Au tombeau de Tut Ankh Amon

Alexandre Dénéréaz (31 luglio 1875 - 25 luglio 1947): Au tombeau de Tut Ankh Amon, poema sinfonico (1925). Orchestra sinfonica di Volgograd, dir. Emmanuel Siffert.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Alexandre Dénéréaz, musicista vodese

Interessante figura di compositore, organista e didatta svizzero, Alexandre Dénéréaz si dedicò con passione allo studio delle prassi esecutive e alla riflessione teorica sulla musica.

Formazione e primi successi
Nato a Losanna da Charles-César, maestro di musica, e Charlotte-Elise Pilet, pianista, intraprese studi classici, scientifici e musicali nella città natale. Nel 1892 si trasferì a Dresda per perfezionarsi presso il locale Conservatorio reale; durante i quattro anni di studio in Germania, ebbe maestri di prim’ordine: Karl-Heinrich Doering (pianoforte), Julius Johannsen (organo) e il celebre Felix Draeseke (composizione). Il suo talento fu presto riconosciuto e, nel 1896, ottenne il primo premio di composizione per la sua Prima Sinfonia, un’opera che segnò l’inizio di una brillante carriera.

Una carriera poliedrica a Losanna
Tornato a Losanna nel 1896, Dénéréaz divenne una figura cardine della scena musicale locale: fu nominato organista della Chiesa di Saint-François, incarico che mantenne per tutta la vita e dove si distinse anche come organizzatore di grandi concerti. Nello stesso anno, succedette al suo ex maestro, Charles Blanchet, come insegnante al Conservatorio di Losanna, dove fu professore di organo e di teoria musicale dal 1896 al 1947; fu inoltre libero docente di estetica musicale all’Università dal 1918 al 1945. Parallelamente si dedicò con passione alla direzione corale, guidando il coro della Société Sainte-Cécile e il coro maschile La Recréation di Yverdon-les-Bains. Nel 1899 fu tra i membri fondatori dell’Associazione dei musicisti svizzeri, a testimonianza del suo impegno per lo sviluppo della cultura musicale nazionale.

Composizioni e opere teoriche
Dénéréaz ha lasciato un vasto e variegato catalogo di opere musicali, fra le quali spicca la Cantata per il centenario dell’Indipendenza del Vaud (1903), su testo di René Morax. La sua produzione comprende ben cinque sinfonie, un’ouverture, un poema sinfonico, una suite sinfonica, concerti per pianoforte, violino e violoncello, quartetti, un Concerto grosso per orchestra e diverse sonate per organo e cori.
Coltivò inoltre un profondo interesse per la musicologia e la teoria musicale, lasciando in eredità importanti trattati. La sua opera principale è La musique et la vie intérieure, un monumentale saggio che descrive l’evoluzione dell’arte musicale dalle origini fino all’epoca moderna, con un capitolo di particolare rilievo dedicato allo spirito della musica nel Medioevo e nel Rinascimento. Il libro suscitò l’interesse di importanti personalità del mondo musicale, come Nadia Boulanger e Alfred Cortot, che ebbero contatti epistolari con l’autore. Tra le sue altre pubblicazioni si annoverano L’évolution de l’art musical depuis ses origines jusqu’à l’epoque moderne (1919), un corso d’armonia, Rythmes cosmiques et rythmes humains e La gamme, ce problème cosmique.

Analisi di Au tombeau de Tut Ankh Amon
Questo poema sinfonico testimonia l’ondata di “egittomania” che travolse l’Europa in seguito alla sensazionale scoperta della tomba del faraone fanciullo da parte di Howard Carter il 4 novembre 1922. Lungi dall’essere un mero esercizio di stile, il brano è un affresco sonoro ricco, evocativo e magistralmente orchestrato, che guida l’ascoltatore in un viaggio narrativo attraverso il mistero, la grandezza e la sacralità dell’antico Egitto.

