Circles (Luciano Berio 100)

Luciano Berio (24 ottobre 1925 - 2003): Circles per voce femminile, arpa e due per­cus­sio­ni­sti (1960) su testi di e. e. cummings (n. 25, 76 e 221 dei Collected Poems). Anne-May Krüger, mezzosoprano; Estelle Costanzo, arpa; Dino Georgeton e Víctor Barceló, percussioni.

N. 25

stinging
gold swarms
upon the spires
silver

           chants the litanies the
great bells are ringing with rose
the lewd fat bells
                            and a tall

wind
is dragging
the
sea

with

dream

-S


N. 76

riverly is a flower
gone softly by tomb
rosily gods whiten
befall saith rain

anguish
and dream-send is
hushed
in

moan-loll where
night      gathers
morte carved smiles

cloud-gloss is at moon-cease
soon
verbal mist-flowers close
ghosts on prowl gorge

sly slim gods stare


N. 221

n(o)w

the
how
dis(appeared cleverly)world

iS Slapped:with;liGhtninG
!

at
which(shal)lpounceupcrackw(ill)jumps
of
THuNdeRB
loSSo!M iN
-visiblya mongban(gedfrag-
ment ssky?wha tm)eani ngl(essNessUn
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&
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pos
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U

n:starT birDs(IEAp)Openi ng
t hing ; s(
-sing
)all are aLI(cry alL See)o(ver All)Th(e grEEn

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« Circles, scritto nel 1960 su domanda di Paul Fromm, fu eseguito per la prima volta nell’agosto di quello stesso anno al Berkshire Music Festival da Cathy Berberian e membri della Boston Symphony Orchestra. Circles elabora musicalmente tre poesie di e. e. cummings che, nell’ordine, presentano gradi diversi di complessità: il n. 25 stinging gold swarms… il n. 76 riverly is a flower… e il n. 221 n(o)w the how dis(appeared cleverly)world…, dai Collected Poems. In Circles i tre poemi appaiono nel seguente ordine: 25-76-221, (221)-76-25. La poesia n. 221 ritorna, a ritroso, su se stessa, mentre le poesie n. 25 e n. 76 appaiono due volte in diversi momenti dello sviluppo musicale.
« Non era certamente nelle mie intenzioni comporre una serie di pezzi vocali con accompagnamento di arpa e percussioni. Mi interessava invece elaborare circolarmente le tre poesie in un’unica forma ove i diversi livelli di significato, l’azione vocale e l’azione strumentale fossero strettamente condizionati e strutturati anche sul piano concreto delle qualità fonetiche. Gli aspetti teatrali dell’esecuzione sono inerenti alla struttura della composizione stessa che è, innanzi tutto, una struttura di azioni: da ascoltare come teatro e da vedere come musica » (Luciano Berio, 1961).



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Luciano Berio: l’architetto sonoro dell’Avanguardia italiana

Radici musicali e interruzione bellica
Nato a Oneglia (Imperia), Berio crebbe in un ambiente profondamente musicale, figlio e nipote di compositori e strumentisti. Ricevette la prima educazione pianistica sotto la guida del padre, Ernesto, sviluppando una solida conoscenza dei classici e tentando le prime composizioni. La sua gioventù fu drammaticamente segnata dall’8 settembre 1943: arruolato nella Repubblica di Salò, egli subì una grave ferita alla mano destra durante un’esercitazione, un evento che lo costrinse a rinunciare al sogno di una carriera da pianista concertista, spingendolo definitivamente verso la composizione. Dopo la fuga dall’ospedale e un periodo di clandestinità, si iscrisse al Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano nel 1945.

