Eugène Gigout (1844 - 9 dicembre 1925): Grand chœur dialogué in sol maggiore per organo (1881); adattamento per organo, ottoni e percussione di Egil Smedvig. Michael Murray, organo; Empire Brass.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Eugène Gigout: il maestro dell’organo e della Toccata in si minore
Eugène Gigout è stato un celebre organista e compositore francese, nato a Nancy e morto a Parigi. La sua carriera fu caratterizzata da una longevità eccezionale in un ruolo chiave della capitale francese: fu infatti organista titolare della Chiesa di Saint-Augustin a Parigi per ben 62 anni.
Formazione e ruolo didattico
La sua formazione musicale iniziò come corista presso la Cattedrale di Nancy. Studiò poi all’École Niedermeyer di Parigi a partire dal 1857, dove ebbe come illustri maestri Camille Saint-Saëns e Clément Loret. Egli intraprese rapidamente la carriera didattica, diventando professore nella stessa École Niedermeyer dal 1862, insegnando scrittura, pianoforte e organo. Il suo prestigio crebbe a tal punto che nel 1911 succedette ad Alexandre Guilmant alla prestigiosa cattedra d’organo del Conservatorio di Parigi. Gigout era rinomato per la sua abilità come insegnante e fondò anche una sua scuola di musica. La lista dei suoi allievi è notevole e include figure di spicco come Maurice Duruflé, Gaston Bélier, André Marchal, André Messager, Albert Roussel, e suo nipote Léon Boëllmann.
Eredità musicale e stile
Sebbene la sua vasta opera non fosse interamente votata all’organo, Gigout lasciò un repertorio significativo per questo strumento. Dal punto di vista stilistico, le sue composizioni mostrano una scrittura fortemente classica, con un rigoroso rispetto delle regole tradizionali del contrappunto e dell’armonia. Tuttavia, una caratteristica distintiva della sua musica è l’influenza del canto gregoriano, che fungeva da motore melodico in molte delle sue opere. Era inoltre noto per la sua abilità come improvvisatore.
Tra le sue creazioni più celebri per organo si annoverano la Toccata in si minore e lo Scherzo in mi maggiore, entrambi estratti dalle Dix Pièces pour orgue del 1890; la Toccata rimane la sua opera più nota, spesso eseguita come bis nei recital. Fra le altre opere organistiche vanno ricordati il Grand chœur dialogué (1881), alcune collezioni incentrate sul canto piano, come Cent Pièces brèves dans la tonalité du plain-chant (1889) e l’Album grégorien (1895), i Poèmes mystiques (1903) e le Cent Pièces nouvelles (1922).
Vita privata e parentela
Gigout era strettamente legato al mondo musicale anche per via familiare: era sposato con Caroline-Mathilde Niedermeyer, figlia del compositore Louis-Abraham Niedermeyer. Fu inoltre lo zio per matrimonio e il padre adottivo del compositore e organista Léon Boëllmann, che fu anche suo allievo. Eugène Gigout riposa nel cimitero di Montmartre a Parigi, dove è sepolto insieme alla moglie e al nipote Boëllmann.
Il Grand chœur dialogué
Composizione fra le più note di Gigout, in questo arrangiamento assume un carattere ancora più imponente grazie all’integrazione di ottoni e percussioni. Il titolo stesso suggerisce la struttura centrale del brano: l’alternanza e la contrapposizione tra due entità sonore distinte, che in questo caso sono il chœur 1 e il chœur 2, spesso interpretate come il pieno dell’organo contrapposto a un registro più brillante o, in questo adattamento, l’intera orchestra/pieno organo contro un suono più contenuto o solistico.
Il brano si apre con l’indicazione di tempo Allegro moderato quasi maestoso (Allegro moderato, quasi maestoso), che ne definisce immediatamente il carattere solenne e trionfale. L’attacco è imponente, con l’organo che suona a pieno registro (come indicato da ff e dalle annotazioni sullo spartito relative a fonds et anches, registri di fondo e registri ad ancia), sostenuto potentemente dagli ottoni e dalle percussioni che scandiscono il ritmo.
Il tema principale, di natura marziale e assertiva, è dominato da accordi a blocco e da una cascata di semicrome in sottofondo, che danno un senso di grande energia e slancio. Questo blocco sonoro rappresenta la prima “voce” del dialogo.
La struttura dialogica si manifesta chiaramente nelle sezioni successive, dove il volume e la strumentazione si riducono bruscamente. Subito dopo la maestosa affermazione iniziale, il pieno orchestrale si ritira, lasciando spazio alla seconda voce, interpretata principalmente dall’organo con un registro più leggero e brillante. L’attenzione si sposta sulla scrittura virtuosistica in semicrome, che scorrono velocemente tra le tastiere, creando un effetto di brillantezza e agilità, in netto contrasto con l’enfasi del tema precedente.
L’intero ensemble torna poi per riaffermare l’idea del tema principale, ma la sua enfasi è brevemente interrotta da un nuovo passaggio più contenuto (che alterna registri più leggeri) per poi risolversi in una conclusione potente e prolungata della frase, un punto di cadenza.
Il brano procede con l’alternanza dinamica e timbrica dei due “cori”, esplorando diverse sfumature e registri. L’organo solista riprende il ruolo virtuosistico con passaggi rapidi e tecnici, mantenendo un’energia costante (forte dinamico), dimostrando la padronanza della tastiera (tipica della tradizione organistica francese).
Il primo tema ritorna in modo trionfale, ma si evolve presto, venendo sostenuto da una linea melodica più lirica (quasi corale), mentre il sottofondo virtuosistico in semicrome dell’organo continua incessantemente. Si introduce poi una sezione calma e cantabile, dal carattere riflessivo o meditativo, affidata principalmente all’organo con registri dolci, creando un’ulteriore pausa emotiva prima di una ripresa più drammatica.
Il Grand chœur ritorna con una forza ancora maggiore e segue una sezione caratterizzata da ritmi puntati, che conferiscono un’andatura drammatica, quasi militare, con l’uso di fanfara e forti contrasti dinamici, tipici di una fase di sviluppo più intensa, che poi sfocia in una rapida e concitata sequenza in semicrome, preparando al culmine.
L’ultima parte del brano è dedicata alla riaffermazione del tema e a un’esplosione di sonorità. Il virtuosismo dell’organo è portato al massimo con una lunga e tecnicamente impegnativa sezione di scale e arpeggi rapidissimi, interrotti da brevi, potenti interventi del primo tema. L’uso di registri acuti e brillanti amplifica l’effetto di grandezza.
Il brano si avvia alla conclusione con il ritorno definitivo e schiacciante del tema principale. Ottoni, percussioni e organo a pieno registro si uniscono in una celebrazione sonora continua. L’arrangiamento esalta questo momento con la potenza orchestrale del tutti (organo, ottoni e percussioni). L’ultima sequenza armonica e melodica è prolungata e intensificata, culminando in un finale trionfale e definitivo.
Fandango de España attribuito a José de Nebra (1702 - 11 luglio 1768). Carlos García-Bernalt, organo.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
L’eredità di José de Nebra: un pilastro del Barocco spagnolo
José Melchor Baltasar Gaspar Nebra Blasco (1702-1768) è stato una figura centrale della musica spagnola del periodo Barocco. Compositore e organista di eccezionale talento, la sua carriera e la sua produzione artistica hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia musicale del suo paese, non solo per il valore delle sue opere ma anche per il suo ruolo cruciale nella conservazione del patrimonio musicale della corona spagnola.
Un talento nato in famiglia
La vocazione musicale di Nebra affonda le radici in un contesto familiare profondamente legato all’arte dei suoni. Suo padre, José Antonio Nebra Mezquita, fu un musicista affermato, organista della Cattedrale di Cuenca e maestro del coro: da lui José ricevette i primi e fondamentali insegnamenti. La musica era una vera e propria tradizione di famiglia: anche i suoi fratelli, Francisco Javier e Joaquín Ignacio, intrapresero la carriera di organisti, consolidando la reputazione familiare nel panorama musicale spagnolo. L’influenza del giovane si estese ulteriormente, poiché divenne anche maestro di composizione per suo nipote, il futuro compositore e organista Manuel Blasco de Nebra, perpetuando così il lascito artistico familiare.
L’ascesa alla corte di Madrid
La carriera di Nebra decollò rapidamente dopo il suo trasferimento a Madrid. Intorno al 1719 ottenne il prestigioso posto di organista presso il Monastero delle Descalzas reales. Parallelamente, a partire dal 1723, iniziò una fruttuosa attività come compositore di musica scenica, vendendo le sue opere ai teatri della capitale e guadagnandosi una notevole fama. Il suo talento lo portò, l’anno successivo, alla nomina di secondo organista della Cappella reale. Sebbene un cambio di sovrani lo relegò temporaneamente a una posizione di sovranumerario, la sua ascesa fu inarrestabile: nel 1751 divenne vicemaestro della Cappella reale e, nel 1761, fu nominato maestro di clavicembalo per l’infante Gabriele di Borbone, un incarico di grande prestigio che testimoniava la stima di cui godeva a corte.