Il poema sinfonico si apre in un’atmosfera di profondo mistero e sospensione, con i primi suoni che evocano l’oscurità silenziosa e immobile di una tomba inviolata da millenni. L’orchestrazione è da subito protagonista: gli archi suonano con la sordina, creando un tappeto sonoro ovattato e teso, mentre i legni gravi (fagotti, controfagotto) disegnano linee cromatiche discendenti che suggeriscono una lenta discesa nel sottosuolo. L’arpa, con i suoi arpeggi eterei, aggiunge un tocco di magia e antichità. Il vero cuore di questa introduzione è la melodia lamentosa e arcaica del corno inglese, un tema che funge da Leitmotiv del mistero: il suo carattere orientaleggiante è ottenuto attraverso l’uso di intervalli modali e di seconda aumentata, un cliché stilistico dell’epoca per rappresentare l’esotico, ma qui utilizzato con grande efficacia per creare un senso di tempo remoto e di sacralità. È come se la musica descrivesse il primo sguardo di Carter attraverso il foro, un mondo di meraviglie avvolto dalle tenebre.
La musica cambia poi carattere ed emerge un ritmo più marcato e solenne, introdotto dai timpani e dagli archi gravi. Le trombe e i corni, inizialmente con sordina, intonano frammenti di fanfara che evocano una processione funebre, un corteo rituale proveniente da un passato lontano. La dinamica cresce gradualmente, costruendo una tensione che non è più solo di mistero, ma di grandezza imminente. L’armonia si fa più densa e imponente, suggerendo la solennità di una cerimonia antica, forse la deposizione stessa del sarcofago del faraone.
Arriva il primo grande climax emotivo e sonoro del poema e la musica esplode in un tutti orchestrale che incarna lo splendore e la potenza della civiltà egizia: gli archi si lanciano in ampie frasi melodiche ascendenti, cariche di pathos tardo-romantico, mentre gli ottoni (ora senza sordina) risuonano con accordi potenti e squillanti. È un momento di pura magnificenza visiva tradotta in suono, quasi cinematografico, che potrebbe rappresentare la visione abbagliante della camera del tesoro, con l’oro e le gemme che brillano alla luce delle torce.
Dopo la maestosità del climax, l’atmosfera si placa improvvisamente, diventando trasognata, intima e lirica. Questa è la sezione della contemplazione: l’orchestrazione si fa nuovamente delicata e cameristica. Splendidi assoli del flauto e del clarinetto dialogano con gli arpeggi dell’arpa, creando un’atmosfera di incanto e meraviglia quasi impressionista. La musica assume un andamento quasi di danza stilizzata, un ritmo cullante che sembra descrivere la quieta ammirazione per i dettagli finemente lavorati degli oggetti ritrovati, dalla maschera d’oro ai gioielli preziosi.
Il brano si avvia verso la sua conclusione con una seconda, ancora più imponente, ondata di energia. Il tema processionale ritorna, ma questa volta in modo trionfale e inarrestabile, non più come un’eco lontana ma come una visione vivida e presente. L’intera orchestra è mobilitata in un crescendo travolgente che culmina nella riaffermazione gloriosa del tema principale, simbolo della maestà immortale del faraone.
Tuttavia, questa grandezza è effimera: la coda vede l’orchestra diradarsi bruscamente, tornando all’atmosfera misteriosa dell’inizio. I suoni si smorzano, gli archi tornano in sordina, i legni gravi riprendono le loro frasi discendenti. È come se la porta della tomba si richiudesse, lasciando la visione del passato alle spalle e restituendo l’ascoltatore al silenzio del presente. Il brano si conclude su un accordo sommesso e un ultimo pizzicato, sigillando definitivamente il mistero.
Dénéréaz si dimostra un maestro della tavolozza orchestrale. L’uso sapiente dei timbri è fondamentale per la narrazione: il corno inglese per il lamento arcaico, l’arpa per l’incanto, i legni solisti per la contemplazione, gli ottoni per la maestà regale e le percussioni (timpani, piatti, tam-tam) per marcare il ritmo rituale. Il contrasto tra le sezioni cameristiche e i potenti tutti orchestrali è il motore principale della dinamica del pezzo.
La scrittura melodica attinge a piene mani dal linguaggio tardo-romantico, con ampi slanci espressivi, ma lo colora di esotismo attraverso l’impiego di scale modali e intervalli caratteristici (come la seconda aumentata). L’armonia è ricca e cangiante, saldamente ancorata alla tonalità ma con frequenti deviazioni cromatiche e accordi “coloristici” di stampo impressionista, che servono a creare atmosfera più che a seguire una progressione funzionale tradizionale.

Nel complesso, Au tombeau de Tut Ankh Amon è un eccellente esempio di musica a programma, in cui ogni elemento musicale è al servizio di un’idea narrativa chiara e potente. Denéréaz riesce a fondere la grandiosità armonica e melodica della tradizione tardo-romantica tedesca (eredità dei suoi studi a Dresda) con la sensibilità per il colore timbrico tipica della scuola francese. Il risultato è un poema sinfonico affascinante, visivo e coinvolgente, una gemma nascosta del repertorio del primo Novecento che merita di essere riscoperta, capace di trasportare l’ascoltatore direttamente tra le sabbie del tempo, al cospetto di un re immortale.

Les neiges d’antan!

Eugène Ysaÿe (16 luglio 1858 - 1931): Les neiges d’antan!, poème per violino e archi op. 23 (1921). Christine Raphael, violino; Rheinisches Kammerorchester, dir. Jan Corazolla.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Eugène Ysaÿe, il titano del violino

Eugène Auguste Ysaÿe non fu semplicemente un musicista, bensì una figura poliedrica e un pilastro della vita musicale europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La sua carriera, che abbracciò il ruolo di violinista virtuoso, compositore innovativo, influente pedagogo, direttore d’orchestra e organizzatore culturale, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della musica classica.

Origini e formazione di un predestinato
Nato a Liegi in una famiglia di musicisti, il destino di Ysaÿe sembrava segnato fin dalla culla: suo padre, violinista e direttore d’orchestra, fu il suo primo maestro; il giovane prese le prime lezioni all’età di quattro anni. Il suo talento precoce lo portò al Conservatorio di Liegi, ma fu l’incontro quasi leggendario con il celebre violinista Henri Vieuxtemps a cambiargli la vita: impressionato dal suo modo di suonare, Vieuxtemps si assunse personalmente la responsabilità della sua istruzione musicale, garantendogli un percorso d’apprendimento di altissimo livello. Più tardi Ysaÿe si perfezionò con Henryk Wieniawski a Bruxelles e poi con lo stesso Vieuxtemps a Parigi, entrando così in contatto con il cuore pulsante della musica europea e con musicisti di prima grandezza.

L’ascesa del virtuoso e gli incontri fondamentali
La carriera di Ysaÿe decollò rapidamente: dopo un’esperienza come primo violino nell’orchestra che sarebbe poi diventata la Filarmonica di Berlino, dove impressionò il grande Joseph Joachim, intraprese una serie di tournée che lo consacrarono a livello internazionale. I suoi viaggi lo portarono a collaborare e a stringere legami con le più importanti figure musicali dell’epoca: suonò con Clara Schumann, conobbe Edvard Grieg in Norvegia e partecipò a un festival organizzato da Franz Liszt a Zurigo. Stabilitosi a Parigi, divenne una figura centrale nel circolo di César Franck. Il loro sodalizio artistico e umano culminò in un dono immortale: in occasione del matrimonio di Ysaÿe nel 1886, Franck gli dedicò la sua celeberrima Sonata per violino e pianoforte, un capolavoro del repertorio cameristico.