La formazione milanese e il ruolo dei mentori
A Milano, Berio si immerse in un ambiente culturale e musicale in pieno fermento post-bellico, scoprendo le avanguardie (Schönberg, Webern, Bartók) e le culture di confine (jazz, popolare). I suoi studi al Conservatorio furono decisivi, in particolare grazie all’eredità contrappuntistica di Giulio Cesare Paribeni e, soprattutto, alla guida di Giorgio Federico Ghedini, che gli trasmise una profonda coscienza storica e una maestria tecnica basata su Stravinskij, Bach e Monteverdi. Nonostante la prima produzione studentesca fosse di impronta artigianale (Concertino, Magnificat), il compositore sviluppò in questi anni cruciali la propria sensibilità per la voce umana e la relazione tra testo e musica, un interesse rafforzato dal matrimonio (1950) con la giovane e brillante studentessa armena Cathy Berberian. L’incontro con la sua futura musa, dotata di un “pluralismo vocale” unico, coincise con l’inizio della sua prima fervida stagione creativa.

La rivoluzione elettronica e l’invenzione dello studio di fonologia
La svolta radicale avvenne nel 1952 durante un soggiorno negli Stati Uniti, dove Berio scoprì la tape-music. Rientrato in Italia, strinse un sodalizio fondamentale con il compositore Bruno Maderna, insieme al quale, nel 1956, fondò lo Studio di fonologia musicale della Rai di Milano. Questo centro divenne un crogiolo di sperimentazione, lontano dalle rigide divisioni europee tra musica concreta ed elettronica. Il periodo milanese fu fecondato anche dall’incontro con Umberto Eco, che contribuì a definire la poetica dell’“opera aperta”, concetto che influenzò profondamente il compositore. Esempi di questa ricerca sulla relazione tra suono, voce ed elettronica sono Thema (Omaggio a Joyce) e il celebre Visage (1961), che utilizza l’elaborazione elettronica di una gamma estrema di gesti vocali non verbali di Berberian.

Il decennio americano e la virtuosità totale
All’inizio degli anni ’60, il compositore iniziò una lunga serie di incarichi didattici negli Stati Uniti (Tanglewood, Mills College, Juilliard School), dove insegnò per sei anni e fondò il Juilliard Ensemble. Nonostante la separazione dalla Berberian, il sodalizio artistico proseguì con opere fondamentali come i Folk songs e, soprattutto, la Sequenza III per voce sola. In questo periodo, Berio sviluppò il ciclo delle Sequenze, composizioni solistiche pensate per esplorare i limiti tecnici, gestuali ed espressivi di strumenti specifici (come la Sequenza I per flauto e la V per trombone, omaggio al clown Grock). Parallelamente, applicò il concetto di re-working e stratificazione, trasformando le Sequenze in opere per ensemble, i Chemins.
Il culmine di questa fase è Sinfonia (1968), un’opera monumentale per otto voci amplificate e orchestra. Celebre per il terzo movimento – un complesso collage sonoro e culturale costruito interamente sullo Scherzo della Seconda Sinfonia di Mahler – l’opera combina riferimenti testuali da Beckett e Lévi-Strauss, rappresentando la coscienza storica e l’eclettismo linguistico di Berio.

Il ritorno in Italia e il laboratorio europeo
Nel 1974 Berio rientrò in Italia, stabilendosi in Toscana, ma i suoi impegni internazionali si intensificarono. Fu chiamato da Pierre Boulez a fondare e dirigere il dipartimento elettroacustico dell’IRCAM a Parigi (1974-80), dove promosse la ricerca su sistemi di trasformazione del suono in tempo reale (come il 4X). Nel frattempo, la sua produzione si orientò verso visioni enciclopediche e antropologiche: Coro (1974-76) è un mosaico di testi e musiche provenienti da culture diverse, con una struttura orchestrale e corale rigorosamente disposta nello spazio. Il rinnovato interesse per il teatro musicale lo portò a collaborare nuovamente con Italo Calvino. Le opere di questo periodo, tra cui La vera storia (1982) e Un re in ascolto (1984), si concentrano sul rifiuto della trama lineare in favore di una narrazione frammentata, riflettendo sulla metafora dell’ascolto e sull’auto-riflessività del teatro stesso.

