Il rondeau del calumet

Jean-Philippe Rameau (25 settembre 1683 - 1764): Rondeau des sauvages (« Forêts paisibles »), dall’ultimo atto dell’opéra-ballet Les Indes galantes (1735). Patricia Petibon, soprano (Zima); Nicolas Rivenq, baritono (Adario); Les Arts Florissants, dir. William Christie.


Lo stesso brano eseguito alla bersagliera, in concerto, dai Musiciens du Louvre diretti da Marc Minkowski, con i cantanti Magali Léger e Laurent Naouri.

Zima, Adario :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Zima, Adario :

Dans nos retraites, dans nos retraites,
Grandeur, ne viens jamais
Offrir tes faux attraits!
Ciel, ciel, tu les as faites,
Pour l’innocence et pour la paix.

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Zima, Adario :

Jouissons dans nos asiles,
Jouissons des biens tranquilles!
Ah! peut-on être heureux,
Quand on forme d’autres vœux?

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.


Rameau: Les Sauvages, rondeau (dalla raccolta Nouvelles suites de pièces de clavecin, 1727). Grigorij Sokolov, pianoforte.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Il Rondeau des sauvages è uno dei numeri più celebri e iconici dell’«opéra-ballet» Les Indes galantes di Jean-Philippe Rameau, composto nel 1735. Inserito nell’atto IV, «Les Sauvages d’Amerique», ambientato nell’America del Nord, il brano incarna l’immaginario europeo dell’epoca riguardo ai “selvaggi” del Nuovo Mondo, combinando fascino esotico, ingenuità e una profonda connessione con la natura.
La musica si apre con un ritmo vigoroso e pulsante scandito dal tamburo: è una sonorità primaria, quasi tribale, che cattura immediatamente l’attenzione. Man mano che altri strumenti si uniscono si delinea una melodia vivace e sincopata in tonalità maggiore, che evoca un senso di festa e vitalità. Questo primo ritornello strumentale, con la sua melodia orecchiabile e il ritmo incalzante, stabilisce il carattere gioioso e selvaggio del pezzo. La musica, pur ripetendosi, introduce successivamente leggere variazioni orchestrali o dinamiche che mantengono l’interesse, culminando in un crescendo.
Successivamente, l’accompagnamento musicale si fa più sottile per lasciare spazio al canto. Le voci soliste, ricche e vibranti, portano in primo piano il messaggio di Rameau: la celebrazione della pace e dell’innocenza delle “foreste pacifiche”, dove i cuori non sono turbati da desideri vani e la felicità non dipende dalle ricchezze o dai favori della fortuna. Si unisce poi il coro dei selvaggi, amplificando il messaggio con un coro potente e armonioso.
Il tema del rondeau si ripresenta diverse volte, alternando i solisti con il coro, creando un’onda di suono e movimento che alterna momenti di intimità a esplosioni corali. La parte lirica, spesso accompagnata da movimenti più morbidi e ondeggianti, sottolinea ulteriormente il contrasto tra la purezza della vita dei sauvages e la corruzione del mondo civilizzato, un tropo tipico dell’Illuminismo. I solisti cantano con un’espressività crescente, mentre il coro li supporta, riempiendo la scena con la loro presenza vocale e coreografica.
Il brano si conclude con la ripresa da parte dell’intero ensemble del tema principale del rondeau, con un’energia crescente e un senso di trionfo gioioso.
Nel complesso, il pezzo è un esempio magistrale della capacità di Rameau di fondere musica e dramma. L’uso di ritmi vivaci e melodie accattivanti crea un’atmosfera di “esotismo” che era molto di moda all’epoca, mentre la giustapposizione delle sezioni strumentali danzate con quelle vocali cantate dai solisti e dal coro contribuisce a creare un opéra-ballet dinamico e visivamente ricco.

Composto come parte delle Nouvelles Suites de pièces de clavecin del 1727, Les Sauvages è un rondeau che cattura l’immaginazione con il suo carattere vivace, quasi esotico, ispirato ai “selvaggi” che Rameau vide esibirsi a Parigi. La forma del rondeau è chiaramente delineata, con un refrain ricorrente che incornicia episodi (couplets) contrastanti.
Il brano si apre con l’energico ritornello, stabilendo il carattere incisivo e “selvaggio” suggerito il titolo. La melodia è caratterizzata da figure arpeggiate ascendenti e discendenti rapide, spesso seguite da passaggi scalari virtuosistici e agili abbellimenti. Il compositore utilizza abbondantemente sincopi che conferiscono un impulso ritmico propulsivo e un senso di “sfida” o vivacità quasi selvaggia. La mano destra esegue la linea melodica principale con notevole chiarezza e leggerezza, mentre la mano sinistra fornisce un accompagnamento armonico e ritmico robusto, ma non invadente.
L’articolazione è prevalentemente staccata e nitida, specialmente nelle rapide semicrome, contribuendo alla brillantezza del suono. Ci sono anche brevi frasi legate che offrono un leggero contrasto, mentre la dinamica si mantiene su un mezzo forte generale, con lievi crescendo su passaggi ascendenti e diminuendo verso le cadenze, evidenziando la struttura fraseologica.
L’armonia è saldamente ancorata alla tonalità di impianto (sol minore), con progressioni diatoniche chiare e l’uso efficace di dominanti che rafforzano il centro tonale. La ripetizione della sezione ribadisce il tema principale con la stessa energia e precisione.
Dopo la ripetizione del refrain, il primo couplet introduce un marcato contrasto, sia timbrico che espressivo.
La tonalità si sposta verso la dominante (re maggiore) e la melodia si fa più lirica e meno angolare, con un andamento più scorrevole e legato. Sebbene mantenga la base ritmica generale, le sincopi aggressive del refrain sono attenuate, sostituite da un flusso più continuo di semicrome. La mano sinistra assume un ruolo più melodico e contrappuntistico in alcuni passaggi, creando un dialogo tra le due mani.
L’articolazione diventa più legata, con un suono più morbido e cantabile. La dinamica si sposta verso un mezzo piano che enfatizza il carattere più intimo e quasi meditativo di questa sezione, pur mantenendo un’eleganza intrinseca. Le progressioni armoniche sono fluide e contribuiscono alla sensazione di apertura e lirismo, portando dolcemente alla preparazione per il ritorno del refrain.
Viene ripreso il tema principale, ripristinando l’energia e il carattere “selvaggio” iniziale, per poi introdurre un nuovo contrasto con il secondo couplet, questa volta con una sfumatura più profonda e forse più drammatica.
La tonalità sembra modulare verso la sottodominante (do) o addirittura verso regioni minori prima di tornare alla tonalità principale. La melodia è ora più elaborata e a volte più “corposa”, con un maggior uso di accordi e passaggi che richiedono una maggiore pienezza di suono. Il ritmo rimane sostenuto, ma le figure sono spesso più complesse e intrecciate, quasi a creare un dialogo serrato tra le voci. Si notano passaggi che sembrano quasi delle scale discendenti o ascendenti in blocchi di accordi, dando un senso di grandezza.
L’articolazione è ancora precisa, ma con una tendenza a un legato più pronunciato in alcune frasi, permettendo al suono di sostenersi. Viene esplorata una gamma dinamica leggermente più ampia, con momenti di maggiore intensità (forte) che poi si risolvono in diminuendo prima del ritorno finale del refrain. Le progressioni armoniche si fanno più avventurose e creano una tensione che si risolve elegantemente nel ritorno del tema principale.
Il brano si conclude con l’ultima riaffermazione del refrain, seguito da una coda concisa, con una chiara cadenza nella tonalità principale, che termina su un accordo risonante, lasciando un senso di completezza e vivacità duratura.

Qu’est-ce?

Clément Janequin (c1485 - 1558): Qu’est-ce d’amour, chanson a 4 voci (pubblicata in 24 Chansons musicales à quatre parties composées par maistre Janequin, 1533, n. 6) su testo di Francesco I di Valois re di Francia. Ensemble «Clément Janequin».

Qu’est-ce d’amour comment le peult on paindre?
Si c’est ung feu dont l’on oyt chacun plaindre,
Dont vient le froit qui amortist ung cueur?
Si c’est froideur qui cause la chaleur
Dont toute l’eau ne peult jamais estraindre?
S’il est si doux par quoy n’est doncques moindre
L’amertume? S’il est amer sans faindre
Aprenez moy dont vient ceste doulceur.
Qu’est-ce?



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Clément Janequin: il genio errante del suono

Clément Janequin è stato uno dei più prolifici e innovativi compositori francesi del Rinascimento, la cui fama è legata indissolubilmente alle sue vivaci e descrittive chansons polifoniche. Già molto celebre ai suoi tempi, ebbe tuttavia una carriera atipica, segnata da lunghi periodi di silenzio documentario e da un percorso errante tra varie città francesi, senza mai ottenere quella posizione stabile presso la corte reale che la sua notorietà avrebbe potuto garantirgli.

Una carriera itinerante e misteriosa
La vita di Janequin si snoda attraverso diverse tappe geografiche, con lunghe parentesi enigmatiche che ancora oggi lasciano spazio a ipotesi. Nato a Châtellerault da una famiglia agiata, ricevette probabilmente la prima formazione musicale presso la locale chiesa collegiata. Le prime tracce concrete della sua carriera lo collocano nel 1505 come chierico al servizio di Lancelot du Fau, un’importante figura di ecclesiastico. Già nel 1507, lo troviamo maestro dei coristi presso la Cattedrale di Luçon, dove però la sua permanenza fu turbolenta: accusato di condotta immorale, fu scomunicato, imprigionato per un breve periodo e privato del suo incarico, eventi che lo portarono a fare appello al Parlamento di Parigi.
Tra il 1507 e il 1525 si registra un vuoto biografico di diciotto anni. Paradossalmente, è durante questo periodo oscuro che la sua fama esplode: compone la sua celebre chanson La Guerre, che fa riferimento alla battaglia di Marignano (1515), e le sue opere iniziano a circolare, tanto da essere pubblicate a Venezia già nel 1520 e da meritare un intero volume dall’editore parigino Pierre Attaingnant nel 1528. Lo ritroviamo nel 1525 al servizio dell’arcivescovo Jean de Foix a Bordeaux: qui Janequin gode di diversi benefici ecclesiastici che non richiedono un grande impegno, permettendogli presumibilmente di dedicarsi assiduamente alla composizione.
Intorno al 1533 il compositore si trasferisce ad Angers, dove assume l’incarico di maestro di cappella della cattedrale fino al 1537. In questo periodo, sotto la protezione del vescovo e poeta Jean Olivier, entra in contatto con circoli letterari vicini a Clément Marot, di cui musicherà il famoso poema erotico Du beau tétin. Segue un’altra decade di silenzio documentario (1538-48), al termine della quale lo si ritrova brevemente ad Angers come “studente”, probabilmente nel tentativo di ottenere gradi accademici per accedere a benefici più redditizi.
Dal 1549 è a Parigi e, negli ultimi anni di vita, ottiene titoli onorifici (cantore ordinario della cappella del re, compositore ordinario di musica per il re), anche se questi ruoli non sembrano corrispondere a un impiego reale e potrebbero essere stati i suoi unici mezzi di sostentamento. Muore nella capitale francese nel 1558, lasciando un testamento che testimonia la sua identità di compositore.

Il rapporto incompiuto con la corte francese
Nonostante la sua immensa popolarità, Janequin non riuscì mai a ottenere una posizione stabile e prestigiosa alla corte di Francesco I. Tentò di attirare l’attenzione del re musicando alcune sue poesie, ponendosi in diretta competizione con Claudin de Sermisy, compositore di corte. Tuttavia, i suoi sforzi non si concretizzarono, se non in tarda età e in forma puramente onorifica. La sua carriera rimane un caso atipico: brevi incarichi come maestro di cappella, una vita sostenuta da benefici ecclesiastici e la protezione di alcuni vescovi, ma senza la consacrazione di un ruolo a corte.

L’opera: un’eredità monumentale
Il corpus delle composizioni di Janequin supera le 400 composizioni, cosa che fa di lui uno dei maestri più fecondi dell’epoca. Benché la sua produzione sacra sia notevole, è nell’ambito della musica profana che risiede la sua eredità più duratura.
Janequin compose due messe, tra cui la famosa Missa La Bataille, un’auto-parodia della sua stessa chanson. La sua produzione di mottetti è quasi interamente perduta, ad eccezione di un brano, Congregati sunt. Notevole è la vasta produzione di salmi e chansons spirituali, che dimostra come Janequin abbia seguito da vicino il formarsi di un repertorio musicale protestante.
Tuttavia, è con le sue circa 250 chansons che il compositore ha rivoluzionato la musica del suo tempo. Si specializzò in ampie composizioni descrittive, dove la musica evoca suoni della natura e della vita quotidiana con un realismo senza precedenti. Brani come La Guerre, Le Chant des Oiseaux, Les Cris de Paris, La Chasse e L’Alouette comprendono ampi passaggi onomatopeici, trasformando la musica in un vivido affresco sonoro: Janequin può essere considerato il primo bruitista, capace di tradurre in partitura i suoni del suo mondo, quasi come se avesse potuto registrarli. Queste opere gli diedero una rapida e vasta celebrità in tutta Europa e furono pubblicate e ripubblicate dai maggiori editori del tempo, come Attaingnant a Parigi e Gardano a Venezia. Oltre a queste, il suo repertorio spazia da canzoni rustiche e narrative a epigrammi galanti e satirici, consolidando la sua posizione come maestro indiscusso della chanson francese.

Qu’est-ce d’amour?: analisi
Questa delicata chanson si apre con un andamento lento e solenne, quasi meditativo: le quattro voci entrano in uno stile omoritmico, ovvero cantando le stesse parole simultaneamente con il medesimo ritmo. Questo conferisce alla domanda iniziale, «Qu’est-ce d’amour?», un peso e una gravitas particolari. La musica qui è prevalentemente accordale, con armonie chiare e consonanti che creano un’atmosfera di serena riflessione, quasi sacrale, che contrasta con il tormento interrogativo del testo.
La struttura musicale segue fedelmente la forma della poesia: Janequin utilizza la ripetizione di sezioni musicali per sottolineare la struttura retorica delle domande e dei paradossi. Per esempio, la melodia e l’armonia usate per la frase «comment le peult on paindre?» vengono riprese e variate per accompagnare altre domande nel testo, creando un senso di coesione formale.
Il cuore della chanson risiede nella capacità di Janequin di tradurre musicalmente i continui ossimori del testo: quando il testo parla del “fuoco” dell’amore, la dinamica vocale si intensifica leggermente, ma è soprattutto nell’armonia che si percepisce la tensione. Subito dopo, alla menzione del “freddo”, la musica sembra invece quasi “raffreddarsi”, illustrando magistralmente il paradosso descritto.
La dolcezza dell’amore («si doux») è altresì resa attraverso passaggi melodici più fluidi e armonie prevalentemente maggiori, cantate con un timbro morbido e legato, mentre la menzione dell’amarezza («l’amertume») introduce dissonanze sottili e momentanee, piccoli attriti armonici tra le voci che creano un senso di disagio, perfettamente in linea con il significato delle parole.

In sintesi, Qu’est-ce d’amour? vive di equilibri e opposizioni: Janequin è abile a creare una cornice musicale elegante e controllata per un testo che esplora il caos emotivo dell’amore.