Il custode della memoria musicale del regno
Un evento catastrofico segnò una svolta fondamentale nella sua carriera e ne definì il ruolo storico: l’incendio del Real Alcázar di Madrid nel 1734. Le fiamme distrussero completamente l’inestimabile archivio musicale della Cappella reale, un patrimonio accumulato in secoli. Insieme ad altri maestri come José de Torres e Antonio de Literes, Nebra si assunse il compito monumentale di ricostruire questa biblioteca. In qualità di responsabile dell’archivio, non solo contribuì con le proprie composizioni per ripopolarlo, ma si adoperò attivamente per acquisire opere dei più grandi musicisti dell’epoca, tra cui gli italiani Francesco Corselli (all’epoca maestro della Cappella reale), Alessandro Scarlatti, Leonardo Leo e Domenico Sarro. Grazie al suo instancabile lavoro, garantì la rinascita e l’arricchimento della biblioteca musicale di corte, salvando di fatto la memoria musicale del regno.
Un’eredità vasta e preziosa
La produzione di José de Nebra è tanto vasta quanto diversificata: a oggi si conservano oltre 170 opere liturgiche, tra cui messe, salmi, litanie e un commovente Stabat mater. Compose inoltre decine di cantate, villancicos e circa 30 brani per strumenti a tastiera (organo e clavicembalo); la ricerca musicologica continua a portare alla luce nuove partiture. Tra i suoi lavori migliori spiccano il solenne Requiem composto per la morte della regina Barbara di Braganza e la sua importante produzione teatrale, che conta circa 20 zarzuelas, tra cui le celebri Iphigenia en Tracia e Viento es la dicha de amor.
Il Fandango de España
Questo brano attribuito a Nebra è un magnifico esempio di musica per tastiera del XVIII secolo e si rivela non una semplice danza, ma un’opera complessa e profondamente espressiva, costruita sulla forma della variazione su un basso ostinato.
La composizione s’inizia con un’esposizione del tema dal carattere nobile, quasi malinconico e solenne. La melodia della mano destra è elegante, ricca di abbellimenti raffinati che ne sottolineano l’espressività. Le prime variazioni introducono un graduale aumento della densità ritmica, con la melodia che si frammenta in note più veloci, creando un’impressione di crescente agitazione, pur mantenendo un controllo formale perfetto. Il basso ostinato rimane una presenza costante e rassicurante, un’ancora sulla quale si sviluppa il virtuosismo. Successivamente, quest’ultimo cede il passo a un’intensità più lirica e introspettiva: l’esecuzione si fa più delicata, la dinamica sembra ammorbidirsi e la melodia si distende in frasi più lunghe e cantabili. Le cascate di note non sono più puro sfoggio tecnico, ma diventano sospiri carichi di pathos. È un momento di riflessione, una pausa contemplativa che esplora il lato più intimo e vulnerabile del tema, prima della tempesta successiva.
La fase culminante del Fandango vede l’energia esplodere in un virtuosismo brillante e infuocato: la mano destra si lancia in scale velocissime, arpeggi spezzati e note ribattute che spingono la tensione al suo apice. L’elemento più affascinante e tipicamente spagnolo emerge qui: in diversi punti, vengono utilizzati accordi pieni e percussivi che evocano il rasgueado, la caratteristica pennata della chitarra flamenca. Questa tecnica prevede l’utilizzo di mignolo, anulare, medio e indice per eseguire una serie di “strappate” (tipicamente tre o quattro) sulle corde in rapida successione, mentre il palmo viene abbassato per ottenere un effetto di smorzatura e il pollice esegue note basse o un ulteriore strappo. Dopo il climax, il brano inizia a placarsi: l’energia si dissipa gradualmente, la tessitura si dirada e il Fandango ritorna al suo carattere iniziale, più misurato e solenne. È come se, dopo la sfuriata passionale, si tornasse a una compostezza consapevole. L’opera si conclude con un ritardando e una cadenza finale potente.
La struttura basata sulle variazioni non risulta mai monotona, ma diventa un motore per un viaggio emotivo ricco e sfaccettato. L’attribuzione a José de Nebra è stilisticamente plausibile, poiché il brano mostra una padronanza della forma e un’espressività che si allineano con la sua produzione nota. Tuttavia, è anche stilisticamente affine a opere di altri grandi compositori attivi in Spagna, come Domenico Scarlatti o padre Antonio Soler che, spesso, fusero il rigore contrappuntistico con i colori e i ritmi della musica popolare spagnola. Indipendentemente dalla certezza dell’autore, questo Fandango rimane una testimonianza eccezionale della ricchezza e della vitalità della musica per tastiera spagnola del XVIII secolo, un perfetto equilibrio tra forma, emozione e colore locale.
Jehan Alain: Premier Prélude « Wieder an » per organo JA 64 (febbraio 1933). Marie-Claire Alain.
Il 20 giugno 1940 è una bella giornata di sole a Saumur, nel dipartimento francese del Maine-et-Loire. Ma c’è la guerra: sei giorni prima i tedeschi sono entrati a Parigi, ciononostante in alcune zone della Francia si continua a combattere. Verso Saumur si sta dirigendo la Erste Kavallerie-Division della Wehrmacht; la città è difesa da circa 2200 uomini, in gran parte allievi ufficiali dell’École de cavalerie agli ordini del colonnello Charles Michon. A loro si è recentemente aggiunto Jehan Alain, dell’8° Reggimento corazzieri motorizzati.
Meno di un mese prima, a fine maggio, Jehan era fra coloro che, letteralmente sotto una pioggia di bombe e proiettili, erano riusciti a imbarcarsi a Dunkerque; all’alba del 1° giugno era giunto in Inghilterra – dove fra l’altro aveva avuto modo di apprezzare l’organo di una chiesa di Bournemouth… Tuttavia, il pensiero di rimanere al sicuro in terra britannica non lo aveva nemmeno sfiorato: il 7 giugno era sbarcato a Brest insieme con quello che restava dell’8° corazzieri, e il 18 era arrivato appunto nei pressi di Saumur.
Nel primo pomeriggio del 20 giugno, sono circa le 14, il comando della guarnigione di Saumur ritiene che sia necessario procedere a una ricognizione a est della città, dove sembra che l’arrivo delle truppe tedesche sia ormai imminente: chi si offre volontario? Jehan non esita. Inforca la motocicletta e si dirige verso una collina chiamata Le Petit-Puy (oggi inglobata nella città), dove sorge una casa isolata circondata da vigneti. Una volta lassù, Jehan si accorge che i nemici sono molto più vicini di quanto si credesse. Non possiamo sapere con precisione quali siano i suoi pensieri in questo frangente: è probabile che sia consapevole di non poter sfuggire ai tedeschi, e che questo lo induca a prendere la decisione che gli sarà fatale: di arrendersi non se ne parla, quindi si tratta solo di ritardare il più possibile l’avanzata nemica, in modo che a Saumur abbiano più tempo per preparasi allo scontro. Nasconde perciò la motocicletta fra le viti, poi cerca una posizione riparata lungo la via che porta alla città, e lì attende che i suoi avversari giungano a tiro.
(Un corazziere contro un reparto di cavalleria! Fa pensare a guerre di altri tempi, quando ci si combatteva a viso aperto e nulla era più importante dell’onore – « de toutes choses ne m’est demeuré que l’honneur », scrive Francesco I alla madre dopo la disfatta di Pavia.
Sappiamo quanto segue grazie al rapporto dell’ufficiale che comandava l’avanguardia tedesca.)
Sparando solo a colpo sicuro, Jehan mette fuori combattimento ben sedici soldati nemici, ma poi rimane senza munizioni. Arrendersi? Non se ne parla. Reso inutilizzabile il fucile, lascia il riparo e corre verso la motocicletta. Alle sue spalle ode i passi di un tedesco. Si ferma, si volta, lo guarda in viso. È disarmato, Jehan, ma l’altro non può saperlo e gli spara, colpendolo in pieno petto.
Così muore Jehan Alain, a 29 anni, 4 mesi e 17 giorni. È giovedì 20 giugno 1940, ultimo giorno di primavera nonché ultimo giorno di combattimenti nella Francia ormai in ginocchio: la sera stessa il colonnello Michon constata che i cadetti di Saumur non possono reggere all’urto delle forze tedesche e ordina loro di ritirarsi verso sud. Il giorno successivo gli alti comandi francesi optano per la resa definitiva, che sarà firmata il 22 giugno a Compiègne.
Non potevano decidersi prima?
Jehan Alain: Deuxième Prélude « Und jetzt » per organo JA 65 (6 marzo 1933). Marie-Claire Alain.
Jehan Alain (1911 - 20 giugno 1940): Vocalise dorienne – Ave Maria per soprano e organo JA 95A (marzo 1937); dedicata alla sorella Marie-Odile (1914 - 1937). Elizabeth Magnor, soprano; Graham Cox, organo.