Istituzioni, memoria e l’eredità finale
Nel 1987 Berio fondò a Firenze Tempo Reale, un centro di ricerca musicale che gli permise di sviluppare ulteriormente la spazializzazione del suono attraverso il sistema multicanale TRAILS (esemplificato in Ofaním). Negli ultimi anni, l’attività creativa si affiancò a crescenti responsabilità pubbliche: tenne le prestigiose Charles Eliot Norton Lectures a Harvard (1993-94) e fu eletto presidente dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia (2000), seguendo attivamente la nascita dell’Auditorium Parco della musica di Roma.
La sua opera matura si caratterizzò per un continuo “dialogo con il passato”, evidente nel “restauro” di frammenti di Schubert in Rendering (1990) e nella controversa nuova conclusione per il terzo atto della Turandot di Puccini (2002). Il compositore concluse il suo lavoro con l’ultima della serie, Sequenza XIV per violoncello, e con Stanze (2002-03), opera per baritono, coro e orchestra terminata poche settimane prima della morte. L’opera, con i suoi richiami alla Shoah e la riflessione profonda sull’idea di Dio, si configura come il suo pacato e commovente congedo.

Circles
Composizione fondamentale nel catalogo di Luciano Berio, Circles rielabora le scoperte sulle potenzialità della voce e del suono fatte dal compositore nel suo precedente lavoro elettronico, Thema (Omaggio a Joyce). Scritta per la sua musa e allora moglie, il mezzosoprano Cathy Berberian, l’opera esplora il legame inscindibile tra significato testuale, gesto vocale, e timbro strumentale, realizzando il concetto di «struttura di azioni: da ascoltare come teatro e da vedere come musica».
La composizione è costruita su un’architettura rigorosamente simmetrica in forma ad arco, A-B-C-B′-A′, che riflette il titolo stesso dell’opera. Berio utilizza tre poesie di e. e. cummings tratte dai Collected Poems (pubblicate con i numeri 25, 76 e 221 rispettivamente).
Grande importanza è data alla disposizione spaziale dei musicisti, un elemento prescritto dalla partitura che sottolinea il carattere teatrale dell’opera. Il mezzosoprano è posizionato al centro, affiancata dall’arpista e dai due percussionisti. La strumentazione è ricca e variegata, con una notevole enfasi su arpa e un esteso set di percussioni, tra cui gong, tam-tam, timpani, marimba, conga, wind chimes e oggetti in legno, tutti disposti in modo circolare attorno alla cantante. Il movimento della cantante sul palco è parte integrante della performance: i momenti di quiete sonora corrispondono a momenti di immobilità fisica, mentre le sezioni più concitate sono accompagnate da gesti ampi, quasi direttoriali, che spesso coinvolgono l’esecuzione di piccoli strumenti a percussione.
La prima sezione si apre con la voce del mezzosoprano in primo piano, che modula la poesia n. 25 con un canto melismatico e quasi operistico. L’arpa interviene con arpeggi eterei e il tono è lirico, sebbene pervaso da un senso di sospensione e attesa. Il ruolo della voce è di esplorare il timbro e le qualità fonetiche del testo di e. e. cummings. Le vocali lunghe sono sostenute, mentre le consonanti e le sibilanti vengono articolate in modo esagerato, talvolta raschiato.
