Petite Symphonie

Charles Gounod (1818 - 18 ottobre 1893): Petite Symphonie per flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 corni e 2 fagotti (1885). The Saint Paul Chamber Orchestra, dir. Christopher Hogwood.

  1. Adagio – Allegretto
  2. Andante cantabile
  3. Scherzo: Allegro moderato
  4. Finale: Allegretto


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Charles Gounod: il maestro dalle molte anime, tra melodia sacra e trionfi lirici

Charles-François Gounod, figura eminente della musica francese del XIX secolo, ha lasciato un’impronta indelebile con un’opera vasta e variegata, che spazia dal sacro al profano, dall’opera al coro. La sua vita fu un percorso intenso di formazione, esplorazione spirituale e successi clamorosi, non senza aspre critiche.

Le origini e la formazione musicale (1818-42)
Nato a Parigi, fu il secondogenito del pittore François-Louis Gounod e di Victoire Lemachois. Rimasto orfano di padre all’età di cinque anni, fu la madre, insegnante di pianoforte, a impartirgli le prime lezioni, rivelando precocemente il suo talento. Dopo gli studi al Lycée Saint-Louis, Gounod si immerse nello studio musicale, perfezionando l’armonia con Antoine Reicha e poi, al Conservatorio di Parigi, con Jacques Fromental Halévy, e la composizione con Jean-François Lesueur. Il suo talento fu presto riconosciuto: nel 1839 vinse il prestigioso Grand Prix de Rome con la cantata Fernand. Il soggiorno a Villa Medici gli permise di approfondire la musica religiosa, in particolare quella di Palestrina. Nel 1842, a Vienna, ebbe l’opportunità di assistere a una rappresentazione del Flauto magico di Mozart, esperienza che lo segnò profondamente, e di far eseguire la sua seconda messa con orchestra.

Tra vocazione sacerdotale e debutto compositivo (1843-1860)
Tornato a Parigi nel 1843, Gounod assunse il ruolo di organista e maestro di cappella presso la Chiesa delle Missioni estere. Questo periodo fu caratterizzato da una profonda riflessione spirituale: nel 1847 ottenne il permesso di indossare l’abito ecclesiastico, frequentò corsi di teologia a Saint-Sulpice e ascoltò i sermoni di Lacordaire. Tuttavia, le giornate rivoluzionarie del 1848 lo portarono a rinunciare alla vocazione sacerdotale e a lasciare l’incarico. L’anno successivo, grazie all’appoggio della celebre Pauline Viardot, Gounod ottenne il libretto di Sapho da Émile Augier, la sua prima opera, che debuttò all’Opéra il 16 aprile 1851, senza riscuotere un grande successo. Nel 1852 sposò Anna Zimmerman. Parallelamente, presiedette gli Orphéons della Città di Parigi dal 1852 al 1860, componendo numerosi cori come Le Vin des Gaulois. Nel 1860, la sua dedizione alla musica sacra lo portò a partecipare al Congresso per la restaurazione del canto gregoriano.

L’apice dell’opera e le sfide della critica (1858-67)
Gli anni ’50 e ’60 segnarono l’apice della sua carriera operistica. Nel 1858, in occasione dell’anniversario della nascita di Molière, fu rappresentato con successo l’opéra-comique Le Médecin malgré lui, su libretto di Jules Barbier e Michel Carré, con cui avrebbe spesso collaborato. Ma fu il 1859 a consacrarlo: la sua opera Faust, basata sull’opera di Goethe, debuttò al Théâtre-Lyrique riscuotendo un successo clamoroso, con 70 repliche solo nel primo anno. Seguirono nel 1860 gli opéra-comiques Philémon et Baucis e La Colombe. Nonostante il trionfo di Faust, Gounod affrontò anche critiche feroci. La Reine de Saba, creata nel 1862, si fermò dopo sole quindici rappresentazioni e fu stroncata da Paul Scudo, critico della “Revue des deux Mondes”, che lo accusò di emulare i «cattivi musicisti della Germania moderna» come Liszt e Wagner, avvertendolo di essere «irrimediabilmente perduto» se avesse persistito. Nel marzo 1863, Gounod incontrò Frédéric Mistral, dal cui poema Mirèio (Mireille) avrebbe tratto un libretto. Si trasferì a Saint-Rémy-de-Provence, dove la musica si impregnò dell’atmosfera del Midi, un periodo di pace e ispirazione. L’opera Mireille fu creata a Parigi nel marzo 1864, ottenendo però un successo solo moderato. Il riscatto arrivò nel 1867, quando Roméo et Juliette, durante l’Esposizione universale, fu accolta con un successo entusiastico.

Gli anni britannici, il ritorno e il crepuscolo sacro (1870-93)
Nel 1870, fuggendo l’invasione tedesca della Francia, Gounod si trasferì in Inghilterra, dove instaurò una liaison di quattro anni con la cantante Georgina Weldon. Durante questo periodo, vide l’insuccesso di Les deux Reines de France (1872) e il successo patriottico di Jeanne d’Arc, un dramma storico che ravvivò lo spirito nazionale francese. Nel 1874 Gounod lasciò la Gran Bretagna e tornò in Francia, dove si stabilì a Parigi nel 1878 e vi rimase fino alla morte. Nella parte finale della sua vita, Gounod si dedicò prevalentemente alla musica religiosa, componendo un gran numero di messe e due oratori maggiori: La Rédemption (1882) e Mors et vita (1885). Morì il 18 ottobre 1893 a Saint-Cloud, appena dopo aver completato il Requiem in do maggiore, considerato il suo canto del cigno. I funerali, dieci giorni dopo, furono nazionali e si tennero nell’imponente Chiesa della Madeleine, con l’intervento di figure come Camille Saint-Saëns e Théodore Dubois all’organo, e Gabriel Fauré alla direzione della maîtrise che, secondo il desiderio di Gounod, eseguì la Messa gregoriana dei defunti.

L’impronta musicale: un catalogo vario e persistente
Gounod ha lasciato un patrimonio di circa 500 opere musicali, la cui influenza si estende ancora oggi. È celebre soprattutto per le sue opere liriche: Faust, la sua opera più iconica, con il grandioso valzer che conclude il I atto e con arie celebri come «Le Veau d’or» di Mefistofele, l’“aria dei gioielli di Marguerite” «Ah! je ris», il coro dei soldati «Gloire immortelle de nos aïeux», la musica di balletto della Notte di Valpurga e il coro finale degli angeli «Sauvée, Christ est ressuscité»; Roméo et Juliette: un altro grande successo, con la celebre valse di Giulietta «Je veux vivre» e l’aria del tenore «Ah! lève-toi, soleil!»; Mireille: basata sul poema provenzale di Frédéric Mistral; Cinq-Mars: un’opera storica, rielaborata più volte, che presenta arie come «Nuit resplendissante» e «Ô chère et vivante image».
Il catlogo delle opere di Gounod include anche altri lavori significativi: due sinfonie (1855) e una Petite Symphonie per nove strumenti a fiato (1885); cinque quartetti per archi; la celebre Ave Maria, basata sul primo preludio del Clavicembalo ben temperato di Bach (originariamente non destinato all’esecuzione liturgica), e il Requiem in do maggiore; composizioni strumentali quali la Marche funèbre d’une marionnette (1872), che divenne famosa globalmente come sigla del programma televisivo Alfred Hitchcock presenta, e la Marche pontificale (1869) che fu adottata nel 1949 come inno nazionale del Vaticano; e numerose e delicate mélodies, su testi di poeti quali Alfred de Musset, Alphonse de Lamartine, Théophile Gautier e Jean Racine, oltre a testi di sua stessa mano.

La Petite Symphonie
Dedicata alla Société de musique de chambre pour instruments à vent fondata da Paul Taffanel nel 1879, rappresenta un magnifico esempio della capacità del compositore francese di coniugare l’eleganza classica con la ricchezza melodica romantica, creando un’opera che è al contempo intima e virtuosistica. L’opera, eseguita per la prima volta il 30 aprile 1885 alla Salle Pleyel con Taffanel stesso al flauto, e pubblicata solo diciannove anni dopo, è una celebrazione delle sonorità e delle capacità espressive degli strumenti a fiato, offrendo un dialogo continuo e brillante tra le diverse voci.
La scelta di una formazione così specifica – flauto, due oboi, due clarinetti, due corni e due fagotti – permette a Gounod di esplorare una tavolozza timbrica ricca ma trasparente. L’attributo petite del titolo non si riferisce a una mancanza di sostanza musicale, ma piuttosto alla natura cameristica e all’eleganza leggera che pervade l’intera opera, lontana dalle massicce sonorità orchestrali di una sinfonia tradizionale.

Il primo movimento si apre con un Adagio, dove i due corni introducono un’atmosfera solenne e avvolgente con accordi sostenuti e caldi. Seguono le altre sezioni di fiati, aggiungendo strati armonici che costruiscono una breve ma intensa introduzione. Le dinamiche sono contenute, suggerendo un tono riflessivo e quasi contemplativo, che evoca l’aspetto più sacro della produzione di Gounod. L’espressività è palpabile, anche nella brevità di questa sezione.
Senza soluzione di continuità, il movimento si anima bruscamente con l’Allegretto. Il flauto emerge con una melodia agile, brillante e gioiosa, caratterizzata da rapide figurazioni e un piglio vivace. Subito dopo, gli oboi riprendono ed elaborano il tema, creando un dialogo serrato e spensierato. I clarinetti e i fagotti forniscono un accompagnamento ritmico e armonico dinamico, spesso con arpeggi gorgoglianti o passaggi saltellanti che aggiungono leggerezza. Il movimento è un vero e proprio tour de force di scrittura per fiati, con passaggi virtuosistici che si alternano a momenti di maggiore lirismo, ma sempre mantenendo un’energia contagiosa. L’interazione tra gli strumenti è costante: il tema passa agilmente da un flauto brillante a oboi cantabili, clarinetti arguti e fagotti giocosi. Le sezioni tutti sono incisive e dinamiche, contrastando con le tessiture più trasparenti dei passaggi solistici. Il movimento procede con una chiara forma sonata, con una ripresa espositiva evidente e uno sviluppo che esplora frammenti tematici e armonie più audaci, prima di tornare alla ricapitolazione che porta a una coda effervescente.
Il secondo movimento offre un netto contrasto, immergendosi in un’atmosfera di profonda liricità e dolcezza. Il carattere cantabile è immediatamente percepibile, con una melodia espressiva e distesa. In questa esecuzione, si nota chiaramente come gli oboi prendano il comando della melodia principale, con il flauto che spesso si unisce o raddoppia, aggiungendo brillantezza. I corni forniscono una base armonica stabile e calda, mentre clarinetti e fagotti tessono controcanti fluidi o un delicato accompagnamento. La musica si sviluppa con grazia, alternando momenti di melodia sostenuta a brevi fioriture che adornano le frasi. Le dinamiche sono attentamente calibrate, con crescendi e diminuendi che esaltano l’espressività intrinseca del movimento. Il movimento si conclude con una riproposizione del tema principale, sfumando dolcemente e lasciando un’impressione di serena bellezza.
Lo Scherzo irrompe con un’energia e un ritmo contagiosi, fedele al suo nome che suggerisce un carattere giocoso e vivace. Il tempo è veloce e il tema principale è frammentato, caratterizzato da staccati e passaggi rapidi che si scambiano tra flauto e clarinetti. I fagotti aggiungono un tocco di umorismo e leggerezza con i loro interventi puntuali. La sezione centrale, il trio, porta un cambiamento di umore, introducendo un tema più ampio e cantabile, con un sapore quasi rustico e una strumentazione più piena. Qui i corni e i fagotti sono particolarmente prominenti, creando un contrasto efficace con l’agilità dello scherzo. Dopo il trio, lo Scherzo torna nella sua forma iniziale, riprendendo il suo slancio ritmico e la sua tessitura vivace. La coda finale è un’accelerazione mozzafiato, che conduce il movimento a una conclusione scattante ed esaltante.
Il Finale si apre con un gesto grandioso e imponente, dove l’intero nonetto esegue un’affermazione forte e dichiarativa, stabilendo un carattere trionfale. Il tema principale, rapido e accattivante, è subito introdotto e presenta un’alternanza di scale veloci e arpeggi distribuiti tra i fiati. Si alternano momenti di tutti energici a sezioni più liriche o riflessive, che servono a costruire la tensione prima di nuove esplosioni di energia. Le modulazioni armoniche sono sapientemente gestite, ampliando la portata espressiva del pezzo. Verso la conclusione, il movimento si intensifica progressivamente, accumulando sonorità e virtuosismi fino a un finale enfatico e celebrativo.

Nel complesso, l’opera è molto più di un semplice esercizio di scrittura per fiati e dimostra la maestria del compositore nell’orchestrazione, la sua vena melodica inesauribile e la sua capacità di creare un’atmosfera coerente attraverso quattro movimenti distinti. Si tratta di una composizione che, pur mantenendo un respiro “piccolo” nel senso cameristico, offre una grande ricchezza musicale e un piacere d’ascolto duraturo, confermando il genio di Gounod ben oltre le sue opere liriche più celebri.

Gounod, Petite Symphonie

Sinfonia in mi minore

Adolf Busch (8 agosto 1891 - 1952): Sinfonia in mi minore (1927). Nordwestdeutsche Philharmonie, dir. Georg Fritzsch.

  1. [24:09]
  2. [27:23]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’arco, la bacchetta e la coscienza: vita e arte di Adolf Busch

Adolf Busch non fu soltanto un musicista di statura eccezionale, ma anche un uomo di incrollabili principi morali. La sua vita, un intreccio di virtuosismo, innovazione musicale e ferma opposizione alla tirannia, ha lasciato un’eredità che trascende le sole registrazioni, definendo un modello di artista e di cittadino.

Formazione e primi passi
Nato a Siegen, in Germania, Adolf Georg Wilhelm Busch manifestò fin da giovane un talento straordinario. La sua formazione avvenne al prestigioso Conservatorio di Colonia, dove ebbe come insegnanti personalità del calibro di Willy Hess e Bram Eldering (violino), nonché Fritz Steinbach e Hugo Grüters (composizione), il quale sarebbe poi diventato suo suocero. Questo solido percorso accademico pose le basi per una carriera poliedrica come violinista, direttore d’orchestra e compositore.

L’innovatore della musica da camera
Il nome di Busch è indissolubilmente legato alla musica da camera, di cui fu un interprete di riferimento. Già nel 1912 fondò a Vienna il Konzertverein Quartett, formato dalle prime parti dell’omonima orchestra. Tuttavia, fu dopo la prima guerra mondiale che diede vita al suo ensemble più celebre: il Quartetto Busch. A partire dalla stagione 1920-21, questo quartetto divenne un punto di riferimento mondiale, noto per la sua coesione e profondità interpretativa, e rimase attivo, con diverse formazioni, fino al 1951.
Un’altra figura chiave nella sua vita artistica e personale fu il pianista Rudolf Serkin: divenuto partner di Busch in duo a soli 18 anni, Serkin entrò a far parte della famiglia sposandone la figlia Irene. L’unione artistica tra il Quartetto Busch e Serkin portò alla creazione dei Busch Chamber Players, considerati precursori delle moderne orchestre da camera.

L’opposizione al nazismo e l’esilio
La grandezza di Busch non fu solo musicale, ma anche morale: con l’ascesa di Hitler al potere – pur non essendo ebreo e godendo di grande popolarità in Germania – prese una posizione netta e intransigente contro il nazismo. Già nel 1927, fiutando il clima politico, decise di emigrare a Basilea, in Svizzera, per una scelta di pura coscienza.
Il 1° aprile 1933 ripudiò ufficialmente la Germania e, di fronte ai tentativi del regime di convincerlo a tornare, dichiarò che sarebbe rientrato con gioia «il giorno in cui Hitler, Goebbels e Göring saranno impiccati pubblicamente». Nel 1938 estese il boicottaggio anche all’Italia fascista. Durante gli anni svizzeri, fu co-fondatore del prestigioso Festival di Lucerna (insieme ad Arturo Toscanini e a suo fratello, il direttore d’orchestra Fritz Busch) e si dedicò all’insegnamento, avendo tra i suoi allievi anche il giovane Yehudi Menuhin. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, nel 1939 emigrò negli Stati Uniti, stabilendosi nel Vermont dove, insieme a Serkin, fondò la Marlboro Music School and Festival, un’altra istituzione musicale di fama mondiale.

L’interprete e l’eredità discografica
Come esecutore, Busch è celebrato per il suo suono unico e la sua tecnica impeccabile: il Quartetto Busch è passato alla storia per le sue interpretazioni di Brahms, Schubert e, soprattutto, Beethoven, lasciando una serie di registrazioni negli anni ’30 che sono ancora oggi considerate di riferimento. Anche come solista, Busch eccelleva: esistono registrazioni dal vivo dei concerti di Beethoven, Brahms, Dvořák e Busoni. In studio, ha inciso magistralmente i Concerti brandeburghesi di Bach, contribuendo in modo decisivo a riportarli alla popolarità dopo un lungo periodo di oblio. La sua incisione dei Concerti grossi op. 6 di Händel è altrettanto notevole.

Il compositore e la dinastia musicale
Sebbene la sua fama di interprete abbia messo in ombra la sua attività di compositore, Busch fu un autore prolifico, influenzato dallo stile di Max Reger. Fu tra i primi a scrivere un concerto per orchestra (1929) e lasciò un catalogo significativo che include un concerto per violino, opere per sestetto e quintetto d’archi, sonate e diverse composizioni per organo, strumento che amava al punto da affermare che, se fosse potuto rinascere, avrebbe voluto essere un organista.
Infine, la musica era il Dna della sua famiglia: figlio del liutaio Wilhelm Busch, era fratello del direttore d’orchestra Fritz Busch, del violoncellista Hermann Busch e del pianista Heinrich Busch. Fu anche suocero del pianista Rudolf Serkin e nonno materno di altri due celebri musicisti: il pianista Peter Serkin e la violoncellista Judith Serkin. Una vera e propria dinastia dedicata all’arte dei suoni.

Sinfonia in mi minore: analisi
Composta in un’epoca di ferventi avanguardie musicali, la Sinfonia in mi minore si erge come un monumento al post-romanticismo tedesco: lungi dallo sperimentare con la dodecafonia di Schoenberg o il neoclassicismo di Stravinsky, Busch guarda ai grandi maestri del passato, in particolare Brahms e il suo mentore Max Reger, forgiando un linguaggio personale denso, appassionato e di straordinaria profondità emotiva.
Il primo movimento si apre senza preamboli con un impeto drammatico e severo: l’orchestra intera presenta un tema principale energico e spigoloso, caratterizzato da ampi salti e un ritmo ostinato che infonde fin da subito un clima di lotta e tensione. L’influenza di Max Reger è immediatamente percepibile nel tessuto contrappuntistico fitto e nella complessa scrittura armonica. Busch non è un rivoluzionario che vuole abbattere la tonalità, ma la spinge ai suoi limiti con un cromatismo continuo che genera un’instancabile sensazione di urgenza.
L’orchestrazione è ricca e sapiente, tipica della grande tradizione tedesca: gli archi forniscono una base corposa e passionale, i legni dialogano con frasi incisive e malinconiche, mentre gli ottoni intervengono con squarci potenti che sottolineano i momenti di massima tensione. Il secondo tema, pur essendo più cantabile, non offre un vero e proprio rilassamento e mantiene un’inquietudine di fondo, quasi un presagio oscuro. Lo sviluppo è un vortice di elaborazione tematica, dove i motivi vengono frammentati, sovrapposti e trasformati in un denso dialogo polifonico. È un movimento che non cerca la bellezza facile, ma esprime un conflitto interiore vigoroso, una lotta titanica che si placa solo nelle battute finali, lasciando l’ascoltatore in uno stato di sospensione carica di attesa.
Con l’inizio del secondo movimento, il mondo cambia radicalmente: dopo la tempesta del primo, ci troviamo in un’oasi di lirismo malinconico e profonda introspezione. Esso si apre con una melodia dolente e meravigliosamente lunga, affidata ai legni (in particolare l’oboe e il corno inglese) su un tappeto sommesso di archi. È qui che emerge con più chiarezza l’eredità di Brahms: il pathos è contenuto, nobile, e la scrittura melodica è di una bellezza struggente.
Il movimento si sviluppa attraverso un crescendo di grande intensità emotiva: la trama orchestrale si infittisce gradualmente, il suono diventa più caldo e avvolgente, fino a raggiungere un culmine appassionato in cui l’intera orchestra sembra cantare con un’unica, grande voce. Questo apice di passione, tuttavia, è effimero: con la stessa naturalezza con cui è cresciuto, il discorso musicale si placa, ritornando alla quiete contemplativa dell’inizio. Le ultime battute si spengono in un sussurro, lasciando una scia di commossa e serena tristezza. È il cuore pulsante della sinfonia, un momento di pura e toccante confessione.
Il finale si lancia con un carattere energico e incalzante, quasi a voler scacciare la malinconia precedente: non si tratta però di una conclusione spensierata o giocosa, ma di una marcia determinata e a tratti rabbiosa, con un ritmo implacabile che spinge costantemente in avanti. La scrittura ritorna a essere densamente contrappuntistica, con sezioni fugate e un dialogo serrato tra le varie sezioni dell’orchestra.
Busch dimostra qui la sua maestria nel costruire architetture sonore complesse e imponenti. I temi dei movimenti precedenti vengono sottilmente richiamati e trasformati, conferendo all’intera sinfonia una solida unità ciclica. Il percorso è costellato di scoppi improvvisi e momenti di grande potenza orchestrale, alternati a episodi più sommessi ma sempre carichi di tensione. Il finale non è una risoluzione serena nel tradizionale mi maggiore, ma una conclusione grandiosa e affermativa che mantiene la tonalità minore. Le ultime battute sono perentorie, quasi una dichiarazione di sfida: è la conclusione perfetta per un’opera che non offre facili consolazioni, ma che testimonia la forza di uno spirito che, pur radicato nella tradizione, affronta le inquietudini del suo tempo con serietà, passione e una straordinaria padronanza artigianale.

AB

In stile antico – VI

Emil von Reznicek (1860 - 2 agosto 1945): Sinfonia n. 3 in re minore-maggiore, Im alten Stil (1918). Philharmonia Hungarica, dir. Gordon Wright.

  1. Andante – Allegro ma non troppo
  2. Andante [9:21]
  3. Tempo di minuetto [16:29]
  4. Allegretto con anima [22:02]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’enigma Reznicek: fama, oblio, riscoperta

La vita di Emil Nikolaus von Reznicek, figura complessa e sfaccettata nel panorama musicale austro-tedesco, si svolse sotto l’impero asburgico, la Repubblica di Weimar e il Terzo Reich. La sua carriera fu un’altalena di successi clamorosi, scandali personali, difficili compromessi politici e un lungo oblio, cui solo di recente si sta ponendo rimedio.

Origini nobili e una vocazione musicale
Nato a Vienna in una famiglia di alto rango, Reznicek aveva radici aristocratiche e militari: il padre era tenente feldmaresciallo dell’esercito austro-ungarico, elevato al rango di barone, la madre era una principessa romena. Nonostante una giovinezza agiata, fu segnato dalla morte prematura della madre e da un rapporto difficile con la matrigna. La musica divenne presto il suo rifugio esistenziale; il padre lo aveva destinato alla carriera diplomatica, costringendolo a studiare legge a Graz, ma il giovane perseguì parallelamente la propria formazione musicale con Wilhelm Mayer, maestro anche di Busoni e Weingartner. Dopo aver fallito (forse deliberatamente) un primo esame di giurisprudenza, ottenne finalmente il permesso paterno di dedicarsi interamente alla musica, perfezionandosi al Conservatorio di Lipsia.