« Sul manoscritto autografo della Vocalise v’è l’abbozzo, scritto a matita, di un Ave verum incompiuto. Quel frammento indusse nostro padre Albert a cercare un testo latino che si adattasse alla dolce melodia [della Vocalise] senza snaturarla: il testo infine prescelto fu quello dell’Ave Maria » (Marie-Claire Alain).
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Jehan Alain: sinfonia incompiuta di un genio musicista e eroe di Francia
Jehan Alain è una figura eminente della musica francese del XX secolo. Destinato a una vita breve ma intensa, si distinse come compositore e organista, lasciando un’impronta indelebile nonostante la sua prematura scomparsa.
Primi passi e formazione precoce: all’ombra dell’organo paterno
Primo di quattro figli, Alain crebbe in un ambiente saturo di note e armonie. Suo padre, Albert, non era solo organista e compositore, ma anche un abile costruttore d’organi dilettante. Fu proprio su uno strumento costruito in casa dal padre – un organo oggi conservato a Romainmôtier, in Svizzera – che il giovane iniziò a muovere i primi passi sulla tastiera all’età di soli 11 anni. Il suo talento fu talmente precoce e sbalorditivo che, appena due anni dopo, a 13 anni, era già in grado di sostituire il padre, recentemente nominato organista titolare del grande organo della chiesa di Saint-Germain-en-Laye, nella sua città natale.
L’eccellenza al Conservatorio di Parigi: tra rigore e geniale irriverenza
Il suo percorso formativo proseguì al prestigioso Conservatorio nazionale superiore di Parigi. Qui ebbe l’opportunità di studiare con maestri del calibro di Paul Dukas, Jean Roger-Ducasse, André Bloch, Georges Caussade e, per l’organo, il celebre Marcel Dupré. Durante le lezioni di improvvisazione con Dupré, la sua abilità era tale che gli altri studenti preferivano esibirsi prima di lui, per non sfigurare al confronto. Un aneddoto significativo illustra la sua originalità: in un’occasione, concluse un’improvvisazione in una tonalità completamente diversa da quella iniziale, un’audacia inaudita per i canoni dell’epoca. Alla sua ammissione «Mi sono sbagliato!», Dupré rispose con acume: «Ebbene, dovreste sbagliarvi più spesso!»
I suoi studi si conclusero brillantemente con l’ottenimento dei primi premi in armonia, contrappunto e fuga, e naturalmente in organo e improvvisazione.
Affermazione professionale, riconoscimenti e vita familiare
Il talento compositivo di Alain ricevette un importante riconoscimento nel 1936, quando la sua Suite per orgue vinse il primo premio al concorso degli Amis de l’Orgue. Nello stesso anno, fu nominato organista titolare presso la Chiesa di Saint-Nicolas a Maisons-Laffitte. A Parigi ricoprì anche il ruolo di organista presso la Synagogue Nazareth (nel 3e arrondissement), incarico che, dopo la morte di Alain e la fine della guerra, sarebbe stato assunto da Marie-Louise Girod. Parallelamente alla sua fiorente carriera, Alain costruì una famiglia: si sposò nel 1935 e divenne padre di tre figli.
Il sacrificio eroico: la guerra e la morte prematura
La promettente carriera e la vita familiare di Jehan Alain furono tragicamente interrotte dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Mobilitato fin dall’inizio del conflitto, si distinse per il suo coraggio, ricevendo citazioni per atti di bravura. Entrò a far parte del primo Groupe franc de cavalerie, comandato dal capitano de Neuchèze, e con esso partecipò alla disperata battaglia dei cadetti di Saumur nel giugno 1940. In un atto di estremo eroismo, resistette da solo contro un intero plotone d’assalto tedesco, cadendo al campo d’onore all’età di soli 29 anni.
L’eredità musicale: un tesoro di opere e il mistero delle partiture perdute
Nonostante la sua breve esistenza, Alain fu un compositore prolifico. La sua attività creativa abbracciò diversi generi, con opere per pianoforte, organo, musica da camera, voci (soliste e cori) e orchestra, per un totale di oltre 140 composizioni catalogate. Tra queste, il brano per organo intitolato Litanies (1937), appartenente al genere della toccata, ha ottenuto fama internazionale e fanno parte del repertorio degli organisti di tutto il mondo.
Negli ultimi dieci anni della sua vita, si concentrò prevalentemente sulla musica organistica. Oltre alle già citate Litanies, spiccano le Trois Danses, originariamente concepite per orchestra e da lui stesso trascritte per organo poco prima della sua morte nel 1940. Secondo la testimonianza di Marie-Claire Alain, Jehan avrebbe composto anche diverse altre opere orchestrali. Purtroppo, il compositore portò con sé queste partiture quando partì per il fronte e, dopo la sua morte in battaglia, non furono mai più ritrovate, lasciando un vuoto e un velo di mistero su una parte significativa della sua produzione.
Vocalise dorienne – Ave Maria: analisi
Composta nel marzo 1937 e dedicata alla sorella Marie-Odile (che sarebbe prematuramente scomparsa da lì a pochi mesi in un incidente alpinistico), è un brano di straordinaria intensità emotiva e raffinatezza compositiva. Come rivelato da Marie-Claire Alain, sorella del compositore, l’opera nacque originariamente come una pura Vocalise, alla quale solo in seguito, per volere del padre Albert, fu adattato il testo dell’Ave Maria, scelto per la sua capacità di fondersi con la “dolce melodia” senza snaturarla.
Il brano si apre con un’introduzione organistica estremamente rarefatta. L’organo, con una registrazione tenue e delicata, stabilisce immediatamente un’atmosfera di sospensione e contemplazione. Le armonie sono statiche, quasi immobili, creando un tappeto sonoro che invita all’introspezione. Questa introduzione prepara l’ascoltatore all’ingresso della voce, preannunciando il carattere serafico del pezzo. Il soprano entra con la pura vocalizzazione (un “Ah” lungo e sostenuto). La melodia è caratterizzata da:
– lunghe arcate liriche: le frasi sono ampie, distese, e richiedono un eccellente controllo del fiato. Si sviluppano con un andamento prevalentemente legato e con un profilo melodico che sale e scende con grazia;
– modo dorico: la melodia e le armonie sottostanti sono impregnate del modo dorico (caratterizzato dalla sesta maggiore sulla scala minore naturale), che conferisce al brano un colore arcaicizzante, sereno ma con un velo di malinconia trasfigurata, tipico della musica sacra e meditativa. Questo evita la sentimentalità del modo maggiore tradizionale e la cupezza del minore, trovando un equilibrio espressivo unico;
– espressività intima: nonostante l’ampiezza delle frasi, l’espressione rimane contenuta, intima, quasi sussurrata. Non vi sono slanci drammatici, ma una costante tensione emotiva mantenuta attraverso la purezza della linea melodica.
La prima sezione vocale presenta un tema principale che viene poi ripreso e variato, mentre una seconda sezione esplora registri leggermente più acuti e introduce un maggior movimento melismatico, pur mantenendo la fluidità. Una sezione centrale, invece, mostra un carattere leggermente più mosso e ornato per il soprano, con melismi più elaborati che, tuttavia, non perdono mai la loro dolcezza e fluidità. L’organo, pur rimanendo discreto, partecipa più attivamente, non limitandosi a sostenere armonicamente ma dialogando sottilmente con la voce, a volte anticipando o facendo eco a frammenti melodici. La scelta dei registri organistici rimane costantemente votata alla trasparenza e alla leggerezza, creando un alone sonoro quasi impalpabile attorno alla voce. Brevi interludi organistici fungono da ponti contemplativi, permettendo alla tensione emotiva di sedimentarsi prima della ripresa della linea vocale. Questi momenti evidenziano la maestria di Alain nel creare atmosfera anche con mezzi apparentemente semplici.
Successivamente, la voce riprende la melodia iniziale, quasi come una ripresa abbreviata della prima sezione, confermando una sorta di forma ternaria (ABA’) o comunque ciclica, tipica delle preghiere. La dinamica si mantiene prevalentemente sul piano. La sezione finale vede la voce spegnersi gradualmente in una discesa melodica che conduce a una sensazione di pace e risoluzione eterea. L’organo conclude il brano con accordi tenui e prolungati, che si dissolvono nel silenzio, lasciando un’eco di serenità e trascendenza.
Considerando la genesi del brano, è evidente come la melodia preesistesse al testo liturgico. L’adattamento dell’Ave Maria alla Vocalise Dorienne si rivela particolarmente felice. La natura fluida, le lunghe frasi e il carattere sereno della melodia si sposano perfettamente con le parole della preghiera mariana. La modalità dorica, inoltre, si allinea con la tradizione del canto sacro, conferendo al testo un’aura di devozione profonda e antica. La dolcezza intrinseca della linea vocale, descritta da Marie-Claire Alain, accoglie le parole della preghiera in modo naturale, senza forzature, come se la musica fosse stata concepita fin dall’inizio per quel testo.
Nel complesso, l’opera è un gioiello di rara bellezza. La sua apparente semplicità cela una profonda sapienza compositiva e una sensibilità spirituale non comune. La dedica alla sorella Marie-Odile aggiunge un ulteriore strato di commozione, trasformando il brano in un omaggio tenero e al contempo elevato, un canto che sembra provenire da una dimensione altra, sospeso tra il dolore terreno e la pace celeste.