L’entrata della percussione, con vibrazioni metalliche e colpi secchi, interrompe la linea lirica, introducendo una tensione crescente che riflette il significato implicito del testo. La cantante inizia a eseguire lei stessa piccole percussioni, unendo l’azione vocale a quella strumentale e diventando, di fatto, parte dell’ensemble. Il finale della prima sezione A si chiude in un gesto di enfatica sospensione, con il mezzosoprano che si muove al centro e le bacchette alzate in un gesto di direzione drammatica, culminando in un fragore di percussioni che dissolve l’atmosfera lirica.
La sezione B, basata sulla poesia n. 76, introduce un’atmosfera più frammentata e puntillistica: Berio utilizza una vocalità più espressionistica e rapida, in cui le parole vengono spezzate o allungate, e i suoni prendono il sopravvento sul significato letterale. Il mezzosoprano continua a utilizzare i microfoni posizionati sul palco per amplificare i suoi suoni non convenzionali: risate, suoni gutturali e sussurri si mescolano a un canto più tradizionale. La musica diventa densa, con texture timbriche complesse create da una varietà di percussioni esotiche e l’arpa a pedali illuminata. L’equilibrio tra i tre elementi (voce, arpa, percussione) è dinamico e instabile, riflettendo la natura “frammentata” del testo poetico. La sezione si chiude con l’esaurirsi graduale dei suoni.
La sezione centrale dell’arco formale e corrisponde alla poesia n. 221, la più destrutturata e visivamente circolare di e. e. cummings. In questa parte, l’azione scenica è enfatizzata. La performance vocale si concentra sul disfacimento della parola, con la cantante che manipola fisicamente i microfoni per creare effetti di spazializzazione del suono. Il testo, ricco di parentesi e sillabe spezzate, è reso attraverso un’esecuzione che è per metà parlato e per metà cantato, esplorando l’onomatopea e la pura qualità fonetica della lingua. La musica tocca i suoi apici di intensità sonora e teatrale, con esplosioni ritmiche della percussione e l’arpa che contribuisce a un denso sottofondo armonico. La cantante utilizza gesti teatrali ampi e si muove con le mani aperte, quasi a plasmare il suono. Berio infine introduce la ripetizione a ritroso di una parte del testo, un chiaro segnale dell’inizio della simmetria retrograda.
Le sezioni successive B′ e A′ ripropongono i testi delle sezioni precedenti, ma con nuove e diverse elaborazioni musicali.
L’attenzione torna sul testo B, ma in una veste più ritmica e giocosa. L’arpa e la percussione si fanno più virtuosistiche, con un’azione di battiti veloci e precisi che confermano la funzione ritmica e quasi meccanica degli strumenti. La cantante riprende i suoi gesti direttoriali e manipolativi, enfatizzando l’interazione tra i musicisti sul palco. Il mezzosoprano usa gli chimes con un gesto sonoro che chiude la sezione, lasciando il palco.
La parte finale riprende il primo testo in una forma ancora più ridotta e rarefatta. La musica si dissolve in suoni sottili e sospesi, con l’arpa che esegue figure di estrema delicatezza, mentre la cantante canta o sussurra il testo finale con un ritorno alla qualità lirica e meditativa, ma ora con un senso di fragilità estrema.
L’opera si conclude con una lunga dissolvenza sonora, in cui gli strumenti si quietano lentamente, realizzando l’idea del ciclo che si chiude. La performance si trasforma in un evento visivo di “musica vista” e di “teatro dell’ascolto”, dove la cantante, prima al centro dell’azione, alla fine si riunisce in un gesto di congedo con l’ensemble, sancendo il successo della sua esplorazione acustica della vocalità d’avanguardia.