Ispiratore e animatore della vita musicale
L’influenza di Ysaÿe andò ben oltre le sue esecuzioni: le sue qualità artistiche, non ultimo l’interesse per la musica contemporanea, fecero di lui l’ispiratore di un’intera generazione di compositori. Oltre a Franck, gli dedicarono opere fondamentale Claude Debussy (Quartetto per archi), Ernest Chausson (Poème per violino e orchestra), Camille Saint-Saëns e Gabriel Fauré. Ysaÿe non fu solo un destinatario passivo, ma un promotore attivo di queste nuove composizioni, imponendole con determinazione nei programmi dei suoi concerti. La sua visione si concretizzò anche nella fondazione di due importanti istituzioni, il Quatuor Ysaÿe (1889) e i Concerts Ysaÿe (1896), una società di concerti con orchestra propria a Bruxelles, attraverso cui diffuse la musica dei suoi contemporanei.

Il maestro e il lascito pedagogico
La reputazione di Ysaÿe come pedagogo eguagliò quella di virtuoso: fu professore al Conservatorio reale di Bruxelles dal 1886 al 1898 e, successivamente, direttore dell’Orchestra sinfonica di Cincinnati (1918-22). Violinisti da tutto il mondo accorrevano per studiare privatamente con lui. Tra i suoi allievi figurano Josef Gingold, William Primrose, Louis Persinger e Nathan Milstein. Anche i suoi strumenti, un Guadagnini e soprattutto un prezioso Guarneri del Gesù del 1740 (poi appartenuto a Isaac Stern), fanno parte della sua leggenda.

Gli ultimi anni e l’eredità istituzionale
Il prestigio di Ysaÿe fu consacrato da un forte legame con la famiglia reale belga: nominato Maestro della Cappella di corte dal re Alberto I, divenne il consigliere musicale della regina Elisabetta, sua allieva. Da questa collaborazione nacque l’idea di un concorso per giovani talenti, inizialmente chiamato Concours Ysaÿe, che dal 1951 è conosciuto in tutto il mondo come il Concours musical international Reine-Élisabeth-de-Belgique, una delle competizioni più prestigiose al mondo.
Poco prima di morire, nel suo letto d’ospedale, Ysaÿe poté vivere un’ultima, commovente emozione: ascoltare in diretta radio la “prima” della sua opera in lingua vallona, Piére li houyeû, e rivolgere un saluto al pubblico grazie a un collegamento audio-visivo all’avanguardia per l’epoca.

Les neiges d’antan!: analisi
Il titolo del brano è tratto da un verso della Ballade des dames du temps jadis del poeta medievale francese François Villon, ed è la chiave per comprendere l’essenza della composizione. Non si tratta di un’opera strutturata secondo le forme classiche, ma di un brano rapsodico, una meditazione musicale profondamente introspettiva e nostalgica sul tema della memoria, della bellezza effimera e della perdita.

Il brano si apre non con il solista, ma con il quartetto d’archi, che stabilisce immediatamente un’atmosfera rarefatta e sognante. Gli archi, probabilmente con sordina, suonano accordi lenti, cromatici e armonicamente instabili. Questa introduzione crea un paesaggio sonoro nebbioso, quasi impressionista, che non evoca il freddo della neve, ma piuttosto la sua immagine vista attraverso il velo malinconico del ricordo.
Subito, il violino solista fa il suo ingresso nel registro acuto: la sua linea è un recitativo libero, quasi un lamento improvvisato, carico di un lirismo struggente. Non è ancora un tema definito, ma piuttosto la voce del narratore che inizia a rievocare il passato. La dinamica è estremamente contenuta e il suono del violino, sottile e vulnerabile, sembra fluttuare sopra il tappeto armonico del quartetto, come un pensiero che emerge lentamente dalla nebbia della memoria.
Successivamente, la melodia del violino si cristallizza in un tema principale, cantabile e appassionato: la melodia è ampia, romantica, caratterizzata da un intenso vibrato e da un uso sapiente del rubato, che le conferisce un respiro quasi umano. Il quartetto assume un ruolo più dialogico, ora sostenendo, ora rispondendo alle frasi del solista con frammenti contrappuntistici, creando un tessuto sonoro denso e avvolgente.
La natura ciclica della memoria porta a un cambiamento di umore: il carattere si fa più inquieto e il tempo leggermente più mosso. Il violino abbandona il lirismo cantabile per lanciarsi in passaggi tecnicamente più ardui: arpeggi veloci, scale cromatiche e un’esplorazione di tutta la tessitura dello strumento. Questa sezione sembra rappresentare un ricordo più vivido, forse più doloroso o tormentato, che irrompe con forza.
La scrittura si fa più frammentata e febbrile: il quartetto accompagna con accordi sincopati e passaggi in pizzicato che aumentano la tensione ritmica. L’apice di questa sezione si ha con un culmine di grande potenza espressiva, dove il violino si lancia in un passaggio virtuosistico nel registro più acuto, sostenuto da un fortissimo di tutto l’ensemble. È il momento di massima intensità emotiva del brano, il ricordo che brucia prima di affievolirsi.
La musica si placa: segue una sezione che funge da cadenza per il violino solista. Qui il virtuosismo è completamente al servizio dell’introspezione. Il solista, quasi senza accompagnamento, riesplora i frammenti tematici precedenti in una sorta di monologo interiore. Ysaÿe impiega armonici ed effetti di eco per creare un senso di solitudine e riflessione profonda.
Segue il quartetto che reintroduce l’atmosfera nebbiosa dell’inizio, preparando la ripresa del tema principale. Quando il tema ricompare nel violino solista, è trasfigurato: ha perso la passione ardente della sua prima esposizione ed è ora tinto di una rassegnazione dolce e dolente. È lo stesso ricordo, ma visto con la saggezza e la distanza del tempo. La passione si è trasformata in una serena nostalgia.
La conclusione del pezzo è un lento e progressivo dissolvimento: il tempo rallenta ulteriormente e la dinamica si riduce a un impercettibile pianissimo. Il violino solista sale verso il registro sovracuto, utilizzando eterei flautati (armonici artificiali) che rendono il suono spettrale, quasi smaterializzato. È l’immagine sonora perfetta della neve che si scioglie e svanisce o del ricordo che si dissolve nell’oblio. Il quartetto sostiene questo congedo con accordi lunghi e immobili che si estinguono lentamente nel silenzio. L’ultima nota del violino, un armonico fragile e altissimo, rimane sospesa per un istante prima di scomparire del tutto, lasciando l’ascoltatore in uno stato di contemplazione malinconica.