Taratantara

Jacobus Gallus Carniolus (ovvero Jacob Handl; 3 luglio 1550 - 18 luglio 1591): Musica noster amor, mottetto latino a 6 voci (n. 28 della raccolta Moralia, 1596, postuma). Maulbronner Kammerchor, dir. Jürgen Budday.

Musica noster amor, sit fida pedissequa vatum,
molliter ad cunas fingere nata melos.
Exulet hostiles acuens, taratantara, motus,
vivat, et Aonidum castra Poesis amet.
Et lachrimas vatum colit, et suspiria, Caesar.
Vivat io magnis turba superba Diis.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

La voce della Carniola: Jacobus Gallus, genio del tardo Rinascimento

Jacobus Gallus è stato uno dei più prolifici e influenti compositori del tardo Rinascimento, una figura di transizione che ha saputo fondere magistralmente le tradizioni musicali del proprio tempo con innovative spinte verso la modernità. Nato nelle terre asburgiche della Carniola (l’odierna Slovenia), trascorse l’ultima e più feconda parte della sua vita in Moravia e Boemia, lasciando un’eredità di oltre 500 composizioni.

Vita e origini: un musicista itinerante
Jacobus Gallus è noto anche come Jacob Handl e Jakob Petelin: i termini gallus, Handl e petelin significano “gallo” rispettivamente in latino, in tedesco e in sloveno; tuttavia il compositore non usò mai la forma slovena: preferiva infatti la forma latina, cui spesso aggiungeva l’aggettivo “Carniolus” per rivendicare con orgoglio le proprie origini. Nato presumibilmente a Reifnitz (oggi Ribnica), egli ricevette la prima educazione musicale presso l’abbazia cisterciense di Stična. Tra il 1564 e il 1566 lasciò la terra natale per viaggiare tra Austria, Boemia, Moravia e Slesia. Fu membro della cappella di corte viennese nel 1574 e, tra il 1579 e il 1585, ricoprì il prestigioso incarico di Kapellmeister per il vescovo di Olomouc. Infine, nel 1585 si stabilì a Praga, dove lavorò come organista presso la Chiesa di San Giovanni alla Balustrata fino alla morte.

L’arte della composizione: un ponte tra stili
Gallus fu un esponente musicale della Controriforma in Boemia. La sua grandezza risiede nella capacità di sintetizzare stili diversi: da un lato, la complessa polifonia della scuola franco-fiamminga; dall’altro, la grandiosità sonora e spaziale della scuola veneziana. La sua produzione, vastissima e versatile, spazia dal sacro al profano, includendo opere monumentali che impiegano più cori e fino a 24 parti vocali indipendenti.
Il suo capolavoro è senza dubbio l’Opus musicum (1586-90), una monumentale raccolta di 374 mottetti destinati a coprire le necessità liturgiche dell’intero anno ecclesiastico. Quest’opera, così come la maggior parte delle sue messe, fu stampata a Praga. Nei mottetti, come il celebre O magnum mysterium, è evidente l’influenza veneziana, soprattutto nell’uso della tecnica del “coro spezzato” (cori separati che dialogano tra loro). Gallus fondeva con maestria arcaismo e modernità: se da un lato era un profondo conoscitore delle tecniche imitative tradizionali, dall’altro preferiva la nuova pratica policorale veneziana, utilizzando raramente la tecnica del cantus firmus. La sua audacia si manifesta in transizioni cromatiche che anticipano la dissoluzione del sistema modale, come nel mottetto a cinque voci Mirabile mysterium, la cui complessità armonica è stata paragonata a quella di Carlo Gesualdo. Era inoltre un abile inventore di madrigalismi, ma sapeva anche scrivere brani di intensa e semplice spiritualità, come il suo mottetto più famoso, Ecce quomodo moritur justus, il cui tema fu successivamente ripreso da G.F. Händel.

La produzione profana
Oltre al vasto corpus sacro, egli compose circa 100 brani profani, raccolti principalmente in due raccolte: Harmoniae morales (1589-90) e Moralia (1596). Questa produzione dimostra la sua versatilità, includendo madrigali in latino (una scelta linguistica insolita per il genere, che era prevalentemente italiano), canti in tedesco e altre composizioni in latino.

Musica noster amor: analisi
Questo mottetto è un gioiello della produzione profana, un’ode umanistica alla musica e alla poesia che dimostra in modo esemplare la maestria di Gallus nel tradurre il significato e l’emozione del testo in vivida materia sonora. Il testo è una celebrazione del potere della musica: da un lato, la sua capacità di generare dolcezza e conforto; dall’altro, la sua forza nel bandire gli istinti bellicosi, per poi abbracciare la nobiltà della poesia. Il mottetto è strutturato in una serie di sezioni contrastanti che seguono fedelmente la progressione emotiva del testo, utilizzando la tecnica del madrigalismo con straordinaria efficacia.

Il brano si apre con una dichiarazione solenne e affettuosa: Gallus sceglie una tessitura prevalentemente omoritmica, dove tutte e sei le voci si muovono insieme, conferendo al testo un’immediata chiarezza e un senso di unità. La dinamica è contenuta e l’armonia è prevalentemente consonante, creando un’atmosfera di serena devozione all’arte musicale.
Pur mantenendo un carattere dolce, Gallus introduce poi un delicato contrappunto imitativo: le voci entrano in successione, creando un intreccio morbido e fluttuante che evoca l’immagine del dondolio di una culla. Il termine “fingere” viene impreziosito da un breve ma elegante melisma, dipingendo musicalmente l’atto creativo. La dinamica si attenua ulteriormente, quasi a suggerire un sussurro.
Il carattere cambia bruscamente: “Exulet” è cantato con forza e decisione, segnando una netta rottura con la dolcezza precedente. Il culmine è raggiunto sulla parola onomatopeica “taratantara”, che imita lo squillo delle trombe di guerra. Qui Gallus scatena un vorticoso gioco imitativo: le voci, specialmente tenori e bassi, si rincorrono con ritmi puntati, veloci e staccati, creando una cascata sonora percussiva e brillante.
Dopo il tumulto del “taratantara”, la musica si placa e si eleva nuovamente verso una nobile solennità: la parola “vivat” è presentata in un potente blocco omoritmico, un’affermazione di speranza e resilienza. La frase successiva – che celebra l’unione tra Poesia e Muse – ritorna a una polifonia fluida e complessa, con lunghe linee melodiche che si intrecciano con eleganza, simboleggiando la raffinatezza dell’arte.
La dinamica scende poi a un piano quasi impercettibile. Per dipingere le parole “lachrimas” e “suspiria”, Gallus utilizza un sottile gioco cromatico e armonie dissonanti. Si avvertono dei ritardi che si risolvono lentamente, imitando musicalmente un sospiro. L’atmosfera diventa intima e patetica, quasi malinconica. È in passaggi come questo che si riconosce la modernità di Gallus e la sua capacità di esplorare la profondità psicologica del testo, anticipando sensibilità quasi barocche.
Il mottetto si conclude con un’esplosione di giubilo: la parola “vivat” ritorna, questa volta come un’esclamazione trionfale. Gallus utilizza di nuovo la massima potenza dell’omoritmia: tutte le sei voci sono unite in un accordo pieno e sonoro, proiettato con una dinamica fortissimo. L’effetto è quello di un coro magnifico e unitario che canta una lode finale. La frase si ripete con crescente intensità, culminando in un accordo maggiore finale.

Nel complesso, Musica noster amor è una sintesi perfetta dello stile di Jacobus Gallus: la sua capacità di alternare la complessità polifonica franco-fiamminga a una scrittura omoritmica di derivazione veneziana, il suo uso geniale e quasi teatrale dei madrigalismi, e la sua sensibilità armonica audace e moderna.

Come l’arpa

Giovanni Pierluigi da Palestrina (c1525 - 1594): Sicut cervus, 2a pars Sitivit anima mea, mottetto a 4 voci (1584); testo desunto dal Salmo XLII (41), versetti 1-3. Coro da camera del Collegium Musicum Almae Matris dell’Università di Bologna, dir. Enrico Lombardi.

Sicut cervus desiderat ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea ad te, Deus.
Sitivit anima mea ad Deum fortem vivum: quando veniam et apparebo ante faciem Dei?
Fuerunt mihi lacrymae meae panes die ac nocte, dum dicitur mihi quotidie: Ubi est Deus tuus?


Grazie a Luís Henriques e al suo bellissimo sito, ho scoperto una vera chicca: il capolavoro di Palestrina in una versione per due arpe, interpreti Laura Puerto e Manuel Vilas:



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’anelito dell’anima: il Sicut cervus di Palestrina tra fede e musica

Il mottetto Sicut cervus è una delle composizioni più celebri e amate di Giovanni Pierluigi da Palestrina, maestro indiscusso della polifonia rinascimentale. Il testo esprime il profondo anelito dell’anima verso Dio, un tema che Palestrina traduce in musica con straordinaria sensibilità e maestria contrappuntistica.

Siamo nel pieno Rinascimento maturo, e lo stile di Palestrina incarna l’ideale di chiarezza, equilibrio e serena spiritualità promosso dalla Controriforma. La sua musica è caratterizzata da:
– linee melodiche fluide: prevalentemente per gradi congiunti, con salti melodici attentamente preparati e risolti, creando la famosa “curva palestriniana”;
– armonia prevalentemente consonante: le dissonanze sono trattate con estrema cura, principalmente come ritardi, note di passaggio o di volta, sempre preparate e risolte dolcemente;
– chiarezza testuale: nonostante la complessità polifonica, il testo rimane generalmente intelligibile;
– equilibrio tra le voci: nessuna voce predomina in modo eccessivo; tutte contri­bui­scono alla tessitura complessiva;
– tecnica imitativa: l’imitazione tra le voci è uno dei principali procedimenti costruttivi.

Il mottetto ha inizio con un’entrata imitativa. Il tenor intona per primi il motivo ascendente sulle parole “Sicut cervus desiderat ad fontes aquarum“, un disegno melodico semplice e sereno. A breve distanza di tempo entrano l’altus una 5ª sopra, il cantus (soprano) un’8ª sopra il tenor e infine il bassus un’8ª sotto, ciascuno riprendendo il motivo iniziale in imitazione non rigorosa.
Sulle parole “desiderat ad fon[tes]” la melodia si sviluppa verso l’acuto, sottolineando il senso di anelito. Sulla parola “aquarum” la melodia è invece caratterizzata da un movimento che può evocare il fluire dell’acqua, con melismi delicati e una tessitura che si mantiene trasparente. Le diverse voci si intrecciano mantenendo l’indipendenza lineare, ma concorrendo a un’armonia piena e consonante.
La seconda parte del versetto riprende musicalmente l’idea iniziale, con la frase “ita desiderat anima mea” che riecheggia l’anelito di “Sicut cervus desiderat“. Le parole “anima mea” ricevono spesso un trattamento espressivo, con linee melodiche che diventano più personali e interiori. Il culmine emotivo di questa prima parte si raggiunge su “ad te, Deus“: qui, la polifonia tende a convergere verso momenti di maggiore omoritmia o verso armonie particolarmente piene e affermative, creando un senso di arrivo e devozione. La cadenza che conclude la prima parte è chiara ma non definitiva, preparando l’ascoltatore alla continuazione.

La seconda parte s’inizia con un’energia leggermente diversa, forse più intensa, sulla parola “Sitivit“. Anche qui, le entrate sono imitative. L’espressione di “sete” è palpabile nelle linee melodiche che si protendono. “Ad Deum fortem vivum” è trattato con maggiore vigore; “fortem” e “vivum” sono sottolineate da armonie più robuste e da un ritmo leggermente più marcato. La domanda “quando veniam” introduce un elemento di attesa e interrogazione. Le linee melodiche presentano inflessioni ascendenti o ritardi armonici che riflettono l’incertezza e il desiderio.
Et apparebo ante faciem Dei” rappresenta il culmine del desiderio. Palestrina spesso costruisce un crescendo musicale corrispondente all’accrescersi dell’intensità testuale, utilizzando una scrittura più piena e talvolta più omoritmica per enfatizzare il momento dell’apparizione divina. La tessitura si fa densa e solenne.
Un cambio di atmosfera avviene con “Fuerunt mihi lacrymae meae“: la musica si fa più sommessa, riflessiva, quasi dolente. Le linee melodiche tendono a salire e l’armonia si tinge di sfumature più malinconiche. “Panes die ac nocte” esprime la costanza del dolore.
Su “Dum dicitur mihi quotidie” la musica assume un carattere più narrativo o declamatorio. La ripetizione di “quotidie” (ogni giorno) è sottolineata da motivi ritmici o melodici insistenti. La domanda finale, “Ubi est Deus tuus?” è il punto di massima tensione emotiva del mottetto, e Palestrina la tratta con grande intensità. Spesso le voci si uniscono in un grido polifonico, pieno di pathos e interrogazione. La dinamica cresce nuovamente e l’armonia presenta ritardi più pungenti per esprimere l’angoscia della domanda.
Palestrina spesso ripete le frasi testuali più significative per enfatizzarne il contenuto emotivo. La sezione finale del mottetto vede la ripresa di “Ubi est Deus tuus?” e altre frasi chiave. La conclusione del mottetto è particolarmente toccante e, dopo l’intensità della domanda, la musica si placa gradualmente. Le ultime iterazioni di “Deus tuus” sono spesso trattate con un progressivo diminuendo, con le voci che si diradano e le armonie che si semplificano, lasciando un senso di contemplazione, forse di speranza sommessa o di una domanda che rimane sospesa nell’etere.

En fais et dictz, en chansons et accords

Claudin de Sermisy (c1490 - 1562): Tant que vivray, chanson a 4 voci (pubblicata nella raccolta Chansons nouvelles, 1527, n. 2) su testo di Clément Marot (L’Adolescence clémentine, Chanson XII). Ensemble «Clément Janequin».

Tant que vivray en âge florissant,
Je serviray d’Amour le dieu [roy] puissant,
En fais et dictz, en chansons et accords.
Par plusieurs jours m’a tenu languissant,
Mais apres dueil m’a faict resjouyssant,
Car j’ay l’amour de la belle au gent corps.
Son alliance
Est ma fiance:
Son cueur est mien,
Mon cueur est sien;
Fy de tristesse,
Vive lyesse,
Puis qu’en amour a tant de bien.

Quand je la veulx servir et honnorer,
Quand par escriptz veulx son nom décorer,
Quand je la veoy et visite souvent,
Les envieulx n’en font que murmurer,
Mais nostre amour n’en sçauroit moins durer:
Aultant ou plus en emporte le vent.
Maulgré envie
Toute ma vie
Je l’aymeray,
Et chanteray:
C’est la première,
C’est la dernière,
Que j’ay servie et serviray.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Claudin de Sermisy, un musicista per quattro re

Claudin de Sermisy viene ricordato come un influente compositore francese del Rinascimento, il cui nome deriva probabilmente dal suo luogo di nascita, Sermaize nell’Oise. La sua lunga e prestigiosa carriera si svolse principalmente al servizio di ben quattro sovrani francesi: Luigi XII, Francesco I, Enrico II e Francesco II, ricoprendo i ruoli di cantore e, successivamente, di maestro di cappella.