Remedium animae

Ottavio Vernizzi (1569 - 28 settembre 1649): O Domine Jesu Christe, mottetto a 6 voci (da Motectorum Specimen… Liber primus, 1603). Dina König, contralto; Susanna Defendi, Adam Jakab, Phillip Boyle, Adrian King e Constantin Meyer, tromboni.

O Domine Jesu Christe,
adoro te in cruce vulneratum
felle et aceto potatum:
te deprecor ut tua vulnera
sint remedium animae meae
morsque tua sit vita mea.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Ottavio Vernizzi: poliedrico organista e compositore bolognese

Ottavio Vernizzi (conosciuto anche come Vernici, Vernitio o Invernizzi) è una figura emblematica del panorama musicale bolognese a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la cui carriera si estese per oltre cinquant’anni. La sua vita fu un intreccio di servizio ecclesiastico, attività accademica, insegnamento e persino controversie legali, il tutto mentre sviluppava uno stile compositivo che fungeva da ponte tra la polifonia tardorinascimentale e le nuove tendenze concertate del primo Barocco.

Origini e contesto familiare
Vernizzi nacque a Bologna il 27 novembre 1569. La sua famiglia non era di nobili origini, come testimonia il ruolo del padre, Pier Jacopo, bidello presso il Collegio degli artisti, e quello dei suoi fratelli, Ugo e Pier Jacopo, anch’essi bidelli nello Studio bolognese. Questa modesta provenienza, tuttavia, fu in qualche modo riscattata nel Settecento, quando un discendente, Filippo Vernizzi, acquisì il titolo di conte. Ciononostante, storici come Giuseppe Guidicini (1872) hanno espresso scetticismo su presunte antiche nobili ascendenze, suggerendo che la famiglia avesse radici più umili, con il padre di Ottavio descritto come un lavoratore agricolo dei Boncompagni, proprietario di terreni e di un’osteria (“la Cestarella”) fuori Porta Strada Maggiore.

Una prestigiosa carriera di organista
Le informazioni sulla formazione giovanile del compositore sono lacunose, ma è certo che la sua carriera professionale si concentrò presto sulla musica ecclesiastica, in particolare come organista. Già prima del 1596, egli esercitava occasionalmente la professione di organista presso la Basilica di San Petronio a Bologna. Nel febbraio di quell’anno, in seguito alla richiesta di pensionamento del titolare Vincenzo Bertalotti, Vernizzi presentò la sua candidatura ufficiale, forte delle sue «benemerenze acquisite quale supplente» e di «patronati illustri». Insieme a lui si candidò Giovanni Battista Mecchi, un allievo di Bertalotti raccomandato dal cardinale Alessandro Peretti Damasceni. La Fabbriceria della basilica prese una decisione innovativa: il 15 febbraio 1596, entrambi furono assunti con la clausola di essere «equales et equaliter ellecti ad ipsa duo organa». Questo implicava un’alternanza mensile sugli organi e l’obbligo di sostituirsi a vicenda. Questa disposizione fu facilitata dalla contemporanea costruzione del secondo organo della basilica (completato nel 1597 da Baldassarre Malamini), che permise di allineare l’ampliamento dell’organico musicale con la pratica della polifonia a doppio coro.
Nonostante la parità iniziale, Vernizzi ricevette presto un riconoscimento speciale. Oltre a uno stipendio di 13 lire, 6 soldi e 8 denari e un alloggio (successivamente convertito in un’indennità annuale), fu gratificato con due donativi nel 1597 e 1598, un’elargizione vitalizia dal 1625 e aumenti salariali che portarono la sua paga mensile a 22 lire entro il 1641. Vernizzi mantenne il suo incarico a San Petronio per ben cinquantatré anni, fino alla sua morte, avvenuta il 28 settembre 1649. Gli succedette il suo allievo Giulio Cesare Arresti, a testimonianza del suo duraturo impatto. Oltre a San Petronio, ricoprì incarichi di organista anche in San Procolo (1629-32) e presso l’Arciconfraternita di Santa Maria della Vita, luoghi dove molti musicisti della cappella di San Petronio erano attivi.

Didatta e accademico rinomato
Vernizzi non fu solo un esecutore e compositore, ma anche un didatta stimato. I suoi legami familiari con lo Studio pubblico di Bologna gli garantirono rapporti privilegiati con gli studenti universitari, specialmente quelli della natio germanica. A partire dal 1615, contravvenendo alle normative ecclesiastiche, impartì lezioni di musica alle monache camaldolesi di Santa Cristina della Fondazza, dove ebbe tra le sue allieve Lucrezia Orsina Vizzani. Queste lezioni clandestine furono interrotte d’autorità nel 1623.
Fu un membro attivo delle vivaci accademie musicali bolognesi. Aggregato come “Indefesso” all’Accademia dei Floridi, fondata nel 1615 da Adriano Banchieri e successivamente rifondata come Accademia dei Filomusi nel 1623 da Girolamo Giacobbi, la sua influenza è attestata da menzioni in opere di Banchieri, che lodò la sua abilità organistica, incluse un suo mottetto (Quæsivi quem diligit) in una raccolta e gli dedicò una lettera nelle Lettere armoniche. Partecipò anche all’Accademia dei Ravvivati, probabilmente introdotto dal poeta Silvestro Branchi, con cui collaborò in diverse produzioni.