Nel complesso, Les neiges d’antan! è un gioiello di scrittura idiomatica per il violino, in cui la tecnica virtuosistica non è mai fine a sé stessa ma è strumento per un’indagine psicologica di rara profondità. L’opera segue un percorso narrativo chiaro – evocazione, passione, tormento, riflessione e dissolvenza – che rispecchia fedelmente il ciclo agrodolce del ricordo.

Isaye, op. 23

Imago Mundi

George Rochberg (5 luglio 1918 - 2005): Imago Mundi per orchestra (1973). Deutsche Radio Philharmonie Saarbrücken Kaiserslautern, dir. Christopher Lyndon-Gee.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

George Rochberg: oltre il serialismo, il ritorno all’emozione

George Rochberg è stato una delle figure più significative e controverse della musica classica contemporanea americana. La sua carriera è definita da una profonda frattura stilistica, un abbandono radicale delle avanguardie seriali in favore di un linguaggio che recupera la tonalità e la potenza espressiva del passato, una scelta innescata da una tragedia personale che ha ridefinito il suo intero approccio all’arte.

Biografia e carriera accademica
Nato nel New Jersey, Rochberg ricevette una formazione musicale di altissimo livello, studiando prima al Mannes College of Music con George Szell e altri, e poi al Curtis Institute of Music con Rosario Scalero e Gian Carlo Menotti. Dopo aver servito nell’esercito durante la seconda guerra mondiale, intraprese una brillante carriera accademica presso l’Università della Pennsylvania, dove ricoprì il ruolo di direttore del dipartimento di musica fino al 1968 e continuò a insegnare fino al 1983, diventando nel 1978 il primo Annenberg Professor of the Humanities. La sua vita privata fu segnata da un evento devastante: la morte del figlio adolescente Paul nel 1964 a causa di un tumore al cervello. Questo lutto profondo divenne il catalizzatore della sua rivoluzione artistica.

La svolta stilistica: dall’atonalità al recupero della tonalità
Per molti anni, Rochberg fu un convinto sostenitore e praticante del serialismo. Tuttavia, di fronte al dolore per la perdita del figlio, trovò questo linguaggio arido, intellettualistico e del tutto inadeguato a esprimere la rabbia e la sofferenza che provava. Lo definì «vuoto di potere espressivo», un guscio sterile incapace di contenere la complessità dell’emozione umana. A partire dagli anni ’70, Rochberg iniziò a reintrodurre nelle proprie composizioni passaggi tonali, citazioni e stili del passato, provocando un acceso dibattito nel mondo accademico e tra i critici. Paragonava l’atonalità all’arte astratta e la tonalità all’arte concreta, vedendo nella tensione tra astrazione e concretezza una questione fondamentale, simile a quella affrontata dal pittore Philip Guston nel suo ritorno alla figurazione. Questa coraggiosa inversione di rotta gli valse l’etichetta di compositore “neoromantico” e rappresentante di un “postmodernismo neoconservatore”.

Opere principali e stilemi
Il percorso di Rochberg è chiaramente leggibile nelle sue opere:
– il periodo seriale: la Sinfonia n. 2 (1955-56) è considerata uno dei più riusciti esempi di composizione seriale di un autore americano, a testimonianza della piena padronanza della tecnica che avrebbe poi abbandonato;
– il periodo della svolta: è conosciuto soprattutto per i suoi Quartetti per archi n. 3-6 (1972-78); il Quartetto n. 3 fu l’opera che rese famosa la sua nuova estetica, includendo un movimento di variazioni nello stile del tardo Beethoven e passaggi che evocano la musica di Gustav Mahler. I Quartetti n. 4, 5 e 6 – noti come i Concord Quartets – furono concepiti come un unico ciclo e contengono riferimenti ancora più espliciti, come le variazioni sul celebre Canone in re di Pachelbel nel Sesto Quartetto;
– la tecnica del collage: alcune opere di Rochberg, come Contra Mortem et Tempus, sono veri e propri collage musicali che giustappongono citazioni di compositori diversissimi tra loro, come Pierre Boulez, Luciano Berio, Edgard Varèse e Charles Ives.

Eredità e influenza
La decisione di Rochberg di rompere con l’ortodossia serialista ebbe un impatto liberatorio su intere generazioni di giovani compositori. Come affermò il musicista James Freeman, la sua mossa dimostrò che non era più obbligatorio aderire a un unico stile dogmatico. L’esempio di Rochberg sancì una nuova libertà creativa: la possibilità di attingere a qualsiasi linguaggio, dal serialismo al contrappunto barocco, dal romanticismo brahmsiano alla dissonanza modernista, scegliendo gli strumenti espressivi più adatti al proprio messaggio.

