente in luce il materiale tematico che verrà poi elaborato e trasformato. L’orchestra interviene solo verso la fine dell’esposizione del tema, con accordi tenuti e sommessi degli archi, creando un’aura di attesa.
Le variazioni che seguono esplorano il tema sotto molteplici aspetti, dimostrando la maestria compositiva di Klebe e la versatilità espressiva e tecnica del violoncello. Si alternano variazioni dal carattere lirico e cantabile, in cui il violoncello sviluppa linee melodiche ampie e commoventi, spesso nel registro acuto, sostenuto da un’orchestra discreta e coloristica. Altre variazioni sono invece più ritmiche e agitate, quasi aggressive. In questi momenti, il violoncello si lancia in passaggi virtuosistici, con figurazioni rapide, pizzicati incisivi e un dialogo serrato con un’orchestra più energica, che fa uso di accenti marcati e interventi di ottoni e percussioni.
Una sezione di spicco è la cadenza per violoncello solo che rielabora frammenti del tema in maniera libera e rapsodica, esplorando l’intera estensione dello strumento e diverse tecniche esecutive (arpeggi, doppie corde, passaggi veloci e momenti di intensa liricità). È un momento di grande concentrazione e introspezione solistica. Le variazioni finali sembrano condurre verso una conclusione più rarefatta e riflessiva, con il materiale tematico che ritorna, ma trasfigurato, frammentato. L’orchestra si fa più eterea, con sonorità sospese. Il concerto non si conclude con una fanfara trionfale, ma si dissolve progressivamente nel silenzio, lasciando una sensazione di ambiguità e introspezione, quasi una domanda senza risposta. L’uso delle armonie dissonanti e delle tessiture orchestrali contribuisce a questo finale enigmatico e moderno.

Nel complesso, il Concerto per violoncello di Klebe, pur radicandosi nel linguaggio modernista del XX secolo, non rinuncia a una forte carica espressiva e a momenti di intenso lirismo, specialmente affidati al solista. La scrittura per il violoncello è estremamente impegnativa, richiedendo all’interprete non solo grande abilità tecnica ma anche una profonda sensibilità musicale per navigare la complessa gamma emotiva del brano. L’orchestra non è mai un mero accompagnamento, ma un partner attivo nel dialogo, contribuendo in modo significativo alla definizione delle atmosfere e allo sviluppo drammatico.

Adagio non troppo

Johann Rufinatscha (1812 - 25 maggio 1893): Concerto in sol minore per pianoforte e orchestra (1850). Michael Schöch, fortepiano; Orkester der Akademie Sankt Blasius, dir. Karlheinz Seissl.

  1. Allegro
  2. Adagio non troppo [16:13]
  3. Allegro con brio [23:10]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Johann Rufinatscha: il talento nascosto fra il Tirolo e Vienna

Vita e formazione: dalle Alpi tirolesi alla capitale asburgica
Nato a Malles (Mals) – all’epoca in Austria e oggi in Alto Adige – Rufinatscha iniziò la propria formazione musicale all’età di 14 anni, quando si trasferì a Innsbruck, dove si dedicò allo studio del pianoforte e del violino; approfondì gli studi musicali presso il conservatorio locale. Successivamente come dimora scelse Vienna, città in cui avrebbe vissuto e lavorato per il resto dei suoi giorni.

La carriera viennese: eminente didatta, compositore nell’ombra
A Vienna, Rufinatscha si distinse principalmente quale apprezzato insegnante di pianoforte e armonia. Sembra che la sua dedizione all’insegnamento abbia prevalso sull’attività compositiva, il che spiegherebbe il numero relativamente contenuto di opere da lui lasciate. I contemporanei nutrirono grandi aspettative su di lui, prevedendo che sarebbe diventato uno dei maggiori compositori della sua epoca. Tuttavia, questa previsione non si avverò e Rufinatscha rimase una figura alquanto marginale nella storia della musica. Ebbe invece considerevole importanza quale insegnante: fra i suoi allievi si annoverano figure di spicco come Ignaz Brüll e Julius Epstein.

Eredità e riconoscimento postumo: un ponte tra Schubert e Bruckner
Nonostante la relativa oscurità a livello internazionale, Rufinatscha è riconosciuto come uno dei più importanti compositori tirolesi del XIX secolo. La sua produzione musicale viene considerata un importante anello di congiunzione stilistico tra le opere di Franz Schubert e quelle di Anton Bruckner. Consapevole del valore del proprio lavoro, poco prima della morte Rufinatscha decise di donare i manoscritti delle sue composizioni al Museo provinciale tirolese, dove sono tuttora conservati. Negli ultimi anni si è assistito a un crescente interesse per la sua musica e a una sua lenta ma progressiva riscoperta.