Vita personale e controversie legali
La vita privata di Vernizzi non fu esente da complessità. Nel 1614 ebbe un figlio naturale, Francesco, da Lucrezia Tabarelli, vedova. Gli assicurò un vitalizio per la madre e una donazione di beni per il figlio, e un lascito testamentario a suor Samaritana Valisani (figlia di primo letto della Tabarelli) suggerisce un possibile matrimonio successivo con Lucrezia. Tuttavia, nei suoi testamenti (del 1639 e 1645), il figlio Francesco non è menzionato. Questi documenti invece dettagliano i beneficiari del suo patrimonio, tra cui la seconda moglie Francesca Tegli, la sua serva, i nipoti (figli del fratello Ugo), il suo allievo Giulio Cesare Arresti (a cui destinò l’intera biblioteca musicale e gli strumenti), e altre persone. Vernizzi richiese di essere sepolto senza pompa nella chiesa di Sant’Andrea degli Ansaldi.
Fu anche protagonista di alcune vicende legali. Nel 1634, fu coinvolto in una causa a Roma, ma nobili bolognesi attestarono la sua impossibilità di viaggiare per motivi di età e scarse risorse. Ancora più curiosa fu la controversia del 1636 con il nipote Marcantonio Scavazzoni, che lo citò in giudizio per una scommessa persa a seguito di una testimonianza favorevole di Vernizzi in un processo. La disputa si protrasse per anni, risolvendosi a favore del compositore solo nel 1641.

L’opera musicale: un ponte tra epoche
La virtù compositiva di Vernizzi è attestata da cinque raccolte a stampa superstiti di mottetti, fondamentali per comprendere lo sviluppo della musica sacra bolognese del primo Seicento. La sua opera prima, Motectorum specimen (1603), dedicata al cardinale Peretti, contiene ventidue composizioni da 5 a 10 voci. Queste opere sono espressione dello stile a cappella florido e sontuoso tipico dell’ultima stagione del mottetto polifonico cinquecentesco. I suoi modelli di riferimento erano compositori come Andrea Rota e Girolamo Giacobbi, ma Vernizzi si distinse per un uso più “artificioso” dei procedimenti compositivi, in particolare nell’uso espressivo delle dissonanze e della concatenazione degli esacordi.
Le sue altre musiche a stampa sono prevalentemente in stile concertato, a eccezione di un responsorio. L’Armonia ecclesiasticorum concertuum (1604) include alcuni dei primi esempi di mottetto concertato nell’area bolognese, dedicato alla natio germanica. Seguirono gli Angelici concentus (1606) e i Caelestium applausus (1612), nei quali Vernizzi sviluppa lo stile concertato principalmente attraverso duetti, trii e quartetti vocali di natura contrappuntistica, piuttosto che attraverso il recitativo sillabico o melodizzato. Solo il Caelestium applausus introduce tre mottetti a voce sola, mentre le opere precedenti si concludono con mottetti a quattro voci in stile antico che mostrano un’audace cromatismo. L’opera quinta, Concerti Octavii Vernitii a 5.6.8. cum basso (1613), è nota solo dal titolo. Dopo una lunga pausa, nel 1648, pubblicò la sua opera sesta, i Concerti spirituali, che mostrano un notevole sviluppo in termini di forma, proporzioni e varietà stilistiche rispetto alle sue precedenti composizioni concertate.
Oltre alla musica sacra, Vernizzi compose anche musiche teatrali, tra cui intermedi per tragedie e commedie rappresentate nelle accademie bolognesi, ma purtroppo queste opere sono andate perdute. La sua musica fu riconosciuta anche all’estero, con ristampe di alcuni suoi mottetti in importanti antologie tedesche. Attraverso la sua prolifica attività e la sua capacità di innovare pur mantenendo un legame con la tradizione, Vernizzi si affermò come una figura chiave nella transizione musicale del suo tempo.