La formazione e l’ascesa: il successo di Donna Diana
Gli anni successivi furono quelli di un musicista itinerante. Reznicek lavorò come direttore d’orchestra e maestro di cappella in numerosi teatri tra Zurigo, Stettino, Jena, Bochum e Berlino, un percorso instabile che gli costò gran parte dell’eredità materna. Un punto di svolta avvenne a Praga: dopo essere stato congedato dall’incarico di Kapellmeister (direttore musicale) dell’88º Reggimento di fanteria a seguito di un duello, si dedicò alla composizione di un’opera, Donna Diana, la cui prima rappresentazione, a Praga nel 1894, fu un trionfo.

Maturità artistica a Berlino
Dopo un periodo a Mannheim come direttore musicale di corte, fu costretto a dimettersi a causa di uno scandalo: la sua relazione con Berta Juillerat-Chasseur, non ancora divorziata e di origini in parte ebraiche, fu considerata inaccettabile. Reznicek trasfuse questa esperienza nell’opera successiva, Till Eulenspiegel, una satira della società borghese guglielmina. Nel 1903 si trasferì a Berlino, dove visse fino alla morte; qui la sua carriera entrò in una nuova fase: dopo una crisi personale e grazie al sostegno del mecenate Hans Conrad Bodmer, inaugurò un secondo e più maturo periodo creativo. L’opera Ritter Blaubart, composta durante la prima guerra mondiale ma rappresentata solo nel 1920 a causa della censura, con la sua drammaturgia espressionista e l’analisi psicologica del protagonista ridefinì l’immagine pubblica di Reznicek, annoverato tra i più importanti musicisti della sua generazione insieme con Richard Strauss e Hans Pfitzner, ottenendo riconoscimenti come l’appartenenza all’Accademia delle arti prussiana.

Compromessi, pericoli e resistenza familiare
L’ascesa del nazismo nel 1933 rappresentò una cesura drammatica, poiché le origini ebraiche della moglie Berta misero l’intera famiglia di Reznicek in grave pericolo. La sua situazione familiare era un compendio delle contraddizioni dell’epoca: mentre il figlio Emil-Ludwig era membro del partito nazista e delle SS, la figlia Felicitas divenne un’attiva combattente della Resistenza e un’agente dei servizi segreti britannici. Reznicek aderì al Consiglio permanente per la cooperazione internazionale dei compositori, un’organizzazione fondata dall’amico Richard Strauss; benché il regime tentasse di sfruttarla a fini propagandistici, il compositore utilizzò la sua posizione di delegato tedesco per promuovere, nei festival internazionali in Germania, anche opere di compositori altrimenti osteggiati, inclusi autori ebrei. La sua posizione fu ambigua: ricevette onorificenze dal regime (come la Medaglia Goethe e la nomina a professore da parte di Hitler), ma fu anche marginalizzato e privato di significative entrate economiche, poiché le sue opere di maggior successo non poterono più essere rappresentate.

Gli ultimi anni
Nel 1942 il Consiglio permanente fu di fatto esautorato e messo sotto il controllo di persone fedeli al partito. Durante i bombardamenti su Berlino, i manoscritti di Reznicek furono requisiti e in seguito finirono nelle mani dell’Armata rossa (una parte è ancora oggi dispersa). Colpito da un ictus a fine 1943, Reznicek divenne progressivamente demente e bisognoso di cure. Tornato nella sua casa di Berlino poco prima della fine della guerra, morì il 2 agosto 1945 di tifo da fame. La sua sepoltura fu un simbolo della desolazione post-bellica: grazie a un gallone di benzina fornito da un giornalista americano, il suo corpo fu trasportato al cimitero, ma i portatori dovettero spogliarsi dei loro abiti scuri a un posto di blocco sovietico, e la sepoltura avvenne in biancheria intima.

Eredità e riscoperta: da compositore dimenticato a voce del Novecento
La ricezione postuma di Reznicek è stata problematica. L’ouverture di Donna Diana è diventata un classico della musica da concerto, resa ulteriormente popolare in Germania come sigla di un celebre quiz televisivo. L’opera stessa e il resto della sua produzione caddero invece nell’oblio. Considerato un compositore tonale epigonale in un’epoca dominata dalle avanguardie, la sua riscoperta è stata ulteriormente ostacolata dalle accuse, poi rivelatesi infondate grazie a ricerche recenti, di essere stato un simpatizzante nazista. Solo negli ultimi decenni è iniziato un processo di rivalutazione: nuove messe in scena delle sue opere principali e la pubblicazione di registrazioni discografiche delle sue opere sinfoniche hanno sancito il rilievo di Reznicek quale autore di un contributo importante e originale alla musica del Novecento.

La Terza Sinfonia: analisi
Opera affascinante che si colloca in un crocevia stilistico, benché scritta in un’epoca dominata dalle avanguardie e dal tardo-romanticismo espressionista, la Terza Sinfonia di Reznicek guarda deliberatamente indietro, omaggiando le forme e l’equilibrio del Classicismo viennese, senza però rinunciare a un linguaggio armonico e a una ricchezza orchestrale tipicamente romantici. Essa si rivela un’opera non di semplice imitazione, ma di sapiente sintesi, un dialogo tra la chiarezza di Haydn e Schubert e il calore emotivo di Dvořák o Brahms.
Il primo movimento segue la tradizionale struttura classica con un’introduzione lenta che precede un Allegro in forma-sonata. L’apertura vede un’atmosfera pensosa e pastorale in re minore, con un assolo lirico ed espressivo del violoncello che introduce il materiale tematico principale, presto raggiunto dagli altri archi in un dialogo contrappuntistico che crea una tessitura calda e malinconica. L’orchestrazione è trasparente, evocando un’intimità cameristica. Questa sezione introduttiva costruisce gradualmente la tensione, modulando e preparando con maestria l’arrivo della sezione principale.
Con un cambio di tempo e modo (in re maggiore), irrompe il primo tema, gioioso, ritmico e dal carattere quasi rustico, simile a una danza popolare. Affidato principalmente agli archi e ai legni, è caratterizzato da un’energia contagiosa e una melodia chiara e memorabile, che stabilisce immediatamente un’atmosfera ottimista. Dopo una transizione, viene introdotto il secondo tema, di carattere contrastante, cantabile, lirico e delicato. L’orchestrazione si fa più rarefatta, con i flauti e gli oboi che espongono la melodia su un tappeto gentile degli archi. È una melodia tenera e sognante che fornisce un perfetto momento di riposo emotivo.
La sezione di sviluppo è il cuore drammatico del movimento: qui Reznicek frammenta e rielabora i due temi principali, esplorandone le potenzialità contrappuntistiche e armoniche. L’atmosfera diventa più instabile e tesa, con passaggi in tonalità minori, un uso più incisivo degli ottoni e repentini cambi di dinamica. L’interazione tra le diverse sezioni orchestrali è brillante, dimostrando una grande padronanza della scrittura sinfonica.
La ricapitolazione riporta il primo tema in tutta la sua forza, riaffermando la tonalità di re maggiore. Segue il secondo tema lirico, ora anch’esso nella tonalità d’impianto, come vuole la tradizione. Il movimento si conclude con una coda vigorosa e trionfale, in cui gli ottoni guidano l’orchestra verso una chiusura energica e affermativa.
Il secondo movimento è un Andante profondamente lirico e cantabile, che costituisce il centro emotivo della sinfonia. La sua struttura può essere interpretata come una forma ternaria ABA′ con elementi di variazione.
Il movimento si apre con una melodia semplice, serena e di struggente bellezza, esposta dagli archi. Il suo carattere è intimo e pastorale, quasi una romanza o un inno. La scrittura è elegante e fluida, pervasa da un calore e una sincerità che ricordano Schubert.
La sezione centrale introduce un elemento di contrasto e l’atmosfera si fa più inquieta e passionale. La melodia passa ai legni, con splendidi assoli di clarinetto e oboe, mentre l’armonia si tinge di un cromatismo più denso: c’è un senso di nostalgia e di leggero turbamento che arricchisce la tavolozza emotiva del movimento, pur senza mai perdere la sua grazia di fondo.
Il tema principale ritorna, ma questa volta con un’orchestrazione più ricca e un’intensità emotiva maggiore: è come se la melodia, dopo aver attraversato il dubbio della sezione precedente, riemergesse con una consapevolezza più profonda. Il movimento si dissolve in una coda pacata e sognante, che conclude in un’aura di pace e tranquillità.
Come suggerisce il titolo, il terzo movimento è un omaggio diretto alla tradizione classica, un Minuetto con trio: non uno scherzo romantico e impetuoso, dunque, ma una danza elegante e misurata, dal sapore settecentesco.
La sezione principale è costruita su una melodia aggraziata e aristocratica, con il caratteristico ritmo ternario. L’orchestrazione alterna con eleganza gli archi e i fiati in un gioco di domande e risposte. Lo stile è garbato e formale, evocando le danze di corte ma con un colore armonico più ricco rispetto al Classicismo puro.
La sezione centrale, il trio, offre un netto contrasto: la tessitura orchestrale si assottiglia, diventando più leggera e trasparente. L’atmosfera è più intima e rustica, con i legni (in particolare flauto e clarinetto) che disegnano melodie bucoliche su un delicato accompagnamento degli archi pizzicati. È un intermezzo di grande fascino e semplicità. Il movimento si conclude con la ripresa esatta del Minuetto, che riporta l’atmosfera iniziale e chiude la forma in modo equilibrato e simmetrico, in perfetta aderenza allo “stile antico”.
Il finale è un movimento brillante e pieno di slancio, costruito in una forma che unisce gli elementi del rondò e della forma-sonata (rondò-sonata). È una conclusione piena di luce ed energia.
Il movimento si apre immediatamente con il tema principale, un motivo vivace, spensierato e ritmicamente incalzante, presentato dagli archi: questo tema ricorrente funge da pilastro strutturale e conferisce al finale il suo carattere gioioso e propulsivo. Il tema principale si alterna a episodi contrastanti: un primo episodio più melodico e giocoso è seguito da una sezione più complessa e drammatica che funge da vero e proprio sviluppo. Qui, Reznicek frammenta il tema del rondò, lo passa attraverso diverse tonalità e lo contrappone a fanfare degli ottoni, creando un climax di notevole tensione sinfonica.
Dopo la tempesta dello sviluppo, il tema del rondò ritorna trionfalmente, seguito dagli altri elementi tematici. La coda finale è un’esplosione di gioia orchestrale: il tempo accelera progressivamente e l’intera orchestra, con ottoni squillanti e timpani martellanti, si lancia in una conclusione esuberante e virtuosistica, suggellando la sinfonia con una potente e luminosa affermazione in re maggiore.

Sinfonia di primavera

Robert Schumann (1810 - 29 luglio 1856): Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore op. 38, Frühlingssymphonie (1841). Wiener Philharmoniker, dir. Leonard Bernstein.

  1. Andante un poco maestoso – Allegro molto vivace
  2. Larghetto [11:37]
  3. Scherzo: Molto vivace [19:30]
  4. Allegro animato e grazioso [25:35]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

La Sinfonia n. 1 rappresenta un punto di svolta fondamentale nella carriera di Robert Schumann. Composta nel 1841, l’anno successivo al suo agognato matrimonio con Clara Wieck, quest’opera segna il suo primo grande successo nel campo della musica sinfonica, un genere che fino ad allora aveva affrontato con esitazione. Incoraggiato proprio da Clara, che vedeva nella scrittura orchestrale il campo d’azione ideale per l’immaginazione del marito, Schumann riversò in questa sinfonia un’energia creativa travolgente, completando lo schizzo in soli quattro giorni. Il sottotitolo assegnato alla composizione non è casuale: benché Schumann abbia poi eliminato i titoli programmatici che in un primo tempo aveva dato a ciascun movimento, la sua intenzione era chiara, come rivelato in una sua lettera: evocare il risveglio della natura e le passioni che la primavera suscita nell’animo umano.
La sinfonia ha inizio con una fanfara di trombe e corni, un «richiamo al risveglio» che, secondo le parole di Schumann, dovrebbe suonare «come se venisse dall’alto». L’orchestra subito risponde con un suono nobile e solenne, per poi lasciare spazio a un’atmosfera più cupa e misteriosa, dove archi e legni introducono un senso di attesa, come la natura che attende di germogliare sotto la coltre invernale. Un improvviso accelerando scatena l’Allegro: l’orchestra esplode in un tema gioioso e ritmico, che incarna «tutto ciò che riguarda la primavera che prende vita». I violini si scambiano agili frasi melodiche, mentre i legni dialogano con leggerezza, quasi a rappresentare «una farfalla che volteggia nell’aria». Il secondo tema è più cantabile e lirico, affidato ai clarinetti e ai violini, e offre un momentaneo respiro prima che l’energia ritmica riprenda il sopravvento. Lo sviluppo è un turbinio di frammenti tematici, in cui Schumann dimostra la propria maestria contrappuntistica: particolarmente suggestivo è il dialogo tra i corni e i legni, e l’uso innovativo dei timpani, il cui rullare aggiunge una tensione drammatica. La ripresa riporta la gioia iniziale, culminando in una coda trionfale dove l’intera orchestra celebra la piena esplosione della primavera.
Il secondo movimento – originariamente intitolato Sera – è un momento di pura poesia lirica: gli archi intonano una melodia tenera e sognante, quasi una romanza senza parole. L’atmosfera è intima e contemplativa e un dialogo delicato si sviluppa tra gli archi, in particolare tra violini e violoncelli e i legni. La conclusione del movimento è magistrale: anziché chiudere nella tonalità di mi bemolle maggiore, una solenne chiamata dei tromboni modula verso il re maggiore, creando un ponte sonoro che si collega direttamente, senza alcuna pausa, al movimento successivo.
Attaccandosi senza soluzione di continuità al Larghetto, lo Scherzo irrompe con un tema vigoroso e quasi rustico, in re minore: il ritmo è martellante e l’energia palpabile, evocando l’idea delle «allegre compagnie». La struttura dello scherzo è insolita, con due trii: il primo porta un cambio di umore e tonalità, con una sezione più leggera e giocosa, un valzer stilizzato in cui i legni e gli archi dialogano con vivacità, mentre il secondo trio (in si bemolle maggiore) introduce un’atmosfera più intima e riflessiva, quasi un ricordo del tema dell’introduzione del primo movimento, con i corni in evidenza. Lo Scherzo ritorna per una breve ripresa prima di una coda accelerata che conduce a una conclusione energica e affermativa in re maggiore.
Il movimento conclusivo – «Primavera in pieno rigoglio» – si apre con una scala ascendente piena di grazia e slancio, suonata dall’intera orchestra che introduce subito un’atmosfera di gioia festosa. Il primo tema è leggero e danzante, pieno di eleganza (“grazioso”), con i violini che eseguono con agilità le veloci figurazioni. Un momento di particolare bellezza è l’assolo del flauto che introduce una cadenza virtuosistica prima che il tema principale ritorni con ancora più forza. L’elemento più caratteristico del finale è la fanfara dei corni, un richiamo gioioso che attraversa l’intero movimento, conferendogli un carattere eroico e celebrativo. Lo sviluppo è un crescendo continuo di energia, con l’orchestra che si lancia in un vortice sonoro inarrestabile. La coda accelera ulteriormente, spingendo la sinfonia verso una conclusione esuberante e trionfale, suggellata da un potente accordo finale dell’intera orchestra.

Schumann, op. 38

La Seconda Sinfonia di Ernő Dohnányi

Ernő Dohnányi (27 luglio 1877 - 1960): Sinfonia n. 2 in mi minore op. 40 (1944, rev. 1957). BBC Philharmonic Orchestra, dir. Matthias Bamert.

  1. Allegro con brio ma energico e appassionato
  2. Adagio pastorale, molto con sentimento [13:46]
  3. Burla: Allegro [26:09]
  4. Variazioni [30:45]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Ernő Dohnányi: la musica, la guerra, la fede e la pace

L’ungherese Ernő (alias Ernst von) Dohnányi è stato un acclamato compositore, un pianista virtuoso, un direttore d’orchestra di prima grandezza e un didatta influente.

Formazione e primi successi: sotto l’ala di Brahms e Liszt
Nato a Pozsony (l’odierna Bratislava), Dohnányi ricevette la sua prima educazione musicale dal padre, un professore di matematica e violoncellista dilettante. Il suo talento lo portò all’Accademia reale di musica di Budapest, dove studiò con figure chiave che plasmarono la sua duplice identità artistica: István Thomán, allievo di Liszt, che ne forgiò il virtuosismo pianistico, e Hans von Koessler, devoto di Brahms, che ne influenzò lo stile compositivo. Questa doppia influenza si rivelò cruciale: il suo primo lavoro pubblicato, il Quintetto per pianoforte in do minore, ricevette l’approvazione personale di Johannes Brahms, che lo promosse a Vienna. Dimostrando una precocità eccezionale, Dohnányi si diplomò a meno di vent’anni, ottenendo il massimo dei voti sia come pianista che come compositore. Il suo debutto a Berlino nel 1897 fu un trionfo, seguito da tournée di successo in tutta Europa e negli Stati Uniti, dove si distinse non solo come solista ma anche come musicista da camera, una pratica non comune per i grandi pianisti dell’epoca.

La carriera a Budapest e la vita privata
Dopo un periodo di insegnamento a Berlino (1905-15), Dohnányi tornò a Budapest, diventando una figura centrale della vita musicale ungherese. Fu nominato direttore musicale dell’Orchestra filarmonica di Budapest e, a più riprese, direttore dell’Accademia di musica. In questi ruoli, si impegnò attivamente a promuovere la musica dei suoi contemporanei, inclusi compositori come Béla Bartók e Zoltán Kodály, dimostrando grande apertura artistica. Fu anche un insegnante di fama mondiale, formando una generazione di musicisti di spicco come Georg Solti, Annie Fischer e Géza Anda. La sua vita personale fu altrettanto intensa e complessa: ebbe tre matrimoni e diversi figli. Tra questi, Hans von Dohnányi, nato dal primo matrimonio, divenne un’importante figura della resistenza tedesca anti-nazista; internato nel campo di concentramento di Sachsenhausen, vi morì poco prima della fine della guerra.

Gli anni di guerra e le controversie
Il periodo della seconda guerra mondiale gettò un’ombra sulla reputazione di Dohnányi: nonostante le accuse successive, si impegnò contro le crescenti influenze naziste in Ungheria. Nel 1941 si dimise dalla carica di direttore dell’Accademia di musica per non dover applicare le leggi anti-ebraiche. Inoltre, protesse i membri ebrei della sua orchestra fino a due mesi dopo l’invasione tedesca del marzo 1944, quando fu costretto a sciogliere la compagine. La sua decisione di trasferirsi in Austria nel novembre 1944 attirò molte critiche. Tuttavia, ricerche successive, in particolare quelle dello storico James A. Grymes, lo hanno riabilitato, definendolo «un eroe dimenticato della resistenza all’Olocausto» per aver aiutato attivamente numerosi colleghi ebrei a fuggire.

Il periodo americano e gli ultimi anni
Nel 1949 Dohnányi si trasferì negli Stati Uniti, dove iniziò un nuovo capitolo della sua vita. Per dieci anni insegnò presso la School of Music della Florida State University a Tallahassee, diventando cittadino americano nel 1955: in questo periodo continuò a comporre, mostrando interesse per la musica popolare americana, come dimostra la sua American Rhapsody (1953). La sua ultima esibizione pubblica avvenne il 30 gennaio 1960, proprio alla Florida State University. Morì di polmonite a New York dieci giorni dopo.

Eredità e stile musicale
L’eredità di Dohnányi è vasta e multiforme. Il governo ungherese gli ha conferito postumo il Premio Kossuth, la sua più alta onorificenza civile, nel 1990. Le sue registrazioni continuano a essere ristampate e i suoi scritti didattici, come gli Esercizi giornalieri per il pianista avanzato, sono ancora in uso. Dal punto di vista compositivo, il suo stile è profondamente radicato nel Romanticismo, conservatore ma personale: sebbene influenzato strutturalmente da Brahms, la sua musica mantiene una voce unica. A differenza di Bartók e Kodály, il suo uso di elementi folcloristici ungheresi è più un colore che il fondamento del suo linguaggio musicale. Tra le sue opere più celebri e durature spiccano la Serenata in do maggiore per trio d’archi, op. 10 e le brillanti Variazioni su una melodia infantile per pianoforte e orchestra, op. 25. La sua Seconda Sinfonia – composta durante la guerra – rivela un lato insolitamente cupo e dissonante, riflettendo la tragicità del suo tempo.

Analisi della Seconda Sinfonia
Questa opera monumentale e profondamente personale testimonia l’epoca tragica in cui fu composta; si articola in un percorso emotivo magistrale che conduce l’ascoltatore dalle tenebre di un mondo in guerra alla trascendenza della fede e della pace.
Il primo movimento è un imponente affresco in forma-sonata, che stabilisce fin da subito un clima di conflitto e tensione eroica. La sinfonia si apre senza preamboli con il primo tema in mi minore, un motivo impetuoso e frammentato, enunciato con vigore dall’intera orchestra (tutti). La sua caratteristica principale è una figura ritmica secca e martellante (marcatissimo), costruita su arpeggi ascendenti che creano un senso di lotta e di urgenza inarrestabile. L’orchestrazione è densa e potente, dominata dagli ottoni e dagli archi.
Dopo la furia iniziale, la musica si placa brevemente: la tensione diminuisce, lasciando spazio a un episodio più lirico e preparatorio, sebbene ancora percorso da un’inquietudine latente. Il secondo tema, in sol maggiore, offre un contrasto netto: è una melodia ampia, cantabile e intensamente romantica, affidata agli archi. Questo tema rappresenta un’oasi di lirismo e calore umano, un momento di respiro nostalgico che si contrappone alla brutalità del primo tema. Dohnányi sviluppa questa melodia con grande maestria, creando un crescendo passionale di straordinaria bellezza.
Lo sviluppo è la sezione più drammatica e complessa del movimento: il compositore frammenta e contrappone i due temi principali in un magistrale gioco contrappuntistico. Il primo tema viene trasformato, variato ritmicamente e armonicamente, apparendo in diverse sezioni dell’orchestra con un carattere sempre più minaccioso. Il secondo tema lirico viene anch’esso travolto da questa turbolenza, riapparendo in contesti armonici tesi che ne alterano il carattere sereno. L’orchestrazione diventa un campo di battaglia sonoro, con dialoghi serrati tra legni, ottoni e archi, e con improvvisi picchi dinamici che mantengono altissima la tensione.
La ricapitolazione riesplode con il ritorno del primo tema in tutta la sua potenza originaria. Il secondo tema è invece esposto nella tonalità di mi maggiore (tonica maggiore), portando un raggio di luce e speranza dopo il tumulto. Tuttavia, la vittoria non è ancora definitiva. La coda riprende la drammaticità iniziale: la musica accelera in un vortice finale, in cui frammenti del primo tema si scontrano in un climax di furia implacabile. Il movimento si conclude con accordi secchi e potenti in mi minore, affermando il carattere tragico e combattivo del brano.
Dopo la tempesta del primo movimento, l’Adagio offre un momento di profonda riflessione e serenità. È strutturato in una forma ternaria (ABA). Il movimento si apre con una melodia pastorale di incantevole dolcezza, introdotta dal flauto e poi ripresa dal corno inglese. L’accompagnamento degli archi con sordina e dell’arpa crea un’atmosfera idilliaca e quasi sognante: è una musica intrisa di nostalgia per un mondo perduto, un ricordo di pace e bellezza naturale. L’armonia è ricca e cromatica, tipica dello stile tardo-romantico.
La sezione centrale introduce un elemento di maggiore passione e inquietudine: la melodia diventa più intensa e drammatica, l’orchestrazione si infittisce con l’ingresso degli ottoni e il volume cresce fino a un climax emotivo. Questo episodio sembra rappresentare un ricordo doloroso o un’ombra della tragedia del primo movimento che turba la quiete pastorale.
Il tema pastorale iniziale ritorna, questa volta ancora più trasfigurato e malinconico: la pace è riconquistata, ma ora è una pace consapevole della sofferenza passata. Il movimento si conclude in un sussurro, con gli strumenti che si diradano fino a lasciare solo poche note sospese, spegnendosi in un’atmosfera di serena rassegnazione.
Il terzo movimento è uno scherzo dal carattere grottesco e demoniaco, una vera e propria danza macabra che riflette l’assurdità e l’orrore della guerra. Esso inizia con un ritmo ostinato, quasi meccanico e spettrale, affidato ai legni e agli archi in pizzicato. Su questo sfondo si innestano temi brevi, spigolosi e dissonanti: Dohnányi utilizza brillantemente gli ottoni con sordina e glissandi per creare un effetto sarcastico e terrificante. L’atmosfera è quella di una parata infernale, piena di energia selvaggia e sinistra.
La sezione centrale offre un contrasto surreale: si tratta di un valzer distorto, dal sapore quasi mahleriano, che suona come il ricordo sbiadito di una festa elegante in un mondo ormai in rovina. La melodia è più semplice ma pervasa da un’ironia amara.
Lo Scherzo iniziale ritorna con una furia ancora maggiore, portando il caos al suo apice. La coda è un Prestissimo travolgente che si conclude con un colpo secco e brutale dell’intera orchestra, lasciando l’ascoltatore senza fiato.
Il finale è il cuore spirituale della sinfonia: è un vasto movimento strutturato come tema e variazioni, basato sul corale di J.S. Bach Komm, süßer Tod, komm sel’ge Ruh. Un’introduzione lenta e solenne prepara l’ingresso del tema e il corale viene presentato in modo semplice e austero dagli archi, creando un’atmosfera di profonda devozione e contemplazione della mortalità.
Dohnányi costruisce una serie di variazioni magistrali che esplorano ogni aspetto emotivo del corale: le prime variazioni mantengono un carattere lirico e riflessivo; seguono episodi più mossi e drammatici, che richiamano la lotta del primo movimento; una variazione assume i contorni di una marcia funebre, maestosa e dolente; altre esplorano la grazia e la leggerezza, quasi come uno scherzo etereo.
La sezione culminante è una grandiosa fuga a piena orchestra. Il tema del corale di Bach funge da soggetto e viene elaborato con un contrappunto denso e complesso, in un crescendo di tensione e magnificenza che dimostra la straordinaria abilità tecnica del compositore: la fuga rappresenta il trionfo dell’ordine spirituale sul caos terreno.
La sinfonia si conclude con un’apoteosi finale: il tema del corale risuona trionfalmente in mi maggiore, trasformato da preghiera per la morte a inno di speranza e redenzione. L’orchestra intera celebra una vittoria luminosa e trascendente: la Seconda Sinfonia, iniziata nel fragore della battaglia, si chiude così con un messaggio di pace e di fede incrollabile.