Le composizioni: un corpus selezionato e significativo
La sua produzione annovera 5 Sinfonie complete e un quadro sinfonico in tre movimenti, nonché un Concerto per pianoforte e orchestra (disponibile anche in versione per pianoforte a quattro mani), una Serenata per archi, un’Ouverture da concerto in do maggiore e diverse ouverture programmatiche come Innerer Kampf (Lotta interiore), Die Braut von Messina (La sposa di Messina, 1850) e una Overture drammatica (1878).
Si ricordano anche due Quartetti (in mi bemolle maggiore, 1850; in sol maggiore,1870), un Trio in la bemolle maggiore (1868), il cui terzo movimento è una rielaborazione del secondo movimento del Concerto per pianoforte, e due Quartetti con pianoforte (in do minore, 1836; in la bemolle maggiore, 1870), dei quali il secondo rielabora composizioni precedenti nel primo e ultimo movimento.
Da segnalare anche alcune composizioni per pianoforte: una Sonata in re minore a 4 mani (1850), una Sonata in do maggiore op. 7 (1855), 6 Pezzi caratteristici op. 14 (anteriori al 1871) e una Sonata in re minore op. 18 (1880).

Il Concerto in sol minore per pianoforte e orchestra: analisi
Questa composizione si inserisce pienamente nel solco della tradizione romantica viennese, mostrando la solida preparazione artigianale di Rufinatscha e la sua capacità di creare musica espressiva e ben strutturata. L’opera riflette l’influenza dei grandi maestri del classicismo viennese e del primo Romanticismo, con un’attenzione particolare al dialogo tra solista e orchestra e a una scrittura pianistica che, pur virtuosistica, rimane integrata nel discorso musicale complessivo. La sua posizione stilistica si pone effettivamente come un ponte tra la liricità schubertiana e una certa grandezza orchestrale che anticipa, seppur in nuce, aspetti che verranno sviluppati da Bruckner.
Il primo movimento, in forma-sonata, si apre con un’introduzione orchestrale di stampo drammatico e assertivo. Un rullo di timpani e un incisivo intervento degli ottoni in Sol minore stabiliscono immediatamente un’atmosfera tesa e solenne. Gli archi rispondono con un motivo più ansioso e lamentoso, a cui si aggiungono i legni, costruendo un crescendo di intensità che prepara l’entrata del solista. L’orchestrazione è ricca e anticipa la serietà del materiale tematico. L’ingresso del pianoforte è potente e declamatorio, con accordi pieni e ottave che presentano il primo tema in sol minore. Questo tema è caratterizzato da una passione contenuta e da una certa nobiltà eroica. Il pianoforte sviluppa il materiale con passaggi virtuosistici brillanti, scale ascendenti e discendenti, arpeggi e figurazioni veloci, ma sempre al servizio dell’espressione tematica. L’orchestra interviene con forza, dialogando con il solista e rafforzando il carattere drammatico del tema. La transizione porta a un cambio di atmosfera e tonalità, modulando verso il si bemolle maggiore (relativa maggiore). Il secondo tema è affidato principalmente al pianoforte ed è di natura decisamente più lirica e cantabile, offrendo un netto contrasto con la drammaticità del primo. Qui si avverte una dolcezza melodica che può ricordare Schubert, con il pianoforte che espone la melodia accompagnato delicatamente dall’orchestra, in particolare dai legni e dagli archi in pizzicato. Lo sviluppo vede frammenti di entrambi i temi elaborati con maestria. Rufinatscha esplora diverse tonalità, aumentando la tensione armonica e il dialogo tra solista e orchestra si fa più serrato e drammatico. Il pianoforte si lancia in passaggi di grande virtuosismo, con sequenze di ottave, arpeggi complessi e brillanti scalette, mentre l’orchestra risponde con potenti sezioni di tutti. La ripresa riporta il primo tema in sol minore, ora presentato con ancora maggiore forza e ornamentazione sia dal pianoforte che dall’orchestra. Il secondo tema ricompare, come da prassi classica, nella tonalità d’impianto, ma in questo caso trasposto nel modo maggiore, conferendo un momentaneo senso di serenità e luminosità. Il movimento culmina, anche in questo caso come da tradizione, in una cadenza per il pianoforte solo, ampia, virtuosistica e ben costruita, iniziando in modo riflessivo per poi sviluppare materiale tematico del movimento con crescente complessità tecnica e potenza espressiva. Rufinatscha sfrutta l’intera estensione della tastiera, con passaggi brillanti, trilli e arpeggi, prima di concludere con i tradizionali trilli che preparano il rientro dell’orchestra. La coda riafferma il carattere drammatico del sol minore, con pianoforte e orchestra che conducono il movimento a una conclusione energica e decisa.