Primi passi e formazione. Ingresso nella Cappella Reale e primi benefici
Le informazioni sulla sua infanzia sono scarse, ma è documentato il suo ingresso come enfant de chœur nella Sainte-Chapelle di Parigi già nel 1508. Nel 1510, figura come cantante nella cappella privata della regina Anna di Bretagna. Nel 1514, probabilmente dopo la morte della regina, Sermisy divenne cantore nella cappella reale, servendo sotto Luigi XII e poi Francesco I. La sua carriera ecclesiastica iniziò parallelamente, con la nomina a canonico nella diocesi di Noyon il 30 gennaio 1516. Ottenne anche il beneficio del priorato di Saint-Jean de Bouguennec (diocesi di Nantes) e richiese al papa dispense per cumulare benefici altrimenti inconciliabili.

Presenza in eventi storici e incarichi ecclesiastici. Ritorno a Parigi e ruolo di vice-maestro
Sermisy partecipò come cantante ai negoziati di pace tra il Papa Leone X e Francesco I a Bologna nel dicembre 1515, ricevendo dispense papali e il canonicato a Noyon poco dopo. Si ipotizza la sua presenza anche alle sfarzose celebrazioni dell’incontro del Campo del Drappo d’Oro nel 1520. Successivamente, divenne canonico di Notre-Dame-de-la-Rotonde a Rouen, carica che lasciò nel 1524 per un’altra a Camberon (diocesi di Amiens). Nel 1532, Sermisy tornò a Parigi come vice-maestro della musica della cappella reale, allora diretta dal cardinale de Tournon. In questa veste, era responsabile dell’educazione musicale dei pueri cantus, della conservazione dei libri di musica e del reclutamento dei coristi, percependo un salario annuo iniziale di 400 lire tornesi. Dal 20 settembre 1533, cumulò questa posizione con quella di canonico prebendato della Sainte-Chapelle, mantenendola fino alla morte. Rimase al servizio dei re di Francia almeno fino al 1554, anno in cui gli fu concessa anche la prebenda di Sainte-Catherine de Troyes.

Ultimi anni, prosperità e morte
È possibile che abbia partecipato alle cerimonie del secondo incontro tra i re di Francia e Inghilterra a Boulogne nel 1532. Possedeva una casa a Parigi sufficientemente grande da ospitare i chierici fuggiti da Saint-Quentin nel 1559. Il suo stipendio come vice-maestro aumentò progressivamente (600 lire nel 1543, 700 nel 1547), cui si aggiungevano i cospicui redditi derivanti dai suoi numerosi canonicati (ne ricevette 13) e altre prebende. Claudin de Sermisy morì a Parigi il 13 ottobre 1562, vittima di un’epidemia di peste, e fu sepolto nella cappella bassa della Sainte-Chapelle. Il suo amico ed ex allievo Pierre Certon ne cantò le lodi in un poema.

Opera musicale: un lascito di fama imperitura
Sermisy godette di un’enorme reputazione durante la sua vita, venendo considerato dai contemporanei uno dei massimi maestri del suo tempo, al pari di Josquin Despres. La maggior parte delle sue opere è pubblicata nell’edizione critica Claudin de Sermisy, Opera omnia. La sua cospicua produzione di musica sacra iniziò a essere pubblicata a partire dal 1542, nella seconda fase della sua carriera.
È autore di 13 messe polifoniche (incluso un Requiem), per lo più a quattro voci, oltre a un Kyrie e un Credo isolati. Stampate principalmente tra il 1556 e il 1568 (molte da Nicolas du Chemin a Parigi), sono in gran parte messe-parodia, basate cioè su temi di opere preesistenti. Sermisy attinse spesso ai propri mottetti (Missa «Domini est terra», Missa «Tota pulchra est») e chansons, ma anche a composizioni di altri musicisti (Missa «Voulant honneur», su una chanson di Sandrin). Il suo stile, pur ereditando elementi dalla scuola franco-fiamminga e da Josquin (raggruppamento delle voci a coppie, imitazioni), li alleggerisce con passaggi più omofonici e melodie semplificate, favorendo la chiarezza del testo e mostrando l’influenza dello stile della chanson sulla sua musica sacra.
Si conoscono anche circa 80 mottetti (da 3 a 6 voci, ma prevalentemente a 4), comprese tre lezioni delle tenebre e una decina di magnificat a quattro voci negli otto toni. Questi si trovano in varie raccolte e in tre monografie dedicate (P. Attaingnant, 1542 e 1548; Adrian Le Roy et Robert Ballard, 1555). Compose anche una Passione secondo San Matteo, una delle più antiche passioni polifoniche conservate.
Le sue circa 170 chansons, infine, furono pubblicate prima della sua musica sacra e composte in gran parte prima del 1536. Come musicista di corte, mise in musica poesie di celebri autori come Clément Marot (ben 30), Francesco I, Margherita di Navarra, François de Tournon e altri. Le sue chansons, generalmente brevi e a 4 voci, godettero di un successo immediato. Si caratterizzano per melodie ben delineate, ritmo variegato, un frequente inizio omofonico, scrittura prevalentemente sillabica e un uso molto discreto del figuralismo (tecnica di rappresentazione musicale del testo). Sermisy ricevette elogi da letterati come Maître Mitou (Jean Daniel), Rabelais e Ronsard.

Tant que vicray: analisi
Pubblicata nel 1527 nella raccolta Chansons nouvelles dall’editore Pierre Attaingnant, questa composizione a 4 voci mette in musica un testo del poeta Clément Marot. Incarna perfettamente lo stile della chanson cosiddetta “parigina” del primo XVI secolo: elegante, chiara, melodicamente accattivante e con una stretta aderenza al testo.
La poesia di Marot è un’espressione gioiosa e devota dell’amore cortese. Nella prima strofa, l’amante dichiara la sua intenzione di servire il dio Amore, finché vivrà, attraverso azioni, parole, canti e musica. Riconosce un periodo di sofferenza passata, ma celebra la gioia attuale derivante dall’amore ricambiato della sua bella. La seconda parte della strofa, con versi più brevi, assume un tono più intimo e assertivo, quasi un motto: l’alleanza con l’amata è la sua fiducia, i loro cuori sono uniti. Si conclude con un rifiuto della tristezza e un’esaltazione della letizia, data la grande felicità che l’amore porta.
Nella seconda strofa, invece, l’amante descrive le sue azioni devote verso l’amata: servirla, onorarla, celebrare il suo nome per iscritto e visitarla spesso. Nonostante le maldicenze degli invidiosi, il loro amore è saldo e non ne viene scalfito. La seconda parte, simile alla prima strofa, ribadisce la fedeltà per tutta la vita, nonostante l’invidia altrui. L’amata è la prima e l’ultima che ha servito e servirà.
Il tono è positivo, celebrativo e fiducioso. La struttura di ogni strofa, con una prima parte narrativa seguita da versi più brevi e incisivi, suggerisce una possibile differenziazione musicale. La chanson è in forma strofica, il che significa che la stessa musica viene utilizzata per entrambe le strofe del test. Analizzando una singola strofa, la sua struttura musicale può essere delineata come AABC.
La prima occorrenza della sezione A copre i primi tre versi della poesia. La musica è fluida, con una melodia chiara e memorabile. La seconda occorrenza ripete esattamente la musica precedente per i successivi tre versi. Questa ripetizione musicale rafforza l’unità della prima parte della strofa poetica.
La seconda sezione mette in musica i quattro brevi versi successivi. Si nota un cambiamento di carattere: la musica qui è spesso più concisa e ritmicamente definita, riflettendo la natura più assertiva e quasi sentenziosa del testo. Le frasi sono più brevi e le cadenze più frequenti. I restanti tre versi brevi formano la sezione conclusiva. Questa sezione porta la strofa a una chiusura soddisfacente, spesso con un carattere affermativo e gioioso, in particolare sulla parola lyesse (letizia).
Sermisy impiega quattro voci (tipicamente superius, contratenor altus, tenor e bassus). La caratteristica predominante della tessitura è l’omofonia o, più precisamente, l’omoritmia: tutte le voci tendono a muoversi insieme ritmicamente, cantando le stesse sillabe nello stesso momento. Questo approccio garantisce una straordinaria chiarezza del testo, un tratto distintivo della chanson parigina, in contrasto con la più complessa polifonia imitativa tipica del mottetto o della chanson franco-fiamminga dell’epoca precedente. L’effetto è quello di un’armonia piena e sonora, dove le voci si fondono in accordi chiari e ben definiti.
La melodia principale è affidata alla voce superiore (superius), come consuetudine nella chanson parigina. È aggraziata, cantabile e ben costruita, caratterizzata prevalentemente dal moto per gradi congiunti, con intervalli più ampi usati con parsimonia e generalmente per effetti espressivi o per delineare l’inizio di una nuova frase. La melodia si adatta perfettamente alla prosodia della lingua francese, seguendo l’accentazione naturale delle parole. La sua semplicità apparente nasconde una grande raffinatezza artigianale.
L’armonia è diatonica e prevalentemente consonante. Sermisy utilizza un linguaggio armonico che, pur essendo modale, anticipa per certi versi la tonalità funzionale. Le cadenze sono chiare e ben posizionate, sottolineando la fine di ogni verso poetico e delle sezioni musicali, contribuendo a dare un senso di direzione e coesione all’intera composizione. L’armonia crea un tessuto sonoro ricco ma trasparente, privo di asprezze e molto gradevole all’ascolto.
Il ritmo della chanson segue la declamazione naturale del testo francese. È generalmente fluido e scorrevole. Il metro è prevalentemente binario, ma con la flessibilità tipica della musica rinascimentale, dove il flusso testuale può influenzare sottili variazioni agogiche. Nella sezione B e soprattutto nella C, in corrispondenza dei versi più brevi ed esclamativi, il ritmo diventa leggermente più marcato o vivace.
Sebbene la chanson parigina non faccia un uso estensivo del madrigalismo esplicito come la musica italiana coeva, Sermisy dimostra una sensibile attenzione al significato del testo. Il carattere generale della musica è gioioso, elegante e sereno, rispecchiando perfettamente il tono della poesia di Marot. La parola languissant (languente) nella sezione A è spesso resa con note leggermente più lunghe o un movimento melodico più dolce, suggerendo sottilmente lo stato d’animo. Al contrario, resjouyssant (rallegrante) e soprattutto Vive lyesse (viva la letizia) nella sezione C sono spesso caratterizzate da un andamento melodico e ritmico più brillante e affermativo, talvolta con un profilo melodico ascendente. La struttura chiara e la predominanza omofonica assicurano che il messaggio del poeta sia trasmesso con la massima intelligibilità, che era uno degli obiettivi principali di questo genere.

Nel complesso, Tant que vivray è un capolavoro di concisione, eleganza e grazia melodica. La sua perfetta fusione tra il testo di Marot e la musica ha garantito la sua popolarità duratura, rendendola un’icona della chanson rinascimentale francese. La sua struttura chiara, la tessitura prevalentemente omofonica, l’armonia consonante e la melodia accattivante ne fanno un brano immediatamente apprezzabile, che continua ad affascinare gli ascoltatori anche a distanza di secoli.

Titanic Suite

James Horner (1953 - 22 giugno 2015): Titanic Suite, tratta dalla colonna sonora del film Titanic (1997) diretto da James Cameron. Coro del King’s College di Cambridge e London Symphony Orchestra diretti dall’autore.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

James Horner: dai Celti a Pandora, l’eredità sonora di un genio di Hollywood

Horner viene ricordato come un acclamato compositore americano di colonne sonore, con un impressionante portfolio di oltre 160 produzioni cinematografiche e televisive realizzate tra il 1978 e il 2015. La sua cifra stilistica distintiva risiedeva nella capacità di integrare elementi corali ed elettronici con orchestrazioni tradizionali, spesso arricchite da motivi ispirati dalla musica cosiddetta “celtica”. Questa fusione ha contribuito a creare atmosfere uniche e memorabili per il grande schermo.

Origini e formazione musicale
Nato a Los Angeles da genitori immigrati ebrei, James Horner era figlio di Harry Horner, un noto scenografo e direttore artistico di origine ceco-austriaca. Iniziò a suonare il pianoforte a cinque anni, dedicandosi poi anche al violino. Trascorse parte della sua giovinezza a Londra, studiando al Royal College of Music con György Ligeti. Rientrato negli Stati Uniti, frequentò la Verde Valley School in Arizona, per poi conseguire una laurea in musica alla University of Southern California e una laurea magistrale all’UCLA, dove studiò con Paul Chihara. Dopo alcune esperienze con l’American Film Institute e un breve periodo di insegnamento di teoria musicale all’UCLA, si dedicò interamente alla composizione per il cinema.

L’ascesa a Hollywood
I primi passi di Horner nel mondo del cinema furono segnati da collaborazioni con il regista e produttore di B-movie Roger Corman, componendo per film come The Lady in Red (1979), Humanoids from the Deep (1980) e I magnifici sette nello spazio (1980). La sua svolta avvenne nel 1982 con la colonna sonora di Star Trek II: L’ira di Khan, che lo consacrò come compositore di primo piano a Hollywood. Negli anni ’80 consolidò la sua fama con partiture per 48 ore (1982), Krull (1983), Cocoon, l’energia dell’universo (1985, prima di molte collaborazioni con Ron Howard), e ottenne la sua prima nomination all’Oscar per Aliens (1986) e per la canzone Somewhere Out There da Fievel sbarca in America.

Anni ’90: versatilità e apice creativo
Durante gli anni ’80, ’90 e 2000, Horner dimostrò una notevole versatilità, componendo musiche per film per famiglie (spesso prodotti dalla Amblin Entertainment di Spielberg) come Alla ricerca della valle incantata, Le avventure di Rocketeer, Casper e Jumanji. Il 1995 fu un anno particolarmente prolifico, con le acclamate colonne sonore per Braveheart e Apollo 13, entrambe nominate all’Oscar. Nel 1990, compose anche la nuova fanfara per gli Universal Pictures. Il culmine arrivò nel 1997 con Titanic, nonostante un precedente voto di non lavorare più con Cameron a causa dello stress vissuto durante Aliens.

Il nuovo millennio e le ultime opere
Dopo Titanic, Horner continuò a firmare colonne sonore per grandi produzioni come La tempesta perfetta, A Beautiful Mind (altra nomination all’Oscar), La maschera di Zorro e La casa di sabbia e nebbia (nomination all’Oscar). Si dedicò anche a progetti minori e compose il tema per il CBS Evening News (2006-11). La collaborazione con Cameron si rinnovò per Avatar (2009), un lavoro mastodontico che lo impegnò per oltre due anni e gli valse la decima nomination all’Oscar. Tra i suoi ultimi lavori figurano The Karate Kid (2010), The Amazing Spider-Man (2012) e, dopo una pausa di tre anni, Wolf Totem (2015), la sua quarta collaborazione con Jean-Jacques Annaud.

Opere orchestrali e la controversia del “borrowing”
Oltre al cinema, Horner compose opere orchestrali come il doppio concerto Pas de Deux (2014) e il concerto per quattro corni Collage (2015). Tuttavia, la sua carriera fu anche segnata da critiche per il presunto “borrowing” musicale, ovvero il riutilizzo di passaggi da sue composizioni precedenti o l’incorporazione di temi di compositori classici (Prokof’ev, Schumann, Šostakovič, Copland, Wagner, Orff, Chačaturjan) e contemporanei (Nino Rota, Raymond Scott). In un caso, per Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi (1989), l’uso non accreditato di un brano di Raymond Scott portò a un accordo extragiudiziale con Disney. Alcuni critici notarono anche somiglianze tra il tema principale di Braveheart e una melodia dell’anime giapponese 3×3 Eyes.