Christian Erbach (c1568/73 - 14 giugno 1635): Fantasia sexti toni. Manuel Tomadin, organo.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Christian Erbach e la musica della Germania meridionale fra Rinascimento e Barocco
Christian Erbach, detto il Vecchio (der Altere), è una figura chiave della musica tedesca, operando come compositore e organista nel cruciale periodo di passaggio stilistico tra il tardo Rinascimento e l’alba del Barocco.
Gli inizi, avvolti nel mistero, l’ascesa ad Augusta e il mecenatismo dei Fugger
Le informazioni sui primi anni di vita e sulla formazione musicale di Erbach sono scarse. Studiosi ottocenteschi avevano ipotizzato che potesse aver studiato a Venezia, ma di questo non esistono prove concrete. Si presume che Johannes Wigand, ludirector nella sua città natale, possa essere stato uno dei suoi primi maestri, ma anche questa è un’ipotesi. La prima traccia documentata di Erbach risale al 1596, con la pubblicazione di una sua litania a cinque voci nel Thesaurus litaniarum di Georg Victorinus. Già in quel periodo, Erbach beneficiava del sostegno della potente famiglia di banchieri e mercanti Fugger di Augusta (in Baviera), diventando organista della loro cappella di corte negli anni ’90 del Cinquecento. Nel 1600 dedicò il suo primo libro di Modi sacri a Marx (Markus) Fugger il Giovane (1564-1614), includendovi un votum nuptiale composto per le seconde nozze del mecenate con Maria Salome von Königsegg (1598). La prefazione dedicatoria di quest’opera offre ulteriori dettagli sul rapporto privilegiato con i Fugger. Erbach concluse il suo servizio presso la famiglia Fugger dopo la morte di Marx nel 1614.
Incarichi ufficiali e le tribolazioni della guerra. Gli ultimi anni e la morte
Quando Hans Leo Haßler lasciò Augusta nel 1602, Erbach ne assunse progressivamente diversi incarichi. Il 27 marzo divenne organista della collegiata di San Maurizio e l’11 giugno organista della città imperiale di Augusta, ruolo che includeva la direzione degli Stadtpfeifer (musici al servizio della municipalità). Dopo una grave malattia nel 1603, Erbach consolidò la propria posizione ad Augusta, vedendo il contratto con la città rinnovato nel 1609, 1614 e 1620. Il 26 febbraio 1625 fu nominato organista della Cattedrale di Augusta, succedendo a Erasmus Mayr, e lasciò l’incarico a S. Maurizio. Presso la cattedrale collaborò in diverse occasioni con Gregor Aichinger. La guerra dei trent’anni portò inevitabilmente diverse difficoltà: con l’occupazione svedese di Augusta nel 1632, Erbach perse il suo seggio nel gran consiglio cittadino e la sua situazione finanziaria peggiorò drasticamente. A causa di ristrettezze economiche, Erbach fu licenziato dall’incarico di organista della cattedrale il 9 giugno 1635. Morì poco dopo e fu sepolto ad Augusta il 14 giugno dello stesso anno. Sua moglie ricevette l’ultimo pagamento trimestrale il 7 settembre. Wolfgang Agricola gli succedette come organista della cattedrale.
Fondatore di una scuola organistica. L’opera strumentale e quella vocale
L’importanza di Erbach nella storia della musica della Germania meridionale nel primo terzo del XVII secolo risiede principalmente nella sua attività di insegnante. Formò un gran numero di allievi, dando vita a un’influente scuola organistica sud-tedesca, il cui esponente più noto fu Johann Klemm. Fu anche un apprezzato esperto nella costruzione di organi. La sua produzione compositiva per strumenti a tastiera è la più significativa, comprendendo circa 150 opere tra toccate, canzoni strumentali e ricercari:
le toccate si ispirano a modelli veneziani: sono caratterizzate da passaggi virtuosistici e, talvolta, da una sezione centrale contrappuntistica; anche gli introiti (raccolti in tre pubblicazioni di musiche chiesastiche apparse fra 1604 e 1606) hanno caratteristiche comuni con le toccate;
le canzoni si rifanno alle composizioni congeneri per ensemble, ma possono a loro volta includere elementi tipici della toccata;
i ricercari utilizzano spesso più temi (solitamente due, talvolta fino a quattro) in contrasto tra loro. Esistono somiglianze tematiche tra la sua musica per tastiera e quella di contemporanei come Johann Ulrich Steigleder e Jan Pieterszoon Sweelinck.
Similmente alla sua musica strumentale, la produzione vocale di Erbach attinge in parte a modelli veneziani, in particolare alle opere a doppio coro di Andrea Gabrieli. Attraverso il suo lavoro, Erbach contribuì all’affermazione della policoralità nella Germania meridionale. Le sue composizioni corali godettero di grande stima, come dimostra la loro frequente inclusione in antologie a stampa del tardo XVI e XVII secolo e la loro menzione negli inventari dell’epoca. Come sottolinea Christoph Hust, «con la sua opera, Christian Erbach ha spesso infranto ed esteso il repertorio standard del suo tempo, tecnicamente per lo più modesto, e ha riassunto in modo esemplare le tradizioni di ricezione della musica italiana».
Fantasia sexti toni
Si tratta di un significativo esempio di musica organistica tedesca del primo Barocco, un periodo di transizione in cui le forme rinascimentali si arricchiscono di nuove espressività e tecniche strumentali. Il termine fantasia implica una certa libertà formale, non legata a schemi rigidi come la fuga o la sonata, permettendo al compositore di esplorare diverse idee musicali, sezioni contrastanti e sviluppi tematici. L’indicazione sexti toni fa riferimento al sesto modo ecclesiastico (ipolidio, assimilabile al moderno fa maggiore), che non di rado caratterizza brani dalla sonorità brillante e affermativa, pur potendo accogliere momenti di maggiore introspezione.
Il brano si articola essenzialmente in due parti, la prima contrappuntistica, con imitazioni canoniche a due-tre voci, la seconda in forma di toccata, con passaggi virtuosistici affidati alla mano destra mentre la sinistra si limita a eseguire un semplice accompagnamento accordale.
La libertà formale della fantasia permette a Erbach di creare un percorso musicale variegato e coinvolgente, ben sottolineato dalla scelta dei registri da parte dell’interprete, che rendono giustizia alla magnificenza e all’articolazione interna del pezzo. È un brano che ben rappresenta il ponte tra due epoche musicali, mostrando la via verso le più complesse e monumentali forme organistiche del pieno Barocco.
Louis Vierne (1870 - 2 giugno 1937): Carillon de Westminster in re maggiore per organo (n. VI della Suite op. 54, 1927). Olivier Latry all’organo della Cattedrale di Notre-Dame in Parigi.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Louis Vierne: il gigante cieco dell’organo, tra tenebre e luce
Vierne viene ricordato come figura centrale della scuola organistica francese del XX secolo: compositore, organista titolare del grande organo della Cattedrale di Notre-Dame di Parigi per 37 anni, professore e interprete di fama internazionale, egli ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della musica. Fece conoscere la sua opera e quella dei suoi maestri attraverso numerosi concerti in Europa e una celebre tournée negli Stati Uniti. Come insegnante, invece, formò un’intera generazione di musicisti, contribuendo a diffondere il suo stile e le sue qualità musicali. Il suo nome è indissolubilmente legato all’organo Cavaillé-Coll di Notre-Dame, fonte d’ispirazione per molte sue composizioni e strumento che fu tra i primi a far conoscere al pubblico tramite registrazioni discografiche nel 1928.
Gioventù e prime scoperte (1870-81)
Nato a Poitiers nella famiglia del giornalista bonapartista Henri Vierne e di sua moglie Marie-Joséphine Gervaz, Vierne fu colpito alla nascita da una cataratta congenita che lo rese quasi cieco. I genitori, che già avevano perso una bambina, gli dedicarono un’attenzione particolare, incoraggiando una sensibilità estrema: fin da piccolo mostrò un udito eccezionale. Un episodio significativo fu l’ascolto di una vicina che suonava il pianoforte: dopo un’iniziale paura, il giovane Louis ne fu attratto, imparando a orecchio la Berceuse di Schubert. Nel 1873, la famiglia si trasferì a Parigi, dove il padre divenne redattore capo del “Paris-Journal”, frequentando figure come Barbey d’Aurevilly.