Il secondo movimento, in mi bemolle maggiore (sopradominante della tonalità d’impianto), offre un profondo contrasto lirico e introspettivo. Si apre con una breve introduzione orchestrale dominata da accordi sereni e caldi degli archi e dei legni, che stabiliscono un’atmosfera di pace e contemplazione. Il pianoforte introduce il tema principale, una melodia squisitamente cantabile, tenera e sognante, che ricorda un notturno. L’ispirazione melodica è di chiara matrice schubertiana, con armonie avvolgenti e un fraseggio espressivo. L’orchestra fornisce un accompagnamento discreto e delicato, spesso con archi in pizzicato o morbidi interventi dei legni. Una sezione centrale introduce un leggero aumento di intensità emotiva. Il fraseggio del pianoforte si fa più ornato, con arpeggi fluenti e passaggi più mossi, esplorando tonalità vicine che aggiungono un velo di malinconia, di struggimento. Il dialogo con i legni solisti (clarinetto, flauto) è particolarmente curato e intimo. Il ritorno del tema principale è affidato nuovamente al pianoforte, che lo ripropone con maggiore ornamentazione e un sostegno orchestrale leggermente più denso, ma sempre mantenendo il carattere lirico e sognante. La coda è breve e conduce il movimento a una conclusione serena e placida in mi bemolle maggiore. Il pianoforte chiude con delicati arpeggi e accordi che si dissolvono dolcemente, portando senza soluzione di continuità al movimento conclusivo.
Il finale è un rondò vivace e brillante in sol maggiore. Il tema principale è introdotto dal pianoforte con piglio energico e ritmico: è un tema dal carattere quasi popolaresco, con un andamento saltellante e accenti marcati che sottolineano il “con brio” dell’indicazione agogica. L’orchestra riprende e rinforza il tema, conferendogli ulteriore slancio. Il primo episodio introduce materiale tematico contrastante, nella tonalità di re maggiore, più scorrevole e melodico, con il pianoforte che si esibisce in brillanti passaggi virtuosistici e dialoghi con l’orchestra. Il ritorno del tema principale è ben marcato e porta a un secondo episodio più elaborato e modulante. Qui la scrittura si fa più drammatica, con potenti ottave del pianoforte e interventi orchestrali incisivi, esplorando diverse aree tonali e aumentando la tensione. Un ulteriore ritorno del tema principale prepara la sezione conclusiva, con una coda dal carattere trionfale e affermativo. Il pianoforte si lancia in brillanti scale, arpeggi e passaggi di bravura, sostenuto da un’orchestra festosa, conducendo l’opera a una chiusura sfavillante e piena di energia.
Nel complesso, questo concerto è un’opera di notevole fattura che merita sicuramente attenzione; dimostra una sicura padronanza della forma classica e una sensibilità pienamente romantica. Le melodie sono spesso memorabili, specialmente nel movimento lento, e la scrittura pianistica, sebbene richieda un solido virtuosismo, è ben integrata nel discorso orchestrale. L’orchestrazione è competente e supporta efficacemente il solista. L’influenza di Schubert è particolarmente avvertibile nel lirismo dei temi cantabili, mentre la solidità costruttiva e certi gesti drammatici possono ricordare Beethoven e il primo Romanticismo tedesco. Pur non essendo un’opera rivoluzionaria, è un esempio eccellente della produzione concertistica del suo tempo, un lavoro che bilancia eleganza, espressività e brillantezza e che testimonia il talento di un compositore che, sebbene rimasto relativamente nell’ombra, aveva molto da dire.

Concerto scozzese

Sir Alexander Mackenzie (1847 - 28 aprile 1935): Concerto per pianoforte e orchestra op. 55, Scottish (1897). Steven Osborne, pianoforte: BBC Scottish Symphony Orchestra, dir. Martyn Brabbins.