Aleksandr Kopylov, opus 14

Aleksandr Aleksandrovič Kopylov (14 luglio 1854 - 1911): Sinfonia in do minore op. 14 (1888). Orchestra sinfonica di Mosca, dir. Antonio de Almeida.

  1. Andante – Poco più mosso – Animato – Allegro
  2. Scherzo: Presto – Allegretto – Presto [19:38]
  3. Andante [25:12]
  4. Finale: Allegro [36:54]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Aleksandr Kopylov: l’equilibrio tra forma e sentimento nella Russia imperiale

Aleksandr Aleksandrovič Kopylov è stato un violinista e compositore russo che, pur non raggiungendo la fama dei suoi più celebri contemporanei, ha lasciato un’impronta significativa nella musica da camera e sinfonica del suo tempo, meritando l’ammirazione di critici e musicisti di spicco.

Una formazione atipica
La carriera musicale di Kopylov ebbe inizio in un ambiente prestigioso: per molti anni fu corista e violinista presso il Coro imperiale di corte di San Pietroburgo, un’istituzione modellata sul celebre coro dei Piccoli cantori di Vienna. Successivamente, divenne egli stesso un insegnante all’interno della stessa Cappella di corte, un ruolo che mantenne per gran parte della sua vita. Nonostante questo background, Kopylov non riuscì a ottenere l’ammissione nei principali conservatori russi. Questa battuta d’arresto non spense però le sue ambizioni: intraprese studi privati, affidandosi alla guida di due figure fondamentali della musica russa: studiò con Anatolij Ljadov (composizione) e con Nikolaj Rimskij-Korsakov (orchestrazione). Questa formazione privata fu fondamentale per affinare la sua tecnica e sviluppare il suo talento compositivo.

La produzione musicale: dalla sinfonia alla musica da camera
Inizialmente, Kopylov si guadagnò una solida reputazione come compositore di sinfonie e romanze. Tra le sue opere più importanti di questo periodo figurano la Sinfonia in do minore op. 14, una Ouverture da concerto op. 31 e uno Scherzo in la maggiore per orchestra. Fu grazie alla sua amicizia con Rimskij-Korsakov e alla sua partecipazione alle riunioni del Circolo di Beljaev che Kopylov si interessò profondamente alla musica da camera. In questo ambito trovò la sua espressione più riuscita, componendo quattro quartetti per archi che furono molto apprezzati dai contemporanei. Partecipò attivamente ai progetti del circolo, contribuendo con brani come un Andantino e un Preludio e Fuga sul tema si-la-fa, dedicati al mecenate e fondatore Mitrofan Petrovič Beljaev.

I quartetti per archi: vertice della maestria compositiva
I suoi quattro quartetti per archi sono considerati il culmine della sua produzione. Nello Handbuch für Streichquartettspieler il celebre studioso di musica da camera Wilhelm Altmann ne offre una valutazione entusiastica: «I quattro quartetti per archi di Kopylov sono scritti con attenzione e mostrano una assoluta ed eccezionale padronanza del corretto stile del quartetto. Egli dà a tutti gli strumenti, reciprocamente, ricche parti da eseguire, alternandole in modo squisito. La sua eccellenza è particolarmente forte nei temi spumeggianti. Egli è in grado di coniugare la bellezza della forma con idee efficaci di ottime armonie e ritmi». A testimonianza del loro valore, almeno uno dei suoi quartetti entrò nel repertorio del famoso Quartetto Kneisel e, inoltre, una copia del Quartetto per archi n. 2 in fa maggiore op. 23 (pubblicato da Beljaev nel 1894) – conservata presso la biblioteca della Cornell University – reca delle annotazioni a margine sulla parte del primo violino realizzate dal leggendario violinista Eugène Ysaÿe.

Stile e critica
Secondo il Nuovo dizionario enciclopedico dell’epoca, lo stile di Kopylov – benché non particolarmente originale e anzi chiaramente influenzato da Čajkovskij e Borodin – è caratterizzato da notevole eleganza e perfezione formale. Le sue opere furono definite «interessanti nei dettagli e perfette nella scrittura». Nel complesso, Kopylov riuscì a creare una musica formalmente impeccabile, ricca di idee efficaci e pregevoli armonie, pur muovendosi nel solco della grande tradizione romantica russa.

La Sinfonia in do minore op. 14: analisi
Questa composizione bene si inquadra nella grande tradizione del Romanticismo russo e rivela una grande padronanza della forma, una brillante abilità orchestrale e una profonda sensibilità melodica. La composizione segue un percorso emotivo classico, dal pathos drammatico del do minore iniziale alla conclusione trionfale in do maggiore.
Il primo movimento si apre con una cupa e solenne introduzione (Andante): i legni, in particolare fagotti e clarinetti, espongono un tema meditativo e malinconico che stabilisce immediatamente un’atmosfera tipicamente russa, carica di un senso di fatalità che ricorda le introduzioni sinfoniche di Čajkovskij. L’orchestrazione è scura e densa, con gli archi gravi che forniscono un tappeto sonoro su cui si sviluppa la melodia. Una progressione graduale (Poco più mosso – Animato) aumenta la tensione e la velocità, preparando l’ascoltatore all’esplosione dell’Allegro. Quest’ultimo è strutturato in una chiara forma-sonata. Il primo tema, in do minore, è eroico e ansimante, affidato principalmente agli archi e caratterizzato da un ritmo incalzante e da una forte carica drammatica. Dopo una transizione energetica, emerge il secondo tema: in contrasto netto, questo è una melodia lirica e cantabile, introdotta dai legni e poi ripresa dagli archi. Il suo carattere più dolce e sognante, nella tonalità relativa maggiore (mi bemolle) offre un’oasi di serenità rispetto alla turbolenza iniziale. La sezione centrale è un elaborato intreccio dei due temi principali: Kopylov dimostra qui la propria abilità contrappuntistica e orchestrale, mettendo i temi in dialogo tra le varie sezioni dell’orchestra, esplorando diverse tonalità e creando potenti ondate di tensione, con interventi decisi degli ottoni e delle percussioni. La ripresa riporta il primo tema con forza rinnovata, mentre il secondo tema ricompare ora nella tonalità parallela (do maggiore), trasformando la sua natura sognante in un’affermazione luminosa e ottimista. La coda finale è grandiosa e conclude il movimento con un’affermazione energica e positiva.
Il secondo movimento è uno scherzo scattante e spiritoso: Il Presto iniziale è caratterizzato da un tema leggero e danzante, affidato a rapidi passaggi degli archi e a giocosi interventi dei legni. L’atmosfera è brillante e piena di energia, con un’orchestrazione trasparente che ricorda la leggerezza di Mendelssohn, pur mantenendo un robusto sapore ritmico russo. La sezione centrale (Allegretto) offre un magnifico contrasto, con il tempo che rallenta e il carattere che diventa pastorale e lirico. Un tema dolcissimo che evoca una melodia popolare russa viene introdotto dai legni su un delicato pizzicato degli archi: è un momento di pura poesia e semplicità, che mostra un lato più intimo e nazionale della sensibilità di Kopylov. La ripresa del Presto iniziale chiude il movimento con la stessa energia e brillantezza.
Il movimento lento è il cuore pulsante e lirico della sinfonia: si apre con una melodia ampia e appassionata negli archi, guidata dai violoncelli, che esprime un sentimento di profonda nostalgia e calore. L’orchestrazione è ricca e avvolgente e il tema principale viene magnificamente sviluppato e passato tra le diverse sezioni, con un ruolo di spicco per il clarinetto solista che ne offre una versione ancora più intima e riflessiva. La struttura del movimento segue una forma tripartita (ABA), con la sezione centrale più drammatica e inquieta: la musica si fa più densa e il volume cresce, raggiungendo un climax emotivo che interrompe temporaneamente la serenità iniziale. Il ritorno del tema principale è ancora più toccante, presentato in una veste orchestrale più tenue e quasi sussurrata, prima di dissolversi in una conclusione di pace trasognata e malinconica. È il movimento in cui l’influenza di Čajkovskij è più evidente, sia nell’intensità melodica che nella ricchezza armonica.
Il Finale trionfale riprende e porta a compimento il percorso emotivo dell’intera sinfonia: il movimento esplode con un tema festoso e baldanzoso in do maggiore, caratterizzato da un ritmo vigoroso e da un’orchestrazione brillante che coinvolge l’intera orchestra, con ottoni squillanti e percussioni incisive. Il carattere è quello di una danza popolare russa, piena di vitalità e slancio. La struttura – riconducibile a una forma di rondò-sonata – alterna il tema principale a episodi più lirici, ma è il sentimento di giubilo a dominare. Kopylov utilizza efficacemente tutta la tavolozza orchestrale, creando un finale pieno di colore e dinamismo. La musica accelera progressivamente verso una coda grandiosa e affermativa che sigilla l’opera in maniera radiosa e definitiva.

Kopylov, op. 14

Il Danubio

Leoš Janáček (3 luglio 1854 - 1928): Dunaj (Il Danubio), sinfonia in 4 movimenti (1923-28, completata da Osvald Chlubna, Miloš Štědroň e Leoš Faltus). Karolína Dvořáková, soprano; Jiří Beneš, viola solista; Filharmonie Brno, dir. František Jílek.

  1. Andante
  2. [senza indicazione di movimento]
  3. Allegro
  4. [senza indicazione di movimento]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Janáček e la sinfonia Il Danubio: il fiume incompiuto dell’anima femminile

Janáček concepì l’idea della sinfonia Il Danubio a partire dal 1923, dopo un periodo felice trascorso a Bratislava, in seguito al successo della sua opera Káťa Kabanová. Inizialmente pensata come un poema sinfonico slavo ispirato dal fiume che attraversa quattro Stati slavi, il compositore scelse di discostarsi da un approccio puramente descrittivo, come quello di Smetana nella Moldava. Il suo intento era invece quello di esplorare il legame mitico tra il destino delle donne, l’acqua e la morte, immaginando il Danubio come una figura femminile, piena di passione e con i propri istinti.
Il compositore stesso descrisse così la proprio idea: «Onde verde pallido del Danubio! Ce ne sono così tante e una segue l’altra. Rimanete interconnesse in un flusso continuo. Vi sorprendete dove siete finite – sulle rive ceche! Guardate a valle, e avrete un’impressione di ciò che vi siete lasciate alle spalle nella vostra fretta. Vi piace qui. Qui mi riposerò con la mia sinfonia».
L’ispirazione per il primo e l’ultimo movimento proviene dalla poesia Lola della scrittrice boema Sonja Špálová, pubblicata sotto lo pseudonimo di Alexander Insarov: vi si racconta la storia di una prostituta che, dopo una vita di piaceri e agi, finisce in miseria, affamata e sola. Janáček aggiunse di suo pugno una nota finale alla poesia, non presente nell’originale: «si getta nel Danubio». Il secondo e il terzo movimento, invece, si basano su un’altra poesia, La ragazza annegata di Pavla Křižková, nella quale si narra di una giovane che, spiata da uno sconosciuto mentre fa il bagno, per la vergogna si getta nel fiume e annega.
Nel 1924 Janáček aveva già abbozzato il secondo movimento, con l’intenzione di completare l’opera dopo un viaggio sul Danubio, viaggio che non riuscì mai a realizzare per motivi politici. Dopo la morte del compositore nel 1928 si trovarono frammenti di quattro movimenti che furono successivamente completati da Osvald Chlubna, allievo di Janáček, nel 1948; la prima esecuzione ebbe luogo a Brno nello stesso anno. Successive edizioni e ricostruzioni sono state curate da Miloš Štědroň e Leoš Faltus, basandosi sugli schizzi originali orchestrati.

Il primo movimento si apre senza preamboli, in medias res, con un assolo di violino che si libra in un registro acutissimo. La melodia è lirica e inquieta, quasi un pensiero errante che cerca una direzione. Non è un tema sinfonico tradizionale, ma una linea melodica fluttuante e solitaria. Quasi immediatamente viene introdotto un breve motto discendente di due-tre note, un “sospiro” affidato ai legni. Questo è un esempio perfetto della “melodia del parlato” di Janáček, un frammento ossessivo che funge da cellula generatrice e da commento emotivo. Per tutto il movimento, questo motto riapparirà come un’eco, un pensiero ricorrente o un presagio. L’armonia è subito ambigua e modale. Gli arpeggi dell’arpa aggiungono un colore acquatico e onirico, offuscando ulteriormente i contorni tonali e creando una trama rarefatta e sognante. L’intera prima sezione è un dialogo tra il violino solista, i sospiri dei legni e i veli sonori dell’arpa, creando un senso di mistero e sospensione.
Successivamente, Il tempo si anima leggermente e l’umore diventa più nervoso. I flauti e gli oboi introducono una nuova figura musicale, un motivo veloce e quasi febbrile che si ripete con insistenza. Questa sezione ha il carattere di uno sviluppo, dove la tensione latente dell’apertura inizia a manifestarsi più chiaramente. I violoncelli emergono con una linea melodica più calda e definita, ma anche questa viene presto interrotta, come un ricordo che non riesce a prendere forma completamente. La musica cresce in intensità, culminando in un breve ma passionale fremito degli archi. Questo è il primo vero momento di “tutti” orchestrale, un’ondata emotiva che però si ritira quasi subito, lasciando un’impressione di instabilità e irrequietezza.
La tempesta emotiva si placa tanto rapidamente quanto era sorta. Ritorna l’atmosfera iniziale e Il violino solista riprende il suo canto solitario, ma ora sembra più riflessivo, quasi rassegnato. Non è una ripresa letterale, ma una rivisitazione nostalgica del materiale di apertura. Il dialogo tra gli strumenti solisti diventa il cuore di questa sezione: emerge uno struggente assolo dell’oboe che introduce una nuova melodia piena di malinconia e desiderio. È un momento di pura espressione lirica, a cui risponde poco dopo il flauto, continuando la conversazione con una grazia eterea. In sottofondo, il motto del “sospiro” continua a punteggiare il discorso musicale, come un commento silenzioso.
Il finale del movimento è straordinario nella sua fragilità: la musica non si conclude, ma semplicemente si dissolve. La tessitura orchestrale si assottiglia fino a diventare quasi impercettibile. Sentiamo gli armonici acuti e gelidi degli archi che creano un’atmosfera spettrale. Il motto del “sospiro” viene sussurrato un’ultima volta dai clarinetti, mentre il violino solista si libra verso l’acuto con un ultimo, fantasmagorico frammento della sua melodia. Il movimento si spegne su note tenute e un delicato pizzicato dei contrabbassi, svanendo nel silenzio più assoluto.

Il secondo movimento si apre in un’atmosfera sospesa e quasi irreale, che evoca l’acqua scura e scintillante del fiume di notte. Dominano gli archi con sordina, che creano un tremolo leggerissimo e vitreo. Da questo sfondo emerge il violino solista con un motivo lamentoso e ascendente: la sua linea è esile, esitante, quasi un sospiro che incarna la fragilità e il tormento della giovane. Si percepisce anche il colore particolare della viola d’amore, che aggiunge una sfumatura arcaica e malinconica al tessuto sonoro. L’armonia è instabile, priva di un centro tonale chiaro, generando un senso di smarrimento e di ipnotica attrazione verso l’abisso. È la rappresentazione musicale del confine tra coscienza e oblio.
Qui entra in scena la melodia che rappresenta la seduzione del Danubio, il suo richiamo mortale. Fa il suo ingresso un flauto solista a intonare una melodia pura, sinuosa e disincarnata. Sotto questa melodia, l’orchestra, guidata dagli archi e dagli altri legni, costruisce un crescendo inesorabile. La tensione sale, passando da un sussurro a un’ondata sonora potente e appassionata che simboleggia la crescente forza della tentazione. Il culmine è un accordo orchestrale potente che si spegne di colpo.
Con un taglio netto e brutale, tipico di Janáček, l’atmosfera cambia radicalmente. La musica si trasforma in un valzer, ma è una caricatura sgraziata e volgare. Il ritmo è ossessivo e martellante, mentre la melodia assume un carattere triviale e sfacciato. Il motivo lamentoso del violino solista riappare, ora più agitato e disperato. Si scontra con i frammenti del valzer grottesco, che serpeggiano nei registri gravi.
Il flauto solista ritorna con la sua melodia, ma ora è trasfigurato. Non è più seducente; è teso, acuto, quasi un grido di angoscia che perfora la massa orchestrale. L’orchestra lo accompagna in un’ascesa travolgente verso un climax assordante e violentemente dissonante. Immediatamente dopo, l’orchestra collassa: un lungo e drammatico glissando discendente degli archi e dei tromboni segna la resa della giovane.
Il movimento si chiude in un’atmosfera di desolazione, senza alcuna catarsi. La quiete che segue non è pace, ma vuoto: sentiamo solo i frammenti del valzer grottesco, ora lenti e spettrali nel registro grave del clarinetto basso. La musica si spegne su un accordo lungo e ambiguo dei contrabbassi, lasciando un senso di profonda amarezza. La lotta è finita, ma non c’è salvezza, solo la constatazione di una vita senza speranza.

Il terzo movimento, invece, si apre in un’atmosfera di rarefatta sospensione. Non c’è un tema orchestrale definito, ma un vero e proprio monologo del violino solista. Questo non è un passaggio concertistico virtuosistico, ma piuttosto un “recitativo” strumentale che incarna perfettamente la teoria di Janáček della “melodia del parlato”. Il violino espone una serie di brevi frasi frammentarie, quasi interrogative. I motivi sono costruiti su piccoli intervalli, spesso ripetuti ossessivamente ma con leggere variazioni ritmiche, come se un pensiero faticasse a trovare una forma compiuta. Le pause sono eloquenti quanto le note, creando un senso di esitazione e introspezione.
L’orchestra funge da tappeto sonoro, un paesaggio sonoro più che un accompagna­mento. L’armonia è instabile e modale, evitando una chiara tonalità. Sentiamo il tremolo leggerissimo degli archi con sordina, arpeggi eterei dell’arpa e interventi isolati dei legni, che punteggiano il discorso del violino come echi lontani o riflessi sull’acqua. La tessitura è incredibilmente trasparente e delicata: ogni strumento è scelto per il suo timbro specifico, contribuendo a creare un’atmosfera di mistero e solitudine. Si ha l’impressione di ascoltare la voce interiore di un personaggio che vaga in un paesaggio desolato, illuminato solo da una luce spettrale.
Il movimento raggiunge il suo cuore emotivo con l’ingresso del soprano solista. La scelta di Janáček è radicale e di grande efficacia: la cantante non intona un testo, ma esegue un vocalizzo, una melodia senza parole. Questa scelta spoglia l’emozione di ogni specificità narrativa, rendendola universale. È un lamento puro, un’espressione di nostalgia, tristezza o desiderio che trascende la lingua. La voce umana diventa uno strumento tra gli strumenti, ma con una carica emotiva superiore.
La linea melodica del soprano riprende lo stile frammentario e “parlato” del violino. I due solisti entrano in un dialogo fitto e commovente. A volte il soprano sembra completare una frase iniziata dal violino, altre volte è il violino a fare eco al lamento della voce. Questa interazione crea una tensione drammatica palpabile: è l’incontro tra l’anima (la voce umana) e il suo riflesso o la sua coscienza (il violino). L’orchestra sostiene questo dialogo con estrema discrezione. Gli archi creano ondate sonore quasi impercettibili, mentre l’arpa continua a tessere le sue trame cristalline. La dinamica cresce leggermente, ma non esplode mai, mantenendo il carattere cameristico e intimo della scena. L’emozione si intensifica, ma rimane interiorizzata, un dolore sussurrato più che gridato.
La sezione finale del movimento è tanto audace quanto il suo inizio. Invece di una risoluzione, assistiamo a una progressiva dissoluzione del materiale sonoro. Il dialogo tra violino e soprano si spegne. L’orchestrazione si fa ancora più scarna, riducendosi a suoni acuti e cristallini. Gli archi, nel registro più alto, creano un suono quasi immateriale, come stelle che brillano fredde nel cielo notturno. Gli ultimi frammenti melodici del violino solista salgono verso l’acuto e si perdono.
Dopo un crescendo quasi isterico degli archi su un accordo dissonante, la musica non sfuma, ma si interrompe bruscamente. Questo finale tronco lascia l’ascoltatore in uno stato di sospensione totale, come se si fosse svegliato di soprassalto da un sogno o come se la scena fosse stata tagliata di netto. È una domanda che rimane senza risposta, un’immagine che svanisce prima di essere pienamente compresa.