L’attività di scrittore
Oltre alla composizione, Rochberg fu un acuto pensatore e saggista, che rifletté a lungo sulla sua evoluzione artistica. Raccolse i propri scritti nel volume The Aesthetics of Survival (1984), la cui edizione rivista e ampliata vinse un prestigioso premio. La sua visione della musica e dell’arte è ulteriormente documentata dalla sua corrispondenza con il compositore István Anhalt e dal suo libro di memorie postumo, Five Lines, Four Spaces (2009).

Imago Mundi: analisi
Imago Mundi è una delle opere più rappresentative e potenti del periodo maturo del musicista statunitense, quello successivo al traumatico abbandono del serialismo. L’opera è un manifesto della filosofia di Rochberg: l’arte non deve essere prigioniera di un unico sistema, ma deve attingere liberamente a ogni risorsa espressiva — dalla dissonanza più aspra alla melodia più semplice — per rappresentare la totalità dell’esperienza umana.

Il brano emerge letteralmente dal nulla, da un “vuoto sonoro”. L’inizio è caratterizzato da armonici acutissimi e quasi impercettibili degli archi, che creano uno spazio sonoro rarefatto, immobile e primordiale. È un’atmosfera di attesa, quasi di genesi cosmica. Da questo silenzio vibrante, emerge il nucleo tematico dell’intera composizione: una semplice e fragile cellula melodica affidata a un flauto solista. Questa melodia è di una semplicità disarmante, quasi tonale e diatonica e rappresenta un principio di ordine, un primo barlume di vita o coscienza in un universo vuoto. Lentamente, altri strumenti a fiato riprendono questa cellula, variandola leggermente, come echi che si diffondono nello spazio. Il tessuto orchestrale si infittisce in modo quasi impercettibile: rulli sommessi di percussioni aggiungono una profondità oscura, mentre gli archi iniziano a muoversi con maggiore densità. La musica cresce non attraverso un crescendo lineare, ma per accumulo di strati, creando un’onda di tensione lenta e inesorabile. È l’immagine di un mondo che prende forma, con le sue complessità e le sue prime, latenti tensioni.
La fragile cellula melodica iniziale viene poi inghiottita dalla massa orchestrale, venendo frammentata, distorta, urlata da diverse sezioni dell’orchestra, in particolare dagli ottoni. Quella che era un’idea pura e semplice diventa il catalizzatore di un conflitto titanico. Segue un climax devastante che ricorda le sezioni più apocalittiche delle sinfonie di Mahler (un’influenza chiave per Rochberg) ma con una violenza armonica moderna. Le caratteristiche sonore di questa sezione sono:
– masse sonore dissonanti: gli archi creano muri di suono compatti e stridenti, utilizzando cluster, glissandi e tremoli furiosi. L’armonia è densa e quasi impenetrabile;
– ottoni potentissimi: trombe e tromboni emergono con fanfare brutali e angosciose, spesso in registri acutissimi, che lacerano il tessuto orchestrale;
– percussioni martellanti: timpani, piatti, grancassa e tam-tam sono usati con violenza inaudita, creando un senso di catastrofe imminente e di caos primordiale.
Questa non è atonalità fine a sé stessa, ma è un’esplosione di pura espressività. È facile leggere in questa tempesta sonora il “dolore e la rabbia” che Rochberg non riusciva a canalizzare attraverso il serialismo. È l’urlo di un’umanità travolta da forze incontrollabili, l’immagine di un mondo che si disintegra sotto il peso delle proprie contraddizioni.
Così come era iniziata, la tempesta cessa quasi all’improvviso. Segue una lunga sezione di dissoluzione, le “rovine” del mondo dopo il cataclisma. La musica si frammenta in lunghi silenzi, interrotti da voci solistiche che emergono dalle ceneri: un flauto, un oboe, un clarinetto ripropongono frammenti della melodia iniziale, ma ora suonano stanchi, desolati, come voci di sopravvissuti in un paesaggio devastato. Il loro carattere non è più ingenuo, ma carico del peso dell’esperienza passata. Lentamente, riaffiorano gli elementi della genesi: gli armonici acuti degli archi e i rintocchi sommessi e risonanti del tam-tam. Verso la fine, strumenti come la celesta e il Glockenspiel introducono un timbro cristallino e celestiale. La melodia originale appare un’ultima volta, ma ora è trasfigurata, eterea, come se avesse raggiunto uno stato di trascendenza o di pace cosmica. Il brano si conclude spegnendosi nel silenzio da cui era nato. Il ciclo di creazione, distruzione e rinascita si è compiuto, lasciando l’ascoltatore in uno stato di sospensione contemplativa.

Nel complesso, Imago Mundi è un poema sinfonico che narra una parabola universale attraverso il suono. Rochberg utilizza l’intera tavolozza orchestrale e un linguaggio che spazia dalla melodia più elementare alla dissonanza più violenta per creare un’opera di straordinaria potenza emotiva e drammatica. È la perfetta incarnazione della sua estetica “neoromantica” e postmoderna: una musica che non teme di essere grandiosa, terribile e, infine, profondamente umana, dipingendo non solo un’”immagine del mondo”, ma una mappa dell’animo umano stesso.

La maschera della Morte rossa

André Caplet (1878 - 22 aprile 1925): Étude symphonique «le Masque de la Mort Rouge» per arpa e orchestra (1909), ispirato dal racconto The Masque of the Red Death (1842) di Edgar A. Poe. Frédérique Cambreling, arpa; Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo, dir. Georges Prêtre.

Épiphanie

André Caplet (1878 - 22 aprile 1925): Épiphanie, affresco musicale per violoncello e orchestra, da una leggenda etiope (1900). Xavier Phillips, violoncello; Bayerische Kammerphilharmonie, dir. Emmanuel Plasson.
Consta di tre sezioni che si succedono senza soluzione di continuità:
Cortège – Cadence [9:31] – Danse des petits nègres [13:53].