  1. Allegro maestoso
  2. Molto lento [9:54]
  3. Allegro vivace [19:14]

Numero 5, Opus 55

Johann Wilhelm Wilms (30 marzo 1772 - 1847): Con­cer­to per pianoforte e orchgestra n. 5 in mi bemolle maggiore op. 55 (c1819). Diana Gul’cova, pianoforte; Orchestra filarmonica di Odessa, dir. Hobart Earle.

  1. Adagio – Allegro
  2. Adagio [19:11]
  3. Rondò: Allegro [26:14]

Out of the Deep

Joey Roukens (28 marzo 1982): Concerto per violino e orchestra n. 2, Out of the Deep (2025). Simone Lamsma, violin; Radio Filharmonisch Orkest, dir. Markus Stenz.

Il Concerto si evolve in un unico movimento; la partitura reca però le seguenti indicazioni:

Rage and Lament
In Flux [7:45]
Sanctuary [15:00]
Upsurge [23:35]
Epilogue [27:35]
 

Per García Lorca

Cristóbal Halffter (24 marzo 1930 - 2021): Secondo Concerto per violoncello e orchestra, No queda más que el silencio, in memoria di Federico García Lorca (1985). Mstislav Rostropovič, violoncello; Orchestre national de France diretto dall’autore.

  1. El grito deja en el viento una sombra de ciprés
  2. Vine a este mundo con ojos y me voy sin ellos
  3. Si muero, dejad el balcón abierto

Allegro deciso

Moritz Moszkowski (1854 - 4 marzo 1925): Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in mi maggiore op. 59, MoszWV 162 (1898). Michael Ponti, pianoforte; Philharmonia Hungarica, dir. Hans Richard Stracke.

  1. Moderato
  2. Andante [11:48]
  3. Scherzo: Vivace [19:53]
  4. Allegro deciso [26:57]

Allegro ansiogeno

Wolfgang Amadeus Mozart (27 gennaio 1756 - 1791): Concerto n. 17 in sol maggiore per pianoforte e or­che­stra K 453 (1784). Géza Anda, solista e direttore; Camerata Academica des Mozarteums Salzburg.

  1. Allegro
  2. Andante
  3. Allegretto

Con i suoi chiaroscuri, il movimento iniziale trasmette all’ascoltatore attento un sottile ma per­si­sten­te senso di inquietudine. Non di rado dalla musica di Mozart, anche nei brani apparentemente leggeri e spensierati, traspare una profonda malinconia.
Sono particolarmente affezionato a questa interpretazione di Géza Anda poiché si trova in un disco donatomi da mio padre nel 1970, poco prima della sua prematura scomparsa.

K 453

Adagietto – II: alla gondoliera

Daniele Zanettovich (26 gennaio 1950): Concerto per flau­to e archi detto Il Casanova (2004). Enzo Caroli, flauto; Orchestra Sinfonica Adriatica, dir. Paolo Pessina.

  1. Allegro
  2. Adagietto alla gondoliera – Un poco più mosso, ma molto liberamente (Il canto dell’usignolo) – Tempo I [5:47]
  3. Presto [12:27]

À la clochette

Niccolò Paganini (27 ottobre 1782 - 1840): Concerto per violino e orchestra n. 2 in si minore op. 7, La campanella (1826). Salvatore Accardo, violino; London Philharmonic Orchestra, dir. Charles Dutoit.

  1. Allegro maestoso (cadenza [12:05] di S. Accardo)
  2. Adagio
  3. Rondo à la clochette

Concerto da camera – I

Walter Niemann (10 ottobre 1876 - 1953): Concerto da camera n. 1 per pianoforte e archi op. 153 (1941). Jo­seph Müller-Mayen, pianoforte; Rund­funk­or­ches­ter des Südwestfunks, dir. Emmerich Smola.

  1. Praeludium
  2. Variazioni sopra un’antica ninna-nanna olandese [3:10]
  3. Alla gagliarda [11:31]

In Breath of Time

Johanna Doderer (18 settembre 1969): Concerto per violino e orchestra n. 2, In Breath of Time, DWV62b (2012). Yuri Revich, violino; Deutsche Staatsphilharmonie Rheinland-Pfalz, dir. Ariane Matiakh.

  1. Allegro
  2. Moderato – Adagio – Allegro [5:02]
  3. Adagio – Moderato – Allegro – Adagio [11:45]