Vita personale, passione per il volo e tragica scomparsa
Horner era un appassionato pilota e possedeva diversi piccoli aerei. Sua moglie Sara ha rivelato che lui stesso si descriveva come affetto dalla sindrome di Asperger. Il 22 giugno 2015, all’età di 61 anni, James Horner perse tragicamente la vita in un incidente aereo mentre pilotava il suo Short Tucano nella Los Padres National Forest, in California. L’inchiesta del NTSB attribuì l’incidente all’incapacità del pilota di mantenere la distanza dal terreno durante manovre a bassa quota, citando come fattori contribuenti l’uso di farmaci da prescrizione.

Eredità postuma e tributi
Le colonne sonore per i suoi ultimi tre film, Southpaw, l’ultima sfida (2015, composta gratuitamente per amore del film), The 33 (2015) e I magnifici 7 (2016, scritta a sorpresa e scoperta postuma), furono completate e pubblicate postume. La sua scomparsa suscitò un’ondata di commozione nel mondo del cinema e della musica. Colleghi come Hans Zimmer, John Williams e registi come Ron Howard e James Cameron espressero il loro cordoglio. Céline Dion, la cui carriera fu profondamente segnata da My Heart Will Go On, lo ricordò con affetto. Molti film successivi, inclusi quelli per cui aveva composto le ultime musiche e Avatar, la via dell’acqua furono dedicati alla sua memoria.

Titanic Suite: analisi
La Titanic Suite è un magnifico compendio della colonna sonora del film omonimo, un’opera che racchiude in sé la grandezza, il romanticismo, la tragedia e la speranza narrate nella pellicola di James Cameron.
La musica inizia in modo quasi impercettibile con un tappeto sonoro elettronico basso e profondo, tipico di Horner, a cui si sovrappone un coro sintetizzato etereo e celestiale. Questo crea un’atmosfera di mistero, vastità e forse un presagio malinconico. L’ingresso degli archi acuti (violini) introduce una melodia lenta, struggente e riflessiva che riconosciamo come il “Tema di Rose” (o una sua variazione). L’arrangiamento è scarno, evocando ricordi lontani e la vastità dell’oceano. Il mood è introspettivo, toccante, quasi un sospiro musicale che prepara il terreno per la narrazione.
Successivamente, la musica cambia radicalmente: le uilleann pipes (cornamuse irlandesi), altro marchio di fabbrica di Horner, introducono con vigore il tema principale del film, noto come “Southampton”. Questo tema, dal forte sapore celtico, è gioioso, avventuroso e pieno di speranza. Si unisce il tin whistle (flauto a fischietto), che dialoga con le cornamuse, mentre una leggera percussione (che ricorda il bodhrán, un tipo di tamburo irlandese) scandisce un ritmo vivace ma non invadente. Gli archi forniscono un accompagnamento caldo e fluente, mentre il coro sintetizzato rimane sottotraccia, aggiungendo profondità. La dinamica cresce gradualmente, simboleggiando l’entusiasmo e la maestosità della partenza del “sogno” chiamato Titanic.
Il tema principale viene ripreso da una celestiale e struggente vocalizzazione femminile (nel film originale è di Sissel Kyrkjebø, qui probabilmente sintetizzata o campionata per la suite), che si libra alta sopra l’orchestra. Gli archi si fanno più ampi e lussureggianti, mentre gli ottoni aggiungono un tocco di solennità. Gli strumenti celtici, pur presenti, lasciano spazio alla grandezza orchestrale. Questa sezione evoca la bellezza, il romanticismo e l’immensità dell’oceano, con un’aura quasi spirituale. La dinamica raggiunge un picco emotivo per poi ritrarsi leggermente, creando un senso di meraviglia.
Il tema di “Southampton” ritorna con forza, questa volta affidato principalmente alla piena sezione degli archi, con un contrappunto più ricco e un maggiore coinvolgimento degli ottoni che ne sottolineano la maestosità. L’atmosfera è di trionfo e fiducia, la nave procede maestosa nel suo viaggio inaugurale. La dinamica è forte e imponente.
Dopo la fanfara orchestrale, la musica si ritira in un’atmosfera di intimità. Un delicato assolo di pianoforte introduce una versione tenera e introspettiva del “Tema di Rose”, già accennato nell’introduzione. Gli archi forniscono un accompagnamento discreto e caldo. Questa sezione è carica di romanticismo, dolcezza e una sottile vena di malinconia, riflettendo i momenti più personali e sentimentali della storia. La dinamica è prevalentemente piano, sottolineando la delicatezza del momento.
Gli archi sostengono note lunghe, creando un senso di attesa e sospensione. Ritornano i droni sintetizzati bassi, aggiungendo un elemento di sottile inquietudine. La melodia è quasi assente, lasciando spazio a un’atmosfera armonica che suggerisce un cambiamento imminente, un presagio oscuro che si insinua nella serenità precedente.
La tensione cresce rapidamente. Accordi dissonanti e potenti degli ottoni, percussioni martellanti (timpani, rullante) e ostinati urgenti degli archi creano un clima di caos e panico imminente. Frammenti tematici precedenti potrebbero essere percepiti, ma sono sovrastati dalla drammaticità della scrittura orchestrale. Questa è la rappresentazione sonora del disastro che si avvicina. La dinamica sale vertiginosamente fino a un fortissimo, esprimendo terrore e urgenza.
Un colpo orchestrale massiccio segna il culmine della tragedia, seguito da un rapido diminuendo che porta quasi al silenzio. Rimangono solo suoni sintetizzati inquietanti e tremoli degli archi gravi, evocando lo shock, la devastazione e l’agghiacciante silenzio che segue il disastro. La dinamica crolla da fortissimo a un pianissimo spettrale.
Dal silenzio emerge nuovamente il suono del tin whistle, che intona la melodia iconica di My Heart Will Go On. Archi delicati e tappeti sonori sintetici creano una base armonica soffusa. La vocalizzazione femminile si unisce al flauto, riprendendo il tema con un’espressione di profonda tristezza, ma anche di amore duraturo e speranza. Il mood è intensamente toccante, un lamento che porta con sé il ricordo e la forza dei sentimenti. La dinamica è inizialmente contenuta, per poi crescere gradualmente in intensità emotiva.
Il “Tema di Rose” (Never an Absolution) ritorna, prima con gli archi, poi ripreso dai legni (probabilmente oboe o clarinetto), evocando un senso di ricordo e riflessione. L’orchestra si espande progressivamente, portando il tema a una piena espressione emotiva, grandiosa ma al contempo struggente. Il coro sintetizzato etereo, che aveva aperto la suite, ritorna, chiudendo il cerchio narrativo e sonoro. La musica raggiunge un ultimo culmine di intensità emotiva, per poi gradualmente dissolversi in un lungo e lento fade out, lasciando l’ascoltatore in uno stato di commossa contemplazione. La suite termina nel silenzio, lasciando risuonare l’eco delle emozioni vissute.
Horner dimostra in questa suite la sua maestria nell’utilizzare temi ricorrenti (leitmotiv) per caratterizzare personaggi ed emozioni. L’uso distintivo di strumenti “celtici” conferisce un’identità sonora unica alla colonna sonora, legandola alle radici irlandesi della storia e dei personaggi. Fondamentale è anche l’impiego di cori sintetizzati e vocalizzazioni eteree, che aggiungono una dimensione quasi soprannaturale e spirituale alla musica, amplificandone l’impatto emotivo.
La struttura della suite segue un chiaro arco narrativo ed emotivo:
– Introduzione/Nostalgia: un’apertura eterea e malinconica;
– Partenza/Speranza: l’introduzione del tema celtico, gioioso e avventuroso;
– Grandezza/Romanticismo: l’espansione orchestrale e vocale del tema principale e l’intimità del tema di Rose;
– Presagio/Dramma: la costruzione della tensione e l’esplosione orchestrale che simboleggia il disastro;
– Dolore/Speranza: l’introduzione del tema di My Heart Will Go On, un lamento carico di amore;
– Riflessione/Trascendenza: la ripresa del “Tema di Rose” e la conclusione eterea che chiude il cerchio.
La dinamica gioca un ruolo cruciale, passando da pianissimi sussurrati a fortissimi travolgenti, rispecchiando la vasta gamma di emozioni della storia.

Nel complesso, la Titanic Suite è un capolavoro di musica cinematografica che condensa efficacemente l’essenza emotiva e narrativa del film. Horner, con la sua abilità nel creare melodie memorabili, orchestrazioni evocative e un uso sapiente di elementi etnici ed elettronici, ha creato un’opera che trascende il film stesso, diventando un’esperienza d’ascolto potente e commovente, capace di evocare immagini e sentimenti profondi anche a distanza di anni. La suite è un testamento della sua capacità di toccare il cuore dell’ascoltatore, trasportandolo in un viaggio sonoro indimenticabile.

Ho fatto un sogno

Mogens Andresen (11 giugno 1945): Good Morning per ottoni e percussione (1994). The Royal Danish Brass Ensemble.
Il brano si fonda sopra un’antica melodia popolare danese, Drømte mig en drøm i nat (La notte scorsa ho fatto un sogno), la cui prima frase musicale è trascritta nel Codex Runicus, un manoscritto compilato attorno all’anno 1300 da un anonimo monaco cisterciense, probabilmente nell’abbazia di Herrevad (fondata nel 1144, si trovava in Scania, regione che fino al 1658 fu soggetta ai re di Danimarca). Si tratta della più antica composizione profana scandinava di cui si abbia notizia.
A partire dal 1931 e per molti anni l’ente radiofonico danese utilizzò l’incipit di Drømte mig en drøm i nat per marcare l’intervallo fra un programma e l’altro: la melodia è dunque molto famosa in Danimarca, e questa è la ragione per cui viene citata da Andresen nel saluto musicale indirizzato ai suoi concittadini – e a tutti gli appassionati di musica.


Anonimo: Drømte mig en drøm i nat, arrangiamento di Phillip Faber. Pernille Rosendahl, voce solista; DR PigeKoret; Henrik Dam Thomsen, violoncello; Phillip Faber, pianoforte e direzione.

Drømte mig en drøm i nat
om silke og ærlig pæl,
Bar en dragt så let og glat
i solfaldets strålevæld,
 nu vågner den klare morgen.

Til de unges flok jeg gik,
jeg droges mod sang og dans.
Trøstigt mødte jeg hans blik
og lagde min hånd i hans,
 nu vågner den klare morgen.

Alle de andre på os så,
de smilede, og de lo.
Snart gik dansen helt i stå,
der dansede kun vi to,
 nu vågner den klare morgen.

Drømte mig en drøm i nat
om silke og ærlig pæl.
Fjernt han hilste med sin hat
og grå gik min drøm på hæld,
 nu vågner den klare morgen.

When David heard

Thomas Tomkins (1572 - 9 giugno 1656): When David heard, anthem a 5 voci (pubblicato in Songs of 3-6 parts, 1622, n. 19). The Gesualdo Six.

When David heard that Absalom was slain
He went up into his chamber over the gate and wept,
and thus he said: my son, my son, O Absalom my son, would God I had died for thee!



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Thomas Tomkins: l’ultimo virginalista tra splendori e tumulti dell’Inghilterra stuartiana

Tomkins viene ricordato come eminente compositore gallese attivo nel periodo di transizione tra l’epoca Tudor e l’inizio del periodo Stuart. Considerato una figura di spicco della scuola madrigalistica inglese, egli si distinse anche come abile compositore di musica per tastiera e per consort, e fu l’ultimo rappresentante della rinomata scuola virginalistica inglese.

Primi anni e formazione musicale
Nato a St David’s, Pembrokeshire, nella famiglia del vicario corale e organista omonimo, Tomkins crebbe in una famiglia di musicisti. Anche i suoi tre fratellastri – John, Giles e Robert – divennero musicisti di rilievo, sebbene nessuno raggiunse la sua fama. Entro il 1594, la famiglia si trasferì a Gloucester, dove il padre ottenne un impiego come canonico minore presso la cattedrale. È quasi certo che Thomas studiò sotto la guida del celebre William Byrd, come suggerito da una dedica in una delle sue canzoni («Al mio antico e molto riverito Maestro, William Byrd») e dalla vicinanza geografica di Byrd a Gloucester in quel periodo. Sebbene manchino prove documentali definitive, è plausibile che Byrd abbia contribuito a far ammettere il giovane Tomkins come corista nella prestigiosa Chapel Royal. Conformemente alla prassi per gli ex coristi reali, Tomkins conseguì il titolo di bachelor of music (1607), come membro del Magdalen College di Oxford.

Carriera brillante tra Worcester e la corte reale
Già nel 1596 Tomkins aveva ottenuto l’importante incarico di organista presso la Cattedrale di Worcester. L’anno seguente, sposò Alice Patrick, vedova del suo predecessore Nathaniel Patrick. Da questo matrimonio nacque nel 1599 il suo unico figlio, Nathaniel, che seguì le orme paterne diventando un musicista stimato. Tomkins coltivò relazioni con altri musicisti di spicco, come Thomas Morley (anch’egli allievo di Byrd), il cui trattato Plaine and Easie Introduction to Practicall Musicke (1597) Tomkins possedeva e annotò. Nel 1601, Morley incluse un madrigale di Tomkins nella fondamentale raccolta The Triumphs of Oriana. Nel 1612 Tomkins supervisionò la costruzione di un magnifico nuovo organo nella Cattedrale di Worcester, opera di Thomas Dallam. Continuò a comporre anthem e nel 1622 pubblicò la sua raccolta di 28 madrigali, Songs of 3, 4, 5 and 6 parts, con una poesia dedicatoria del fratellastro John Tomkins, allora organista al King’s College di Cambridge.
Parallelamente, la sua carriera alla Chapel Royal progredì: intorno al 1603 fu nominato gentleman extraordinary (un titolo onorifico) e nel 1621 divenne gentleman ordinary e organista, lavorando a fianco dell’amico Orlando Gibbons. Questo doppio impegno lo costrinse a frequenti viaggi tra Worcester e Londra fino al 1639 circa. Eventi significativi segnarono questo periodo: nel 1625, Tomkins fu coinvolto nella preparazione delle musiche per il funerale di Giacomo I e l’incoronazione di Carlo I. La morte improvvisa di Gibbons durante questi preparativi accrebbe ulteriormente le sue responsabilità. Fortunatamente, un’epidemia di peste posticipò l’incoronazione al febbraio 1626, dando a Tomkins il tempo di comporre gran parte degli otto anthem eseguiti durante la cerimonia. Nel 1628, Tomkins raggiunse l’apice della sua carriera con la nomina a "compositore della musica del re in ordinario", succedendo ad Alfonso Ferrabosco il giovane. Tuttavia, questo prestigioso incarico gli fu revocato poco dopo, con la motivazione che era stato promesso al figlio di Ferrabosco. Questo trattamento ingiusto fu solo il primo di una serie di sventure.