Shahrazād

Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov (18 marzo 1844 - 1908): Shahrazād (Шехерезада), suite sinfonica op. 35 (1888). Radio Filharmonisch Orkest, dir. Vasilij Petrenko.

  1. Il mare e la nave di Sindbad
  2. Il racconto del principe Kalender [9:45]
  3. Il giovane principe e la giovane principessa [21:35]
  4. Festa a Baghdād – Il mare – Naufragio della nave sulle rocce sormontate da un guerriero di bronzo [31:53]

Come disse una volta il prof. Basso, nessuno è bravo quanto i compositori russi a raccontar fiabe in musica. Da Glinka a Čajkovskij a Prokof’ev, le favole musicali più avvincenti e colorite sono nate sulle rive del Don, della Volga e della Neva. A Rimskij-Korsakov dobbiamo una vasta antologia di miti, leggende e racconti della nonna, russi e no, narrati con vivida fantasia, impreziositi da una vena melodica che pare inesauribile e da una rara maestria nella difficile arte dell’orchestrazione.

Detto questo, se vi è piaciuta Shahrazād nell’interpretazione del Radio Filharmonisch Orkest non potrete non apprezzare la versione dei fantastici Melodica Men 🙂

NARK (Serov)

Trascrizioni: Liszt & Liszt

Franz Liszt (1811-1886): Les Préludes, poema sinfonico n. 3 S 97 (1848-54), da Alphonse de Lamartine. Deutsches Symphonie-Orchester Berlin, dir. Ferenc Fricsay.

Il testo di Lamartine che ha ispirato Liszt:
http://www.poetes.com/lamartine/preludes.htm


Lo stesso brano nella trascrizione (di Liszt) per due pianoforti S 638. Tami Kanazawa & Yuval Admony.

S 97

Nel vento d’estate

Anton Webern (3 dicembre1883 - 1945): Im Sommerwind, idillio per grande orchestra (1904) ispirato dal poemetto omonimo di Bruno Wille. Berliner Philharmoniker, dir. Pierre Boulez.

Bruno Wille (1860 - 1928): Im Sommerwind, da Offenbarungen des Wacholderbaums, Roman eines Allsehers, 2 voll. (1901); riporto solo le parti prese in considerazione da Webern:

Es wogt die laue Sommerluft.
Wacholderbüsche, Brombeerranken
Und Adlerfarne nicken, wanken.
Die struppigen Kiefernhäupter schwanken;
Rehbraune Äste knarren;
Von ihren zarten, schlanken,
Lichtgrünen Schossen stäubt
Der harzige Duft;
Und die weiche Luft
Wallt hin wie betäubt.

Auf einmal tut sich lächelnd auf
Die freie sonnige Welt:
Weithin blendendes Himmelblau;
Weithin heitre Wolken zu Hauf;
Weithin wogendes Ährenfeld
Und grüne, grüne Auen…
[…]

O du sausender brausender Wogewind!
Wie Freiheitsjubel, wie Orgelchor
Umrauschest du mein durstiges Ohr;
[…]

Da wird mir leicht, so federleicht!
Die dumpfi g alte Beklemmung weicht;
All meine Unrast, alle wirren
Gedanken sind im Lerchengirren –
Im süßen Jubelmeer ertrunken!
Versunken
Die Stadt mit Staub und wüstem Schwindel!
Ertrunken
das lästige Menschengesindel!
Begraben der Unrat, tief versenkt
Hinter blauendem Hügel.
[…]

Weißt du, sinnende Seele,
Was selig macht?
Unendliche Ruhe!
[…]

Im Lerchenliede,
In Windeswogen,
In Ährenwogen!
Unendliche Ruhe
Am umfassenden Himmelsbogen!

Im Sommerwind

Nell’Asia centrale

Aleksandr Porfir’evič Borodin (12 novembre 1833 - 1887): В средней Азии (Nell’Asia cen­tra­le), quadro sinfonico (1880). Orchestre de la Suisse Romande, dir. Ernest Ansermet.

Oggi il brano è noto con il titolo Nelle steppe dell’Asia centrale, scelto da qualcuno cui evi­dentemente l’originale non sem­brava abbastanza esotico; noi che amiamo la filo­logia, non esclusa quella musicale, preferiremo sempre e comunque le scelte degli autori.
La composizione intende raffigurare musicalmente l’incedere di una carovana di asiatici attraverso una zona desertica nella regione del Caucaso; il viaggio si svolge sotto la protezione di un drappello di cavalleria russo. Il brano è strutturato su due temi principali, di carattere contrastante: uno, ampio e luminoso, rappresenta i soldati russi e viene enunciato subito all’inizio, prima dal clarinetto [0:09] e poi dal corno [0:25]; l’altro tema, sinuoso, orientaleggiante, ritrae i carovanieri asiatici e viene introdotto dal corno inglese [1:02]. Vi sono inoltre due elementi secondari: il pedale (nota prolungata) acuto dei violini, che rappresenta l’immutabile vastità del deserto; e un motivo eseguito dagli archi in pizzicato, che dà il senso del passo regolare e ininterrotto dei cavalli e dei cammelli [0:41]. L’orchestra riprende il tema russo [2:05] e poi quello asiatico [3:32], infine i due temi risuonano insieme [4:25] in magnifico contrappunto doppio (ciascun tema può essere indifferentemente il più acuto o il più grave), prima della coda finale [5:15], nella quale il tema russo è trattato a canone.