Il mottetto O Domine Jesu Christe
Tratto dalla sua raccolta Motectorum Specimen del 1603, è un esempio sublime del passaggio tra la polifonia rinascimentale e l’emergente sensibilità barocca.
Il brano si apre con un’introduzione maestosa e riverente. Le voci entrano gradualmente, tessendo linee melodiche interconnesse che creano una ricca trama polifonica. I tromboni accompagnano le voci, spesso raddoppiandole o fornendo un contrappunto morbido ma solido, mentre l’organo tiene salda la base armonica. La melodia è caratterizzata da passaggi melismatici, specialmente sulla frase «O Domine Jesu Christe», che conferiscono un senso di “floridezza” e grandezza, come descritto nella biografia di Vernizzi per la sua prima raccolta. La dinamica è controllata, ma con una pienezza sonora che evoca solennità. Si percepisce già l’uso di armonie complesse e di “dissonanze espressive” che arricchiscono il tessuto sonoro senza turbarne la devozione.
La musica poi si approfondisce nel descrivere le sofferenze di Cristo, con frasi come «in cruce vulneratum felle et aceto potatum»: qui, il tono si fa più intimo e a tratti più doloroso. Le linee vocali si muovono spesso con moto discendente, suggerendo il peso del sacrificio. Le dissonanze diventano più evidenti e cariche di significato emotivo, risolvendosi poi in consonanze appaganti, un tratto distintivo della musica del primo Barocco che cerca di esprimere gli affetti del testo. I tromboni qui assumono un ruolo ancora più prominente, a volte quasi vocalico, dialogando con i cantanti e rinforzando le armonie più intense.
L’ultima sezione del mottetto si concentra sulla supplica e la speranza, con la musica che riflette questo passaggio emotivo con una maggiore intensità e un senso di risoluzione. Le voci si uniscono in passaggi omoritmici che enfatizzano la chiarezza del messaggio, alternando ancora momenti di intricata polifonia. La dinamica cresce gradualmente verso un climax finale, sottolineando la potenza delle parole. La conclusione è caratterizzata da accordi ricchi e sostenuti, che emanano un senso di pace e fede incrollabile. Le armonie finali sono profondamente consonanti, stabilendo un senso di compimento e di speranza eterna. Il ruolo degli strumenti è fondamentale nell’arricchire questa sonorità sontuosa, creando un tappeto sonoro ampio e avvolgente che culmina in una chiusura piena e risonante.
Nel complesso, il pezzo mostra un equilibrio tra la tradizione polifonica del Cinquecento e l’innovazione armonica e strumentale del Barocco nascente. L’uso espressivo delle dissonanze, la tessitura ricca e florida, e la capacità di tradurre emotivamente il testo in musica, ne fanno un’opera di grande bellezza e profondità devozionale, fedele allo stile descritto per il Motectorum Specimen e al contempo proiettata verso le nuove sonorità del suo tempo.

Il rondeau del calumet

Jean-Philippe Rameau (25 settembre 1683 - 1764): Rondeau des sauvages (« Forêts paisibles »), dall’ultimo atto dell’opéra-ballet Les Indes galantes (1735). Patricia Petibon, soprano (Zima); Nicolas Rivenq, baritono (Adario); Les Arts Florissants, dir. William Christie.


Lo stesso brano eseguito alla bersagliera, in concerto, dai Musiciens du Louvre diretti da Marc Minkowski, con i cantanti Magali Léger e Laurent Naouri.

Zima, Adario :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Zima, Adario :

Dans nos retraites, dans nos retraites,
Grandeur, ne viens jamais
Offrir tes faux attraits!
Ciel, ciel, tu les as faites,
Pour l’innocence et pour la paix.

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.

Zima, Adario :

Jouissons dans nos asiles,
Jouissons des biens tranquilles!
Ah! peut-on être heureux,
Quand on forme d’autres vœux?

Chœur des Sauvages :

Forêts paisibles, forêts paisibles,
Jamais un vain désir ne trouble ici nos cœurs.
S’ils sont sensibles, s’ils sont sensibles,
Fortune, ce n’est pas au prix de tes faveurs.