L’ultimo movimento si apre con un’atmosfera nebbiosa e scintillante. Janáček costruisce un “ambiente” sonoro più che una melodia. Gli arpeggi delicati dell’arpa, il pizzicato degli archi evocano i riflessi della luce sull’acqua. È una sonorità quasi impressionista, ma resa più aspra e frammentaria dalla sensibilità tipica del compositore. Brevi e isolati frammenti melodici, simili a sospiri, emergono dai legni. Non sono temi strutturati, ma “motivi-gesto” che comunicano un senso di esitazione, vulnerabilità e profonda solitudine, in linea con lo stile di Janáček basato sulle “melodie del parlato”.
L’atmosfera sognante viene brutalmente lacerata. L’orchestra accelera e gli archi introducono un ostinato nervoso e ripetitivo, creando un sottofondo di crescente tensione. Su questo tappeto sonoro si innestano interventi brevi e taglienti degli ottoni. La musica assume un carattere febbrile, quasi ossessivo. La dinamica cresce vertiginosamente, culminando in un primo, potente tutti orchestrale. Questo passaggio rappresenta una vera e propria esplosione di angoscia, un’agitazione interiore che si oppone violentemente alla fragilità iniziale.
La tempesta emotiva si placa con la stessa rapidità con cui era sorta. Su un accompagna­mento rarefatto, emerge la voce lamentosa di un oboe solista. Janáček lo tratta come una voce umana, affidandogli una melodia acuta, desolata e incredibilmente espressiva. È un canto senza parole che incarna la solitudine e la disperazione della ragazza. La scelta dell’oboe, con il suo timbro penetrante e malinconico, è magistrale nel dipingere questo ritratto di pathos.
Al canto dell’oboe risponde il violino solista che ne riprende e sviluppa la linea melodica. Si crea cos’ un dialogo strumentale di una struggente intimità, un botta e risposta tra due anime sole. Il violino diventa l’alter ego dell’oboe, con una scrittura virtuosistica ma sempre carica di pathos, piena di glissandi e frasi spezzate che suonano come singhiozzi. L’orchestra rimane sullo sfondo, trasparente, per non turbare questo momento di desolata confessione.
Il dialogo intimo viene annientato da una seconda, brutale eruzione dell’intera orchestra. Gli ottoni esplodono in un motivo potente e implacabile, quasi una fanfara tragica, costruito su armonie aspre e dissonanti. È il climax dell’intero movimento, un’ondata sonora travolgente e ineluttabile. Il culmine sonoro si spezza all’improvviso: la musica si disintegra, lasciando solo frammenti spettrali degli elementi precedenti: gli ostinati nervosi degli archi, un lontano eco degli ottoni, gli arpeggi dell’arpa. È il suono del “dopo”, un paesaggio emotivo svuotato.
Il violino solista riappare per un’ultima, brevissima frase. È un flebile ricordo del suo canto precedente, ora privo di ogni speranza, quasi un sussurro prima del silenzio definitivo. Il movimento non si conclude con una cadenza tradizionale, ma si spegne su un accordo statico e irrisolto, tenuto dai legni bassi, a cui si aggiunge un ultimo, sordo colpo di timpano. La musica non “finisce”, semplicemente “cessa”. Questa conclusione, tipica della sensibilità modernista di Janáček, lascia l’ascoltatore sospeso, con un profondo senso di disagio e una domanda senza risposta.

Alla francese?

Leopold Antonín Koželuh (26 giugno 1747 - 1818): Sinfonia in la maggiore à la française P I:10 (c1780). Sukův komorní orchestr (Orchestra da camera «Suk»), dir. Josef Vlach.

  1. Allegro di molto
  2. Poco adagio ma più andante [9:18]
  3. Menuetto [15:01]
  4. Presto [19:00]

Il titolo à la francese potrebbe non essere originale ed è alquanto inspiegabile: non c’è nulla di esplicitamente francese in questa composizione, che certo non è una parodia alla maniera della Sinfonia nel gusto di cinque nazioni di Carl Ditters von Dittersdorf, la quale comprende un Minuetto in stile francese caratterizzato dall’ampio uso di ritmi puntati; alcuni passaggi imitativi affidati agli archi potrebbero però aver avuto, per i compatrioti di Koželuh, un sentore di esotico, e per quanto poco probabile potrebbe essere questa l’origine del singolare titolo della Sinfonia.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Leopold Koželuh: l’astro boemo della Vienna imperiale

Leopold Koželuh, celebre compositore e pedagogista musicale boemo, è una figura di spicco nella scena musicale europea a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo.

Gli inizi in Boemia: formazione e primi successi
Nato come Jan Antonín Koželuh a Velvary (Boemia centrale) nella famiglia di un calzolaio, ricevette le prime lezioni di musica da un cugino omonimo, anch’egli compositore. Per evitare confusioni con quest’ultimo, nel 1774 cambiò il suo nome in Leopold (talvolta firmandosi “Koželuch”). Trasferitosi a Praga per approfondire gli studi musicali, ebbe tra i suoi maestri František Xaver Dušek, che gli insegnò composizione e pianoforte. Iniziò la sua carriera componendo musiche per pantomime e balletti per il Teatro di Kotce. La sua prima opera, una musica per balletto del 1771, riscosse un enorme successo, aprendo la strada a circa 25 composizioni simili negli anni successivi.

L’affermazione a Vienna: compositore, insegnante ed editore
Nel 1778, Koželuh si trasferì a Vienna, dove si presume abbia studiato brevemente con Johann Georg Albrechtsberger. Nella capitale asburgica si affermò rapidamente come uno dei pianisti e compositori più rinomati. La sua cantata per la morte di Maria Teresa, su versi di Michael Denis, suscitò grande eco. Riuscì ad ottenere il prestigioso incarico di insegnante di musica dell’arciduchessa Maria Elisabetta, figlia di Maria Teresa, e insegnò anche presso altre famiglie nobili, guadagnandosi stima e rispetto. Nel 1781 rifiutò l’offerta di succedere a W. A. Mozart a Salisburgo. A partire dal 1784, avviò una propria casa editrice musicale a Vienna, attività che in seguito fu gestita dal fratello Antonín Tomáš. Le sue opere venivano pubblicate anche all’estero, garantendogli fama in tutta Europa.

Vita personale e prestigio alla corte imperiale
Intorno alla metà degli anni ’80 Koželuh sposò la nobildonna Maria Anna von Allstern. La loro figlia, Kateřina Koželuhová–Cibbini, divenne anch’essa una stimata pianista alla corte imperiale. Koželuh coltivò amicizie con numerose famiglie aristocratiche, tra cui Jan Rudolf Černín z Chudenic, per le cui rinomate battute di caccia parforce compose diverse fanfare. L’apice della sua carriera giunse con la commissione, da parte degli Stati boemi, di una cantata solenne per l’incoronazione dell’Imperatore Leopoldo II a re di Boemia. La prima, tenutasi il 12 settembre 1791 al Teatro degli Stati, eclissò completamente l’opera La Clemenza di Tito di Mozart, assicurandogli il favore della famiglia imperiale e consolidando la sua fama. Come Mozart, intorno al 1790 Koželuh entrò in una loggia massonica viennese. Nel 1792, alla morte di Mozart, accettò l’incarico di compositore di corte e maestro di cappella da camera a Vienna.

Gli ultimi anni: malattia, insegnamento e declino
Nel 1802 Koželuh fu colpito da una grave forma di gotta che lo costrinse a ridurre significativamente la propria attività compositiva. Durante questo periodo, si dedicò all’arrangiamento di canti popolari scozzesi, irlandesi e gallesi per l’editore di Edimburgo George Thomson. Continuò l’attività pedagogica e gli impegni di corte; tra i suoi allievi, tra il 1804 e il 1810, vi fu la principessa Maria Luisa, futura moglie di Napoleone I. Con l’emergere di nuove correnti musicali, l’interesse per la sua musica iniziò a scemare. Morì la mattina del 7 maggio 1818.

L’eredità musicale: un catalogo vasto e complesso
Ad oggi, sono sopravvissute circa 400 composizioni di Koželuh. Tra queste spiccano una trentina di sinfonie e 22 concerti per pianoforte, incluso un notevole Concerto per pianoforte a quattro mani, considerato tra i migliori esempi di questo raro genere. La musica da camera è rappresentata da due concerti per clarinetto, 24 sonate per violino, 63 trii per pianoforte e sei quartetti per archi. La sua produzione include anche due oratori (tra cui Mosè in Egitto), 9 cantate, varie opere sacre, 6 opere liriche (di cui si è conservata solo Gustav Vasa, c1792), musiche per balletto e fanfare di caccia. Le opere di Koželuh sono catalogate secondo il sistema ideato dal musicologo Milan Poštolka.

Ricezione critica e stile compositivo
L’opera di Koželuh godette di grande risonanza in tutta Europa già durante la sua vita, consacrandolo come una delle figure centrali della vita musicale di fine Settecento. Tuttavia, negli ultimi anni non fu esente da critiche: gli veniva rimproverata una produzione eccessiva, e tra i suoi detrattori figurarono anche Mozart e Beethoven. Molte sue composizioni presentano tratti del nascente Romanticismo musicale, mentre altre sono volutamente conservatrici, come dimostra l’uso della denominazione “sonata a tre” (triová sonáta) per i suoi trii con pianoforte, un richiamo a forme precedenti.

Sinfonia in la maggiore à la française: analisi
Questo brano costituisce un esempio eccellente della maestria compositiva di Koželuh nel pieno del periodo classico.
Il primo movimento si apre con un’energia vibrante e segue la classica forma-sonata. Il primo tema, nella tonalità d’impianto, è annunciato con impeto dagli archi, caratterizzato da figure ascendenti e un chiaro senso ritmico. Presenta una melodia nobile e affermativa, con un uso bilanciato di legati e staccati. Gli strumenti a fiato (oboi e corni) intervengono per rinforzare le armonie e aggiungere colore. Una transizione, energica e modulante, conduce con sicurezza alla tonalità della dominante. È caratterizzata da passaggi scalari veloci e un dialogo serrato tra le sezioni orchestrali. Il secondo tema è, come da regola, nella tonalità della dominante (mi maggiore) e offre un contrasto lirico e più cantabile. È introdotto con grazia dagli archi, con un fraseggio elegante e una melodia più distesa e melodiosa, arricchita da interventi dolci degli oboi. Una codetta conclude l’esposizione con materiale tematico vigoroso e cadenzale, riaffermando la tonalità di mi maggiore con passaggi brillanti e fanfare accennate. L’esposizione viene poi integralmente ripetuta, come da prassi.
Lo sviluppo s’inizia riprendendo frammenti del primo tema, esplorando diverse tonalità minori e creando un’atmosfera di maggiore tensione e instabilità armonica. Koželuh dimostra abilità nel frammentare e ricombinare i motivi tematici, utilizzando sequenze e progressioni armoniche che intensificano il discorso musicale. I contrasti dinamici (forte/piano) sono ben marcati. Il primo tema ritorna trionfalmente in la maggiore, sostanzialmente fedele alla sua presentazione iniziale. La transizione è abilmente modificata per rimanere nella tonalità d’impianto e serve da introduzione al secondo tema, riproposto anch’esso nella tonalità di impianto, mantenendo il suo carattere lirico ma con una sonorità più piena. Una coda energica e conclusiva, basata su materiale del primo tema, porta il movimento a una chiusura decisa e brillante in la maggiore, con accordi forti e un senso di compimento.
L’orchestrazione è tipica del periodo classico maturo, con gli archi che costituiscono la spina dorsale, gli oboi che offrono colori melodici e pastorali, e i corni che forniscono sostegno armonico e accenti ritmici. Il movimento è caratterizzato da un’eleganza formale, chiarezza tematica e un brio ritmico contagioso.
Il secondo movimento è in re maggiore (la sottodominante), una scelta comune per i movimenti lenti. La sua forma è probabilmente una forma sonata senza sviluppo (sonatina) o una forma ternaria (ABA’) con coda. Il movimento si apre con una melodia squisitamente lirica e cantabile, presentata dagli archi con sordina (o comunque con un tocco molto delicato), creando un’atmosfera intima e sognante. L’oboe emerge presto con un bellissimo assolo espressivo, dialogando con gli archi. Il carattere è sereno e aggraziato. La musica si sposta brevemente verso la dominante (la maggiore) e introduce un materiale leggermente più mosso e con qualche ombra passeggera, esplorando armonie più tese e dinamiche più varie, prima di ritornare gradualmente alla calma iniziale. Si ha un ritorno della melodia principale in re maggiore, leggermente variata e ornata, con un’orchestrazione che ripropone il dialogo tra archi e l’oboe solista. Il movimento si conclude con una coda serena e pacifica, che dissolve la melodia in un’atmosfera di quiete.
L’orchestrazione è più trasparente rispetto al primo movimento. Gli archi creano un tappeto sonoro delicato, mentre l’oboe assume un ruolo solistico di prim’ordine, mettendo in mostra la sua cantabilità. I corni forniscono un sostegno armonico discreto. L’indicazione di tempo Poco adagio ma più andante suggerisce una lentezza fluida, non statica. Il movimento è intriso di una profonda espressività, tenerezza e un’eleganza malinconica, tipica del gusto sensibile dell’epoca.
Il terzo movimento segue la tradizionale struttura del minuetto con trio (ABA). Il Minuetto è in la maggiore e ha un carattere vigoroso, nobile e decisamente danzante. Presenta una melodia ben definita e ritmicamente marcata, con frasi chiare e simmetriche. L’orchestrazione è piena, con un buon equilibrio tra archi e fiati. La sezione è in forma binaria, con entrambe le parti (a e b+a’) ritornellate. Il trio, in re maggiore (sottodominante), offre un netto contrasto. La tessitura si fa più leggera e trasparente, con un carattere più pastorale e intimo. Gli strumenti a fiato, in particolare gli oboi e i corni, sono in primo piano, creando un’atmosfera più dolce e rustica. Anche il trio è in forma binaria, sebbene la ripetizione non sia sempre eseguita nel da capo. Ritorna il tema iniziale per concludere il movimento con il carattere energico e affermativo della sezione principale. Il minuetto è robusto e cerimoniale, mentre il trio è più delicato e cameristico. L’alternanza crea un piacevole contrasto di umori e colori orchestrali.
Il finale, in la maggiore, è un Presto brillante e virtuosistico, in forma di rondò. Il movimento si lancia immediatamente in un tema (ritornello) estremamente vivace e leggero, caratterizzato da rapide figurazioni degli archi e un’energia propulsiva. Il tema è orecchiabile e pieno di brio. Il primo episodio introduce nuovo materiale tematico, modulando brevemente alla dominante (mi maggiore). Questo episodio mantiene l’energia del movimento ma con un profilo melodico differente, forse con un carattere più dialogante tra le sezioni. Il tema principale ritorna in la maggiore ed è seguito da un secondo episodio che offre un contrasto più marcato. Il tema principale fa la sua riapparizione, confermando la struttura del rondò e il movimento continua alternando e sviluppando il materiale tematico precedente. Koželuh dimostra una notevole inventiva nel variare le riproposizioni del ritornello e nell’elaborare gli episodi. La lunga coda è particolarmente elaborata, riprendendo con enfasi il materiale del ritornello e portando la sinfonia a una conclusione virtuosistica, affermativa e piena di slancio, con brillanti passaggi orchestrali e una forte affermazione della tonalità d’impianto.
L’orchestrazione è brillante e agile, adatta al carattere veloce del movimento. Gli archi sono impegnati in passaggi rapidi e virtuosistici, mentre i fiati forniscono accenti ritmici, sostegno armonico e sprazzi di colore. Il finale è un tripudio di energia, leggerezza e buon umore. È un movimento che richiede agilità tecnica da parte dell’orchestra e che conclude la sinfonia con un senso di gioia e affermazione.

Nel complesso, la Sinfonia in La Maggiore è un’opera ben costruita che riflette pienamente i canoni stilistici del Classicismo viennese, arricchita da una possibile influenza francese nella sua grazia melodica e chiarezza. Ogni movimento possiede un carattere distintivo, dalla robusta eleganza del primo Allegro, alla tenera espressività del Poco Adagio, alla danza cortese del Minuetto, fino al finale brillante e giocoso. Koželuh dimostra una solida padronanza della forma sonata e del rondò, unita a un’orchestrazione efficace e colorata, con un uso particolarmente felice degli strumenti a fiato, soprattutto l’oboe nel movimento lento. Sebbene forse non raggiunga le vette di profondità drammatica di alcuni suoi contemporanei più celebri, la sinfonia è un lavoro di grande piacevolezza, ricco di invenzione melodica e di impeccabile artigianato compositivo.

Molto maestoso

Sergej Ivanovič Taneev (1856 - 19 giugno 1915): Sinfonia n. 4 in do minore op. 12 (1901). Orchestra sinfonica di Stato dell’URSS, dir. Valerij Poljanskij.

  1. Allegro molto
  2. Adagio [11:35]
  3. Scherzo: Vivace [23:51]
  4. Finale: Allegro energico – Molto maestoso [29:38]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Sergej Taneev: il gigante intellettuale della musica russa, tra rigore contrappuntistico e profondità artistica

Taneev è una figura di rilievo nella storia della musica russa in quanto rinomato compositore, pianista virtuoso, stimato insegnante di composizione e profondo teorico musicale. Si distinse per un approccio cosmopolita alla musica, simile a quello di Čajkovskij, per cui non aderì strettamente alle idee della scuola nazionalista dei «Cinque».

Formazione prodigiosa e debutto brillante
Nato a Vladimir in una famiglia nobile e colta, Sergej Taneev iniziò lo studio del pianoforte a cinque anni. Trasferitosi a Mosca nel 1865, l’anno successivo divenne allievo del Conservatorio, dove studiò pianoforte con Eduard Langer e successivamente con Nikolaj Rubinštejn. Fondamentali furono anche gli studi di teoria con Nikolaj Hubert e, soprattutto, di composizione con Čajkovskij. Nel 1875 Taneev si diplomò con lode, diventando il primo studente nella storia del Conservatorio a vincere la Medaglia d’oro sia per la composizione sia per l’esecuzione pianistica, nonché il primo a ricevere la Gran medaglia d’oro. Nello stesso anno debuttò come concertista a Mosca eseguendo il Primo Concerto per pianoforte di Brahms e si affermò come interprete di Bach, Mozart e Beethoven. Fu protagonista della “prima” moscovita del Primo Concerto per pianoforte e orchestra di Čajkovskij (dicembre 1875) e successivamente delle prime esecuzioni in Russia del Secondo Concerto e del Trio in la minore del medesimo autore. Dopo la morte di quest’ultimo, Taneev ne realizzò, completando e assemblando diversi abbozzi, il Terzo Concerto per pianoforte. Nel corso di vari viaggi attraverso l’Europa, entrò in contatto con personalità di spicco del mondo della cultura quali i musicisti César Franck e Camille Saint-Saëns e gli scrittori Émile Zola e Gustave Flaubert.

Carriera accademica e influenza come insegnante
Nel 1878, succedendo a Čajkovskij, Taneev fu nominato insegnante di armonia al Conservatorio di Mosca. In seguito, insegnò anche pianoforte e composizione, ricoprendo la carica di direttore dal 1885 al 1889 e continuando a insegnare fino al 1905. Esercitò una profonda influenza come pedagogo, formando una generazione di compositori russi tra cui Skrjabin, Rachmaninov, Glière e Medtner. L’impronta del suo insegnamento, specialmente nell’arte del contrappunto, è evidente nelle opere di Rachmaninov e Medtner.

Interessi eruditi e vita personale
Taneev possedeva una vasta erudizione che andava oltre la musica: per diletto, studiava scienze naturali e sociali, storia, matematica e filosofia, con particolare interesse per Platone e Spinoza. Tra il 1895 e il 1896 frequentò Jasnaja Poljana, la dimora di Lev Tolstoj. Sof’ja, moglie dello scrittore, s’infatuò del musicista senza che questi se ne accorgesse, causando l’imbarazzo dei figli e la gelosia del marito.

Il legame cruciale con Čajkovskij: amicizia, critica e collaborazione
Taneev divenne l’amico più fidato nella cerchia di Čajkovskij, con il quale ebbe una relazione durata fino alla morte del compositore, che gli dedicò la fantasia sinfonica Francesca da Rimini. Čajkovskij apprezzava enormemente le sue critiche, incoraggiandolo a una franchezza assoluta, benché talvolta temesse il suo giudizio per la sua schiettezza, che poteva sfiorare la brutalità. Un aneddoto significativo riguarda la reazione di Čajkovskij alla critica di Taneev a proposito della Quinta Sinfonia, che lo portò a definire l’opera «terribile robaccia» e a strappare la partitura. Nonostante la sensibilità di Čajkovskij alle critiche, la trasparente onestà di Taneev e la sua acuta percezione musicale erano per lui preziose. Taneev realizzò anche una trascrizione per pianoforte del balletto Lo Schiaccianoci.

Rapporti con i «Cinque»
La franchezza di Taneev si manifestava anche nei confronti di altri musicisti, come il «Gruppo dei Cinque». Un episodio emblematico fu un rimprovero pubblico a Milij Balakirev. Inizialmente, Taneev espresse giudizi severi sui membri del gruppo, mostrando scetticismo verso Glazunov, considerando Borodin un dilettante e trovando la musica di Musorgskij comica. Tuttavia, nel decennio successivo la sua opinione mutò: arrivò ad apprezzare Glazunov, a rispettare il lavoro di Borodin, mantenendo riserve solo su Musorgskij. Questo cambiamento coincise con un periodo di maggiore attività compositiva per Taneev, che iniziò a integrare ideali musicali contemporanei pur conservando la sua «stupefacente tecnica contrappuntistica». Dopo il fiasco della produzione dell’opera Oresteia di Taneev, l’editore Mitrofan Beljaev, legato ai «Cinque», si offrì di pubblicarla, e Taneev ne migliorò l’orchestrazione avvalendosi dei consigli di Glazunov.

Il maestro del contrappunto: teoria e prassi compositiva
Il campo di specializzazione di Taneev era il contrappunto. Studiò a fondo Bach, Palestrina e i maestri fiamminghi come Ockeghem, Josquin Desprez e Lasso, diventando uno dei massimi esperti in quell’ambito. Il monumentale trattato in due volumi, Contrappunto invertibile nello stile severo, frutto di vent’anni di lavoro, analizza le leggi del contrappunto come una branca della matematica pura, citando Leonardo da Vinci: «Nessuna branca di studio può pretendere di essere considerata una vera scienza se non è capace di essere dimostrata matematicamente».
Questo rigore teorico influenzava profondamente il suo processo compositivo. Prima di scrivere un’opera, Taneev si dedicava a numerosi studi preparatori, elaborando fughe, canoni e intrecci contrappuntistici sui temi principali. Solo dopo aver esplorato a fondo le possibilità del materiale tematico procedeva alla stesura definitiva. Vedeva nella sintesi tra contrappunto e canto popolare russo la via per creare grandi strutture musicali nazionali secondo i principi occidentali dello sviluppo tematico.

La musica: stile intellettuale e opere significative
Dal punto di vista compositivo, Taneev privilegiava un approccio intellettuale e deliberato, con analisi teorica preliminare, differenziandosi dalla ricerca di spontaneità di Čajkovskij. Il suo stile riflette la sua maestria nella tecnica compositiva classica e l’orientamento europeo del Conservatorio di Mosca.
La sua produzione include 9 Quartetti per archi completi, un Quintetto per pianoforte, 2 Quintetti per archi e altre opere da camera, 4 Sinfonie, una Suite concertante per violino e orchestra, un Concerto per pianoforte, opere corali (tra cui le cantate San Giovanni Damasceno e Dopo la lettura di un Salmo, considerata il suo canto del cigno) e vocali. La sua opera principale è considerata la trilogia musicale Oresteia (1895), modellata sulle tragedie di Eschilo. Nonostante Rimskij-Korsakov inizialmente giudicasse alcune sue composizioni «aride e faticose», rimase profondamente colpito dalla bellezza ed espressività dell’Oresteia. Gerald Abraham sottolineò la duplice natura di Taneev, «metà matematico, metà umorista», testimoniata da parodie e composizioni umoristiche inedite.