Su un pianoforte a lamelle di vetro, Louis ricreava le melodie che ascoltava. Su consiglio dello zio paterno, Charles Colin, musicista, venne testata la sua predisposizione musicale, che si rivelò evidente. Lo zio consigliò di non affrettare il suo apprendistato. Nel 1876 la famiglia si trasferì a Lille, dove Louis iniziò gli studi elementari con l’ausilio di materiali appositamente creati per la sua vista limitata. Nel 1877 un’operazione chirurgica (iridectomia) migliorò leggermente la sua vista, ma si decise comunque di fargli imparare il braille. Iniziò lezioni di pianoforte con Mlle Gosset e poi con Richard Horman. Già a 7-8 anni si esibiva in audizioni pubbliche. Lo zio Colin, ascoltandolo a Lille nel 1879, predisse una carriera musicale. Fu proprio in questo periodo che Vierne scoprì l’organo. Nel 1880, la famiglia tornò a Parigi a seguito delle dimissioni del padre. L’incontro con la musica di César Franck, ascoltato a Sainte-Clotilde su suggerimento dello zio, fu uno shock musicale profondo e duraturo. La morte dello zio Colin nel 1881 e la necessità di un’istruzione specializzata portarono i genitori a iscriverlo all’Institut national des jeunes aveugles.
Anni di formazione (1881-94)
Presso l’istituto, Vierne ricevette un’educazione rigorosa che fu determinante per il suo futuro musicale. Studiò pianoforte, violino (con Pierre Adam), solfeggio, armonia e composizione. La morte del padre nel 1886 per cancro allo stomaco segnò profondamente il giovane Louis, il quale divenne il capofamiglia e rafforzò la sua determinazione a diventare musicista. Nello stesso anno, durante un concorso scolastico presieduto da César Franck, ottenne il 1° premio di violino e il 2° di pianoforte. Franck, colpito dal suo talento, lo invitò a studiare organo per entrare poi nella sua classe al Conservatorio. Vierne iniziò quindi lo studio dell’organo con Louis Lebel e Adolphe Marty, acquisendo rapidamente la tecnica del pedale. Franck gli diede lezioni private di contrappunto. Lasciò l’istituto nel 1890 ed entrò nella classe d’organo di Franck al Conservatorio nell’ottobre 1890. La morte improvvisa di Franck un mese dopo fu un duro colpo. Charles-Marie Widor succedette a Franck, portando un approccio diverso, più tecnico e rigoroso. Widor riconobbe il talento di Vierne, offrendogli lezioni private gratuite di organo e composizione e nominandolo suo supplente all’organo di Saint-Sulpice nel 1892. Nonostante due bocciature al concorso per il 1° premio d’organo (attribuite a rivalità contro Widor), il compositore perseverò e lo ottenne all’unanimità nel 1894.
Inizio carriera (1894-1906)
Nominato da Widor supplente ufficiale alla classe d’organo del Conservatorio, Vierne iniziò a comporre (Quartetto per archi Op. 12) e a dare concerti. Nel 1896, Alexandre Guilmant succedette a Widor alla classe d’organo, e Vierne mantenne il suo ruolo di assistente. Conobbe Arlette Taskin, figlia del baritono Émile-Alexandre Taskin, e la sposò nel 1899. L’anno seguente, invece, il compositore vinse il concorso per il posto di organista titolare del grande organo di Notre-Dame, posizione che consolidò la sua fama. La sua Messe solennelle (op. 16) fu eseguita a Saint-Sulpice nel 1901. Compose la sua Seconda Sinfonia per organo (op. 20) – apprezzata da Debussy – e iniziò la leggenda lirica Praxinoë (op. 22). A partire dal 1904, iniziarono difficoltà coniugali, ma la sua attività artistica non ne risentì.
Anni difficili: prove personali e isolamento bellico (1906-19)
Questo periodo fu segnato da gravi problemi: nel 1906 si fratturò gravemente una gamba, mentre l’anno successivo, dopo la nascita della figlia Colette, contrasse la febbre tifoide. Nonostante ciò, completò la Sonata per violino e pianoforte. Il matrimonio fallì, portando al divorzio nel 1909. Due anni più tardi, invece, subì la perdita della madre e di Guilmant. La speranza di succedere a Guilmant al Conservatorio fu delusa (fu nominato Eugène Gigout) e, amareggiato, si dimise da assistente e accettò la cattedra d’organo alla Schola Cantorum offertogli da Vincent d’Indy. Compose la Terza Sinfonia per organo (op. 28). Nel 1913, il figlio André morì di tubercolosi. L’inizio della guerra portò ansia per i fratelli al fronte e per i figli. Iniziò a soffrire di glaucoma e la compagna Jeanne Montjovet lo lasciò. Si rifugiò in Svizzera per cure e concerti, componendo Spleens et Détresses (op. 38). Nel 1917 apprese tardivamente la morte del figlio Jacques al fronte, un dolore immenso che ispirò il Quintetto per pianoforte e archi (op. 42). Successivamente, apprese della morte del fratello René, a cui dedicò il poema per piano Solitude (op. 44). Un’operazione alla cataratta nel 1918 ebbe complicazioni, costringendolo a sei mesi di oscurità. Tornò a Parigi solo nell’aprile 1920.
Apogeo e fine carriera: riconoscimenti e ultimi capolavori (1920-37)
Tornato a Parigi in condizioni difficili, fu aiutato da Madame Richepin e sua figlia Madeleine a rilanciare la sua carriera. Madeleine divenne sua assistente devota, organizzando concerti, la pubblicazione delle sue opere e trovandogli allievi. La sua carriera riprese slancio con concerti in Europa. Un grave dissidio con Marcel Dupré, suo ex protetto, amareggiò questi anni. Nonostante ciò, continuò a comporre (Poème pour piano et orchestre op. 50, Pièces de fantaisie). Il culmine della sua carriera concertistica fu la trionfale tournée in Nord America nel 1927, dove fu acclamato come "the great blind French organist". Questa tournée fu interrotta da un secondo allarme cardiaco. La sua salute divenne più fragile, costringendolo a ridurre l’attività concertistica. Compose la Sesta Sinfonia per organo (op. 59) e i Quatre Poèmes grecs (op. 60). Nel 1931 ricevette la Legion d’Onore e, nonostante il declino fisico e un crescente pessimismo, continuò a insegnare e comporre, e iniziò a scrivere le sue memorie. La morte del suo maestro Widor nel marzo 1937 lo colpì.
Una morte "tragica e meravigliosa" (2 giugno 1937)
Durante il suo 1750° concerto, organizzato dagli Amis de l’Orgue a Notre-Dame, mentre eseguiva il suo Triptyque (op. 58) e si apprestava a iniziare un’improvvisazione, Louis Vierne fu colpito da un attacco cardiaco e si accasciò sulla pedaliera dell’organo, morendo sulla tribuna. La sua scomparsa, definita "tragica e meravigliosa", suscitò profonda commozione. Il funerale si tenne a Notre-Dame, con l’organo, coperto di nero, muto. Morì nello stesso anno di Widor, Roussel, Ravel e Libert, segnando un periodo di lutto per la musica.
Compositore: oltre l’organo, un linguaggio personale
Con circa 66 opere, Vierne fu un compositore prolifico e versatile, spaziando dall’organo alla musica da camera, vocale, pianistica e orchestrale. Le sue prime opere risalgono agli anni di studio, ma fu solo la Prima Sinfonia per organo (op. 14) del 1899 che lo impose all’attenzione. Le difficoltà personali si riflettono in opere come la Sinfonia in la minore per orchestra (op. 24) e il Quintetto per pianoforte e archi (op. 42). Il suo stile evolse, mostrando negli ultimi lavori (come il Triptyque op. 58 e la Messe basse pour les défunts op. 62) un linguaggio più modale e purificato. Il suo linguaggio musicale è caratterizzato da una sintesi delle influenze dei suoi maestri (lirismo franckiano, grandiosità widoriana), un cromatismo wagneriano che porta a instabilità tonale, la raffinatezza armonica faureana e una sensibilità alle innovazioni di Debussy e Ravel. Temi ricorrenti sono la morte, le campane, la sera e la notte. La sua musica si distingue per una colorazione armonica riconoscibile, una solida costruzione formale, ritmi spesso sincopati e un uso sapiente degli ostinati. Fu, in definitiva, un grande colorista, capace di creare atmosfere uniche e profondamente emotive.
Il Carillon de Westminster: analisi
Il Carillon de Westminster è il sesto e ultimo brano della Troisième Suite delle Pièces de Fantaisie op. 54, composta nel 1927 e dedicata al celebre organaro inglese Henry Willis III. Quest’opera è forse la più conosciuta di Vierne al di fuori del repertorio specificamente organistico, grazie al suo tema immediatamente riconoscibile e alla sua scrittura brillante e virtuosistica. L’interpretazione in questione è particolarmente significativa, poiché eseguita sullo strumento che Vierne stesso conobbe e per il quale compose gran parte della sua musica organistica più imponente. L’organo Cavaillé-Coll di Notre-Dame, con la sua ricchezza timbrica e la sua potenza, è il veicolo ideale per esprimere la grandiosità e la complessità di questo brano. Il brano è in re maggiore e in forma di rondò (ABA′CA′′ e coda), dove il tema principale A è costituito dalle celebri melodie dei quarti d’ora e dell’ora del Big Ben di Westminster.