Gli anni difficili della guerra civile e gli ultimi tempi
Gli ultimi quattordici anni della vita del compositore furono segnati da profonde difficoltà personali e dai tumulti della guerra civile inglese. Nel 1642, anno dello scoppio del conflitto, sua moglie Alice morì. Worcester, città fedele al re, fu una delle prime a subire le conseguenze della guerra: la cattedrale fu profanata e l’organo di Tomkins gravemente danneggiato dalle forze parlamentari. L’anno seguente, la sua casa vicino alla cattedrale fu colpita da una cannonata, distruggendo gran parte dei suoi beni e probabilmente alcuni manoscritti musicali. In questo periodo, Tomkins si risposò con Martha Browne. Ulteriori conflitti e l’assedio di Worcester nel 1646 portarono ulteriore distruzione. Con il coro sciolto e la cattedrale chiusa, Tomkins riversò il suo genio nella composizione di alcune delle sue più belle musiche per tastiera e per consort. Nel 1647, scrisse composizioni in memoria di Thomas Wentworth, conte di Strafford, e di William Laud, arcivescovo di Canterbury, entrambi giustiziati alcuni anni prima e ammirati da Tomkins. L’esecuzione di Carlo I nel 1649 ispirò al compositore, fervente realista, la superba Sad Paven for these Distracted Tymes. La morte della seconda moglie Martha, intorno al 1653, e la perdita del suo sostentamento a causa degli eventi bellici lo lasciarono, all’età di 81 anni, in gravi difficoltà finanziarie. Nel 1654, suo figlio Nathaniel sposò Isabella Folliott, una ricca vedova, e Thomas andò a vivere con loro a Martin Hussingtree, vicino Worcester. In segno di gratitudine, compose la Galliard, The Lady Folliot’s in onore della nuora. Thomas Tomkins morì due anni dopo, il 9 giugno 1656, e fu sepolto nel cimitero della chiesa di St Michael and All Angels a Martin Hussingtree.

Opere e stile compositivo: un ponte tra rinascimento e barocco nascente
Tomkins fu un compositore prolifico. La sua produzione include madrigali, tra cui il celebre The Fauns and Satyrs Tripping (incluso nella raccolta The Triumphs of Oriana di Morley) e la sua personale collezione Songs of 3,4,5 and 6 parts (1622). Compose inoltre circa 76 brani per strumenti a tastiera (organo, virginale, clavicembalo), musica per consort, numerosi anthem e musica liturgica. Dal punto di vista stilistico, si dimostrò estremamente conservatore, quasi anacronistico per il suo tempo. Sembra aver ignorato quasi completamente le nascenti pratiche barocche e gli idiomi di ispirazione italiana che si stavano diffondendo, evitando anche forme popolari come l’ayre. Il suo linguaggio polifonico, anche negli anni ’30 del XVII secolo, rimase saldamente ancorato alla tradizione rinascimentale. Nonostante questo conservatorismo, alcuni dei suoi madrigali sono notevolmente espressivi, caratterizzati da madrigalismi e da cromatismi degni dei grandi autori italiani come Marenzio e Luzzaschi. Fu uno dei più fecondi compositori di anthem del XVII secolo in Inghilterra. La sopravvivenza di gran parte della sua musica sacra è dovuta alla monumentale pubblicazione postuma, curata dal figlio Nathaniel: Musica Deo Sacra et Ecclesiae Anglicanae; or Music dedicated to the Honor and Service of God, and to the Use of Cathedral and other Churches of England (1668). Quest’opera, pubblicata in cinque volumi, comprende 5 services, melodie per salmi, preces, salmi responsoriali e 94 anthem, assicurando così la trasmissione del suo prezioso lascito musicale.

When David heard&lt: analisi
L’anthem When David Heard è un capolavoro di espressività emotiva del tardo Rinascimento inglese. Il testo, incentrato sul dolore lancinante del re Davide alla notizia della morte del figlio Assalonne, offre a Tomkins un terreno fertile per dispiegare tutta la propria maestria nella composizione e in particolare nell’uso dell’armonia per veicolare un pathos profondo.
Il brano s’inizia in un’atmosfera sommessa e contemplativa. Le cinque voci entrano in maniera prevalentemente omoritmica o con una lieve imitazione, garantendo una chiara declamazione del testo. L’armonia è relativamente diatonica, ma la parola slain è sottolineata da un leggero indugio e da una tessitura armonica che preannuncia il dolore imminente. La purezza vocale e l’intonazione impeccabile del gruppo sono evidenti fin dalle prime note, con i controtenori che aggiungono una qualità eterea.
La musica acquista un leggero movimento. He went up è suggerito da linee melodiche ascendenti nelle singole voci, sebbene qui l’effetto sia più sottile, concentrandosi sulla progressione armonica. La parola cruciale wept segna un cambiamento tangibile, segnato da Tomkins con dissonanze più marcate, in particolare attraverso l’uso di ritardi struggenti; il passo è caratterizzato da una palpabile tristezza, con le voci che si intrecciano in un lamento polifonico. L’atmosfera si fa più greve e carica di dolore.
La frase and thus he said funge da ponte: una cadenza prepara l’esplosione emotiva successiva, la più estesa e musicalmente più intensa. La ripetizione ossessiva delle parole my son è il fulcro del dolore di Davide. Tomkins sfrutta questa ripetizione attraverso entrate imitative, con ciascuna voce che riprende il motivo lamentoso. L’armonia diventa cromatica e carica di dissonanze espressive. I ritardi si fanno più frequenti e strazianti, creando un senso di angoscia profonda. Ogni iterazione è trattata con sfumature diverse e, spesso, una o più voci salgono a note acute sulla parola son, quasi a mimare un grido di dolore trattenuto, per poi discendere. O Absalom, invece, è il culmine emotivo di ogni frase e Tomkins vi concentra le armonie più audaci e dolorose. La polifonia è fitta ma trasparente, permettendo di distinguere le singole linee vocali che si intrecciano come fili di un arazzo di dolore.
La frase finale would God I had died for thee! porta il lamento alla sua conclusione più disperata. La musica qui può assumere un carattere di supplica estrema e Tomkins utilizza armonie che esprimono un desiderio struggente e un amore paterno immenso. Would God I had died è carico di un pathos immenso, con le voci che si spingono verso l’alto per poi ricadere, mentre for thee porta a una cadenza finale. La risoluzione è tipicamente su un accordo maggiore che qui non suggerisce felicità, ma piuttosto una sorta di rassegnazione dolente o la sublimazione del dolore nell’amore sacrificale.
Nel complesso, When David Heard si rivela un’esperienza musicale ed emotiva di rara intensità. La capacità del compositore di tradurre in musica il dolore più profondo, unita alla sensibilità, alla perizia tecnica e alla purezza vocale dell’ensemble, crea un momento di bellezza straziante che rimane impresso nell’ascoltatore. È una testimonianza della potenza duratura della polifonia rinascimentale inglese e della sua capacità di toccare le corde più intime dell’animo umano.

What is our life?

Orlando Gibbons (1583 - 5 giugno 1625): What is our life?, madrigale a 5 voci (pubblicato in The First Set of Madrigals and Mottets, 1612, n. 14) su testo di Walter Raleigh. The Cambridge Taverner Choir.

What is our life? A play of passion.
Our mirth the music of division.
Our mother’s wombs the tiring houses be,
where we are dress’d for this short comedy.
Heav’n the judicious sharp spectator is,
that sits and marks still who doth act amiss.
Our graves, that hide us from the searching sun
are like drawn curtains when the play is done.
Thus march we, playing to our latest rest;
Only we die in earnest, that’s no jest.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Orlando Gibbons: astro della musica inglese e ponte tra due epoche

Gibbons viene ricordato come un eminente compositore e tastierista inglese, annoverato tra gli ultimi grandi maestri della scuola virginalistica e della scuola madrigalistica inglese. Membro più celebre di una dinastia musicale, negli anni ’10 del Seicento divenne il principale compositore e organista d’Inghilterra. La sua promettente carriera fu tragicamente interrotta da una morte prematura, motivo per cui la sua produzione complessiva non eguaglia quella di contemporanei come il più anziano Byrd. Nonostante ciò, egli apportò contributi significativi a numerosi generi del suo tempo, venendo spesso considerato una figura di transizione tra il periodo rinascimentale e il Barocco.

Origini familiari e primi passi nella musica
Nato in una famiglia profondamente radicata nella musica – il padre era un wait (musicista civico) e i fratelli Edward, Ellis e Ferdinand erano anch’essi musicisti – Gibbons era destinato a seguire la tradizione. Non si sa con certezza sotto chi abbia studiato (forse con il fratello Edward o con Byrd), ma è quasi sicuro che apprese a suonare la tastiera in giovane età. La sua abilità era tale che nel maggio 1603 fu nominato membro non stipendiato della Chapel Royal, diventandone poi gentiluomo e organista aggiunto a pieno titolo nel 1605. Nel 1606 conseguì il baccalaureato in musica presso il King’s College di Cambridge.

L’ascesa alla Chapel Royal e la vita a corte
La carriera di Orlando Gibbons fu coronata dagli ottimi rapporti con figure influenti della corte inglese, tra cui i suoi mecenati re Giacomo I e il principe Carlo, e amici intimi come sir Christopher Hatton. Insieme con William Byrd e John Bull contribuì alla prima raccolta a stampa di musica per tastiera inglese, Parthenia or the Maydenhead of the first musicke that ever was printed for the Virginalls, pubblicata verosimilmente nel 1611. Tra le sue pubblicazioni di rilievo figura il First Set of Madrigals and Motets (1612), che include il celebre madrigale The Silver Swan. Altre composizioni importanti sono gli «anthem» This is the Record of John e O Clap Your Hands Together, e due arrangiamenti dell’Evensong (vespro). L’incarico di maggior prestigio cui pervenne Gibbons fu quello di organista presso l’Abbazia di Westminster, ottenuto nel 1623 e mantenuto fino alla morte.

Controversie biografiche: nascita e dottorato
Fino all’inizio del XX secolo, si riteneva che Gibbons fosse nato a Cambridge, un’informazione riportata anche sul suo monumento funebre a Canterbury. Tuttavia, nonostante il padre avesse vissuto a Cambridge per anni e Orlando stesso vi trascorse gran parte della vita, prove documentali, tra cui un atto di battesimo scoperto da Anthony Wood presso la St. Martin’s Church di Oxford e la successiva conferma della residenza dei genitori a Oxford al momento della sua nascita, hanno definitivamente stabilito Oxford come suo luogo natale (battezzato il giorno di Natale del 1583). La famiglia si trasferì a Cambridge quando Orlando aveva 4-5 anni. Un’altra questione dibattuta riguarda il conseguimento di un dottorato in musica nel maggio 1622. Mentre alcune fonti storiche e musicologi lo affermano, citando l’esecuzione del suo O Clap Your Hands alla cerimonia di laurea di William Heather come prova, altri esprimono dubbi, basandosi sull’assenza di tale titolo in alcuni documenti ufficiali e, soprattutto, sulla sua mancata menzione sul monumento funebre. L’evidenza attuale suggerisce che probabilmente non ottenne mai il dottorato, ma non vi è certezza assoluta.

Maturità artistica, mecenatismo e pubblicazioni
Negli anni ’10 del Seicento, Gibbons era considerato il più eminente organista d’Inghilterra. Strinse una forte amicizia con sir Christopher Hatton, al quale dedicò il suo First Set of Madrigals and Motets (1612), specificando che molti dei brani erano stati creati nella dimora di Hatton. Sei sue composizioni furono incluse in Parthenia, pubblicazione celebrativa del fidanzamento della principessa Elisabetta Stuart con Federico V, conte palatino del Reno. Gibbons potrebbe aver accompagnato la coppia reale a Heidelberg dopo il matrimonio, celebrato nel febbraio 1613. Divenne organista congiunto della Chapel Royal intorno al 1615 e ricevette due sovvenzioni da Giacomo I. Nel 1617 ottenne l’incarico di tastierista nell’ensemble da camera del principe Carlo e, probabilmente, un incarico analogo per Giacomo I nel 1619. Intorno al 1620 pubblicò Fantasies of Three Parts.

Gli ultimi anni e la morte improvvisa
Nel 1623 Gibbons fornì le melodie per la maggior parte dei canti in Hymnes and Songs of the Church di George Wither e divenne organista dell’Abbazia di Westminster. Il 7 maggio 1625, officiò ai funerali di Re Giacomo I. Alla fine di maggio dello stesso anno, mentre si recava a Canterbury con altri membri della Chapel Royal per accogliere la regina Enrichetta Maria, moglie di Carlo I, Gibbons fu colpito da un malore improvviso, probabilmente un’emorragia cerebrale. Morì all’età di 41 anni a Canterbury e fu sepolto nella Cattedrale locale. La moglie Elizabeth morì circa un anno dopo, lasciando i figli orfani alle cure del fratello maggiore di Orlando, Edward.

Profilo personale: tra riservatezza e riconoscimenti
Poco si sa della personalità di Gibbons. La sua vita appare relativamente tranquilla se paragonata a quelle turbolente di contemporanei come Byrd o Bull. Un raro incidente documentato fu un’aggressione subita nel 1620 da parte di un sagrestano. Per contro, il musicista ebbe generalmente buoni rapporti con datori di lavoro e colleghi, sviluppando amicizie strette con figure come Hatton e legami familiari solidi. Le sue nomine precoci e prestigiose alla Chapel Royal testimoniano il suo eccezionale talento. Fu universalmente riconosciuto come un virtuoso della tastiera: John Hacket lo definì «il miglior dito di quell’epoca» e John Chamberlain «la miglior mano d’Inghilterra».

L’opera musicale: stile e generi
La produzione di Gibbons, benché non vasta, è significativa. Comprende circa 45 pezzi per tastiera, dove eccelle nelle fantasie polifoniche e nelle forme di danza, caratterizzate da una solida padronanza del contrappunto a tre e quattro voci e dall’abilità nello sviluppare idee melodiche lineari (per esempio nella Lord Salisbury’s Pavan and Galliard). Scrisse anche una trentina di fantasie per viole. I suoi madrigali, tra cui il famosissimo The Silver Swan e i suoi numerosi e popolari verse anthems su testo inglese (come Great Lord of Lords e il rinomato This is the Record of John, per tenore o controtenore solista e coro) dimostrano la sua capacità di esprimere la forza retorica del testo con eleganza. Produsse inoltre due importanti arrangiamenti dell’Evensong (Short Service e Second Service) e imponenti full anthems come l’espressivo O Lord, in thy wrath e l’anthem per l’Ascensione O clap your hands together a 8 voci.

Eredità duratura e riscoperta moderna
Dopo la sua morte, Gibbons fu ricordato principalmente come compositore di musica sacra. Tuttavia, con la rinascita della musica antica, è cresciuto l’interesse per le sue altre composizioni. Le sue opere per tastiera sono state particolarmente valorizzate dal pianista canadese Glenn Gould che lo considerava il suo compositore preferito, elogiandone la profondità emotiva. Il musicologo Frederick Ouseley lo soprannominò il “Palestrina inglese". Gibbons perfezionò le basi del madrigale inglese e degli anthems (sia full che verse) gettate da Byrd, influenzando significativamente le generazioni successive di compositori inglesi. Questo lignaggio passò attraverso suo figlio Christopher, che fu maestro di John Blow, Pelham Humfrey e, soprattutto, di Henry Purcell, pioniere inglese dell’era barocca.