Ultimi anni, morte ed eredità
Nel 1905, a seguito della rivoluzione e dei suoi effetti sul Conservatorio, Taneev si dimise, riprendendo la carriera di concertista e dedicandosi più intensamente alla composizione. La sua ultima opera completa fu la cantata Dopo la lettura di un Salmo (inizio 1915). Contrasse la polmonite partecipando ai funerali di Skrjabin nell’aprile 1915 e, durante la convalescenza, morì per un attacco cardiaco nel giugno dello stesso anno.

La Quarta Sinfonia: analisi
La Sinfonia n. 4 in do minore, composta tra il 1896 e il 1898 e pubblicata postuma, rappresenta una delle vette della produzione sinfonica di Taneev. In essa, il compositore russo, noto per la sua profonda erudizione musicale, la maestria contrappuntistica e un approccio intellettuale alla composizione, fonde la grande tradizione sinfonica europea, in particolare quella germanica, con un’espressività intensa e momenti di lirismo che, pur non attingendo direttamente al folklore come i compositori del «Gruppo dei Cinque», rivelano una sensibilità profondamente russa. La Sinfonia si articola in quattro movimenti, seguendo una struttura classica, ma è permeata da una coesione tematica e da uno sviluppo rigoroso che testimoniano l’abilità del compositore come architetto di grandi forme musicali.
Il primo movimento si apre con una perentoria e drammatica introduzione orchestrale. È un tema breve, quasi un motto, caratterizzato da accordi potenti degli ottoni e da un andamento ritmico incisivo in do minore, che stabilisce fin da subito un’atmosfera seria e tesa. Questo materiale introduttivo, con la sua distintiva figura ritmica e melodica, assumerà un ruolo ciclico cruciale nel corso dell’intera sinfonia. Poco dopo, merge il primo tema vero e proprio, affidato agli archi. È un tema agitato, appassionato, sempre in do minore, caratterizzato da un’energia propulsiva e da un fraseggio ampio che si sviluppa con grande urgenza. La scrittura è densa, con un abile uso del contrappunto che arricchisce la tessitura orchestrale. La transizione modula abilmente, aumentando la tensione prima dell’introduzione del secondo tema. Quest’ultimo, presentato dall’oboe e poi ripreso dagli archi, offre un contrasto lirico e cantabile in mi bemolle maggiore (la relativa maggiore). È una melodia più distesa e melodiosa, che pur mantenendo una certa nobiltà, introduce un elemento di maggiore serenità. La scrittura per legni in questa sezione è particolarmente raffinata. La sezione di chiusura dell’esposizione riprende l’energia del primo tema, concludendo l’esposizione in modo deciso.
Lo sviluppo è un vero e proprio tour de force di abilità compositiva. Taneev frammenta, combina e trasforma i temi presentati nell’esposizione, esplorando diverse tonalità e sfruttando complesse tessiture contrappuntistiche. Il motto iniziale ricompare con grande enfasi, fungendo da perno strutturale e drammatico. Si assiste a passaggi fugati e a un intenso dialogo tra le sezioni orchestrali, che portano la tensione a livelli elevati. L’orchestrazione è ricca e varia, mettendo in luce le diverse famiglie strumentali. La ricapitolazione riporta il primo tema con rinnovata forza, sempre in do minore. Il secondo tema ritorna anch’esso, ma ora trasposto nella tonica minore, acquisendo una sfumatura più malinconica e intensa rispetto alla sua apparizione nell’esposizione. La coda è imponente e drammatica. Il motto iniziale ritorna con potenza titanica, ribadendo il carattere serio e quasi tragico del movimento, che si conclude con una perorazione vigorosa in do minore. L’intero movimento è un esempio magistrale di forma-sonata, arricchita dalla profondità intellettuale e dalla padronanza tecnica di Taneev.
Il secondo movimento offre un profondo contrasto con l’energia drammatica del precedente. Si apre con una melodia estremamente lirica e cantabile negli archi, in la bemolle maggiore, che infonde un senso di calma e introspezione. È una melodia ampia, di grande bellezza, sostenuta da armonie ricche e raffinate. L’atmosfera è serena, quasi pastorale, con i legni che presto si uniscono agli archi nell’esposizione del tema. Questo movimento è strutturato in una forma ternaria (ABA’). La sezione centrale (B) introduce un elemento di maggiore inquietudine e passione. Il tema è più frammentato e l’armonia si fa più cromatica e instabile, con modulazioni che esplorano tonalità minori. L’orchestrazione diventa più densa e il dialogo tra legni (in particolare clarinetti e fagotti) e archi si fa più intenso, raggiungendo un climax emotivo.
La ripresa della prima sezione vede la melodia principale ripresentata con una strumentazione variata – prima i legni, poi gli archi con un calore ancora maggiore – e un’elaborazione contrappuntistica che ne arricchisce la tessitura. C’è un senso di profonda riflessione e una bellezza quasi trasfigurata. La coda è delicata e sognante. Il movimento si dissolve gradualmente in un’atmosfera di pace e serenità, con interventi solistici del corno e dei legni che portano a una conclusione eterea in la bemolle maggiore. Questo Adagio dimostra la capacità di Taneev di scrivere musica di profonda bellezza melodica e intensità emotiva, bilanciando perfettamente il lirismo con una solida costruzione formale.
Il terzo movimento è uno scherzo brillante e virtuosistico. Inizia con un tema vivace, leggero e ritmicamente incisivo in do minore, caratterizzato da staccati rapidi negli archi e interventi guizzanti dei legni. La scrittura è trasparente e agile, con un carattere quasi mendelssohniano nella sua leggerezza, ma con una sottile tensione data dalla tonalità minore e da armonie a tratti più aspre. Il contrappunto è sempre presente, con motivi che si rincorrono tra le varie sezioni. Il trio offre un netto contrasto, con il tempo che rallenta leggermente e la tonalità che si sposta verso un carattere più pastorale e cantabile, in la bemolle maggiore, con l’oboe che presenta una melodia più semplice e popolareggiante, poi ripresa e sviluppata da altri legni e archi. Questa sezione ha un sapore più rustico e sereno. La ripresa della sezione iniziale ripropone il materiale iniziale con la sua energia frenetica. La ripresa è variata e arricchita da ulteriori sviluppi contrappuntistici. La coda è breve ma energica, concludendo il movimento in modo deciso e brillante, sempre in do minore, lasciando un’impressione di grande vitalità e maestria orchestrale. Questo Scherzo è un eccellente esempio della capacità di Taneev di combinare rigore formale e inventiva ritmica e melodica.
Il Finale si apre con un Allegro energico in do minore, riprendendo immediatamente la tensione drammatica del primo movimento. Il tema principale è vigoroso e marziale, presentato con grande impeto dall’intera orchestra. Si percepiscono echi del motto iniziale del primo movimento, che qui inizia a manifestare il suo ruolo unificante. La costruzione del Finale è complessa e ambiziosa, incorporando elementi di forma-sonata e una scrittura fugata di grande impatto. Taneev introduce una sezione fugata estesa e potente, basata su un soggetto energico, dimostrando una suprema maestria contrappuntistica. Questo passaggio è un culmine di complessità intellettuale e forza espressiva. Il motto del primo movimento ritorna ciclicamente con sempre maggiore chiarezza e potenza, legando tematicamente l’intera sinfonia e preparando la trasformazione finale.
La transizione verso la sezione conclusiva è segnata da un progressivo aumento di tensione e grandiosità. Il tempo rallenta in un Molto maestoso, e il motto iniziale viene presentato in do maggiore, assumendo un carattere trionfale e affermativo. Questa trasformazione dal minore al maggiore è tipica del percorso per aspera ad astra di molta musica sinfonica romantica. L’orchestrazione si fa solenne e imponente, con ottoni squillanti e una tessitura orchestrale piena. La coda è una perorazione grandiosa e potente in do maggiore: il motto, ora trasfigurato, domina la scena, portando la sinfonia a una conclusione enfatica, luminosa e affermativa, che sigilla il percorso eroico e intellettuale dell’opera.

Nel complesso, la Quarta Sinfonia di Taneev è un’opera di grande respiro e profondità, la quale unisce magistralmente la solidità formale della tradizione classica con l’intensità espressiva del Romanticismo. La maestria contrappuntistica del compositore è evidente in ogni movimento, ma non è mai fine a sé stessa, ma serve piuttosto a costruire architetture sonore complesse e a intensificare il discorso musicale. L’uso ciclico del motto tematico conferisce all’opera una notevole coesione interna, guidando l’ascoltatore attraverso un percorso emotivo che va dalla drammaticità iniziale, attraverso momenti di lirismo e brillantezza, fino a una conclusione trionfale. Nonostante la sua complessità intellettuale, la Sinfonia non manca di bellezza melodica e di un impatto emotivo diretto, confermando Taneev come una figura centrale e altamente originale nel panorama musicale russo a cavallo tra XIX e XX secolo.

Taneev

A Symphony for fun

Don Gillis (17 giugno 1912 - 1978): Sinfonia n. 5½, A Symphony for fun (1945-46). Sinfonia Varsovia, dir. Ian Hobson.

  1. Perpetual Emotion : Quite Fast – in a gay manner
  2. Spiritual? : Slowly [4:00]
  3. Scherzofrenia : Briskly, in a gay manner [7:25]
  4. Conclusion : Quite Fast [11:05]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Don Gillis: il compositore di A Symphony for fun e la sua poliedrica carriera americana

Don Gillis viene ricordato come una figura poliedrica nel panorama culturale statunitense, distinguendosi come compositore, direttore d’orchestra, insegnante e produttore radiofonico. Nonostante la sua vasta produzione, l’opera che gli ha garantito maggiore notorietà è la Sinfonia n. 5½, il cui titolo, A Symphony for fun, ne incapsula lo spirito creativo.

Formazione e primi passi professionali
Nato nel Missouri, Gillis si trasferì in giovane età a Fort Worth, Texas. Qui intraprese gli studi musicali presso la Texas Christian University, dove non solo suonò il trombone ma ricoprì anche il ruolo di assistente direttore della banda universitaria. Diplomatosi nel 1935, proseguì la sua formazione accademica ottenendo una laurea magistrale dalla North Texas State University nel 1943, consolidando le proprie basi musicali e accademiche.

L’affermazione nel mondo della radio e la collaborazione con Toscanini
La carriera di Don Gillis ebbe una svolta significativa nel settore radiofonico. Iniziò come direttore di produzione per la stazione WBAP, per poi approdare alla prestigiosa NBC. Qui assunse il ruolo di produttore per la NBC Symphony Orchestra durante il leggendario periodo di direzione di Arturo Toscanini. Parallelamente, Gillis produsse diversi programmi radiofonici di successo per la NBC, tra cui Serenade to America e NBC Concert Hour. Un momento cruciale fu dopo il ritiro di Toscanini nel 1954: Gillis, nella veste di presidente della Symphony Foundation of America, fu determinante nella creazione della Symphony of the Air, un’orchestra formata da molti membri della disciolta NBC Symphony. Continuò a onorare la memoria del maestro italiano producendo il programma radiofonico Toscanini: The Man Behind the Legend, trasmesso per diversi anni dalla NBC dopo la morte del direttore.

L’impegno accademico e gli ultimi anni
Oltre al suo lavoro in radio e come direttore, Gillis dedicò parte significativa della sua carriera all’insegnamento, ricoprendo incarichi in diverse istituzioni accademiche negli Stati del Sud. Nel 1973 entrò a far parte della University of South Carolina. Qui diede un contributo fondamentale fondando e presiedendo l’Institute for Media Arts e fu strumentale nella creazione dell’Instructional Services Center. Ricoprì anche il ruolo di compositore residente dell’università fino alla sua scomparsa, avvenuta a Columbia, South Carolina, il 10 gennaio 1978. La sua eredità documentale e una vasta collezione di materiale registrato sono oggi conservate presso la University of North Texas a Denton.

La produzione musicale: prolificità e stile
Nonostante i suoi numerosi impegni amministrativi, Gillis fu un compositore straordinariamente prolifico. Il suo catalogo include 10 sinfonie, poemi sinfonici (come Portrait of a Frontier Town), concerti per pianoforte, rapsodie per arpa e orchestra e 6 quartetti d’archi, oltre a una vasta gamma di musica per banda. La sua composizione più celebre rimane la Sinfonia n. 5½, A Symphony for Fun, eseguita per la prima volta da Arturo Toscanini e la NBC Symphony Orchestra il 21 settembre 1947, durante un concerto trasmesso via radio che Gillis stesso produsse.

Filosofia musicale: l’anima americana tra jazz e accessibilità
L’obiettivo artistico di Gillis era quello di interpretare musicalmente la cultura americana contemporanea. La sua musica attingeva abbondantemente dal materiale popolare, con una particolare enfasi sul jazz, che considerava un elemento vitale e rivitalizzante per la musica americana. Gillis assimilò queste influenze popolari attraverso uno stile semplice e diretto, mirando a una comunicazione immediata con il suo pubblico. Questo si traduceva in una scrittura melodica chiara, accessibile e spesso permeata da un senso di divertimento e umorismo.

A Symphony for fun: analisi
Lungi dal voler sondare profondità filosofiche o drammi esistenziali, con questo lavoro Gillis offre all’ascoltatore un’esperienza musicale spumeggiante, intrisa di umorismo, vitalità e un inconfondibile sapore americano. Composta in un periodo post-bellico in cui si sentiva il bisogno di ottimismo e leggerezza, questa sinfonia è un brillante esempio della capacità di Gillis di fondere elementi della musica colta con inflessioni jazzistiche e popolari, creando un linguaggio accessibile e immediatamente godibile. L’orchestrazione è vivace e colorata, sfruttando appieno le risorse dell’orchestra sinfonica per dipingere quadri sonori pieni di energia e buonumore.
Il primo movimento, Perpetual Emotion, è una vera e propria dichiarazione d’intenti. L’attacco è immediato e travolgente, con fanfare brillanti degli ottoni e un ritmo propulsivo scandito dalle percussioni, in particolare dal rullante. Gli archi introducono temi agili e saltellanti, creando un’atmosfera di eccitazione continua. Il movimento è caratterizzato da una successione di idee melodiche orecchiabili, più che da un complesso sviluppo tematico tradizionale. Le melodie hanno spesso un carattere quasi da show tune o da musica per banda americana, con un’enfasi su ritmi sincopati e un andamento spigliato. L’energia è quasi inarrestabile, con sezioni che si susseguono rapidamente, mantenendo alta la tensione e l’interesse.
Gillis utilizza l’orchestra con grande maestria, mettendo in luce i vari timbri. I legni hanno passaggi virtuosistici e giocosi, spesso impegnati in dialoghi frizzanti. Gli ottoni forniscono squilli eroicomici e sottolineature ritmiche vigorose. Non mancano tocchi umoristici, come glissati quasi caricaturali e improvvisi cambi di dinamica che sorprendono l’ascoltatore. Le percussioni sono costantemente attive, contribuendo in modo determinante al drive ritmico. È palpabile l’influenza del jazz e della musica popolare americana, sia nelle armonie talvolta più bluesy o swinganti, sia nell’uso di ritmi e fraseggi tipici. Il movimento sembra quasi una colonna sonora di un cartone animato d’epoca, pieno di gag sonore e di un’esuberanza contagiosa. Il movimento si conclude in modo altrettanto energico e affermativo, senza perdere un briciolo della sua vitalità iniziale.
Il secondo movimento, intitolato Spiritual?, offre un netto contrasto. Introduce un’atmosfera lirica, introspettiva e a tratti malinconica. Il punto interrogativo nel titolo è significativo: non si tratta di una citazione diretta di uno spiritual, ma piuttosto di un’evocazione del suo carattere emotivo e della sua melodia cantabile, filtrata attraverso la sensibilità americana di Gillis.
Il tema principale è una melodia ampia e cantabile, affidata inizialmente agli archi e poi ripresa dai legni solisti (in particolare l’oboe e il flauto, con interventi toccanti). La melodia ha un sapore folk e una sfumatura blues che le conferisce un carattere profondamente americano e intensamente espressivo. Le armonie sono più ricche e dense rispetto al primo movimento, pur rimanendo fondamentalmente tonali e accessibili. L’orchestrazione è più intima e raccolta: gli archi dominano con calore, mentre i legni offrono colori delicati e poetici, mentre gli ottoni sono usati con parsimonia, spesso per creare un sostegno armonico profondo o per sottolineare i momenti di maggiore intensità emotiva. Il movimento si sviluppa attraverso un crescendo emotivo che porta a un culmine appassionato, per poi placarsi gradualmente e ritornare all’atmosfera iniziale, concludendosi in una sonorità serena e quasi sospesa. La sensazione è quella di un momento di riflessione o di nostalgia. Il punto interrogativo potrebbe suggerire una riflessione sulla natura della spiritualità americana, o forse un omaggio allo stile musicale dello spiritual senza la pretesa di replicarlo fedelmente, ma piuttosto reinventandolo con un linguaggio orchestrale moderno e personale.
Con il terzo movimento, Scherzofrenia, si ritorna all’energia e all’umorismo. Il titolo è un gioco di parole tra “scherzo” e “frenesia” (o schizofrenia), e la musica rispecchia pienamente questa dualità. Si tratta di uno scherzo virtuosistico, pieno di verve, agilità e un umorismo quasi sfrenato. Il ritmo è indiavolato, con rapidi cambi di metro e accenti imprevisti che creano un effetto di instabilità giocosa. Le idee melodiche sono brevi, frammentate, e si rincorrono tra le varie sezioni dell’orchestra in un turbinio di note. Ci sono chiare inflessioni jazzistiche, con licks e figure ritmiche che ricordano le big band. L’orchestrazione è brillante e richiede una notevole agilità da parte di tutti gli esecutori. I legni (specialmente clarinetti e flauti) hanno passaggi velocissimi e spiritosi, gli archi forniscono un tessuto sonoro leggero e danzante, mentre gli ottoni intervengono con accenti pungenti e talvolta grotteschi. Le percussioni sono di nuovo protagoniste, sottolineando il carattere frenetico e giocoso. L’umorismo è palpabile, quasi slapstick, con improvvisi stop-and-go, effetti sonori caricaturali e un generale senso di caos controllato. Nonostante la sua apparente frenesia, si può intravedere una sorta di struttura da scherzo con sezioni contrastanti (con un trio più lirico ma sempre irrequieto) che si alternano alla travolgente energia principale. Il movimento si conclude con una raffica di energia, lasciando l’ascoltatore quasi senza fiato ma divertito.
Il finale riassume l’energia e l’ottimismo dell’intera sinfonia. Si lancia subito in un’atmosfera festosa e celebrativa. Sembra riprendere parte dell’energia e dello spirito del primo movimento, portando l’intera sinfonia a una conclusione logica e appagante. Le melodie sono ampie, affermative e piene di slancio. Gillis non si risparmia nell’uso di temi orecchiabili e di facile presa. L’orchestra è impiegata in tutta la sua potenza, con frequenti sezioni di “tutti” che creano un suono pieno e risonante. Gli ottoni sono trionfanti, gli archi forniscono linee melodiche ampie e le percussioni scandiscono un ritmo incalzante e gioioso. Le dinamiche sono spesso forti, contribuendo al carattere estroverso del finale. L’atmosfera è quella di una grande parata, di una festa popolare o di una conclusione esuberante in stile hollywoodiano. C’è un senso di risoluzione positiva e di contagioso buonumore. La sinfonia si conclude con una cadenza forte e decisa, che sigilla l’opera con un’esplosione di gioia e vitalità, lasciando un’impressione di divertimento genuino e di abilità orchestrale.

Nel complesso, la composizione è un’opera deliziosa che non teme di essere divertente e accessibile. Gillis dimostra una profonda comprensione dell’orchestra e una capacità di scrivere melodie contagiose e ritmi trascinanti. L’influenza del jazz, del folk americano e persino della musica da film e da banda è evidente, ma sempre integrata in un linguaggio sinfonico coerente e personale. A Symphony for fun è un antidoto alla seriosità eccessiva, un invito a godere della musica per il puro piacere che sa offrire, e un brillante esempio del sound americano del XX secolo.

Sinfonia per banda

Vincent Persichetti (6 giugno 1915 - 1987): Sinfonia per banda n. 6 op. 69 (1956). Eastman Wind Ensemble, dir. Frederick Fennell.

  1. Adagio – Allegro
  2. Adagio sostenuto [5:47]
  3. Allegretto [9:46]
  4. Vivace [12:55]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Vincent Persichetti: un architetto della musica americana del xx secolo

Persichetti viene ricordato come una figura poliedrica e influente nel panorama musicale americano del XX secolo, distinguendosi come compositore, insegnante e pianista. La sua importanza risiede non solo nella sua vasta produzione musicale, ma anche nel suo ruolo cruciale come educatore e scrittore. Persichetti era noto per la sua capacità di integrare le nuove idee compositive del suo tempo nel proprio lavoro e nell’insegnamento, formando generazioni di compositori di spicco presso la prestigiosa Juilliard School.

Vita e formazione accademica: un talento precoce e poliedrico
Nato a Philadelphia da genitori non musicisti, Persichetti iniziò la propria educazione musicale a soli cinque anni presso il Combs College of Music, ove studiò pianoforte, organo, contrabbasso e, successivamente, teoria musicale e composizione con Russell King Miller. Già a 14 anni eseguiva pubblicamente composizioni originali e, durante l’adolescenza, si manteneva agli studi svolgendo attività di accompagnatore, concertista, organista di chiesa, orchestrale e pianista radiofonico. Parallelamente alla musica, coltivò la passione per la scultura, che alimentò per tutta la vita. Dopo aver conseguito la laurea (1936) al Combs College, gli fu immediatamente offerto un posto di insegnante. A soli vent’anni, Persichetti ricopriva contemporaneamente il ruolo di direttore del dipartimento di teoria e composizione al Combs, studiava direzione d’orchestra con Fritz Reiner al Curtis Institute e frequentava corsi di pianoforte (con Olga Samaroff) e composizione al Philadelphia Conservatory of Music. Ottenne la laurea magistrale (1941) e il dottorato (1945) al Conservatorio, oltre a un diploma in direzione d’orchestra presso il Curtis. Già dal 1939 e fino al 1962, pur essendo ancora studente, diresse il dipartimento di teoria e composizione e quello degli studi post-laurea al Philadelphia Conservatory. Nel 1941 sposò la compositrice Dorothea Flanagan, da cui ebbe due figli: Lauren, danzatrice e Garth, attore. Dal 1932 al 1948 fu organista e poi maestro di cappella presso la Arch Street Presbyterian Church.

Il magistero: un faro per nuove generazioni di compositori
La carriera didattica di Persichetti raggiunse l’apice nel 1947, quando William Schuman gli offrì una cattedra alla Juilliard School: quivi insegnò per oltre quarant’anni, dedicandosi con passione al movimento delle bande di fiati, incoraggiando compositori come Schuman e Peter Mennin a scrivere per questo organico. Tra i suoi numerosi studenti alla Juilliard si annoverano figure di fama internazionale come Philip Glass, Steve Reich, Larry Thomas Bell, Bruce Adolphe, Peter Schickele (noto anche come P.D.Q. Bach), Leo Brouwer, Einojuhani Rautavaara, Toshi Ichiyanagi e Claire Polin. Insegnò composizione anche a Joseph Willcox Jenkins e al direttore d’orchestra James DePreist al Philadelphia Conservatory. Dal 1952 fu inoltre direttore editoriale della casa editrice Elkan-Vogel.