Il brano s’inizia con l’iconico motivo dei Westminster Quarters (sol♯–fa♯–mi–si nella sua forma originale, qui trasposto e contestualizzato armonicamente) eseguito sui manuali con una registrazione relativamente dolce e chiara. La mano sinistra fornisce un accompagnamento arpeggiato e discreto. Il pedale entra con note tenute (bordone) che forniscono la base armonica. Il motivo viene ripetuto, con un leggero aumento di sonorità e una maggiore elaborazione nell’accompagnamento della mano sinistra. Entra il "rintocco dell’ora", un motivo discendente basato sull’arpeggio di re maggiore (re-la-fa♯-re), affidato al pedale con una registrazione più profonda e autorevole, che stabilisce in modo inequivocabile la tonalità di re maggiore. I manuali continuano a elaborare frammenti del tema dei quarti. L’uso del pedale qui non è solo di sostegno ma diventa tematico.
La musica cambia carattere: la sezione B introduce nuovo materiale melodico e ritmico, pur mantenendo allusioni al tema principale. La scrittura diventa più virtuosistica, con scale e arpeggi veloci sui manuali. La registrazione si fa più brillante, con l’aggiunta di registri più acuti e di misture leggere. C’è un aumento graduale della dinamica e della densità sonora. Il pedale assume un ruolo più melodico e indipendente, con passaggi veloci che dialogano con i manuali. La complessità armonica e contrappuntistica aumenta, creando un senso di sviluppo e di transizione verso la successiva ripresa del tema. Il tema di Westminster ritorna, questa volta con una registrazione più piena e maestosa. Il rintocco dell’ora al pedale è ancora più sonoro e presente e l’accompagnamento sui manuali è più ricco e denso.
La sezione C è la sezione di sviluppo più estesa e complessa del brano, il vero “cuore” virtuosistico del carillon. S’inizia con un cambio di atmosfera, con la musica che si fa più sommessa e lirica. Frammenti del tema di Westminster sono ancora udibili, ma trasformati e integrati in un nuovo discorso melodico. La musica diventa progressivamente più agitata e virtuosistica, con rapidissimi passaggi di scale, arpeggi e figurazioni complesse sui manuali, spesso in dialogo imitativo tra le mani. Segue l’arrivo progressivo di sonorità più brillanti e leggere che si alterano a combinazioni più potenti, con il pedale che fornisce un solido sostegno armonico e ritmico, a volte con ostinati che accrescono la tensione. Si percepisce un lungo e magistrale crescendo che culmina in una preparazione al ritorno trionfale del tema. La densità sonora è massima, con l’uso di accoppiamenti e registri progressivamente più potenti, preparando l’entrata del grand jeu.
Il tema principale ritorna in tutta la sua gloria, con una registrazione imponente che sfrutta le sonorità del grand jeu. Il tema è spesso affidato al pedale con grande potenza (il rintocco dell’ora diventa un proclama tonante), mentre i manuali eseguono accordi pieni e figurazioni brillanti. Questa è l’apoteosi del brano, un vero tripudio sonoro. La magnificenza e la potenza dell’organo sono sfruttate al massimo. L’energia inizia a diminuire gradualmente: la registrazione si alleggerisce e frammenti del tema di Westminster appaiono in modo più frammentario e riflessivo, quasi come un’eco che si allontana. Il brano si avvia alla conclusione con una serie di accordi tenuti che si dissolvono lentamente, creando un’atmosfera di serena grandezza. Il pedale sostiene l’armonia con note profonde. L’ultimo accordo di re maggiore è potente e solenne, lasciando una sensazione di maestosità e compimento. La lunga risonanza della cattedrale amplifica l’effetto finale.
Il motivo principale è il cuore pulsante del brano: Vierne non si limita a citarlo, ma lo elabora, lo frammenta, lo traspone e lo integra in contesti armonici e testurali sempre nuovi, dimostrando grande inventiva. Sebbene saldamente ancorato al re maggiore, il brano esplora diverse tonalità vicine e lontane durante gli episodi di sviluppo, utilizzando un linguaggio armonico ricco, tipico della scuola organistica francese post-franckiana, con abbondanza di accordi di settima e nona, cromatismi e modulazioni audaci che accrescono la tensione e l’interesse. La genialità di Vierne risiede anche nella sua capacità di orchestrare per l’organo: il brano è un vero e proprio saggio di registrazione, spaziando dai jeux de fonds (flauti, principali) più delicati e intimi, ai jeux de détail (mutazioni, cornetti) per effetti più brillanti e solistici, fino al plein jeu (misture) e al grand jeu (ance e fondi potenti) per i momenti di massima potenza. Il pezzo è caratterizzato da un arco dinamico ed espressivo molto ampio e partendo dalla quieta esposizione iniziale, attraverso episodi lirici e passaggi di crescente agitazione, fino al culmine trionfante e alla successiva dissolvenza, Vierne costruisce un percorso emotivo avvincente. Come di Pièce de fantaisie, il brano ha un carattere descrittivo e virtuosistico: non è musica liturgica in senso stretto, ma un brano da concerto pensato per mettere in luce le capacità dell’interprete e le risorse sonore dell’organo sinfonico. La scelta del tema delle campane di Westminster è un omaggio al destinatario inglese e conferisce al pezzo un’aura di familiarità e monumentalità. È diventato un classico del repertorio organistico, amato dal pubblico per la sua melodia accattivante e la sua scrittura esuberante.
Nel complesso, il Carillon de Westminster è un capolavoro di scrittura organistica che combina un tema popolare con una grande abilità compositiva e un profondo senso delle potenzialità timbrico-dinamiche dell’organo. La struttura a rondò, con i suoi ritorni tematici e i suoi episodi contrastanti, è gestita con grande maestria, creando un pezzo che è allo stesso tempo accessibile e profondamente soddisfacente dal punto di vista musicale.
Georg Böhm (1661 - 18 maggio 1733): Präludium, Fuge [2:52] und Postludium [6:16] in sol minore. Wim van Beek all’organo Schnitger della Martinikerk in Groninga.
L’approfondimento di Pierfrancesco Di Vanni
Georg Böhm: il gigante discreto del Barocco tedesco, innovatore e faro per Bach
Georg Böhm emerge dalla storia della musica barocca tedesca come figura significativa, celebre per il suo ruolo pionieristico nello sviluppo della partita corale per organo e per la sua profonda influenza formativa sul giovane Johann Sebastian Bach.
Origini e formazione musicale (1661-1693)
Nato a Hohenkirchen, in Turingia, Georg Böhm ricevette le prime nozioni musicali dal padre, maestro di scuola e organista, la cui morte nel 1675 segnò una prima svolta nella sua vita. È plausibile che abbia proseguito gli studi con Johann Heinrich Hildebrand, Kantor a Ohrdruf e allievo di membri della famiglia Bach (Heinrich e Johann Christian), gettando così le prime basi di una connessione che si rivelerà cruciale. Dopo la scomparsa del padre, il giovane frequentò dapprima la Lateinschule di Goldbach e poi il Gymnasium di Gotha, diplomandosi nel 1684. Il 28 agosto 1684, invece, Böhm iniziò i suoi studi all’Università di Jena. Di questo periodo e degli anni immediatamente successivi alla laurea si sa poco, fino alla sua ricomparsa ad Amburgo nel 1693.
L’esperienza amburghese e le influenze (1693-1698)
Sebbene i dettagli sulla vita di Georg Böhm ad Amburgo siano scarsi, è certo che la vibrante scena musicale della città anseatica e dei suoi dintorni abbia avuto un impatto significativo su di lui. Amburgo era un centro dove venivano regolarmente rappresentate opere francesi e italiane. Nel campo della musica sacra, spiccava la figura di Johann Adam Reincken, organista della Katharinenkirche, uno dei massimi compositori per tastiera dell’epoca. È probabile che Böhm abbia avuto modo di ascoltare anche Vincent Lübeck nella vicina Stade e, forse, persino il celebre Dietrich Buxtehude a Lubecca, anch’essa non distante. Queste esperienze contribuirono senza dubbio ad arricchire il suo bagaglio artistico.
Maestro a Lüneburg: la maturità artistica (1698-1733)
Nel 1698 Böhm ottenne la prestigiosa carica di organista della Johanniskirche, la chiesa principale di Lüneburg, succedendo a Christian Flor, deceduto l’anno precedente. Böhm si era candidato per il posto asserendo di essere privo di un impiego fisso in quel momento. La sua richiesta fu prontamente accolta dal consiglio cittadino. Si stabilì a Lüneburg, dove mantenne l’incarico fino alla morte, si sposò ed ebbe cinque figli. È in questo periodo, precisamente tra il 1700 e il 1702, che si colloca l’incontro con il giovane Johann Sebastian Bach, giunto a Lüneburg nel 1700 per studiare alla Michaelisschule, scuola associata alla Michaeliskirche: è probabile che Bach sia dunque diventato allievo di Böhm.