Borodin si autodefiniva un «compositore della domenica»: in effetti la sua principale attività era quella di medico e chimico. Aveva studiato all’Accademia medico-chirurgica di San Pietroburgo e si era laureato nel 1856 con una tesi intitolata Sull’analogia dell’acido arsenico con il fosfatico nella loro azione sull’organismo umano; nello stesso anno entrò in servizio quale assistente medico presso il II Ospedale militare di fanteria. In seguito, dopo una serie di viaggi di studio all’estero (fu anche a Pisa, dove ebbe modo di approfondire le proprie ricerche con Paolo Tassinari), venne nominato professore aggiunto presso l’Accademia medico-chirurgica, dove fra l’altro, a partire dal 1872, organizzò i primi corsi superiori per studentesse di medicina, fornendo anche aiuti finanziari alle allieve meno abbienti. Tutti questi impegni non gli impedirono di coltivare una profonda passione per la musica, che lo portò a scrivere alcune delle più belle pagine operistiche e sinfoniche dell’Ottocento russo.

Una Sinfonia delle Alpi

Richard Strauss (1864 - 8 settembre 1949): Eine Alpensinfonie, poema sinfonico op. 64 (1915). Berliner Phil­harmoniker, dir. Herbert von Karajan (registrazione del 1980).

  1. Nacht (Notte)
  2. Sonnenaufgang (Il sorgere del sole) [2:57]
  3. Der Anstieg (L’ascesa) [4:31]
  4. Eintritt in den Wald (Ingresso nella foresta) [6:49]
  5. Wanderung neben dem Bache (Passeggiata presso il ruscello) [11:38]
  6. Am Wasserfall (Alla cascata) [12:23]
  7. Erscheinung (Apparizione) [12:41]
  8. Auf blumigen Wiesen (Nei prati in fiore) [13:32]
  9. Auf der Alm (All’alpeggio) [14:29]
  10. Durch Dickicht und Gestrüpp auf Irrwegen (Tra fogliame e rovi dopo aver sbagliato strada) [16:34]
  11. Auf dem Gletscher (Sul ghiacciaio) [18:08]
  12. Gefahrvolle Augenblicke (Momenti di pericolo) [19:33]
  13. Auf dem Gipfel (Sulla vetta) [20:53]
  14. Vision (Visione) [25:25]
  15. Nebel steigen auf (Sale la nebbia) [29:05]
  16. Die Sonne verdüstert sich allmählich (Il sole si oscura a poco a poco) [29:22]
  17. Elegie (Elegia) [30:11]
  18. Stille vor dem Sturm (Calma prima della tempesta) [32:49]
  19. Gewitter und Sturm, Abstieg (Bufera e tempesta, discesa) [35:30]
  20. Sonnenuntergang (Tramonto) [39:30]
  21. Ausklang (Epilogo) [42:12]
  22. Nacht (Notte) [48:14]

Jakub Hrůša
Karajan 1
Karajan 2
Haitink

Sulle copertine dei dischi dell’Alpensinfonie è sovente raffigurato il Cervino, ma l’a­scen­sione musicalmente descritta da Strauss si svolge sulle Alpi Bavaresi — pro­ba­bil­men­te nel massiccio della Zugspitze (2962 m) che sovrasta Garmisch, dove il com­po­si­tore trascorse gli ultimi anni.

Max Wolfinger: Zug-Spitz am Eib-See, 1864.

Sette pianeti

Gustav Holst (1874 - 25 maggio 1934): The Planets, suite per orchestra (1914-16). Royal Liverpool Philharmonic Orchestra & Chorus, dir. sir Charles Mackerras.

  1. Mars, the Bringer of War
  2. Venus, the Bringer of Peace
  3. Mercury, the Winged Messenger
  4. Jupiter, the Bringer of Jollity
  5. Saturn, the Bringer of Old Age
  6. Uranus, the Magician
  7. Neptune, the Mystic

Non è astronomia, è astrologia più mitologia 😉
Quale dei sette pianeti di Holst è il vostro preferito?

GH

Il regno incantato

Nikolaj Nikolaevič Čerepnin (15 maggio 1873 - 1945): Il regno incantato (Зачарованное царство), schizzo sinfonico op. 39 (1904), ispirato dall’antica fiaba russa L’uccello di fuoco e il principe Ivan. Orchestra sinfonica accademica di San Pietroburgo, dir. Viktor Fedotov.

La strega di mezzodì

Antonín Dvořák (1841 - 1° maggio 1904): Polednice (La strega di mezzodì), poema sinfonico op. 108, B 196 (1896), ispirato dall’omonima poesia di Karel Erben. Česká filharmonie, dir. Václav Talich.

U lavice dítě stálo,
z plna hrdla křičelo.
„Bodejž jsi jen trochu málo,
ty cikáně, mlčelo!

Poledne v tom okamžení,
táta přijde z roboty:
a mně hasne u vaření
pro tebe, ty zlobo, ty!

Mlč, hle husar a kočárek –
hrej si – tu máš kohouta!“ –
Než kohout, vůz i husárek
bouch, bác! letí do kouta.

A zas do hrozného křiku –
„I bodejž tě sršeň sám! –
že na tebe, nezvedníku,
polednici zavolám!

Pojď si proň, ty polednice,
pojď, vem si ho, zlostníka!“
A hle, tu kdos u světnice
dvéře zlehka odmyká.

Malá, hnědá, tváři divé
pod plachetkou osoba;
o berličce, hnáty křivé,
hlas – vichřice podoba!

„Dej sem dítě!“ – „Kriste Pane,
odpusť hříchy hříšnici!“
Div že smrt jí neovane,
ejhle tuť – polednici!

Ke stolu se plíží tiše
polednice jako stín:
matka hrůzou sotva dýše,
dítě chopíc na svůj klín.