La musica: stile e caratteristiche – tra grazia e grinta
Persichetti è una delle figure centrali della musica americana del XX secolo. La sua opera Hymns and Responses for the Church Year è diventata un testo standard per i cori ecclesiastici, e le sue numerose composizioni per ensemble di fiati sono spesso utilizzate come introduzione alla musica contemporanea per studenti liceali e universitari. Il suo stile fu inizialmente influenzato da Stravinskij, Bartók, Hindemith e Copland, per poi evolvere verso una voce distintiva negli anni ’50. La sua musica è caratterizzata dalla coesistenza di due elementi da lui definiti rispettivamente graceful (aggraziato, lirico e melodico) e gritty (ruvido, aspro e intensamente ritmico). Soprattutto nelle sue prime composizioni si notano "linee melodiche accidentate" che si muovono "lungo un percorso a zigzag"; d’uso frequente sono la politonalità e il pandiatonicismo. La capacità di coniugare tendenze diverse rende difficile una categorizzazione univoca del corpus delle opere di Persichetti, che mantenne una coerenza stilistica senza brusche virate nel corso della sua carriera. Curiosamente, Persichetti componeva spesso mentre guidava, arrivando a fissare la carta da musica al volante.

Un corpus musicale vasto e diversificato
La produzione pianistica costituisce la parte più cospicua del suo lavoro, includendo un concerto, un concertino, dodici sonate e una varietà di altri pezzi, sia virtuosistici che pedagogici o per dilettanti. Persichetti stesso era un pianista affermato e attribuiva grande valore artistico anche ai pezzi destinati a esecutori meno esperti. È anche uno dei maggiori compositori per il repertorio della banda da concerto, con 14 lavori concepiti per questo tipo di ensemble. Il Divertimento for Band (1950) è cronologicamente la prima composizione per banda di Persichetti; particolarmente rilevante come è la Sinfonia per banda n. 6, opera di ampie dimensioni, caratterizzata da complesse linee percussive, cruciali per il materiale tematico, e dall’utilizzo dell’intero spettro di timbri della banda di fiati.
Persichetti compose un’unica opera lirica, The Sibyl, apprezzata dalla critica per la strumentazione ma giudicata da alcuni carente negli aspetti drammatici e vocali. La sua produzione comprende anche nove Sinfonie per orchestra (le prime due ritirate) e quattro Quartetti per archi. Molte altre opere sono organizzate in serie, come le 25 Parables, principalmente per strumenti a fiato soli, e le 15 Serenades, che includono combinazioni strumentali insolite (come un trio per trombone, viola e violoncello), oltre a pezzi per orchestra, banda e duo pianistico. Il Concerto per pianoforte a quattro mani, eseguito per la prima volta nel 1952 da Persichetti stesso e sua moglie Dorothea, è uno dei suoi lavori più apprezzati, elogiato per il riuscito “dialogo” tra i due pianisti.

Eredità intellettuale e visioni artistiche
L’estetica di Persichetti è fondamentalmente conservatrice, una miscela distintiva di elementi classici, romantici e modernisti, caratterizzata da contrappunto, carica ritmica e orchestrazione di qualità. La sua immaginazione musicale è poliedrica e virtuosistica, capace di esprimere, come scrisse Walter Simmons, "l’innocenza e la gioia infantile della pura creatività musicale", motivo per cui le sue opere per principianti coesistono con dignità accanto a composizioni più complesse. Persichetti fu un apprezzato conferenziere, noto per il suo stile arguto e coinvolgente. Scrisse il celebre manuale di teoria musicale Twentieth Century Harmony: Creative Aspects and Practice e, insieme con Flora Rheta Schreiber, una monografia su William Schuman.
Era un grande sostenitore della collaborazione tra musica e danza, incoraggiando i suoi studenti della Juilliard a lavorare con il dipartimento di danza e collaborando professionalmente con coreografi come Martha Graham. Nonostante ciò, Persichetti riteneva che la musica debba avere una propria autonomia e non dipendere dalla danza, affermando: «Non esiste la musica per danza. La musica è danza, è movimento».
Infine, Persichetti era un convinto assertore dell’importanza dell’improvvisazione, che praticava in concerto e considerava essenziale per ogni compositore e artista.

La Sinfonia per banda n. 6: analisi
Composta da Vincent Persichetti nel 1956, la Sinfonia per banda n. 6 op. 69 rappresenta una pietra miliare nel repertorio per ensemble di fiati del XX secolo. Commissionata dalla Washington University di St. Louis, Missouri, per il settantacinquesimo anniversario della relativa associazione bandistica, l’opera rivela la profonda padronanza che Persichetti aveva delle caratteristiche timbriche e tecniche della banda, unita alla sua distintiva voce compositiva che bilancia elementi lirici (graceful) con passaggi energici e ritmicamente incisivi (gritty). La sinfonia è strutturata in quattro movimenti classici, ognuno con un carattere ben definito.
Il primo movimento si apre con un Adagio solenne e introspettivo. L’introduzione è dominata da accordi sostenuti e cupi degli ottoni gravi (corni, tromboni, tube), che creano un’atmosfera di attesa e gravità. Brevi cellule melodiche emergono dai legni (clarinetti, flauti), spesso con un carattere interrogativo o lirico-frammentato. Si percepisce una ricchezza armonica, con un linguaggio che, pur ancorato a una base tonale, esplora armonie estese e dissonanze controllate che non disturbano la generale cantabilità, ma aggiungono profondità emotiva. La dinamica è inizialmente contenuta, ma cresce gradualmente, costruendo tensione verso la sezione successiva. La scrittura è densa e orchestrale, sfruttando la pienezza sonora della banda. Con un cambio repentino di tempo e carattere, l’Allegro irrompe con energia propulsiva. La sezione è caratterizzata da temi ritmicamente incisivi e brillanti, spesso affidati agli ottoni acuti (trombe) e ai legni agili (clarinetti, sassofoni). La percussione (in particolare il tamburo militare) gioca un ruolo fondamentale, fornendo un ostinato ritmico che spinge il discorso musicale.
Il primo tema è vigoroso e assertivo, con un profilo melodico bumpy e zigzag tipico di Persichetti. Segue un secondo tema, più lirico e cantabile, che offre un contrasto graceful all’energia gritty del primo. Questo tema è spesso presentato dai legni e dai corni, con un accompagnamento più fluido. Lo sviluppo vede i due temi frammentati, rielaborati e sovrapposti in un intreccio contrappuntistico. Persichetti dimostra grande abilità nell’elaborare il materiale tematico, variando l’orchestrazione e l’armonia. Si notano sezioni di dialogo tra le diverse famiglie strumentali e un uso dinamico della politonalità, che crea vivaci frizioni armoniche senza mai perdere il senso della direzione. La ripresa riporta i temi principali, sebbene con variazioni nell’orchestrazione e un’energia intensificata. Una coda potente e affermativa conclude il movimento, riaffermando il carattere energico dell’Allegro e la tonalità principale.
Il secondo movimento è un’oasi di lirismo e bellezza espressiva, incarnando perfettamente l’aspetto graceful. Si apre con una melodia lunga e cantabile, introdotta delicatamente dal flauto solista, poi ripresa dall’oboe e arricchita gradualmente dall’ingresso di altri legni. L’armonia è lussureggiante, spesso basata su accordi estesi e un uso sottile del pandiatonismo, che conferisce una sonorità luminosa e aperta. Il movimento si sviluppa attraverso una serie di episodi lirici, ognuno con una strumentazione diversa che mette in luce le qualità timbriche specifiche della banda. C’è un senso di dialogo intimo tra le sezioni. I corni e i clarinetti bassi offrono un colore più scuro e caldo, prima che i legni acuti riprendano il materiale tematico. La dinamica è prevalentemente contenuta, ma non mancano momenti di maggiore intensità emotiva, dove l’intera banda si unisce in un culmine sonoro controllato, per poi ritornare alla serenità iniziale. La percussione è usata con estrema parsimonia e delicatezza (rintocchi di campane tubolari, leggeri rulli di timpani o piatti sospesi), contribuendo all’atmosfera eterea e sognante del movimento. La conclusione è serena e risolutiva, lasciando un’impressione di pace e contemplazione.
L’Allegretto funge da scherzo della sinfonia, introducendo un carattere giocoso, leggero e ritmicamente vivace. Il movimento s’inizia con un tema breve, staccato e spiritoso, presentato dai legni (clarinetti, flauti, fagotti) e caratterizzato da un andamento saltellante e da frequenti cambi di accento che creano un effetto quasi danzante e un po’ bizzarro. Le percussioni (woodblock, triangolo) sottolineano il carattere giocoso. Questa sezione principale (A) è intervallata da episodi contrastanti, mentre secondo tema, più legato e cantabile, emerge nei legni e corni, offrendo un breve momento di respiro lirico. Persichetti sfrutta abilmente i contrasti timbrici e ritmici tra le diverse sezioni della banda. C’è un costante dialogo e un gioco di imitazioni tra gli strumenti, che contribuisce alla vivacità del movimento. La scrittura è trasparente e cameristica in molti punti. La sezione centrale (B, o trio) presenta un carattere più pastorale e melodico, con un tema più disteso affidato principalmente ai legni e ai corni, su un accompagnamento leggero. Il ritorno della sezione A è abbreviato e porta a una breve coda che conclude il movimento con un guizzo di energia e umorismo, svanendo quasi inaspettatamente.
Il Finale è un movimento brillante, energico e virtuosistico, che conclude la sinfonia con grande impeto e affermazione. Si apre con una fanfara potente e ritmica degli ottoni, sostenuta da una percussione incisiva (timpani, grancassa, piatti). Il carattere è immediatamente gritty ed estroverso. Il materiale tematico è frammentato e ritmicamente complesso, con frequenti sincopi e accenti irregolari. I legni rispondono con passaggi veloci e agili. Persichetti dimostra la propria maestria contrappuntistica, intrecciando diverse linee melodiche e ritmiche in una tessitura densa e complessa. Ci sono sezioni che ricordano fugati o canoni. Il movimento non manca di momenti di contrasto: sezioni più liriche o cantabili (per esempio un tema più disteso nei legni) offrono brevi parentesi prima che l’energia ritmica riprenda il sopravvento. Le percussioni sono protagoniste, contribuendo in modo significativo alla spinta ritmica e all’eccitazione generale. L’uso esteso di tamburo militare, timpani, piatti e altri strumenti a percussione è cruciale per il carattere del movimento finale. Verso la conclusione, il materiale tematico viene ripresentato con maggiore forza e grandiosità, portando a un culmine sonoro travolgente. La Sinfonia si chiude con una serie di accordi potenti e affermativi, suggellando l’opera con un’esplosione di energia e ottimismo.
Nel complesso, nella Sinfonia per banda n. 6 Persichetti sfrutta appieno le risorse della banda sinfonica, dimostrando una profonda conoscenza della strumentazione e una notevole abilità nel creare contrasti di carattere, timbro e dinamica. L’equilibrio tra passaggi lirici e cantabili (graceful) e sezioni ritmicamente energiche e incisive (gritty) è una costante dell’opera e ne definisce lo stile unico. L’armonia, pur moderna, rimane accessibile e funzionale allo sviluppo emotivo. La scrittura ritmica è particolarmente sofisticata e contribuisce in modo determinante alla vitalità e all’impatto della sinfonia. Quest’opera non è solo una prova di virtuosismo per l’ensemble, ma anche un’espressione musicale ricca di profondità emotiva e inventiva, che giustamente le ha assicurato un posto di rilievo nel repertorio bandistico internazionale.

Roma – III

Georges Bizet (1838 - 3 giugno 1875): Roma, Sinfonia n. 2 in do maggiore op. 37 (o Suite sinfonica n. 3; 1860-71). RTÉ National Symphony Orchestra, dir. Jean-Luc Tingaud.

  1. Andante tranquillo – Allegro agitato – Andante
  2. Scherzo. Allegretto vivace [11:31]
  3. Andante molto [17:06]
  4. Allegro vivacissimo [24:41]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Bizet, Roma: analisi

Benché meno celebre di altre, la Sinfonia Roma è un’opera significativa nella produzione di Bizet. Composta in un arco di tempo considerevole, fra il 1860 e il 1868, e sottoposta a numerose revisioni fino al 1871, a differenza della vivace e concisa Sinfonia n. 1 riflette un processo compositivo più travagliato e una prolungata insoddisfazione da parte dell’autore, che morì prima di poterne finalizzare una versione definitiva. Questa lunga gestazione, durata quasi undici anni, fra i 22 e i 33 anni del compositore, è indicativa delle sue ambizioni e delle sue incertezze. Originariamente Bizet aveva concepito l’opera con un intento programmatico più esplicito, come Souvenirs de Rome, dedicando ciascuno dei quattro movimenti a una diversa città italiana: Roma (movimento di apertura), Venezia (Andante), Firenze (Scherzo) e Napoli (Finale). Tuttavia, questa idea fu in parte abbandonata nelle revisioni successive e i titoli descrittivi dei singoli movimenti furono poi rimossi da Bizet stesso, sebbene persistano nella storia della composizione.
Benché tutti e quattro i movimenti siano stati eseguiti durante la vita di Bizet, non furono mai presentati insieme in un’unica occasione. Lo Scherzo, per esempio, fu scritto nel 1861, eseguito privatamente nel novembre dello stesso anno e poi pubblicamente l’11 gennaio 1863, diretto da Jules Pasdeloup, suscitando reazioni contrastanti. Tre movimenti (il primo, il terzo e il quarto, escluso quindi lo Scherzo, ma con sottotitoli programmatici come Une chasse dans la forêt d’Ostie per il primo, Une Procession per il terzo — originariamente pensato per Venezia e poi divenuto la Serenade — e Carnaval à Rome per il Finale, inizialmente destinato a Napoli) furono presentati il 28 febbraio 1869 come Fantaisie symphonique: Souvenirs de Rome. La sinfonia completa, nella sua ultima revisione conosciuta, vide la sua prima esecuzione postuma solo nel 1880, sempre diretta da Pasdeloup.
L’insoddisfazione di Bizet e le molteplici revisioni hanno contribuito alla percezione dell’opera come “incompiuta”, sebbene esista in una forma completa e orchestrata. La questione del titolo è emblematica di questa ambiguità. L’editore Choudens, pubblicando l’opera postuma, la intitolò Roma, troisième suite de concert, probabilmente per distinguerla dalla Prima Sinfonia (la cui esistenza divenne nota solo nel 1935) o per riflettere la sua natura episodica. Come nota il Grove Dictionary, «Non è sufficientemente esplicito come musica a programma e costruita in modo troppo negligente per una sinfonia astratta», collocandola a metà strada tra una sinfonia e una suite. La critica ha spesso definito Roma un lavoro diseguale: lo Scherzo è quasi universalmente acclamato come il movimento più riuscito, mentre i movimenti esterni — pur contenendo momenti di brillantezza — sono stati talvolta criticati per una certa “pedanteria accademica” e il movimento lento non sempre ha goduto di grande favore. Nonostante ciò, figure come Gustav Mahler ne riconobbero il valore, dirigendola a Vienna nel 1898-99 e introducendola al pubblico americano nel suo tour del 1910.
Originariamente, il primo movimento era un Tema e Variazioni, ma poi fu riscritto completamente seguendo una forma ternaria (ABA) modificata, dove la sezione centrale Allegro agitato offre un forte contrasto tematico e dinamico rispetto alle sezioni esterne più liriche. Esso s’inizia con un’atmosfera pastorale e sognante, introdotta da un caldo e nostalgico tema affidato ai corni. Le armonie sono ricche e evocative, trasportando l’ascoltatore in un paesaggio sereno. Gli archi entrano con una melodia lirica e cantabile, ripresa e variata dai legni, in particolare dal flauto che aggiunge un tocco di delicatezza. La scrittura è fluida e trasparente, con un senso di calma contemplativa. C’è un graduale crescendo negli archi che aggiunge intensità emotiva, per poi ritornare alla tranquillità iniziale. Una brusca transizione introduce la sezione centrale, molto più dinamica e drammatica. L’orchestra si scatena con figure veloci e sincopate negli archi, che creano un senso di urgenza e movimento. Squilli di ottoni (corni e trombe) e interventi percussivi del timpano evocano chiaramente l’idea di una caccia, come suggerito dal titolo programmatico. L’energia è palpabile, con forti contrasti dinamici e un carattere più robusto. Bizet dimostra già una notevole abilità nel creare tensione e slancio.
Vi sono episodi più lirici e contrastanti, soprattutto nei legni, che offrono brevi momenti di respiro prima che l’agitazione riprenda. Il tema iniziale dei corni ritorna, ma con una veste orchestrale leggermente diversa e un carattere forse più introspettivo e maturo. Gli archi forniscono un delicato tappeto sonoro. Questa ripresa non è una semplice ripetizione, ma una sorta di riflessione sul materiale precedente, che porta il movimento a una conclusione serena e pacata, quasi dissolvendosi nel silenzio.
Il secondo movimento è quello universalmente lodato dell’opera, brillante e vivace, caratterizzato da una leggerezza e un’eleganza tipicamente francesi. S’inizia con un tema giocoso e staccato presentato dai legni (flauti, oboi, clarinetti) e sostenuto dal pizzicato degli archi, che conferisce un carattere frizzante e danzante. La melodia è accattivante e piena di brio. L’orchestrazione è abile, con dialoghi spiritosi tra le diverse sezioni. Nonostante il titolo originale Une Procession, la musica evoca più una festa popolare o una danza vivace che una marcia solenne, confermando il distacco di Bizet dall’idea programmatica iniziale per questo specifico movimento. La sezione centrale (trio) offre un contrasto più lirico e cantabile. Il tema, spesso affidato agli archi o a un solo strumento a fiato (come l’oboe), è più melodioso e fluido, pur mantenendo un andamento aggraziato e un sottile impulso ritmico che lo lega al carattere generale dello scherzo. L’atmosfera è più intima e riflessiva. Il movimento ritorna alla sezione iniziale (da capo), riproponendo il materiale tematico vivace e giocoso, per poi concludersi con energia e brillantezza.
Il terzo movimento è un Andante molto, espressivo e romantico, che si apre con una melodia calda e appassionata negli archi, evocando perfettamente l’atmosfera di una serenata notturna. Esso ha un andamento rapsodico, quasi una fantasia lirica costruita attorno al tema principale, con sezioni contrastanti ma sempre legate dal carattere cantabile e romantico. La scrittura melodica di Bizet è qui al suo meglio, lirica e intensamente emotiva. I legni, in particolare l’oboe e il flauto, riprendono e sviluppano il materiale tematico, dialogando con gli archi su un tappeto di armonie ricche e avvolgenti, spesso con arpeggi delicati. Nonostante alcune critiche che lo hanno definito “pesante”, il movimento si sviluppa con grande sensibilità dinamica, crescendo gradualmente verso un culmine di intensa passione, dove l’intera orchestra partecipa, per poi tornare a sonorità più intime e delicate. Ci sono bellissimi passaggi solistici, come quello del violoncello che aggiunge profondità e calore. L’orchestrazione è raffinata, mettendo in risalto le qualità cantabili dei diversi strumenti. La conclusione è sommessa e sognante, lasciando un senso di nostalgia.
Il Finale è un Allegro vivacissimo pieno di energia contagiosa e brillantezza orchestrale che dipinge vividamente l’atmosfera festosa di un carnevale romano, culminante in un travolgente saltarello. La forma è complessa, assimilabile a un rondò-sonata o una forma libera con sezioni tematiche ricorrenti, episodi contrastanti e un significativo uso del principio ciclico. L’attacco è immediato e vigoroso, con l’intera orchestra che esplode in un tema ritmicamente marcato e gioioso. Ottoni squillanti, percussioni incisive (timpani, piatti) e veloci figurazioni degli archi contribuiscono all’effetto di esuberanza e frenesia. Bizet alterna momenti di grande impeto con episodi più leggeri e danzanti, sempre mantenendo alta la tensione ritmica. Ci sono anche brevi oasi liriche (come un tema più cantabile nei legni) che offrono un momentaneo contrasto. Un elemento sinfonico importante è la ripresa ciclica di temi dai movimenti precedenti: in particolare, si riconosce il tema dei corni del primo movimento, qui trasformato e presentato in una veste più trionfale e assertiva, che contribuisce a unificare l’intera opera. Il movimento accelera progressivamente, in un crescendo di sonorità e ritmo che porta a una conclusione spettacolare e affermativa, suggellando l’opera con un’esplosione di vitalità.
Nel complesso l’opera, pur segnata da un lungo e travagliato processo compositivo che riflette l’insoddisfazione del suo autore, rimane un’opera ricca di fascino e rivelatrice del suo genio. Dimostra la sua innata abilità melodica, la sua notevole padronanza dell’orchestrazione e la sua capacità di creare atmosfere vivide, sebbene l’intento programmatico originale sia stato parzialmente offuscato dalle revisioni. I movimenti sono ben caratterizzati e l’uso di temi ciclici, specialmente nel Finale, mostra l’ambizione di Bizet di creare un’opera sinfonicamente integrata.

Giocoso

Sir Eugene Aynsley Goossens (26 maggio 1893 - 1962): Sinfonia n. 2 op. 62 (1942-44). Melbourne Symphony Orchestra, dir. sir Andrew Davis.

  1. Adagio – Vivace ma non troppo
  2. Andante tranquillo
  3. Giocoso (Interlude)
  4. Andante – Allegro con spirito


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Eugene Goossens: ascesa fulminante, caduta scandalosa e duratura eredità di un maestro

Origini familiari e formazione d’eccellenza
Nato a Camden Town, Londra, nella famiglia del direttore d’orchestra Eugène Goossens e della cantante Annie Cook, iniziò la propria formazione musicale a Bruges, proseguendola tre anni dopo al Liverpool College of Music e concludendola nel 1907 al Royal College of Music di Londra, dove studiò grazie a una borsa di studio con figure di spicco come il compositore Charles Villiers Stanford e il violinista Achille Rivarde. Il suo talento fu riconosciuto con la medaglia d’argento della Worshipful Company of Musicians e la nomina ad associato del Royal College of Music.

Inizio carriera e affermazione come direttore
Divenuto primo violino nella Queen’s Hall Orchestra di Henry Wood (1911-15), Gossens fu membro fondatore del Philharmonic Quartet, in cui suonò come secondo violinista. La sua ascesa come direttore ebbe inizio quando si fece notare come assistente di Thomas Beecham, dirigendo l’opera The Critic di Stanford nel 1916. Nel 1921, decise di dedicarsi interamente alla direzione, fondando una propria orchestra con cui realizzò diverse incisioni per l’etichetta Velvet Face di Edison-Bell. Un momento cruciale fu la prima esecuzione britannica in concerto del Sacre du Printemps di Igor’ Stravinskij, il 7 giugno 1921 alla Queen’s Hall, alla presenza del compositore stesso.

Il lungo periodo americano
Per quasi un quarto di secolo, Goossens ricoprì importanti incarichi presso orchestre statunitensi. Su invito di George Eastman, fu direttore della Rochester Philharmonic Orchestra (1923-31), incarico che includeva l’insegnamento presso la Eastman School of Music. Durante gli anni ’20, collaborò frequentemente con la American Opera Company di Vladimir Rosing. Successivamente, succedette a Fritz Reiner come direttore della Cincinnati Symphony Orchestra (1931-46). Al momento della sua partenza per l’Australia, nove compositori americani (Ernest Bloch, Aaron Copland, Paul Creston, Anis Fuleihan, Roy Harris, Walter Piston, Bernard Rogers, Roger Sessions e Deems Taylor) gli resero omaggio componendo collettivamente le Variations on a Theme by Eugene Goossens, di cui lo stesso Goossens compose il finale.