Il legame cruciale con Johann Sebastian Bach
Nonostante l’assenza di prove documentali dirette di un formale discepolato (reso peraltro complesso dalla rivalità esistente tra i cori della Johanniskirche e della Michaelisschule), la tesi di un rapporto maestro-allievo è considerata estremamente probabile. Carl Philipp Emanuel Bach — in una lettera a Johann Nikolaus Forkel del 1775 — affermò che suo padre amava e studiava la musica di Böhm e una correzione nella sua nota rivela che la sua prima intenzione era stata quella di definire Böhm come insegnante del padre. Una scoperta epocale del 31 agosto 2006 ha ulteriormente corroborato questa connessione: il ritrovamento dei più antichi autografi di Bach conosciuti. Uno di questi, una copia della celebre fantasia corale di Reincken An Wasserflüssen Babylon, reca la firma "Il Fine â Dom. Georg: Böhme descriptum ao. 1700 Lunaburgi". L’abbreviazione "Dom." potrebbe significare "domus" (casa) o "Dominus" (maestro) ma, in ogni caso, attesta una conoscenza personale tra Bach e Böhm. Questo legame si trasformò in un’amicizia duratura, tanto che nel 1727 Bach nominò proprio Böhm come suo agente nel Nord della Germania per la vendita delle sue Partite per tastiera n. 2 e 3.
Eredità musicale: lo Stylus phantasticus e l’invenzione della partita corale
Georg Böhm è ricordato principalmente per le sue composizioni per organo e clavicembalo, le quali includono preludi, fughe e, soprattutto, partite. Molte delle sue opere erano concepite con una notevole flessibilità strumentale, potendo essere eseguite indistintamente su organo, clavicembalo o clavicordo, a seconda delle circostanze. La sua musica si distingue per l’impiego dello Stylus phantasticus, uno stile basato sull’improvvisazione che conferisce alle sue opere un carattere libero e virtuosistico.
Il contributo più significativo di Böhm alla musica per tastiera della Germania settentrionale è senza dubbio la partita corale. Egli ne fu l’effettivo inventore, creando composizioni di ampio respiro basate su variazioni di una melodia di corale. Scrisse diverse partite di varia lunghezza e su differenti melodie, caratterizzate da una sofisticata figurazione polifonica che si sviluppa sulla struttura armonica del corale. Queste opere, spesso dotate di un carattere rustico, sono adatte sia all’organo che al clavicembalo e influenzarono profondamente i compositori successivi, primo fra tutti lo stesso Johann Sebastian Bach, che adottò e sviluppò ulteriormente questo genere.
Analisi del brano
Il Präludium, Fuga und Postludium è un magnifico esempio della prassi organistica della Germania settentrionale del periodo barocco. Questa forma tripartita, ampiamente diffusa tra i compositori come Buxtehude e lo stesso Böhm, permetteva all’organista di dimostrare sia la sua abilità virtuosistica e improvvisativa (nel preludio e nel postludio) sia la sua maestria contrappuntistica (nella fuga).
Il Preludio si apre in modo maestoso e declamatorio, tipico dello Stylus phantasticus, uno stile che privilegia la libertà formale, i contrasti drammatici e l’impressione di improvvisazione. L’inizio è caratterizzato da accordi potenti e arpeggiati nella tonalià di sol minore, spesso con l’utilizzo del plenum ("tutti"), sostenuti da un solido pedale. Si percepisce subito la grandezza sonora dello strumento e l’autorità della scrittura di Böhm. Le veloci scale ascendenti e discendenti nei manuali aggiungono un elemento di virtuosismo brillante.
Segue una sezione più propriamente di toccata, con rapide figurazioni e passaggi scalari nei manuali che si rincorrono, mentre il pedale fornisce una base armonica più statica o con movimenti più lenti. Questa sezione mette in luce l’agilità dell’interprete e la chiarezza dei registri dell’organo. Il carattere è energico e motorio.
Böhm introduce qui una maggiore varietà. Si alternano momenti di grande sonorità con passaggi più rarefatti. Armonicamente, pur rimanendo ancorato al sol minore, esplora tonalità vicine, creando tensione e interesse. L’uso di progressioni e sequenze è evidente, così come l’impiego di brevi frammenti motivici che vengono elaborati. Si possono notare anche cambi di registro, con passaggi che suonano più brillanti e altri più scuri o leggeri. C’è un senso di dialogo tra diverse sezioni dell’organo.
Segue un ritorno a figurazioni virtuosistiche, con un pedale sempre più attivo e a tratti solistico. Le scale e gli arpeggi dominano la scena, creando un crescendo di eccitazione. La scrittura si fa più densa e complessa, preparando l’ascoltatore alla sezione successiva. L’armonia si muove con maggiore audacia, per poi convergere verso una cadenza sospesa o una chiara modulazione che introduce la Fuga. La conclusione del Preludio è tipicamente aperta, quasi un trampolino di lancio.
La Fuga rappresenta il cuore contrappuntistico dell’opera, dimostrando la perizia compositiva di Böhm. Il soggetto, in sol minore, viene presentato da una voce intermedia e si caratterizza per il profilo melodico ben definito, abbastanza cromatico e ritmicamente incisivo, adatto all’elaborazione contrappuntistica. La risposta (tonale) entra in una voce superiore alla dominante (re minore), mentre la prima voce prosegue con un controsoggetto relativamente libero ma riconoscibile. Seguono le entrate delle altre voci, completando l’esposizione a quattro voci.
Dopo l’esposizione, Böhm introduce i divertimenti, sezioni in cui il soggetto non è presente nella sua interezza, ma vengono utilizzati suoi frammenti o motivi derivati dal controsoggetto. Questi episodi servono a modulare verso tonalità vicine e a creare varietà. Le entrate intermedie del soggetto avvengono in queste nuove tonalità, a volte con leggere variazioni o in diverse tessiture. Böhm dimostra abilità nel mantenere l’interesse variando la disposizione delle voci e il contesto armonico. Si notano passaggi in cui la tessitura si alleggerisce per poi ridiventare più densa con le nuove entrate del soggetto.
Verso la fine della Fuga, la tensione aumenta. Qui l’intensità è costruita più attraverso un ritorno insistente del soggetto e una progressione armonica che conduce al culmine. Il pedale assume un ruolo fondamentale nel sostenere l’architettura sonora e nel presentare il soggetto in modo autorevole. La Fuga si conclude con una cadenza decisa in sol minore, spesso con un effetto di rallentando e un accordo pieno che ne sottolinea la fine, ma che allo stesso tempo prepara al Postludio. La conclusione non è tronca, ma lascia un senso di continuazione.
Il Postludio riprende il carattere estroverso e virtuosistico del Preludio, fungendo da brillante conclusione dell’opera. Inizia subito dopo la Fuga, con un ritorno a sonorità piene e a figurazioni rapide e brillanti, molto simili a quelle del Preludio. Accordi potenti, scale virtuosistiche e arpeggi dominano questa sezione, conferendo un’energia propulsiva. Il pedale è molto attivo, spesso con passaggi scalari o note tenute che fungono da perno armonico. Anche qui, come nel Preludio, Böhm sviluppa il materiale attraverso sequenze e progressioni armoniche che mantengono alta la tensione. Potrebbero esserci echi tematici del materiale precedente, seppur trasformati. La scrittura è densa e richiede grande padronanza dello strumento.
La sezione finale è concepita come una grande coda culminante. L’intensità sonora aumenta progressivamente, con l’utilizzo del pieno organo. Si assiste a passaggi di grande effetto, con il pedale che spesso esegue veloci scale o arpeggi. L’armonia si consolida definitivamente nella tonalità d’impianto (sol minore), e l’opera si conclude con una cadenza finale imponente e solenne.
Nel complesso, l’opera si rivela un’opera di grande impatto, combinando la libertà dello Stylus phantasticus con il rigore contrappuntistico della fuga. È un viaggio sonoro attraverso diverse atmosfere che spaziano dalla solennità iniziale al virtuosismo sfrenato e dalla complessità intellettuale della fuga alla brillantezza conclusiva.
Georg Friedrich Händel (1685 - 14 aprile 1759): «Arrival of the Queen of Sheba», sinfonia (preludio) al III atto dell’oratorio Solomon HWV 67 (1749). The Sixteen, dir. Harry Christophers.
Gli adattamenti di questo brano per organici diversi dall’originale sono numerosi. Ve ne propongo alcuni, scegliete voi quelli che vi piacciono di più 🙂
per organo: Gert van Hoef all’organo della Chiesa di San Martino in Dudelange (Lussemburgo)
per quartetto di sassofoni: Amethyst Quartet
per arpa: Ekaterina Afanasieva
per flauti dolci e orchestra: Lucie Horsch e Charlotte Barbour-Condini, flauti; The Academy of Ancient Music, dir. Bojan Čičić
per mandolini e chitarre, tutti suonati da Ben Bosco
Thomas Augustine Arne (12 marzo 1710 - 1778): Concerto per organo e strumenti n. 4 in si bemolle maggiore (1751). Jean Guillou, organo; Radio-Symphonie-Orchester Berlin, dir. René Klopfenstein.
Jiří Ignác Linek (21 gennaio 1725 - 1791): Preludio in re maggiore e Fuga in sol maggiore [1:44] per organo. Ondřej Valenta all’organo costruito nel 1760 da Jan Výmola nella Chiesa della Santa Croce in Doubravník (Moravia).