What is our life? – analisi
Il madrigale What is our life? di Orlando Gibbons è una profonda meditazione musicale sul testo attribuito a sir Walter Raleigh. Questa composizione a cinque voci (soprano, contralto, 2 tenori e basso) sfrutta magistralmente le tecniche madrigalistiche per dipingere vividamente il significato e l’emozione del poema, trasformando la riflessione filosofica sulla vita come breve commedia in un’esperienza sonora toccante e complessa.
Il brano si apre con la domanda retorica "What is our life?". Gibbons imposta questa frase con entrate imitative scaglionate: prima il soprano, seguito dall’contralto, poi dal tenore II e dal basso quasi simultaneamente, e infine dal tenore I. Questo procedimento crea un senso di crescente riflessione. Le linee melodiche tendono ad ascendere leggermente, quasi a sollevare la domanda, per poi risolversi in modo più contemplativo. La risposta, "A play of passion", è trattata con una maggiore enfasi. La parola "passion" riceve un trattamento melodico e armonico più intenso, con le voci che si uniscono in momenti di maggiore omoritmia, sottolineando la natura emotiva e drammatica della vita.
La ripetizione della frase "a play of passion" rafforza questa metafora centrale, con le diverse voci che si scambiano il materiale melodico, creando un ricco tessuto polifonico che suggerisce la complessità delle passioni umane.
Il concetto di "mirth" (allegria, gaiezza) è inizialmente presentato con un carattere leggermente più vivace. Tuttavia, la vera enfasi è sulla frase "the music of division". "Division" nel linguaggio musicale rinascimentale si riferisce a variazioni ornamentali e virtuosistiche su una melodia e Gibbons coglie brillantemente questo significato attraverso un intenso madrigalismo: le voci, in particolare l’contralto e i Tenori, si lanciano in passaggi melismatici (più note su una singola sillaba, specialmente su "di-vi-si-on") e figure ritmiche più rapide e complesse. L’imitazione si fa più fitta e le linee si intrecciano, mimando la complessità e l’ornamentazione delle "divisions" musicali. Questo crea un effetto quasi frenetico, suggerendo la natura effimera e forse superficiale della nostra allegria, vista come un mero abbellimento musicale nel grande dramma. Le voci si separano e si rincorrono, evidenziando l’abilità contrappuntistica di Gibbons.
Il tono si fa più riflessivo e pacato. "Our mother’s wombs" è introdotto con un andamento più calmo e armonie più consonanti. La frase "the tiring houses be" (i camerini, luoghi dove gli attori si preparano) continua questa atmosfera di preparazione. La frase "where we are dress’d for this short comedy" vede le voci convergere verso una maggiore omoritmia, quasi una declamazione. La parola "comedy", nonostante il suo significato letterale, è inserita in un contesto generale piuttosto sobrio, suggerendo forse un’ironia amara. La sezione si conclude con una cadenza che segna la fine di questa "preparazione".
Il riferimento a "Heav’n" (Cielo) è spesso caratterizzato da linee melodiche ascendenti o da una tessitura vocale leggermente più acuta, come si nota nel soprano. La frase "the judicious sharp spectator is" assume un carattere più serio e severo. L’attenzione si concentra su "that sits and marks still who doth act amiss" (che siede e osserva chi agisce male). La musica qui si fa più grave. La parola "amiss" è particolarmente significativa: Gibbons la sottolinea con armonie più scure, inflessioni modali tendenti al minore e, talvolta, con un contorno melodico discendente o una dissonanza preparata e risolta che crea un senso di ammonimento e di peso morale. Le voci si muovono con un ritmo più deliberato e talvolta sincopato, creando un senso di scrutinio implacabile.
Il passaggio a "Our graves" (le nostre tombe) introduce un’atmosfera decisamente più cupa. Gibbons impiega armonie che tendono verso il modo minore e le linee melodiche, specialmente quelle del basso, scendono a registri più gravi, dipingendo l’immagine della sepoltura. "that hide us" (che ci nascondono) è espresso con una sonorità forse più raccolta o con dinamiche più contenute. La menzione del "searching sun" (il sole che scruta) potrebbe presentare un breve sprazzo melodico ascendente o una tessitura leggermente più luminosa, in contrasto con l’oscurità della tomba, prima di ricadere nell’ombra.
La sezione successiva esprime la conclusione definitiva della "commedia" della vita: "are like drawn curtains" (sono come sipari calati) è caratterizzato da un senso di chiusura: le linee melodiche tendono a discendere, il movimento armonico e ritmico può rallentare e le voci si uniscono spesso in accordi sostenuti. "when the play is done", invece, è trattata con grande enfasi e finalità: Gibbons la ripete più volte, e ogni ripetizione conduce a una cadenza ben definita, rafforzando l’idea della conclusione ineluttabile. La tessitura diventa più omoritmica, conferendo solennità all’affermazione.
"Thus march we" introduce un elemento di movimento processionale. Il ritmo si fa più marcato e regolare, quasi a mimare una marcia lenta e inesorabile. "playing" ritorna, ricollegandosi alla metafora centrale del "play" (recita/gioco). In "to our latest rest", come per "graves" e "done", la musica tende a scendere, rallentare e risolversi armonicamente, preparando l’affermazione conclusiva del poema. La ripetizione della parola "playing" accanto a "latest rest" crea un toccante paradosso.
"Only we die in earnest" (Solo moriamo sul serio) è la dichiarazione culminante del brano ed è espresso con la massima gravità. Gibbons abbandona la complessa polifonia per una scrittura prevalentemente omoritmica e accordale. Questo conferisce alle parole una chiarezza e un impatto diretti. "Earnest" (sul serio) è trattato con peso e solennità. "that’s no jest" (questo non è uno scherzo), invece, rafforza la serietà della morte. Il madrigale si conclude con una cadenza forte e inequivocabile. Le armonie sono piene e gli accordi finali sono sostenuti, lasciando l’ascoltatore con un profondo senso della verità ineluttabile espressa dal testo. La possibile inflessione maggiore nell’accordo finale non servirebbe tanto a dare speranza, quanto a conferire una lapidaria certezza alla conclusione.
La tessitura è prevantemente polifonica, con un sapiente uso dell’imitazione che crea un dialogo continuo tra le cinque voci. Gibbons alterna questa complessità con sezioni più omoritmiche o accordali per enfatizzare parole chiave o per creare un senso di affermazione collettiva. Il linguaggio armonico è tipico del tardo Rinascimento inglese, ricco di inflessioni modali ma con un chiaro senso tonale emergente, specialmente nelle cadenze. L’uso di sospensioni e dissonanze controllate (ad esempio su "amiss" o in preparazione delle cadenze) aggiunge profondità espressiva. Le linee vocali sono cantabili e ben modellate, spesso seguendo il contorno naturale del testo parlato, ma capaci di slanci espressivi e di agilità nelle sezioni di "division". Il ritmo, invece, è flessibile e strettamente legato alla prosodia del testo inglese. L’alternanza tra sezioni ritmicamente più complesse e altre più misurate contribuisce alla varietà e all’espressività del brano.
Gibbons eccelle nell’uso di figure musicali per illustrare il significato delle parole: l’attività frenetica per "division", le linee ascendenti per "Heav’n", quelle discendenti e le armonie cupe per "graves" e "done", e la declamazione solenne per le affermazioni finali. Il madrigale è through-composed (senza ripetizioni strofiche formali), seguendo fedelmente la struttura del poema. Ogni verso o coppia di versi riceve un trattamento musicale distinto, che sfocia generalmente in una cadenza prima di passare all’idea successiva. La ripetizione di frasi testuali (e quindi musicali) serve a scopi di enfasi. L’atmosfera generale è profondamente riflessiva, a tratti malinconica e severa, in linea con la natura filosofica e quasi pessimistica del testo di Raleigh. Gibbons riesce a trasmettere un senso di gravitas senza rinunciare alla bellezza e all’eleganza contrappuntistica.
Nel complesso, What is our life? è un capolavoro del madrigale inglese, in cui Orlando Gibbons dimostra una straordinaria sensibilità nel tradurre le complesse immagini e le profonde riflessioni del testo di Raleigh in un linguaggio musicale eloquente e toccante. La sua abilità nel bilanciare la ricchezza polifonica con la chiarezza declamatoria, e il suo uso incisivo dei madrigalismi, rendono questo brano un esempio superbo di come la musica possa elevare e intensificare il significato della poesia, offrendo all’ascoltatore un’esperienza estetica e intellettuale di grande spessore.

Cornemuse et tambourin

Nicolas de Marle (attivo intorno alla metà del XVI secolo): Une bergère un jour, chanson a 4 voci (pubblicata nel Dixseptiesme Livre contenant XIX. chansons legères très musicales nouvelles à quatre parties di Pierre Attaingnant, 1545, n. 17). Ensemble «Clément Janequin».

Une bergère un jour aux champs était
Sous un buisson prenant chemise blanche.
Et le berger qui de près la guettait,
Qui doucement la tira sous manche,
En lui disant: « Margot, voici mon anche.
Jouons nous deux de cette cornemuse,
Car c’est un jeu où souvent tu t’amuses ».
Elle sourit, disant en telle sorte:
« J’ai tambourin joli dont toujours j’use:
Frappez dessus, la peau est assez forte »



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Nicolas de Marle: l’eredità musicale di un maestro "minore" del Rinascimento a Noyon

Un compositore tra sacro e profano
Nicolas de Marle emerge dalla storia come un compositore francese attivo nella città di Noyon durante la metà del XVI secolo. La sua produzione musicale abbraccia sia il genere sacro sia quello profano e, benché Marle sia a tutti gli effetti un maestro "minore" rispetto ad altri suoi contemporanei, le sue composizioni erano già all’epoca considerate di notevole qualità, tanto da meritare la pubblicazione da parte delle rinomate stamperie parigine.

Cenni biografici. Un legame indissolubile con Noyon
Le informazioni sulla vita di Nicolas de Marle sono frammentarie. Si ipotizza che potesse essere originario del borgo di Marle, situato a nord di Laon, lo stesso luogo di provenienza del celebre cancelliere di Francia Henri de Marle. Tuttavia, l’unica testimonianza diretta sulla sua esistenza e sul suo ruolo ci perviene da una sua messa pubblicata nel 1568. In essa, egli viene identificato come prete e maître des enfants de chœur (maestro dei fanciulli cantori) della prestigiosa Cattedrale di Noyon. Data l’assenza di sue tracce in altre località, è plausibile supporre che Marle abbia trascorso, se non l’intera, la maggior parte della sua carriera musicale e sacerdotale proprio a Noyon.

L’opera sacra

L’insieme delle composizioni sacre di Marle pervenuteci si concentra principalmente su tre messe, tutte caratterizzate dalla tecnica compositiva della “messa parodia”, ovvero basate su melodie preesistenti, sacre o profane:

  • la Missa «Je suis deshéritée» (1557): pubblicata a Parigi da Adrian Le Roy e Robert Ballard, questa messa a 4 voci è costruita sulla melodia della celebre chanson Je suis deshéritée di Pierre Cadéac, molto popolare all’epoca;

  • la Missa «Panis quem ego dabo» (1558): edita anch’essa da Le Roy & Ballard, questa messa a 4 voci si basa su un mottetto intitolato Panis quem ego dabo, il cui autore non è stato ancora identificato. Di questa messa esistono anche esemplari datati 1559;

  • la Missa «O gente brunette» (1568): stampata a Parigi da Nicolas du Chemin, questa messa a 4 voci prende spunto da una canzone dal contenuto licenzioso di un certo Mithou. È significativo che il frontespizio di questa edizione confermi esplicitamente il ruolo di Marle come "moderatore" (direttore/maestro) dei fanciulli del coro della chiesa di Noyon. Nello stesso anno, questa messa fu inclusa in una pubblicazione collettiva contenente altre nove messe.

La musica profana
Oltre che di composizioni sacre, Marle fu un prolifico autore di musica profana. Ci sono pervenute 12 sue chansons, pubblicate tra il 1544 e il 1554 da tre importanti stampatori parigini: Pierre Attaingnant, Nicolas du Chemin e la coppia Adrian Le Roy et Robert Ballard. Tra queste chansons, Une bergère un jour (1545) godette di particolare successo e si presume che ciò abbia potuto favorire la pubblicazione di altre opere profane del compositore. Per i testi delle sue chansons, Marle attinse principalmente a fonti anonime, ma musicò anche versi di personalità illustri come il re di Francia Francesco I di Valois e il poeta Clément Marot, dimostrando la capacità di inserirsi nel contesto culturale del suo tempo.

Analisi di Une bergère un jour
Questa chanson rappresenta un esempio squisito della chanson parigina rinascimentale. Benché Marle sia considerato un compositore "minore", questo brano dimostra una notevole abilità nel combinare una melodia accattivante, una chiara declamazione del testo e un’arguta espressività musicale che ne giustificano la popolarità e le numerose ripubblicazioni. La chanson si distingue per il suo carattere leggero, la sua elegante semplicità e, soprattutto, per il suo sottile e giocoso sottotesto erotico.
Il testo narra un incontro pastorale apparentemente innocente, ma è ricco di doppi sensi tipici della letteratura e della musica profana dell’epoca. Le allusioni sono chiare: l’"ancia" (anche) e la "cornamusa" (cornemuse) del pastore, così come il "tamburo" (tambourin) e la sua "pelle" (peau) della pastorella, sono metafore sessuali evidenti. La musica di Marle gioca abilmente con questa malizia, senza mai diventare volgare, ma mantenendo un tono di arguzia e complicità.
La chanson segue una struttura che riflette le divisioni del testo, con sezioni musicali che corrispondono ai diversi momenti narrativi e dialogici. Possiamo identificare:

  • una sezione A (versi 1-4): esposizione della scena
    La musica s’inizia in modo prevalentemente omoritmico, con le quattro voci che si muovono insieme, garantendo un’eccellente intelligibilità del testo. La melodia è graziosa e scorrevole. La frase "Sous un buisson" presenta una leggera inflessione che sottolinea l’ambientazione intima. La frase "Doucement la tira sous manche" è invece enunciata con una delicatezza che rispecchia l’avverbio "doucement".

  • una sezione B (versi 5-7): la proposta del pastore
    Qui la tessitura si anima leggermente. La proposta "Margot, voici mon anche" è enunciata con chiarezza. La frase "Jouons nous deux de cette cornemuse" introduce un carattere più ritmico e giocoso, con un leggero contrappunto imitativo che suggerisce l’interazione e il "gioco". La parola "cornemuse" riceve una certa enfasi.

  • una sezione C (versi 8-10): la risposta della pastorella
    "Elle sourit" è spesso sottolineato da una breve pausa o da un cambio di armonia che introduce la risposta della pastorella. La sua replica, "J’ai tambourin joli dont toujours j’use", è presentata con una melodia altrettanto assertiva e un po’ più vivace. La vera apoteosi della chanson si ha con le parole "Frappez dessus, la peau est assez forte". Questa sezione finale si distingue nettamente per il ritmo più marcato e quasi percussivo, con un andamento scandito che imita l’atto del "battere" (frappez). Le voci, invece, si compattano in una solida omoritmia, conferendo forza e decisione all’invito. La frase "Frappez dessus" (e talvolta l’intera frase finale) viene ripetuta più volte, creando un effetto di crescendo ludico e insistente, quasi come un ritornello che conclude il brano con brio. Questa ripetizione è un chiaro esempio di "madrigalismo" o pittura musicale, dove la musica illustra direttamente l’azione descritta.