L’avventura australiana e il sogno dell’Opera House
Goossens trascorse nove anni in Australia (1947-56): durante questo periodo fu una figura centrale nella vita musicale del Paese, dirigendo la Sydney Symphony Orchestra e altre compagini sinfoniche e ricoprendo il ruolo di direttore del NSW State Conservatorium of Music. Fu un fervente sostenitore della costruzione di un nuovo e grande teatro per le arti performative, un impegno che alla fine portò alla creazione della Sydney Opera House. Mantenne questi incarichi contemporaneamente fino al marzo 1956, quando fu costretto a dimettersi a seguito di un devastante scandalo pubblico, appena un anno dopo essere stato nominato cavaliere.

Lo scandalo che distrusse una carriera
Nei primi anni ’50, Goossens incontrò Rosaleen Norton, nota come “la Strega di Kings Cross”, un’artista famosa per le sue opere grottesche e l’interesse per l’occulto e l’erotismo, passioni che Goossens condivideva segretamente. I due ebbero un’intensa relazione, testimoniata da numerose lettere appassionate che Goossens chiese a Norton di distruggere, ma che lei conservò.
Nel 1956, mentre Goossens era in Europa, la polizia di Sydney entrò in possesso delle sue lettere e di fotografie delle attività occulte di Norton, trafugate dall’appartamento di lei da un giornalista. Al suo ritorno in Australia, il 9 marzo 1956, Goossens fu fermato all’aeroporto di Sydney e i suoi bagagli perquisiti. Furono trovati materiali considerati pornografici per l’epoca (fotografie, stampe, libri, una bobina di film, maschere di gomma e incenso). Non fu arrestato, ma accettò ingenuamente di essere interrogato dalla polizia, dove fu messo di fronte alle prove della relazione con Norton. Per evitare l’accusa più grave di “condotta scandalosa”, fu costretto a dichiararsi colpevole per il possesso di materiale pornografico, pagando una multa di 100 sterline. Lo scandalo, tuttavia, ebbe conseguenze ben più gravi e la sua reputazione fu rovinata, costringendo il musicista a dimettersi da tutti gli incarichi e a tornare in Inghilterra in disgrazia.

Vita privata, ultimi anni e morte
Negli ultimi anni della sua vita, Goossens fu assistito da Pamela Main, una giovane pianista di Adelaide. Nonostante fosse, a detta dell’ex allievo Richard Bonynge, “assolutamente distrutto” dallo scandalo, continuò a lavorare per la BBC e realizzò alcune importanti registrazioni stereo per Everest Records, tra cui una potente versione delle Feste romane di Respighi poco prima della morte, oltre a Scheherazade di Rimskij-Korsakov e la Symphonie fantastique di Berlioz. Morì il 13 giugno 1962 all’Hillingdon Hospital a causa di febbre reumatica e un’ulcera gastrica emorragica.

Eredità musicale e culturale
Come compositore, Goossens lasciò un corpus di opere significativo, il quale include due Sinfonie, due Concerti phantasy (per pianoforte e per violino), due Quartetti d’archi, due Sonate per violino e un popolare Concertino per ottetto d’archi (poi riarrangiato per orchestra d’archi). Tra i suoi maggiori successi compositivi figurano le opere Judith e Don Juan de Manara (entrambe su libretto di Arnold Bennett) e l’oratorio The Apocalypse. Nel 1942 commissionò a vari compositori fanfare patriottiche per sostenere lo sforzo bellico, come la celeberrima Fanfare for the Common Man di Aaron Copland. Goossens stesso contribuì con una Fanfare for the Merchant Marine. Realizzò incisioni importanti, come la prima registrazione americana integrale della Sinfonia n. 2 di Čajkovskij (1941) e, nello stesso anno, A London Symphony di Vaughan Williams (edizione 1920) e il Concerto per violino di Walton con Jascha Heifetz. Orchestrò, infine, il Messiah di Handel in occasione del bicentenario della morte del compositore (1959).
Il suo contributo più visibile e duraturo è forse il suo ruolo determinante nel promuovere la costruzione della Sydney Opera House, insistendo per la sua iconica collocazione a Bennelong Point. A Sydney, l’Eugene Goossens Hall, una sala da concerto e registrazione dell’Australian Broadcasting Corporation, commemora il suo nome.

La Seconda Sinfonia: analisi
Questa Sinfonia è un affascinante esempio di scrittura sinfonica del XX secolo e combina elementi tardo-romantici con un linguaggio armonico e ritmico più moderno.
Il primo movimento è strutturato in una forma-sonata modificata e si apre in un’atmosfera cupa e misteriosa. Violoncelli e contrabbassi introducono un motivo grave e serpeggiante su un pedale profondo, creando un senso di attesa e desolazione. Subito, i corni con sordina entrano con un breve frammento tematico, lamentoso e sostenuto, che aggiunge un colore pastorale oscuro. L’atmosfera si arricchisce con l’ingresso dei legni gravi (fagotti, clarinetti bassi) che presentano figure cromatiche e discendenti, quasi dei sospiri, che accentuano il carattere introspettivo. L’oboe emerge con una melodia più definita, lirica ma intrisa di malinconia, su un tappeto di archi sostenuti. Questo tema è caratterizzato da intervalli ampi e un andamento flessibile. Il flauto riprende poi la melodia in un registro più acuto, offrendo un breve raggio di luce, seppur velato. Gli archi diventano gradualmente più presenti e attivi, con i violoncelli che sviluppano una linea melodica più appassionata e inquieta, portando a un crescendo graduale.
Il primo vero culmine dell’Adagio arriva con l’ingresso potente degli ottoni (trombe e tromboni con sordina), che declamano accordi dissonanti e carichi di tensione, sostenuti da un rullo di timpani. Questo passaggio ha un carattere quasi da crisi, drammatico e severo. La tensione si stempera rapidamente, con un clarinetto solista intona una melodia dolente e solitaria, riportando l’ascoltatore a una dimensione più intima e riflessiva. Gli archi riprendono frammenti dei motivi iniziali, mantenendo l’atmosfera cupa ma con un senso di movimento sotterraneo. La transizione verso il Vivace inizia sottilmente e il tempo accelera gradualmente (poco a poco animando), gli archi introducono figure in pizzicato, i legni diventano più agili e frammentati, e i timpani sottolineano il cambiamento con un ritmo più marcato. Si percepisce un crescendo di tensione e aspettativa.
La seconda sezione segue a grandi linee la forma sonata. L’attacco è improvviso e vigoroso con un primo tema energico, ritmico e marcatamente sincopato, presentato principalmente dagli archi e dai legni. Ha un carattere propulsivo, quasi motorio, tipico di molto sinfonismo del primo Novecento (reminiscenze di Walton o Prokof’ev). L’armonia è tonale ma arricchita da frequenti cromatismi. Gli ottoni (trombe) entrano rinforzando il tema con accenti quasi da fanfara, mentre le percussioni (tamburo militare, piatti) aggiungono ulteriore spinta ritmica. Una breve transizione, basata su frammenti del primo tema, modula e aumenta l’intensità, preparando l’arrivo del secondo tema. In contrasto con il primo, il secondo tema è più lirico, cantabile e ampio, introdotto dagli archi (violini). Sebbene più disteso, mantiene un’energia sottostante e una certa nobiltà espressiva. I legni (oboe e flauto) riprendono il secondo tema, arricchendolo con ornamentazioni e un colore più delicato. La sezione conclusiva dell’esposizione ritorna al carattere ritmico del primo tema, con frammenti tematici che si rincorrono e potenti accordi degli ottoni, portando a una cadenza decisa che chiude l’esposizione.
Lo sviluppo s’inizia con un cambiamento di atmosfera. Frammenti dei due temi principali vengono elaborati e contrapposti. Si avverte un ritorno all’oscurità dell’Adagio, con sonorità più cupe negli ottoni gravi e negli archi. Il primo tema viene frammentato e trasformato, assumendo un carattere più minaccioso. Il secondo tema appare in una veste più agitata e armonicamente instabile, spesso nei legni e negli archi acuti. La sezione centrale è caratterizzata da un aumento della spinta ritmica e da un intenso lavorio contrappuntistico. I motivi tematici vengono scambiati tra le varie sezioni orchestrali, creando un tessuto denso e complesso. Un passaggio quasi fugato, basato su un frammento del primo tema, aumenta ulteriormente la tensione e la complessità. L’intero sviluppo costruisce progressivamente verso un grande culmine, dove l’orchestra intera esplode con potenza, con gli ottoni e i timpani in primo piano, segnando il punto di massima tensione del movimento.
Il primo tema ritorna con forza e decisione, affidato all’intera orchestra. Non è una ripetizione letterale, ma appare condensato e ancora più incisivo rispetto all’esposizione. La transizione è abbreviata e modificata, portando più direttamente al secondo tema, presentato in una luce più trionfale e assertiva, spesso con un ruolo prominente degli ottoni e un’orchestrazione più piena e ricca. La sezione conclusiva riprende frammenti del primo tema, mantenendo un’alta carica energetica.
La coda ha inizio con un leggero rallentamento, ma riafferma rapidamente il carattere energico del movimento con potenti frammenti del primo tema. Interessante è un breve richiamo all’atmosfera cupa dell’Adagio, con sonorità più scure nei legni bassi e negli ottoni con sordina, quasi un’ombra che riaffiora prima della conclusione definitiva. Il movimento si conclude con una perorazione finale basata sul primo tema, con accordi potenti, ritmi incisivi e un uso brillante degli ottoni e delle percussioni, che portano a una chiusura enfatica e affermativa.
Il secondo movimento si apre in un’atmosfera sommessa e pastorale. Un clarinetto introduce il tema principale, una melodia dolcemente ondulata, di carattere modale e leggermente malinconico. Gli archi forniscono un tappeto sonoro morbido e sostenuto, creando un senso di quiete profonda. La melodia è espressiva e cantabile, evocando un paesaggio interiore sereno ma velato da una sottile nostalgia. Un flauto riprende brevemente frammenti del tema, seguito dall’oboe che offre una variazione più acuta e struggente del tema principale, arricchendo la tavolozza timbrica con la sua sonorità penetrante.
Il materiale tematico viene ripreso e sviluppato. Un corno emerge con una frase lirica e calda che sembra espandere l’orizzonte emotivo del tema iniziale. Gli archi si fanno più presenti, con un leggero crescendo che porta a un maggiore calore espressivo. Le armonie si infittiscono, pur mantenendo una trasparenza tipica dello stile di Goossens, che qui mostra influenze tardo-romantiche e impressioniste. I legni (flauto, oboe, clarinetto) continuano a dialogare, intrecciando delicate ornamentazioni attorno alla linea melodica principale. La dinamica fluttua dolcemente, creando un senso di respiro naturale.
L’atmosfera inizia a mutare sottilmente: gi archi introducono elementi di maggiore inquietudine, con l’uso di pizzicati e tremoli sommessi che creano un senso di attesa. Interventi discreti ma significativi degli ottoni con sordina (specialmente trombe) aggiungono un colore più scuro e presagiscono un cambiamento imminente. L’armonia si fa più cromatica e le dissonanze, seppur controllate, aumentano la tensione. Si percepisce un graduale crescendo e un leggero incremento dell’agogica, preparando l’ascoltatore alla sezione successiva.
Con il cambio di indicazione, la musica acquista un’energia propulsiva e un carattere più agitato. Gli archi presentano un tema più frammentato e ritmicamente incisivo, caratterizzato da ampi salti melodici e un fraseggio appassionato. L’intera orchestra viene coinvolta: gli ottoni (trombe e corni in particolare) forniscono potenti sostegno armonico e contrappunti drammatici, mentre i legni contribuiscono con figurazioni rapide e acute. Le percussioni sottolineano i momenti di maggiore enfasi. L’armonia è densa, ricca di cromatismi e dissonanze che esprimono un turbamento interiore.
Il culmine della sezione arriva con l’orchestra al completo in un fortissimo espressivo. Il tema appassionato raggiunge la sua massima intensità. Subito dopo, inizia una progressiva diminuzione della tensione. Le dinamiche si attenuano, le tessiture orchestrali si diradano, e il ritmo propulsivo inizia a perdere la sua urgenza.L’agitazione si placa gradualmente: assoli malinconici dei legni (flauto, oboe) emergono su un accompagnamento più rarefatto degli archi, mentre il corno ripropone frammenti lirici. C’è un senso di riflessione, come se si stesse contemplando l’episodio passionale appena trascorso. L’armonia, pur mantenendo una certa complessità, diventa meno aspra, e si avverte un ritorno verso l’atmosfera iniziale.
Il clarinetto ripropone il tema principale dell’Andante tranquillo, ma ora trasfigurato, quasi etereo. L’accompagnamento degli archi è diafano, con armonie sospese e un senso di pace profonda, con gli archi acuti creano un velo sonoro quasi immateriale. Gli ultimi interventi del clarinetto e dei legni sono frammentati, come sospiri. Il movimento si conclude in un pianissimo prolungato, dissolvendosi nel silenzio. La sensazione è di una serenità raggiunta dopo un percorso interiore, una pace contemplativa e quasi spirituale.
Il terzo movimento è strutturato come uno scherzo con trio e si apre pianissimo con un’atmosfera quasi furtiva e misteriosa. Gli archi bassi (contrabbassi e violoncelli) in pizzicato, spesso con sordina, stabiliscono un ostinato ritmico leggero ma insistente, creando una base quasi meccanica, come un orologio impazzito o un meccanismo segreto. A questo si aggiungono i violini e le viole, sempre in pizzicato e con sordina, con frammenti melodici brevi, guizzanti e leggermente sincopati, che passano rapidamente da una sezione all’altra. L’armonia è mobile, tonale ma con frequenti inflessioni cromatiche che aumentano il senso di instabilità e gioco. I legni (flauti, oboi, clarinetti) iniziano a inserirsi con brevi motivi staccati, quasi dei commenti arguti o delle risatine soffocate, che si sovrappongono al lavorio degli archi. L’uso di registri acuti e la scrittura agile contribuiscono al carattere scherzoso. Anche gli ottoni con sordina fanno brevi apparizioni con accenti ritmici e fanfare soffocate.
La musica gradualmente si anima, con un crescendo dinamico e un ispessimento della tessitura. Gli archi passano progressivamente all’arco, pur mantenendo una certa leggerezza. I legni diventano più assertivi, e gli ottoni, ora senza sordina, contribuiscono con fanfare più brillanti e incisive. Le percussioni (triangolo, tamburo militare, xilofono) aggiungono ulteriore brillantezza e spinta ritmica. Il materiale tematico è ancora frammentato ma acquista maggiore energia e slancio. Segue una breve sezione più sommessa, che richiama l’atmosfera iniziale, con gli archi nuovamente in pizzicato e interventi solistici dei legni. Questa serve da ponte per un ulteriore sviluppo del materiale dello scherzo, con un progressivo re-intensificarsi della dinamica e della densità orchestrale, sempre caratterizzato da ritmi puntati, staccati e un’energia propulsiva. Goossens dimostra qui la sua maestria nell’orchestrazione, creando un dialogo vivace e colorato tra le sezioni.
Nella seconda sezione, il ritmo si fa meno frammentato e più fluido, mentre il carattere diventa più lirico e cantabile, tipico di una sezione di Trio. Un tema espressivo e melodico emerge, inizialmente affidato al corno solo, su un accompagnamento più morbido degli archi (ora decisamente all’arco e con un suono più caldo) e dei legni. L’armonia si fa più ricca e cromaticamente lussureggiante, con un sapore quasi tardo-romantico o impressionista. Il tema lirico viene ripreso e sviluppato dagli archi, in particolare dai violini, che lo espongono con calore e intensità crescente. I legni forniscono contrappunti delicati e armonie di sostegno. La scrittura è più omogenea e meno frammentata rispetto alla sezione precedente. Anche qui, l’orchestrazione è raffinata, con un uso sapiente dei colori strumentali per creare un’atmosfera sognante e leggermente nostalgica, pur mantenendo una certa eleganza. Una breve transizione, in cui elementi ritmici dello scherzo iniziano a riaffiorare timidamente (brevi staccati nei legni, pizzicati leggeri negli archi), prepara il ritorno della sezione principale. La dinamica diminuisce, creando attesa.
La sezione iniziale ritorna, con l’ostinato in pizzicato degli archi bassi e i frammenti melodici guizzanti dei violini, molto simile all’apertura del movimento. I legni e gli ottoni si aggiungono progressivamente, ricostruendo la tessitura e l’energia, portando a un nuovo culmine che sembra ripercorrere, seppur in forma abbreviata o variata, lo sviluppo iniziale dello scherzo. La musica si lancia in una coda energica e brillante. Gli ottoni assumono un ruolo preponderante con fanfare trionfali e ritmi marcati. Le percussioni (timpani, piatti, grancassa) sottolineano la spinta ritmica con forza.
Il movimento accelera leggermente verso la fine, con tutta l’orchestra impegnata in un crescendo finale. Una serie di accordi potenti e ritmicamente incisivi, spesso sottolineati da colpi di percussione, porta a una conclusione netta, enfatica e brillantemente affermativa, quasi un’esplosione di gioia controllata. L’ultimo accordo è secco e definitivo, sigillando il carattere “giocoso” del movimento.
Il quarto e ultimo movimento rappresenta un culmine emotivo e una sintesi delle tensioni e del lirismo presenti nell’intera opera. È un movimento complesso, che giustappone momenti di profonda introspezione e malinconia a episodi di agitazione quasi marziale, riflettendo l’angoscia e l’incertezza del periodo bellico in cui fu concepito. L’orchestrazione, ricca e sapiente, è uno dei punti di forza di Goossens, e qui viene sfruttata per creare una vasta gamma di colori e atmosfere. Il movimento può essere grossomodo suddiviso in una forma ternaria modificata con una coda estesa (A – B – A’ – Coda), dove la sezione centrale B è caratterizzata dal cambio di tempo “Più moto”.
L’apertura vede un’atmosfera cupa e misteriosa, con un Andante molto lento. Gli archi bassi (violoncelli e contrabbassi) introducono un motivo sommesso e cromatico, quasi un lamento trattenuto, su cui si innestano accordi sospesi e leggermente dissonanti degli altri archi e dei legni. Il timbro è scuro, la dinamica è pianissimo. Emerge una melodia dolente e lirica, affidata inizialmente ai primi violini, sostenuta da armonie dense e cangianti negli altri archi e nei legni (in particolare il clarinetto basso e i fagotti contribuiscono al colore scuro). La melodia è caratterizzata da ampi intervalli e da un andamento sinuoso, che esprime un senso di profonda malinconia e rassegnazione. Goossens fa un uso magistrale del cromatismo e delle armonie tardo-romantiche con inflessioni impressionistiche, creando un tessuto sonoro ricco e avvolgente. Il tema viene ripreso e sviluppato, passando attraverso diverse sezioni dell’orchestra. I legni (flauto, oboe, clarinetto) hanno interventi solistici toccanti, che dialogano con gli archi. C’è un graduale crescendo emotivo e dinamico, che porta a un breve culmine espressivo con l’intera orchestra d’archi che canta appassionatamente, prima di ritornare a una dinamica più sommessa. La scrittura è contrappuntisticamente densa, con linee melodiche che si intrecciano.
Il cambiamento di atmosfera è preannunciato da un leggero aumento della tensione. Un rullante sommesso (tamburo militare) entra quasi impercettibilmente, insieme a un motivo ritmico ostinato nei bassi pizzicati e nei legni gravi. Gli ottoni (corni, trombe con sordina) iniziano a farsi sentire con brevi incisi minacciosi. L’armonia si fa più instabile. Il tempo accelera decisamente, come indicato dalla dicitura “Più moto”. La musica assume un carattere marziale, ma distorto, quasi grottesco e implacabile. Timpani e percussioni diventano protagonisti, con ritmi ostinati e incisivi. Gli ottoni (trombe, tromboni) squillano con asprezza, spesso con l’uso di sordine che ne alterano il timbro rendendolo più tagliente. I legni acuti (ottavino, clarinetti) contribuiscono con guizzi brillanti e a tratti stridenti. Gli archi suonano con maggiore aggressività, con figurazioni ritmiche serrate. Questa sezione evoca immagini di conflitto, di marcia inesorabile, con un sapore che ricorda a tratti Šostakóvič o Walton nei loro momenti più bellicosi e sarcastici. La tensione si accumula fino a un climax fragoroso e dissonante, segnato da colpi di piatti e grancassa e da un urlo degli ottoni. Dopo il culmine, l’energia inizia gradualmente a dissiparsi. Il ritmo marziale si frammenta, gli ottoni si quietano, e gli archi riprendono un carattere più lirico, seppur ancora teso. La dinamica decresce progressivamente, preparando il ritorno alla sezione iniziale.
Il tempo rallenta nuovamente, tornando all’Andante iniziale. Frammenti del tema principale della sezione A riemergono negli archi e nei legni, ma l’atmosfera è cambiata: c’è ora un senso di stanchezza, di desolazione post-conflitto. Un esteso e toccante assolo di diventa il centro emotivo di questa sezione, con una melodia intensamente lirica, cantabile e permeata da una profonda tristezza e vulnerabilità. L’orchestra fornisce un accompagnamento discreto e rarefatto, principalmente con gli archi con sordina e interventi delicati dei legni, creando un’aura quasi cameristica. L’armonia è sospesa, contribuendo a un senso di struggente nostalgia.
L’assolo di violino si dissolve gradualmente, e l’orchestra riprende il materiale tematico iniziale in una forma ancora più eterea e frammentata. La dinamica scende a pianissimo. Gli archi, spesso con sordina, sostengono lunghe note e armonie diafane. Interventi isolati di legni (flauto, clarinetto) sembrano sospirare. La musica sembra lottare per rimanere a galla: ci sono ancora brevi fremiti negli archi, quasi ricordi lontani dell’intensità passata. Goossens allunga magistralmente la conclusione, con accordi che si trasformano lentamente, creando un senso di attesa e sospensione. Gli ultimi minuti sono caratterizzati da una rarefazione estrema del tessuto orchestrale. Gli accordi finali sono tenui, enigmatici e non completamente risolti, lasciando l’ascoltatore con un senso di profonda introspezione e di incertezza, una caratteristica comune nella musica scritta durante periodi di grande crisi. La sinfonia non termina con un’affermazione trionfale, ma svanisce nel silenzio, un finale potentemente evocativo.

Sinfonia in si bemolle maggiore

Andrea Lucchesi (o Luchesi; 23 maggio 1741 - 1801): Sinfonia in si bemolle maggiore (c1767-72). Orchestra «Andrea Luchesi», dir. Agostino Granzotto.

  1. Allegro
  2. Andante [4:53]
  3. Presto [11:37]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Andrea Lucchesi: un maestro italiano tra le corti di Venezia e di Bonn

Gli esordi brillanti a Venezia (1741-1771)
Nato a Motta di Livenza, Lucchesi si formò musicalmente a Venezia dal 1757, studiando con Gioacchino Cocchi (opera), Giuseppe Paolucci e Giacomo Giuseppe Saratelli (musica sacra). Inizialmente si distinse nella musica sacra e come virtuoso di organo e clavicembalo, tanto da essere menzionato da Leopold Mozart nel 1771. Questa abilità gli permise di operare come maestro al cembalo nelle rappresentazioni operistiche, dirigendo probabilmente anche le sue prime opere. La sua prima opera documentata, L’isola della fortuna (1765), debuttò a Venezia e fu poi rappresentata a Vienna e Lisbona. Seguirono la cantata giocosa Il marito geloso (1766), una cantata per il duca di Württemberg (1767), l’opera buffa Le donne sempre donne (1767), l’oratorio Sacer trialogus (circa 1767) e l’opera Il matrimonio per astuzia (1771). Al periodo italiano appartengono anche sinfonie, alcune delle quali identiche alle ouverture delle sue opere.