Heinrich Scheidemann (c1596 - 1663): Vater unser im Himmelreich, preludio-corale, 3ª versione. Massimo Gabba all’organo Tamburini di Sant’Antonio in Casale Monferrato.
Péter Eötvös (2 gennaio 1944 - 2024): Multiversum per organo, organo hammond e orchestra (2017), in memoriam Pierre Boulez († 5 gennaio 2016). Iveta Apkalna, organo; László Fassang, organo hammond; Koninklijk Concertgebouworkest diretto dall’autore (1a esecuzione, Amburgo, 10 ottobre 2017).
«Since Yuri Gagarin’s journey into space in 1961, technological advancements have caused us to marvel at the miracle of the cosmos. Research like Witten’s theory of the eleven dimensions and string theory has astounded us with its speculation on the nature of outer space, and has spurred me on in my compositional fantasy. My work consists of three movements: Expansion, Multiversum and Time and Space. It surrounds the audience with sound from all sides. The concert organ is played at the front of the hall and, although also played onstage, the rotating tone of the Hammond organ will sound from the back. The orchestral seating will reinforce the spatial impression of a tonal universe with the strings on the left, the woodwinds on the right and brass and percussion dispersed across the entire width of the stage» (Peter Eötvös).
Johann Sebastian Bach (1685 - 1750): «Flösst, mein Heiland, flösst dein Namen», aria per soprano, oboe e organo, dalla IV parte del Weihnachtsoratorium BWV 248 (1734). Nancy Argenta, soprano; The English Baroque Soloists, dir. John Eliot Gardiner.
Testo di Christian Friedrich Henrici alias Picander:
Flößt, mein Heiland, flößt dein Namen
Auch den allerkleinsten Samen
Jenes strengen Schreckens ein?
Nein, du sagst ja selber nein.
(Echo: Nein! ) Sollt ich nun das Sterben scheuen?
Nein, dein süßes Wort ist da!
Oder sollt ich mich erfreuen?
Ja, du Heiland sprichst selbst ja.
(Echo: Ja! )
Potrà il tuo nome, Redentore, infondere
anche il più piccolo seme
di quel tremendo terrore?
No, tu stesso dici no.
(Eco : No!)
Dovrei dunque temere la morte?
No, la dolce tua parola è qui.
Oppure dovrei rallegrarmi?
Sì, Redentore, tu stesso dici sì.
(Eco : Sì!)
«Flösst, mein Heiland» è una parodia dell’aria «Treues Echo dieser Orten» per contralto, oboe d’amore e orchestra, quinto brano della cantata profana Lasst uns sorgen, lasst uns wachen (Die Wahl des Herkules) BWV 213, composta l’anno precedente (1733) per l’undicesimo compleanno del principe elettore Federico Cristiano di Sassonia (1722 - 1763):
Carolyn Watkinson, contralto; Kammerorchester Berlin, dir. Peter Schreier.
Testo dello stesso Picander:
Treues Echo dieser Orten,
Sollt ich bei den Schmeichelworten
Süßer Leitung irrig sein?
Gib mir deine Antwort: Nein!
(Echo: Nein! ) Oder sollte das Ermahnen,
Das so mancher Arbeit nah,
Mir die Wege besser bahnen?
Ach! so sage lieber: Ja!
(Echo: Ja! )
Eco fedele di questi luoghi,
dovrò da parole adulatrici
essere indotto in errore?
Dammi la tua risposta: No!
(Eco : No!)
Oppure sarà l’esortazione
che prelude a così tanta fatica
a indicarmi correttamente la via?
Oh! Allora dimmi piuttosto: Sì!
(Eco : Sì!)
Daniel Rogers Pinkham jr (1923 - 18 dicembre 2006): Concertante per organo, celesta e percussione (1963). Stella O’Neill, organo; Katie Hughes, celesta; Michael Barnes, percussione; Jacob Ottmer, timpani.
Pietro Morandi (1745 - 8 dicembre 1815): Sonata in do maggiore per organo «ad imitazione del flauto». Alessandro Casari all’organo Serassi (1773) del Santuario della Madonna della neve in Iseo (Brescia).
Léon Boëllmann (1862 - 1897): Suite gothique op. 25 (1895). Marie-Claire Alain all’organo Cliquot/Cavaillé-Coll di Saint-Sulpice in Parigi.
Introduction-choral: Maestoso
Menuet gothique: Allegro [2:23]
Prière à Notre-Dame: Très lent [5:24]
Toccata: Allegro [11:13]
Ai tempi di Boëllmann il termine gothique conservava ancora qualche sfumatura in più rispetto a oggi. A noi, donne e uomini del XXI secolo, l’aggettivo gotico fa pensare immediatamente all’arte (e in particolare all’architettura) tardomedievale, o altrimenti alla letteratura fantastica del Sette-Ottocento, ma in passato era impiegato anche nell’accezione di «barbarico» (con riferimento all’antica popolazione germanica dei goti) e poi in quelle di «bizzarro», «capriccioso» e «desueto»: più o meno ciò che aveva in mente Giorgio Vasari quando gli venne l’idea di definire «gotica», appunto, l’arte del basso Medioevo, in contrapposizione a quella rinascimentale, che riproponeva i canoni estetici della classicità greca e romana.
Il termine gotico non ha una specifica valenza musicale e non l’ha mai avuta, nemmeno ai tempi di Boëllmann: solo recentemente l’aggettivo è stato impiegato per riferirsi alla polifonia duecentesca, segnatamente alla produzione della cosiddetta Scuola di Notre-Dame (Music of the Gothic Era è il titolo di un cofanetto di lp Archiv contenenti un’ampia scelta di composizioni di quel periodo eseguite, ormai mezzo secolo fa, dall’Early Music Consort of London diretto da David Munrow). Cose cui Boëllmann comunque non pensava, non è certo con l’idea di alludere alla musica medievale (ai suoi tempi in grandissima parte ancora da riscoprire) che definì gothique quella che sarebbe diventata la sua composizione più famosa. Intendeva piuttosto far pensare a qualche cosa che è «d’un autre âge, désuet, barbare, conservateur» (traggo questa definizione di gothique dal Lessico del Centre National de Ressources Textuelles et Lexicales).
Del resto, in piena Belle Époque il minuetto era senza dubbio desueto, e doveva essere considerata perlomeno bizzarra l’idea di suonarne uno all’organo di una cattedrale.
Costanzo Antegnati (1549 - 14 novembre 1624): Ricercare 1° del secondo tono (da L’Antegnata, Intavolatura de ricercari d’organo, 1608). Luca Raggi all’organo Antegnati (1588) della Chiesa di San Nicola (Santa Maria della Consolazione) in Almenno San Salvatore (Bergamo).
Gabriel Fauré (1845 - 4 novembre 1924): Requiem (versione del 1893 ricostruita da John Rutter). Caroline Ashton, soprano; Stephen Varcoe, baritono; Simon Standage, violino; John Scott, organo; The Cambridge Singers; membri della City of London Sinfonia, dir. John Rutter.
Gabriel Fauré (1845 - 4 novembre 1924): Cantique de Jean Racine per coro e organo op. 11 (1864-65). Choir of St John’s College.
Il testo di Racine è una traduzione francese dell’inno latino Consors paterni luminis, attribuito a sant’Ambrogio (Aurelius Ambrosius).
Verbe égal au Très-Haut, notre unique espérance,
Jour éternel de la terre et des cieux,
De la paisible nuit nous rompons le silence:
Divin Sauveur, jette sur nous les yeux.
Répands sur nous le feu de Ta grâce puissante;
Que tout l’enfer fuie au son de Ta voix;
Dissipe le sommeil d’une âme languissante
Qui la conduit à l’oubli de Tes lois!
Ô Christ ! sois favorable à ce peuple fidèle,
Pour Te bénir maintenant rassemblé;
Reçois les chants qu’il offre à Ta gloire immortelle,
Et de Tes dons qu’il retourne comblé.
Hans Leo Hassler von Roseneck (26 ottobre 1564 - 1612): Gagliarda a 6 voci (pubblicata in Lustgarten Neuer Teutscher Gesäng, Balletti, Galliarden und Intraden, 1601, n. 50). Leonardo Carrieri, organo.
Giovanni Battista Fontana, detto Giovanni Battista del Violino (1589 - 7 ottobre 1630): Sonata in re maggiore (pubblicata in Sonate a 1, 2, 3, per il violino, o cornetto, fagotto, chitarone, violoncino o simile altro istromento, 1641, n. 2). David Brutti, cornetto; Nicola Lamon, organo.
John Bull (c1562 - 1628): In nomine a 3, dal Fitzwilliam Virginal Book (n. XXXVII). Christopher Hogwood, organo.
Henry Purcell (1659 - 1695): Abdelazer or The Moor’s Revenge, musiche di scena composte nel 1695 per una rappresentazione del dramma omonimo (1676) di Aphra Behn. Joy Roberts, soprano; The Academy of Ancient Music, dir. Christopher Hogwood.