A vinouc je, zpět pohlíží –
běda, běda dítěti!
Polednice blíž se plíží,
blíž – a již je v zápětí.

Již vztahuje po něm ruku –
matka tisknouc ramena:
„Pro Kristovu drahou muku!“
klesá smyslů zbavena.

Tu slyš: jedna – druhá – třetí –
poledne zvon udeří;
klika cvakla, dvéře letí –
táta vchází do dveří.

Ve mdlobách tu matka leží,
k ňadrám dítě přimknuté;
matku vzkřísil ještě stěží,
avšak dítě – zalknuté.

Karel Erben          

 

Vicino al banco il bambino
urlava a squarciagola.
„Smettila una buona volta,
almeno un’ora sola!

Tra poco è mezzogiorno,
papà ritorna ed io
non riesco a cucinare,
sei un castigo di Dio!

Zitto! hai i soldatini –
Gioca! – qui hai il galletto!“
ma ciò che ha sottomano,
getta via con dispetto.

La madre allora esclama:
„Che strazio, basta così!
Adesso ti porterà via
la strega di mezzodì!

Vieni a prenderlo, o strega,
portalo via lontano!“
Ed ecco che nella stanza
la porta s’apre pian piano.

Un fazzoletto in testa,
bassa e di pelle scura,
Le gambe storte e la gruccia –
entra questa figura!

„Dammi il bambino!“ – „O Cristo!
Grazia una peccatrice!“
La morte è già nell’aria
e la strega è felice.

La strega come un’ombra
è sempre più vicino;
la madre, terrorizzata,
afferra il suo bambino.

Lo stringe a sé, indietreggia –
oh, guai al bambino, guai!
La strega è vicina al bimbo,
quasi lo tocca ormai.

Già allunga la sua mano,
stringe le braccia la madre:
„Per la passione di Cristo!“ –
grida ma sviene e cade.

Ora suona la campana
la dodicesima volta,
la maniglia ha cigolato,
il padre varca la porta.

La madre giace svenuta,
il bimbo al petto è serrato:
la madre riprende i sensi,
ma il bimbo – è soffocato.

traduzione di Paolo Statuti          

Andrea del Sarto

Daniel-Jean-Yves Lesur detto Daniel-Lesur (19 novembre 1908 - 2002): Andrea del Sarto, poema sinfonico (1949). Orchestre philharmonique du Luxembourg, dir. Louis de Froment.
Al pittore fiorentino Daniel-Lesur dedicò altre composizioni: musiche di scena (1947) per il dramma di Alfred de Musset, e un’opera in 2 atti (1961-68, rappresentata all’Opéra di Marsiglia il 24 gennaio 1969); ecco un riassunto del libretto:
Atto I: Cordiani, allievo e amico di Andrea del Sarto, ama la moglie del pittore, Lucrezia; uscendo dalla stanza di lei, egli viene sorpreso ma non riconosciuto dal custode Grémio, il quale in seguito avverte Andrea dell’accaduto. Lucrezia si prepara a fuggire con Cordiani, ma sopraggiungono prima Andrea e poi i suoi allievi, i quali portano la notizia dell’assassinio di Grémio: si organizzano le ricerche del colpevole, e in breve Cordiani viene smascherato dal pittore. Atto II: Andrea invita Cordiani a lasciare l’Italia, rinunciando a perseguirlo. Quando la cameriera di Lucrezia gli rivela di aver trovato Cordiani nella camera della donna, Andrea sfida l’amico a duello e lo ferisce; ma Lucrezia intende ugualmente partire con l’amante: Andrea decide perciò di darsi la morte e s’avvelena.

Icaro – un titolo per far volare la fantasia

Lera Auėrbach (21 ottobre 1973): Icarus, poema sinfonico (2006). The National Youth Orchestra of Great Britain, dir. Mark Wigglesworth.

« The title Icarus was given to this work after it was written. All my music is abstract, but by giving evocative titles I invite the listener to feel free to imagine, to access his own memories, associations. Icarus is what came to my mind, listening to this work at that time. Each time I hear the piece — it is different. What is important to me is that it connects to you, the listener, in the most individual and direct way, that this music disturbs you, moves you, soars with you, stays with you. You don’t need to understand how or why — just allow the music to take you wherever it takes you. It is permissible to daydream while listening or to remember your own past. It is fine not to have any images at all, but simply experience the sound » (Lera Auėrbach).

VLA

Shakespeariana – XXIII

Romeo & Juliet & Romeo & Juliet

Pyotr Ilyich Tchaikovsky (1840 - 1893): Romeo and Juliet, overture-fantasy in B minor for orchestra, after Shakespeare’s tragedy, 1st version (1869). London Symphony Orchestra; Geoffrey Simon, conductor.


Tchaikovsky: Romeo and Juliet, definitive version (1880). London Symphony Orchestra; Valerij Gergiev, conductor.

This piece has no opus number: the reason is that Tchaikovsky honestly did not want to claim full authorship, since main themes and some elements of the structure were suggested to him by Mily Balakirev.

La Chasse fantastique

Ernest Guiraud (26 giugno 1837 - 1892): La Chasse fantastique, poema sinfonico (1887) ispirato dalla Légende du beau Pécopin et de la belle Bauldour (1842) di Victor Hugo. Louisville Orchestra, dir. Jorge Mester.

La composizione segue fedelmente la descrizione della caccia nel racconto di Hugo, un passo del quale è citato da Guiraud in esergo sulla partitura:

« Al suono del corno, la foresta s’illumina, nei recessi più remoti, di mille luci straordinarie, di ombre che passano nella boscaglia, di voci lontane che gridano: a caccia! La muta abbaia, i cavalli nitriscono, gli alberi fremono come scossi dal vento. »