La tessitura è prevalentemente omofonica-omoritmica, come tipico di molte chansons parigine destinate a un pubblico ampio, in modo da privilegiare la chiarezza del testo. Tuttavia, Marle introduce abilmente brevi passaggi imitativi o un più libero movimento delle voci interne per aggiungere varietà e sottolineare determinate parole o frasi, come nella frase "Jouons nous deux". La melodia principale è solitamente affidata alla voce superiore ed è caratterizzata da linee cantabili, spesso con movimento congiunto, ma con salti ben calibrati che le conferiscono vivacità. Le altre voci forniscono un solido supporto armonico e, a tratti, partecipano attivamente al dialogo contrappuntistico.
L’armonia è tipica del periodo, basata sulla modalità ma con un chiaro senso di direzione tonale verso cadenze ben definite che marcano la fine delle frasi. Si percepisce un’atmosfera generalmente "maggiore" che contribuisce al carattere solare e leggero del pezzo. Le armonie sono consonanti, con un uso controllato delle dissonanze, principalmente come note di passaggio o ritardi risolti.
La ripetizione ossessiva del comando "Frappez dessus" non è casuale ed è usata dal compositore per creare un finale memorabile ed energico. Questa tecnica ricorda quasi un "ostinato" ritmico-melodico ed è volta a concentrare l’attenzione sull’allusione più diretta del testo, concludendo la chanson con un’esplosione di allegria e arguzia. È questo tipo di scrittura efficace e spiritosa che probabilmente contribuì al successo duraturo del brano.
Nel complesso, Une bergère un jour si propone come un’ottima testimonianza della maestria di Nicolas de Marle nel genere della chanson. Con mezzi apparentemente semplici, egli riesce a creare un pezzo musicale affascinante che cattura perfettamente lo spirito giocoso e allusivo del testo. La chiarezza formale, la cantabilità delle melodie, l’uso efficace dell’omoritmia alternata a un leggero contrappunto e, soprattutto, la brillante pittura musicale nella sezione finale, rendono questa chanson un piccolo capolavoro del suo tempo. Dimostra come anche un compositore non annoverato tra i "giganti" del Rinascimento potesse produrre opere di grande qualità, capaci di divertire e affascinare gli ascoltatori attraverso i secoli.

Terribile come un esercito pronto alla battaglia

Vincenzo Ugolini (c1580 - 6 maggio 1638): Quae est ista, mottetto a 3 cori (1622). Coro Counterpoint, dir. David Acres.

Quae est ista, quae progreditur quasi aurora consurgens,
pulchra ut luna,
electa ut sol,
terribilis ut castrorum acies ordinata?
(Cantico dei cantici VI:10)



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Vincenzo Ugolini: un protagonista della musica romana del Seicento

Ugolini è oggi riconosciuto come una figura rilevante nell’ambito della scuola romana di musica sacra, attivo nel cruciale periodo di transizione tra la fine del Rinascimento e l’inizio del Barocco.

Origini e formazione a Roma
Nacque a Perugia, dove fu battezzato il 1° novembre 1578. Le sue prime esperienze musicali formative non sono documentate ma si sa che, nel giugno 1592, entrò come puer cantus (e poi altus) nella prestigiosa cappella musicale di San Luigi dei Francesi a Roma, rimanendovi fino all’ottobre 1594. Qui ebbe la fondamentale opportunità di studiare sotto la guida di Giovanni Bernardino Nanino, allora maestro di cappella. Già nel Natale 1595, Ugolini prestava servizio come cantore per la Confraternita dei Bergamaschi a Roma. La sua prima composizione edita, il madrigale Amor, ch’è quel ch’io miro, apparve nel 1599 nel Secondo Libro di madrigali del suo maestro Nanino, nel quale Ugolini si definì esplicitamente “discepolo”. Tra il maggio 1600 e il dicembre 1601, fu nuovamente attivo in San Luigi dei Francesi, questa volta come bassus.

Primi incarichi da maestro di cappella a Roma e l’incontro (presunto) con Gesualdo
Ugolini ottenne il suo primo incarico come maestro di cappella presso la Chiesa di Santa Maria dei Monti (associata ai Gesuiti) intorno al 1601-1603. Di certo, il 1° gennaio 1603 fu eletto maestro della Cappella Liberiana nella Basilica di Santa Maria Maggiore, una posizione di grande rilievo che mantenne fino al 29 novembre 1609, nonostante un’assenza di nove mesi per malattia nel 1606. Durante il periodo in cui dirigeva la cappella di Santa Maria Maggiore, potrebbe essere avvenuto un incontro significativo: il celebre e tormentato principe Carlo Gesualdo da Venosa, trovandosi a Roma “in incognito”, avrebbe cercato Ugolini per avere un parere sui propri madrigali. Sebbene non certo, questo aneddoto sottolinea la crescente reputazione di Ugolini nell’ambiente musicale romano.

Il periodo beneventano al servizio del cardinale Arrigoni
Il 29 novembre 1609, Ugolini fu licenziato iustis causis (per giusti motivi, non specificati) da Santa Maria Maggiore. Tuttavia, trovò quasi subito una nuova sistemazione, in quanto tra dicembre 1609 e gennaio 1610 entrò al servizio del cardinale Pompeo Arrigoni, vescovo di Benevento dal 1607. Ugolini si trasferì quindi nella città campana, dedicando al cardinale le sue Sacrae cantiones (mottetti) a 8 voci, pubblicate a Roma nel 1614. Il suo servizio a Benevento terminò probabilmente con la morte del cardinale, avvenuta il 4 aprile 1616.

Attività editoriale: madrigali e scelte poetiche
Nel 1615, mentre era ancora legato a Benevento (o subito dopo), Ugolini pubblicò a Venezia due importanti libri di madrigali a cinque voci. La dedica del primo libro è rivolta al potente cardinale Scipione Borghese, ringraziato per non specificati favori ricevuti. La dedica del secondo libro rivela che fu il cardinale Alessandro Damasceni Peretti a richiedere espressamente quei componimenti. Dal punto di vista poetico, Ugolini musicò testi molto diffusi all’epoca (Tasso, Guarini, Marino, ma anche Luigi Cassola e Baldassarre Bonifacio), e si distinse inoltre per la scelta di liriche meno comuni, tratte da raccolte di Maurizio Moro, del perugino Leandro Bovarini e di autori mantovani raccolti da Eugenio Cagnani.

Primo magistero a San Luigi dei Francesi e attività collaterali
Ritornato stabilmente a Roma, Ugolini riprese servizio presso la chiesa dove si era formato: dal luglio 1616 al luglio 1620 fu maestro di cappella a San Luigi dei Francesi. Durante questo periodo ebbe tra i suoi allievi il giovane Orazio Benevoli, destinato a diventare una figura centrale della musica barocca romana. Fu un periodo editorialmente fertile: pubblicò quattro libri di Motecta sive sacrae cantiones per voci sole (da 1 a 4) e organo (1616-1619), dedicandoli a figure influenti come all’auditore della Sacra Rota Francesco Ubaldi, il marchese Valerio Santacroce, monsignor Ottavio Corsini e il cardinale Alessandro Orsini. Il terzo libro (1618) includeva antifone specifiche per la liturgia parigina di San Luigi. Sue composizioni apparvero anche in raccolte curate da Fabio Costantini (1618) e Zaccaria Zanetti (1619). Oltre all’impegno a San Luigi, Ugolini fu attivo nell’organizzazione musicale di feste per importanti confraternite romane, come S. Maria del Pianto, la SS. Trinità dei Pellegrini e S. Maria di Monserrato (1619-1620).

L’apice e la caduta: la direzione della Cappella Giulia
Il 13 giugno 1620 Ugolini raggiunse uno degli apici della carriera musicale romana, venendo nominato coadiutore di Francesco Soriano, maestro della Cappella Giulia in San Pietro. Poco dopo fu assunto anche come tenore nella stessa cappella. Alla morte di Soriano (19 luglio 1621), Ugolini gli succedette pienamente nel ruolo di maestro. Durante questo periodo, compose musica per eventi solenni, come il mottetto a 12 voci Exultate omnes per la nomina del cardinal Borghese ad arciprete della Basilica Vaticana (1620), incluso poi in una sontuosa pubblicazione del 1622 che causò persino una lite legale con l’editore. A questo periodo risalgono anche undici “dialoghi” liturgici a 8-10 voci destinati a essere eseguiti durante la messa. Ugolini aveva la responsabilità di organizzare le musiche per le grandi celebrazioni in basilica, specialmente per la festa di San Pietro, spesso impiegando più cori. Disponeva di musicisti eccellenti, tra cui l’organista Girolamo Frescobaldi e i giovani cantanti Marc’Antonio Pasqualini e Mario Savioni, entrambi suoi allievi. Per l’Anno Santo 1625 compose diverse opere significative. Tuttavia, il 16 febbraio 1626, il capitolo di San Pietro lo licenziò, nominando al suo posto Paolo Agostini. Le ragioni precise non sono note, ma si ritiene che che Agostini avesse sfidato musicalmente Ugolini e che quest’ultimo, rifiutando la sfida, fosse stato allontanato.

Gli ultimi anni: tra Roma, Parma e il ritorno a San Luigi dei Francesi
Dopo il licenziamento da San Pietro, le tracce di Ugolini si perdono per un paio d’anni. Ricompare nel settembre 1628 con la dedica degli Psalmi ad vesperas a 8 voci al cardinale Girolamo Colonna, senza però indicare alcuna carica nel frontespizio. Secondo Vincenzo Giustiniani, si recò a Parma per partecipare ai festeggiamenti delle nozze ducali Farnese-Medici, anche se il suo contributo specifico non è noto. Fu nuovamente a Roma nel settembre 1629 (testimone al testamento di Domenico Allegri) e nell’aprile 1630 dedicò gli Psalmi ad vesperas et motecta a 12 voci al cardinale Antonio Santacroce. Nel maggio 1631, Ugolini fu nominato per la seconda volta maestro di cappella a San Luigi dei Francesi. La chiesa era ora sotto il controllo dei Padri Oratoriani di Francia, e Ugolini collaborò strettamente con il padre Nicolas de Bralion, influenzando le scelte testuali (come nel dialogo Gaudeamus omnes) e adattando la musica alle nuove esigenze liturgiche e cerimoniali (la chiesa era diventata “regia”, legata al Louvre), come dimostra un salmo modificato per Luigi XIII. Esiste anche un aneddoto secondo cui Ugolini avrebbe “emendato” una messa per il re di Francia, forse un’opera a lui dedicata (come la Missa duobus choris di Nicolas Formé del 1638), stile di cui Ugolini era maestro riconosciuto in Italia.

Analisi del mottetto Quae est ista
Il mottetto Quae est ista di Ugolini rappresenta un esempio raffinato della polifonia sacra del primo Barocco romano, un periodo in cui l’eredità stilistica di Palestrina era ancora profondamente sentita, ma iniziava a fondersi con nuove sensibilità espressive. Ugolini si colloca in quella tradizione che cercava di bilanciare la complessità polifonica con l’intelligibilità del testo sacro, secondo i dettami post-tridentini. Tuttavia, rispetto alla pura polifonia rinascimentale, il suo linguaggio mostra già elementi tipici del primo Barocco, come un uso leggermente più libero della dissonanza (sebbene sempre attentamente preparata e risolta), una maggiore enfasi sulle cadenze armoniche per definire la struttura e una sensibilità più accentuata verso l’espressione retorica del testo. La scelta di impiegare soltanto tre voci conferisce al brano una trasparenza particolare, permettendo alle singole linee melodiche di emergere con chiarezza e di interagire in un dialogo contrappuntistico nitido e delicato.
La scrittura è prevalentemente polifonica e basata sull’imitazione. Ugolini introduce le diverse frasi del testo attraverso “punti di imitazione”, dove una voce presenta un motivo melodico che viene poi ripreso dalle altre voci in successione. Questo crea un tessuto sonoro fluido e intrecciato, in cui le voci dialogano costantemente. La scelta delle tre voci permette che questa imitazione sia sempre percepibile, senza la densità che potrebbe derivare da un organico più ampio. Non mancano momenti di scrittura più omofonica o omoritmica, utilizzati strategicamente per sottolineare parole chiave o per creare momenti di maggiore impatto sonoro, specialmente nelle cadenze o in frasi di particolare solennità come forse “terribilis ut castrorum“.
Le linee melodiche sono generalmente cantabili e scorrevoli, caratterizzate da un movimento prevalentemente congiunto, in linea con la tradizione palestriniana. Gli intervalli più ampi sono usati con parsimonia, spesso per sottolineare l’inizio di una nuova frase o per esigenze espressive legate al testo. Si può notare come le linee tendano ad ascendere su parole come consurgens (che sorge) o sol (sole), traducendo musicalmente l’immagine testuale.
L’armonia si muove in un ambito che potremmo definire modale con forti influenze tonali. Le cadenze, che articolano chiaramente le diverse sezioni del mottetto corrispondenti alle frasi del testo, sono spesso ben definite armonicamente (cadenze perfette o plagali), conferendo un senso di direzione e conclusione. L’uso della dissonanza è controllato: le sospensioni sono preparate e risolte con cura, e le note di passaggio contribuiscono alla fluidità delle linee senza turbare l’equilibrio complessivo. La sonorità generale è prevalentemente consonante, creando un’atmosfera serena e luminosa, perfettamente adatta all’immagine della figura femminile descritta (aurora, luna, sole).
Il ritmo è fluido e flessibile, modellato sulle naturali accentuazioni del testo latino. Ugolini alterna abilmente sezioni sillabiche — che garantiscono la chiarezza della dizione — a passaggi più melismatici, solitamente su vocali accentate o parole di particolare importanza (pulchra, electa), che conferiscono slancio espressivo e ornamento alle linee vocali.
La forma del mottetto segue fedelmente la struttura del testo. Ogni frase dà origine a una sezione musicale distinta, solitamente introdotta da un nuovo punto di imitazione e conclusa da una cadenza più o meno forte. Questo approccio durchkomponiert (a composizione continua) permette alla musica di seguire passo passo il significato e l’emozione del testo, creando un percorso sonoro coerente e in crescendo di intensità descrittiva.

Quel cor è mio

Sigismondo d’India (c1582 - 19 aprile 1629): Felice chi vi mira, madrigale a 5 voci (dal Primo Libro de madrigali a 5 voci, 1606, n. 6) su testo di Battista Guarini. La Venexiana, dir. Claudio Cavina.

Felice chi vi mira,
Ma più felice chi per voi sospira;
Felicissimo poi
Chi sospirando fa sospirar voi.

Ben hebbe amica stella
Chi per donna sì bella
Puù far content’in un
L’occhi e ‘l desio
E sicuro può dir:
«Quel cor è mio».

La vita e l’onore

Matthias Hermann Werrecore (c1500 - p1574): La bataglia taliana (Die Schlacht vor Pavia) a 4 voci (pubblicata per la prima volta nel 1544). Il Terzo Suono, dir. Gian Paolo Fagotto.