La chiamata a Bonn e l’ascesa come maestro di cappella (1771-1774)
Sul finire del 1771, Lucchesi partì per Bonn alla guida di una compagnia operistica, espressamente chiamato dall’elettore-arcivescovo di Colonia, Massimiliano Federico, forse grazie al cantante F. Sandali. A Bonn diresse inizialmente opere italiane, inclusa una ripresa delle Donne sempre donne (febbraio 1772) e Il mercato di Malmantile di Domenico Fischietti, coinvolgendo sia musicisti italiani che membri della cappella di corte locale. Charles Burney, in visita nel 1772, lodò Lucchesi e notò come la compagnia italiana fosse mantenuta separatamente dall’elettore.
Per Bonn Lucchesi compose lavori d’occasione come la cantata Il natal di Giove (1772) e l’intermezzo Il giocatore amoroso (1772). Seguirono l’opera L’inganno scoperto ovvero Il conte Caramella (1773) e L’improvisata o sia La galanteria disturbata (1773-74, rielaborazione del Marito geloso), oltre al balletto-pantomima Arlequin déserteur (1774). Scrisse anche arie supplementari per opere di Guglielmi e Traetta.
Nel campo strumentale, pubblicò a Bonn le Sei Sonate per il cembalo con l’accompagnamento di un violino op. 1 (1772) e, nel 1773, una Sonata per tastiera, un Concerto per pianoforte e tre Sinfonie op. 2 (queste ultime perdute). Il 26 maggio 1774, Lucchesi fu nominato maestro della cappella di corte a Bonn, succedendo al nonno di Beethoven. Nel 1775 sposò Josepha Antonetta d’Anthoin, legandosi a una famiglia influente ed entrando in contatto, tramite il cognato Ferdinand, con il circolo degli Illuminati di Christian Gottlob Neefe.

Anni di intensa attività e nuove sfide alla corte elettorale (1774-1783)
Nonostante la nomina, il teatro di corte chiuse nel 1774 e la sua compagnia italiana si disperse. Nel 1778 fu fondato un teatro nazionale con una compagnia tedesca, diretta musicalmente da Neefe che promosse il Singspiel. L’importanza di Lucchesi nella musica strumentale fu ridimensionata dall’adozione della “doppia direzione” che gli lasciava la musica vocale e sacra, mentre quella strumentale era affidata al primo violino. Ciononostante, la sua posizione rimase ambita, come testimonia l’interesse di W.A. Mozart nel 1782. I legami con il circolo progressista di Neefe portarono alla composizione di musiche per prologhi come Die Liebe für das Vaterland (1783) e Die Belohnung der Vaterlandsliebe (1783).

Il legame con l’Italia, gli ultimi fuochi e il declino (1783-1801)
Nel 1783 Lucchesi ottenne un permesso per un viaggio in Italia, ufficialmente per affari familiari, ma probabilmente per la messa in scena della sua opera seria Ademira a Venezia (1784). Durante questo soggiorno gli fu conferito il titolo di direttore dell’Accademia musicale dei Tedeschi. La morte dell’elettore Massimiliano Federico (aprile 1784) affrettò il rientro di Lucchesi, che organizzò le esequie. Per la consacrazione del nuovo elettore, Massimiliano Francesco d’Asburgo (maggio 1785), fu eseguita una sua cantata. Ricevette il titolo di consigliere di corte nel 1787. Un momento significativo fu la visita di F.J. Haydn a Bonn nel Natale 1790, durante la quale fu eseguita una sua messa, probabilmente grazie all’organizzazione di Lucchesi e Johann Peter Salomon. Nel 1794, dopo la fuga dell’elettore a causa dell’avanzata francese, Lucchesi fu incaricato di progettare un nuovo ordinamento della cappella, progetto vanificato dagli eventi. La sua probabile ultima composizione, l’opera buffa, L’amore e la misericordia guadagnano il giuoco, fu eseguita a Passau nel maggio 1794. Con l’occupazione francese della Renania nell’ottobre 1794, la cappella fu sciolta e Lucchesi perse le sue fonti di reddito. Morì a Bonn nel 1801.

L’eredità musicale: stile, opere e influenza
La produzione lucchesiana fu prevalentemente destinata all’ambiente di corte, ad eccezione della musica strumentale a stampa. La sua unica opera seria, Ademira, mescolava la struttura tradizionale con elementi dell’opera buffa. Le sue opere comiche, tipici drammi giocosi, alternavano serio e faceto, introducendo un elemento sentimentale. Le sue sinfonie, influenzate da Baldassare Galuppi, avevano tratti operistici e furono apprezzate in Germania. L’influenza di Galuppi è evidente anche nelle sonate per clavicembalo e organo del periodo veneziano. Le Sonate op. 1 (1772) mostrano il “secondo stile galante”, cantabile e sentimentale, strutturate in tre movimenti e già orientate verso la forma-sonata tripartita. Uno dei suoi concerti per pianoforte (probabilmente quello in fa maggiore, 1773) fu parte del repertorio didattico di Leopold Mozart che lo consigliò alla figlia Nannerl. Questo concerto è affine allo stile galante di Johann Christoph Bach.
Nella musica sacra Lucchesi, benché allievo del contrappuntista Paolucci, adottò prevalentemente uno “stile misto”, alternando passaggi contrappuntistici (giudicati limpidi da Neefe) a elementi teatrali, come si evince dall’oratorio La Passione di Gesù Cristo. Il giovane Beethoven, membro della cappella di Lucchesi dal 1782, fu influenzato dal maestro, in quanto alcuni studiosi indicano un impatto sui passaggi contrappuntistici della sua musica sacra, mentre altri si soffermano sull’assimilazione dell’elemento “italianizzante” nelle sue prime opere strumentali.

La Sinfonia in si bemolle maggiore: analisi
Questa sinfonia, databile tra il periodo tardo veneziano e il primo periodo di Bonn, è un eccellente esempio dello stile galante preclassico, caratterizzato da chiarezza formale, melodie cantabili e un’orchestrazione vivace ma equilibrata. Si articola nei tradizionali tre movimenti: Allegro, Andante, Presto.
Il primo movimento si apre con un primo tema vigoroso e assertivo in si bemolle maggiore, presentato dall’intera orchestra. È caratterizzato da un motivo ascendente quasi da “razzo di Mannheim” (una rapida sequenza ascendente nella melodia) e da un ritmo puntato che gli conferisce un carattere marziale e festoso. Gli archi dominano, con i fiati (oboi e corni) che rinforzano le armonie e aggiungono colore timbrico. Una breve transizione, energica e modulante, conduce alla tonalità della dominante, fa maggiore. Questa sezione utilizza passaggi scalari e arpeggiati negli archi, mantenendo l’impulso ritmico. Il secondo tema, in fa maggiore, offre un contrasto più lirico e cantabile. Presentato inizialmente dagli archi, è più aggraziato e melodico rispetto al primo tema, con un dialogo più delicato tra le sezioni strumentali e un carattere più dolce. La sezione di chiusura riafferma la tonalità di fa maggiore con materiale cadenzale deciso e ritmicamente marcato, concludendo l’esposizione con energia. L’esposizione viene poi integralmente ripetuta. Lo sviluppo è relativamente conciso, tipico dello stile del periodo. Inizia riprendendo materiale del primo tema nella tonalità della dominante e, successivamente, esplora tonalità minori vicine, frammentando e rielaborando motivi tratti principalmente dal primo tema e dalla transizione. C’è un aumento della tensione armonica e un uso più dinamico dell’orchestra, con passaggi che creano aspettativa per il ritorno alla tonica. Il primo tema ritorna trionfalmente in si bemolle maggiore, sostanzialmente invariato nella sua presentazione iniziale. La transizione è abilmente modificata per rimanere nella tonalità d’impianto, preparando l’arrivo del secondo tema nella tonalità d’impianto: esso conserva il carattere lirico, mentre la sezione di chiusura conclude il movimento riaffermando con forza la tonalità di si bemolle maggiore. Non c’è una coda estesa, ma una chiusura concisa e brillante.
Il secondo movimento è nella tonalità di mi bemolle maggiore (sottodominante) e ha struttura di sonata bipartita. Il primo tema è una melodia dolce e fluente, presentata dagli archi, caratterizzata da un andamento prevalentemente congiunto e da un’elegante scrittura con ritmi puntati che ne accentuano la grazia. L’atmosfera è serena e riflessiva. Una breve transizione conduce alla tonalità della dominante (si bemolle maggiore) per il secondo tema che, pur mantenendo il carattere cantabile generale, presenta un profilo melodico leggermente diverso. La sezione di chiusura dell’esposizione conferma la tonalità di si bemolle maggiore. Non vi è sviluppo, sostituito da un ponte che rielabora brevemente frammenti melodici e modula delicatamente alla tonalità d’impianto. Alla ripresa segue una coda breve che sfuma dolcemente.
Il terzo movimento ritorna nella tonalità di si bemolle maggiore e ha struttura di forma-sonata compatta. Si apre con un primo tema scattante e ritmico, caratterizzato da figurazioni veloci, note ripetute e un carattere quasi di caccia o di danza popolare stilizzata. L’intera orchestra partecipa a questa energica presentazione. La transizione modula rapidamente alla dominante e introduce il secondo tema che, pur mantenendo l’energia del Presto, offre un breve contrasto melodico, prima che la sezione di chiusura riaffermi con forza la tonalità di fa maggiore. Lo sviluppo è molto breve e incisivo. Riprende materiale del primo tema, frammentandolo e passandolo rapidamente attraverso diverse tonalità vicine, creando un breve momento di instabilità armonica prima di preparare la ripresa. Seguono la ripresa dei due temi e una coda brillante e concisa, basata su materiale cadenzale e frammenti del primo tema, che porta la sinfonia a una conclusione decisa ed esuberante.
Nel complesso, questa sinfonia è un’opera ben costruita e piacevole che riflette pienamente i canoni estetici del tempo. Dimostra la padronanza compositiva di Lucchesi nella gestione delle forme classiche, nella creazione di melodie accattivanti e nell’uso efficace dell’orchestra.

Allegro energetico poco agitato

Josef Jonsson (1887 - 9 maggio 1969): Sinfonia n. 1 in si minore op. 19, Nordland (1919-22). Norrköpings Symfoniorkester, dir. Lü Jia.

  1. Allegro energetico poco agitato
  2. Andante quasi adagio [10:40]
  3. Allegro pastorale [24:07]
  4. Molto adagio – Allegro vivace [29:15]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Josef Petrus Jonsson: ritratto di un compositore svedese tra dedizione e avversità

Infanzia, formazione e le sfide della malattia
Nato a Enköping (contea di Uppsala) nella famiglia del predicatore e proprietario terriero Per Edvard Jonsson e di sua moglie Anna Amalia Åberg, la sua vita fu segnata fin dalla primissima infanzia dalla poliomielite, la quale gli causò una paralisi cronica alle gambe. Questo gli impedì di frequentare regolarmente la scuola. Dopo un periodo di istruzione privata a casa, riuscì comunque a completare il ciclo di studi elementare e primario (allora di sei anni). Ricevette i primi rudimenti musicali in famiglia, dove si cantavano canti religiosi e dove entrambi i genitori avevano fatto parte di un coro misto in gioventù. All’età di dieci anni, iniziò a studiare pianoforte con un cugino tornato dagli Stati Uniti ma, quando questi ripartì dopo due anni e mezzo, Jonsson continuò da autodidatta. L’esempio del fratello maggiore Seth, il quale conseguì diplomi di organista, cantore e insegnante, lo spinse a elaborare un piano di studi pianistici personale, partendo dalla musica barocca e dai classici viennesi per poi approfondire autori come Hugo Wolf e Max Reger. Tramite coetanei che studiavano in Germania, ottenne indicazioni su testi moderni che gli permisero di completare autonomamente gli studi di contrappunto e composizione.

L’avvio della carriera e le collaborazioni cruciali
La sua formazione compositiva era già solida quando, nel 1914, l’Orchestra di Norrköping iniziò la propria attività come orchestra sovvenzionata dallo Stato, sotto la direzione di Ivar Hellman. Quest’ultimo divenne l’insegnante di strumentazione di Jonsson e, nel maggio 1915, la sua prima Suite per orchestra fu eseguita per la prima volta proprio a Norrköping. Da quel momento, le sue composizioni si susseguirono rapidamente. L’opera Korallrevet (La scogliera corallina) per coro e orchestra fu presentata in prima assoluta in un concerto sinfonico dell’Opera reale svedese nel 1918. Nel 1936, invece, la Missa solemnis fu eseguita per la prima volta dalla Società musicale e dall’Associazione dei concerti sotto la direzione di David Åhlén, il quale la ripropose l’anno successivo con l’Orchestra di Norrköping. Contatti precoci, in particolare con il professor Bror Beckman, lo misero in relazione con figure di spicco come Wilhelm Stenhammar e Ture Rangström durante il loro periodo di attività a Göteborg. Stenhammar diresse la Suite n. 1, mentre Rangström diresse la prima assoluta della Sinfonia n. 1, Nordland, nel 1923. Molte delle sue opere furono anche trasmesse via radio.

Stile musicale e produzione artistica
La musica di Jonsson è caratterizzata da solidità tecnica e profonda serietà. Il suo stile è saldamente ancorato agli elementi formali della tradizione classica e all’ideale sonoro del tardo Romanticismo. Tuttavia, Jonsson non aderì mai a correnti nazional-romantiche, evitando consapevolmente inflessioni o coloriture specificamente nordiche. Allo stesso modo, si tenne lontano dalle tendenze musicali contemporanee più alla moda. La sua produzione abbraccia un’ampia gamma di generi musicali e include quattro sinfonie, tre suite (due per orchestra, una per fiati e percussioni), un concerto per violino, alcune composizioni basate su canti o corali, opere orchestrali autonome e un numero minore di pezzi per pianoforte, organo o piccoli ensemble. Le opere sinfoniche e le suite occuparono dapprima un posto di rilievo, per poi scomparire gradualmente dai programmi dei concerti, con l’eccezione notevole di quelli dell’Orchestra di Norrköping.
La parte preponderante della produzione di Jonsson è costituita da composizioni vocali. In questo ambito, l’opera più significativa è la Missa solemnis (1936) per coro, orchestra e organo. Hanno riscosso apprezzamento anche il poema sinfonico Korallrevet (1915) e i melologhi En spelmans jordafärd (Il funerale di un suonatore ambulante, 1926) e Omkring tiggarn från Luossa (Intorno al mendicante di Luossa, 1937). Da menzionare anche la ballata per coro maschile Herr Sten (1926), Mitt land (La mia terra, 1945), una decina di cantate scritte per celebrazioni locali e un gran numero di liriche e cicli di liriche per voce e pianoforte o orchestra.

Analisi della Sinfonia n. 1
La Prima Sinfonia di Jonsson, dall’evocativo titolo Nordland (Terra del Nord), si colloca stilisticamente nel tardo Romanticismo, con chiare influenze nazionalistiche e potenzialmente impressionistiche.
La sinfonia si apre non direttamente con l’Allegro, ma con una sezione introduttiva breve e incisiva. S’inizia con potenti fanfare degli ottoni che creano un’atmosfera di attesa eroica o drammatica. Seguono sezioni più fluide e cromaticamente tese affidate agli archi e ai legni. Una sezione dominata dagli archi, dal carattere più mosso e leggermente inquieto, costruisce gradualmente la tensione dinamica ed armonica, preparando l’ingresso del movimento principale. La tonalità si orienta verso si minore, tonalità d’impianto della sinfonia.
Il primo movimento segue una struttura che ricorda la forma-sonata. L’indicazione “energetico poco agitato” ne descrive perfettamente il carattere prevalente. Il primo tema è vigoroso, ritmicamente marcato e presentato dall’intera orchestra, confermando la tonalità d’impianto. Ha un carattere quasi marziale, ma tinto di un’inquietudine nordica. Dopo una transizione energica, emerge il secondo gruppo tematico, più lirico e cantabile, introdotto dai legni e poi sviluppato dagli archi. Questo tema contrasta nettamente col primo, portando un momentaneo respiro melodico ed espressivo. La chiusura dell’esposizione riprende l’energia iniziale, concludendo con forza.
Lo sviluppo frammenta ed elabora i materiali tematici dell’esposizione. C’è un notevole lavoro motivico, con passaggi dialogati tra le varie sezioni orchestrali (archi contro ottoni, legni che emergono). L’armonia si fa più instabile e cromatica, esplorando tonalità lontane. La tensione drammatica aumenta progressivamente, con un uso incisivo degli ottoni e della percussione, raggiungendo momenti di grande intensità sonora. L’agitazione indicata nel tempo si fa qui più palpabile.
Il primo tema ritorna chiaramente riconoscibile, anche se leggermente variato nell’orchestrazione, ristabilendo la tonalità principale. Segue anche la ripresa del secondo tema lirico. Il movimento si conclude con una coda potente e affermativa, che ribadisce il materiale tematico principale e la tonalità d’impianto. L’intera orchestra è coinvolta in un finale energico e perentorio.
Il secondo movimento lento offre un netto contrasto con l’energia del primo. La forma sembra essere una sorta di forma ternaria (ABA’) o una forma bipartita con sviluppo. L’indicazione “quasi adagio” suggerisce un andamento cantabile e scorrevole, non eccessivamente lento.
Il movimento si apre con un’atmosfera calma e pastorale. Il tema principale, malinconico e lirico, viene introdotto dagli archi e dai legni con un accompagnamento delicato e trasparente.
Segue l’introduzione di nuovo materiale tematico e lo sviluppo di motivi precedenti. Il carattere si fa gradualmente più appassionato e intenso. L’orchestrazione si infittisce, e l’armonia esplora percorsi più cromatici. Si raggiunge un climax espressivo-sonoro notevole, guidato dagli archi e sostenuto dagli ottoni, prima di placarsi nuovamente.
Ritorna il tema principale, ora variato e arricchito nell’orchestrazione (dialoghi tra legni e archi). L’atmosfera ritorna più calma e contemplativa. Il movimento si dissolve in una conclusione serena e pacifica, con sonorità eteree.
Il terzo movimento ha il carattere di uno scherzo, come suggerito dal tempo Allegro e dall’atmosfera vivace e danzante. L’indicazione “pastorale” è ben realizzata attraverso ritmi e melodie che richiamano danze popolari o scene campestri. La struttura sembra essere quella dello scherzo con trio (ABA e coda).
Il tema principale è vivace, ritmicamente spigoloso e saltellante, presentato spesso dai legni (oboe, clarinetto) e dagli archi pizzicati o con figurazioni leggere. Come da tradizione, il trio offre un contrasto. Il tempo rallenta leggermente, la melodia si fa più cantabile e fluida e l’atmosfera è più rilassata e idilliaca. Ritorna il materiale tematico iniziale, con la sua energia ritmica e il suo carattere vivace. Una breve e brillante coda conclude il movimento, riaffermando l’atmosfera energica dello Scherzo.
Il finale si apre con una lenta introduzione dal carattere solenne, cupo e interrogativo. Le sonorità gravi degli archi (contrabbassi, violoncelli) e i corali degli ottoni creano un’atmosfera di attesa carica di pathos. Armonicamente complessa, sembra riprendere o alludere a materiale tematico precedente (forse dal primo movimento o dall’introduzione iniziale), suggerendo una natura ciclica della sinfonia. La dinamica cresce gradualmente, sfociando senza soluzione di continuità nell’Allegro. Questo movimento finale sembra articolarsi nuovamente in una sorta di forma-sonata espansa o forse un rondò-sonata, data la sua ampiezza e la ricchezza tematica. L’obiettivo è chiaramente quello di portare la sinfonia a una conclusione potente.
Il primo tema è energico, drammatico e propulsivo, in si minore, riprendendo in parte il carattere del primo movimento, ma con una nuova urgenza. L’intera orchestra è coinvolta. Il secondo tema offre un contrasto, più eroico e trionfale.
I temi vengono elaborati con grande intensità drammatica. Ci sono sezioni di forte tensione, con complesse tessiture orchestrali, potenti interventi degli ottoni e percussioni martellanti. L’armonia è instabile e carica di cromatismi. Si percepisce una lotta che culmina in potenti climax.
I temi principali ritornano, ora trasfigurati e presentati con grande enfasi. Il secondo tema appare chiaramente nella tonalità di si maggiore, segnando una svolta verso la risoluzione positiva.
La coda è ampia e trionfale. L’orchestra al completo celebra la vittoria finale, riaffermando con forza la tonalità di si maggiore. Gli ottoni hanno un ruolo preminente con fanfare squillanti, sostenuti da archi vibranti e percussioni esultanti. Il finale è grandioso e affermativo, tipico della tradizione sinfonica tardo-romantica che risolve il conflitto iniziale in una conclusione luminosa.

JJ

Danske billeder

Johan Peter Emilius Hartmann (1805 - 10 marzo 1900): Sinfonia n. 1 in sol minore op. 17 (1835). Danmarks Radio SymfoniOrkestret, dir. Thomas Dausgaard.

  1. Introduktion: Moderato – Allegro assai, con passione
  2. Andante [9:26]
  3. Menuetto [15:92]
  4. Finale: Allegro molto assai [20:51]

Brendekilde
Hans Andersen Brendekilde (1857-1942)
Sentiero alberato in autunno (1902)

Fantastica

Hector Berlioz (1803 - 8 marzo 1869): Symphonie fantastique, Épisode de la vie d’un artiste, en cinq parties op. 14 (1830). DRSymfoniOrkestret, dir. Rafael Frühbeck de Burgos.

  1. Rêveries – Passions: Largo – Allegro agitato e appassionato assai
  2. Un bal – Valse: Allegro non troppo [14:32]
  3. Scène aux champs: Adagio [21:41]
  4. Marche au supplice: Allegretto non troppo [37:08]
  5. Songe d’une nuit du sabbat: Larghetto – Allegro [41:59]

HB

Melartin, Sesta Sinfonia

Erkki Melartin (2 febbraio 1875 - 14 febbraio 1937): Sinfonia n. 6 op. 100 (1918-24). Tampere Filharmonia, dir. Leonid Grin.

  1. Andante – Poco agitato – Allegro moderato
  2. Andante – Moderato
  3. Allegro
  4. Finale: Allegro con fuoco – Allegro moderato – Più agitato

La partitura riporta la seguente avvertenza:
La Sinfonia n. 6 è spesso chiamata “la Sinfonia dei quattro elementi” (terra, acqua, aria e fuoco): L’autore da parte sua non desidera darle un nome, poiché non si tratta di musica a programma.

Sogni d’inverno

Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840 - 1893): Sinfonia n. 1 in sol minore op. 13, Sogni d’inverno (1866). hr-Sinfonieorchester, dir. Paavo Järvi.

  1. Sogni di un viaggio d’inverno: Allegro tranquillo [0:23]
  2. Terra desolata, terra di brume: Adagio cantabile ma non troppo [12:09]
  3. Scherzo: Allegro scherzando giocoso [23:07]
  4. Finale: Andante lugubre – Allegro maestoso [31:00]

Felice solstizio 🎉 ❄️ 🎄

Sinfonia per doppia orchestra d’archi

Dame Elizabeth Violet Maconchy Le Fanu (1907 - 11 novembre 1994): Sinfonia per doppia orchestra d’archi (1953). London Symphony Orchestra, dir. Vernon Handley.

  1. Allegro molto
  2. Lento [4:50]
  3. Allegro scherzando [11:40]
  4. Passacaglia: Lento sostenuto – Allegro – Lento [15:10]