Signori e cavalieri d’ingegn’e forza,
Udite la vittoria del Duca
De Milan Francesco Sforza.
All’arm o trombetti, o tamburini,
Li inimici son vicini.
All’arm, butte selle a caval.
Monta a caval.
Tutt’alli stendard inant.

Avant tous gentilz compagnons.
Gente d’arm’a li stendardi.
Su su, fanti, alle bandiere.
Gl’adversari vengon gagliardi.
Via via, caval leggieri.

Gente d’arm’all’ordinieri
Stat’in quella prataria
Capitan e buon guerrieri
De la nobil fantaria.
Da man manch’ardit’ e fieri
In battaglia ciascun stia.
Vivandieri carriazzi saccomani, su via.
Non passate quei sentieri,
Stati strett’in compagnia.
Fulminate cannonieri
Con la vostr’artigliеria.
Scampe da li francois.
Mazza, tocca, dagli o valent’homini milanesi.
Mazza, tocca, dagli Duca.

El gran Duca milanеse
Guard’il ponte
Con la sua gente lombarda.
Sta ben fort’alle contese
Contra si gross’antiguarda
D’assai compagnia francese.

Compagnons, avant, donnes dedans
Frappes dedans, tues ces vilains
France, Marco, gentilz compagnons.

Duca, Italia, mazza francois.
Su, bottiglioni, mazza francois.
Su schiopetti, su archibusi.
Su, su, ché son confusi li francois.
A più non pos passat’il fos.
A dos, mazza, ahi canaglia.

O Nostre Dame, O bon Jesu
Astur nous sommes tous perdus.

Hai poltroni, hai bottiglioni,
Gl’han pur persa la giornata.
Su la peverata, ahi miseri francois.
Scampe da li francois.
O signor’italiani, su ogni alemano
A voi vien la furia amara
D’ogni sguizaro villano.
Scopettier, su spara
Non scargate colp’in vano.

Har, har, raube
Da vir de vir villen latin ruben
Myrher, myrher, perausche
Vir villen chuden rubel binden.

Su alabardieri, urta spezza maglia
Hai vil canaglia
La si sbaraglia mazza taglia.

A los villiacos qui viene a ellos
Qui son rotos hides hechios.

L’è pur vinta la bataglia.
Vittoria, Italia.
Viva il Duca
Con tutta la Italia.

La battaglia di Pavia fu combattuta esattamente cinquecento anni fa, il 24 febbraio 1525. Dopo la rovinosa disfatta, Francesco I di Francia scrisse alla madre Luisa di Savoia: « Madame, de toutes choses ne m’est demeuré que l’honneur et la vie qui est sauve ».

La figlia del re degli elfi

Niels Gade (22 febbraio 1817 - 1890): Elverskud, cantata per soprano, mezzosoprano, baritono, coro e orchestra op. 30 (1851-54); testi di Hans Christian Andersen, Christian Knud, Fredrik Molbech e Gottlieb Siesbye, da una ballata tradizionale danese. La Figlia del re degli elfi (soprano): Lisbeth Balslev; la Madre di Oluf (mezzosoprano): Edith Guillaume; Oluf (baritono): Mikael Melbye; Canzone Choir & Collegium Musicum, dir. Frans Rasmussen.

  • Prologo
  • Parte 1a: Vigilia di nozze [3:16]
  • Parte 2a: Notte di luna sul colle fatato [16:43]
  • Parte 3a: Mattino al castello di Oluf [28:44]
  • Epilogo [42:50]

Testo completo (v.o.): https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/89/Elverskud_NW_Gade_tekst.pdf
Prologo

La mugnaia di Vernon

Clément Janequin (c1485 - 1558): La meunière de Vernon, chanson a 4 voci (1551). Ensemble «Clément Janequin».

La meunière de Vernon,
tire tire tire ton,
don don don,
Elle est mignonne et gorrière,
Et si elle est, ce dit-on,
tire tire tire ton,
don don don,
De bien aimer coutumière.

Un jour tout à l’environ
d’une saussaie et rivière,
Un beau jeune compagnon
D’amour lui fit la prière.

Lors la baisant le mignon
Se prit à lui faire chère
Puis s’assit en son giron
De bonne grâce et manière.

Ho cercato, di notte

Johann Vierdanck (battezzato il 5 febbraio 1605 - 1646): Ich suchte des Nachts, mottetto a 5 voci, 2 violini e basso continuo (pubblicato in Geistlicher Concerten, ander Theil, 1643, n. 17). Europäisches Hanse-Ensemble, dir. Manfred Cordes.

Ich suchte des Nachts in meinem Bette, den meine Seele liebet.
Ich suchte, aber ich fand ihn nicht.
Ich will aufstehen und in der Stadt umgehen
auf den Gassen und Straßen und suchen, den meine Seele liebet.
Ich suchte, aber ich fand ihn nicht.
Es fanden mich die Wächter, die in der Stadt umgehen:
Habt ihr nicht gesehen, den meine Seele liebet?
Da ich ein wenig vor ihnen über kam, da fand ich, den meine Seele liebet.
Ich halte ihn und will ihn nicht lassen, bis ich ihn bringe in meiner Mutter Haus,
in meiner Mutter Kammer.
(Cantico dei cantici 3:1-4)

Wie lieblich sind deine Wohnungen

Johann Hermann Schein (20 gennaio 1586 - 1630): Wie lieblich sind deine Wohnungen, mottetto a 4 voci e continuo; testo: Salmo 84, versetti 2-4. Wiener Kammerchor, dir. Johannes Prinz.

Wie lieblich sind deine Wohnungen, Herr Zebaoth!
Meine Seele verlangt und sehnt sich nach den Vorhöfen des Herrn; mein Leib und Seele freuen sich in dem lebendigen Gott.
Denn der Vogel hat ein Haus gefunden und die Schwalbe ihr Nest, da sie Junge hecken: deine Altäre, Herr Zebaoth, mein König und Gott.

Da dove sorge il sole

Jacobus Vaet (c1529 - 8 gennaio 1567): A solis ortus cardine, inno a 5 voci (strofe pari). Dufay Ensemble.

A solis ortus cardine
Ad usque terrae limitem
Christum canamus Principem,
Natum Maria Virgine.

Beatus auctor saeculi
Servile corpus induit,
Ut carne carnem liberans
Non perderet quod condidit.

Clausae parentis viscera
Caelestis intrat gratia;
Venter puellae baiulat
Secreta quae non noverat.

Domus pudici pectoris
Templum repente fit Dei;
Intacta nesciens virum
Verbo concepit Filium.

Enixa est puerpera
Quem Gabriel praedixerat,
Quem matris alvo gestiens
Clausus Ioannes senserat.

Foeno iacere pertulit,
Praesepe non abhorruit,
Parvoque lacte pastus est
Per quem nec ales esurit.

Gaudet chorus caelestium
Et Angeli canunt Deum,
Palamque fit pastoribus
Pastor, Creator omnium.

Iesu, tibi sit gloria,
Qui natus es de Virgine,
Cum Patre et almo Spiritu,
In sempiterna saecula.
Amen.

O nata lux de lumine

Thomas Tallis (c1505 - 1585): O nata lux de lumine, mottetto a 5 voci (pubblicato in Cantiones quae ab argumento sacrae vocantur, 1575, n. 8). The Tallis Scholars, dir. Peter Phillips.

O nata lux de lumine,
Iesu redemptor saeculi,
Dignare clemens supplicum
Laudes precesque sumere.
Qui carne quondam contegi
Dignatus es pro perditis.
Nos membra confer effici
Tui beati corporis.

Ultimi miei sospiri

Philippe Verdelot (c1480/85 - c1530 o 1552): Ultimi miei sospiri, madrigale a 6 voci (pub­blicato nella raccolta La più divina et più bella musica che se udisse giamai delli presenti madrigali, 1541, n. 1). Ensemble The Blossomed Voice.

Ultimi miei sospiri
che mi lasciate fredd’ e senza vita.
Contate i miei martiri
A chi morir mi vede et non m’aita,
et dite: o beltà infinita,
dal tuo fedel ne caccia empio martire.
Et se questo gli e grato,
gitene rat’ in ciel a miglior stato,
ma se pietà gli porg’il vostro dire,
tornat’ a me, ch’io non vorrò morire.

Radix sancta

Adrian Willaert (c1490 - 7 dicembre 1562): Ave regina caelorum, mottetto a 4 voci (pubblicato in Musica quatuor vocum quae vulgo motecta nuncupatur liber primus, 1539, n. 17). Membri dell’ensemble Capilla Flamenca: Marnix De Cat, contraltista; Jan Caals, tenore; Lieven Termont, baritono; Dirk Snellings, basso e direttore.

Ave, Regina caelorum,
Ave, Domina angelorum:
Salve, radix sancta
ex qua mundo lux est orta:
Gaude gloriosa,
super omnes speciosa:
Vale, valde decora
et pro nobis semper Christum exora.

Terribilis est locus iste

Guillaume Dufay (c1397 - 27 novembre 1474): Nuper rosarum flores, mottetto a 4 voci (1436). The Hilliard Ensemble.

Nuper rosarum flores
Ex dono pontificis
Hieme licet horrida
Tibi, virgo coelica,
Pie et sancte deditum
Grandis templum machinae
Condecorarunt perpetim.

Hodie vicarius
Jesu Christi et Petri
Successor Eugenius
Hoc idem amplissimum
Sacris templum manibus
Sanctisque liquoribus
Consecrare dignatus est.

Igitur, alma parens
Nati tui et filia
Virgo decus virginum,
Tuus te Florentiae
Devotus orat populus,
Ut qui mente et corpore
Mundo quicquam exorarit.

Oratione tua
Cruciatus et meritis
Tui secundum carnem
Nati Domini sui
Grata beneficia
Veniamque reatum
Accipere mereatur.
Amen.

Tenor :

Terribilis est locus iste.

Nuper rosarum flores fu composto per la consacrazione del Duomo di Firenze, avvenuta il 25 marzo 1436. Si è ipotizzato che la struttura del mottetto e quella della cattedrale siano correlate, ma l’argomento è tuttora oggetto di discussione; qui si trovano alcune informazioni in proposito.

NRF

Il Requiem di Fauré

Gabriel Fauré (1845 - 4 novembre 1924): Requiem (versione del 1893 ricostruita da John Rutter). Caroline Ashton, soprano; Stephen Varcoe, baritono; Simon Standage, violino; John Scott, organo; The Cambridge Singers; membri della City of London Sinfonia, dir. John Rutter.

  1. Introït – Kyrie
  2. Offertoire [5:59]
  3. Sanctus [14:24]
  4. Pie Jesu [17:30]
  5. Agnus Dei – Lux aeterna [21:02]
  6. Libera me [26:23]
  7. In paradisum [30:57]

Pavane in fa diesis minore

Gabriel Fauré (1845 - 4 novembre 1924): Pavane in fa diesis minore op. 50, versione per coro e orchestra (1887). Hallé Choir and Orchestra, dir. Maurice Handford.

La Pavane è dedicata alla contessa Élisabeth Greffulhe, nata Riquet de Caraman (1860 - 1952), che Fauré chiamava «Madame ma Fée». Il testo affidato al coro, del tutto inconsistente, è di un cugino della contessa, il famoso esteta, poeta simbolista e dandy Robert de Montesquiou (1855 - 1921).

C’est Lindor, c’est Tircis et c’est tous nos vainqueurs!
C’est Myrtille, c’est Lydé! Les reines de nos coeurs!
Comme ils sont provocants! Comme ils sont fiers toujours!
Comme on ose régner sur nos sorts et nos jours!

Faites attention! Observez la mesure!

Ô la mortelle injure! La cadence est moins lente!
Et la chute plus sûre! Nous rabattrons bien leur caquets!
Nous serons bientôt leurs laquais!
Qu’ils sont laids! Chers minois!
Qu’ils sont fols! (Airs coquets!)

Et c’est toujours de même, et c’est ainsi toujours!
On s’adore! On se hait! On maudit ses amours!
Adieu Myrtille, Eglé, Chloé, démons moqueurs!
Adieu donc et bons jours aux tyrans de nos coeurs!
Et bons jours!


Lo stesso brano nella versione per sola orchestra. London Philharmonic Orchestra, dir. Ben Gernon.

Della pacifica notte infrangiamo il silenzio

Gabriel Fauré (1845 - 4 novembre 1924): Cantique de Jean Racine per coro e organo op. 11 (1864-65). Choir of St John’s College.

Il testo di Racine è una traduzione francese dell’inno latino Consors paterni luminis, attribuito a sant’Ambrogio (Aurelius Ambrosius).

Verbe égal au Très-Haut, notre unique espérance,
Jour éternel de la terre et des cieux,
De la paisible nuit nous rompons le silence:
Divin Sauveur, jette sur nous les yeux.

Répands sur nous le feu de Ta grâce puissante;
Que tout l’enfer fuie au son de Ta voix;
Dissipe le sommeil d’une âme languissante
Qui la conduit à l’oubli de Tes lois!

Ô Christ ! sois favorable à ce peuple fidèle,
Pour Te bénir maintenant rassemblé;
Reçois les chants qu’il offre à Ta gloire immortelle,
Et de Tes dons qu’il retourne comblé.

Musique fait deul

Johannes Ockeghem (fra il 1410 e il 1430 - 1497): Mort tu as navré / Miserere, motet-chanson a 4 voci, composto in morte di Gilles Binchois (1460). Ensemble Graindelavoix, dir. Björn Schmelzer.

Cantus :

Mort, tu as navré de ton dart
le père de joieuseté
en desployant ton estendart
sur Binchois, patron de bonté.
Rétoricque, se Dieu me gard,
son serviteur a regretté.
Musique par piteux regard
fait deul et noir a porté.
En sa jeunesse fut soudart
de honorable mondanité.
Puis a esleu la meilleure part,
servant Dieu en humilité.

Son corps est plaint et lamenté
Qui gist sous lame.
Hélas plaise vous en pitié
Prier pour l’âme!
Pleurez, hommes de feaulté,
Faites reclame,
Vueillez vostre université
Prier pour l’âme!
Tant lui soit en crestienté
Son nom est fame
Qui détient grant voulanté.
Prier pour l’âme!

Tenor, Bassus I e II :

Miserere pie Jhesu Domine, dona ei requiem.
Quem in cruce redemisti precioso sanguine,
pie Jhesu Domine, dona ei requiem.


Lo stesso brano arrangiato per quintetto di strumenti ad ancia da Raaf Hekkema. Calefax Reed Quintet.

Ockeghem, Mort tu as navré / Miserere

Arcadelt & Petrarca

Jacques Arcadelt (1507 - 14 ottobre 1568): Chiare, fresche e dolci acque, madrigale a 5 voci (pubblicato nella raccolta Il primo libro de le Muse a cinque voci composto da diversi eccellentissimi musici, 1555, n. 1); testo di Francesco Petrarca (Canzoniere CXXVI, 1-3). The Consort of Musicke, dir. Anthony Rooley.

1ª parte :

Chiare, fresche e dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.

2ª parte :

S’egli è pur mio destino
e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
et torni l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in piú riposato porto
né in piú tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l’ossa.

3ª parte :

Tempo verrà anchor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
et là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi; et, o pietà!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m’impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.