Rameau: Les Sauvages, rondeau (dalla raccolta Nouvelles suites de pièces de clavecin, 1727). Grigorij Sokolov, pianoforte.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Il Rondeau des sauvages è uno dei numeri più celebri e iconici dell’«opéra-ballet» Les Indes galantes di Jean-Philippe Rameau, composto nel 1735. Inserito nell’atto IV, «Les Sauvages d’Amerique», ambientato nell’America del Nord, il brano incarna l’immaginario europeo dell’epoca riguardo ai “selvaggi” del Nuovo Mondo, combinando fascino esotico, ingenuità e una profonda connessione con la natura.
La musica si apre con un ritmo vigoroso e pulsante scandito dal tamburo: è una sonorità primaria, quasi tribale, che cattura immediatamente l’attenzione. Man mano che altri strumenti si uniscono si delinea una melodia vivace e sincopata in tonalità maggiore, che evoca un senso di festa e vitalità. Questo primo ritornello strumentale, con la sua melodia orecchiabile e il ritmo incalzante, stabilisce il carattere gioioso e selvaggio del pezzo. La musica, pur ripetendosi, introduce successivamente leggere variazioni orchestrali o dinamiche che mantengono l’interesse, culminando in un crescendo.
Successivamente, l’accompagnamento musicale si fa più sottile per lasciare spazio al canto. Le voci soliste, ricche e vibranti, portano in primo piano il messaggio di Rameau: la celebrazione della pace e dell’innocenza delle “foreste pacifiche”, dove i cuori non sono turbati da desideri vani e la felicità non dipende dalle ricchezze o dai favori della fortuna. Si unisce poi il coro dei selvaggi, amplificando il messaggio con un coro potente e armonioso.
Il tema del rondeau si ripresenta diverse volte, alternando i solisti con il coro, creando un’onda di suono e movimento che alterna momenti di intimità a esplosioni corali. La parte lirica, spesso accompagnata da movimenti più morbidi e ondeggianti, sottolinea ulteriormente il contrasto tra la purezza della vita dei sauvages e la corruzione del mondo civilizzato, un tropo tipico dell’Illuminismo. I solisti cantano con un’espressività crescente, mentre il coro li supporta, riempiendo la scena con la loro presenza vocale e coreografica.
Il brano si conclude con la ripresa da parte dell’intero ensemble del tema principale del rondeau, con un’energia crescente e un senso di trionfo gioioso.
Nel complesso, il pezzo è un esempio magistrale della capacità di Rameau di fondere musica e dramma. L’uso di ritmi vivaci e melodie accattivanti crea un’atmosfera di “esotismo” che era molto di moda all’epoca, mentre la giustapposizione delle sezioni strumentali danzate con quelle vocali cantate dai solisti e dal coro contribuisce a creare un opéra-ballet dinamico e visivamente ricco.

Composto come parte delle Nouvelles Suites de pièces de clavecin del 1727, Les Sauvages è un rondeau che cattura l’immaginazione con il suo carattere vivace, quasi esotico, ispirato ai “selvaggi” che Rameau vide esibirsi a Parigi. La forma del rondeau è chiaramente delineata, con un refrain ricorrente che incornicia episodi (couplets) contrastanti.
Il brano si apre con l’energico ritornello, stabilendo il carattere incisivo e “selvaggio” suggerito il titolo. La melodia è caratterizzata da figure arpeggiate ascendenti e discendenti rapide, spesso seguite da passaggi scalari virtuosistici e agili abbellimenti. Il compositore utilizza abbondantemente sincopi che conferiscono un impulso ritmico propulsivo e un senso di “sfida” o vivacità quasi selvaggia. La mano destra esegue la linea melodica principale con notevole chiarezza e leggerezza, mentre la mano sinistra fornisce un accompagnamento armonico e ritmico robusto, ma non invadente.
L’articolazione è prevalentemente staccata e nitida, specialmente nelle rapide semicrome, contribuendo alla brillantezza del suono. Ci sono anche brevi frasi legate che offrono un leggero contrasto, mentre la dinamica si mantiene su un mezzo forte generale, con lievi crescendo su passaggi ascendenti e diminuendo verso le cadenze, evidenziando la struttura fraseologica.
L’armonia è saldamente ancorata alla tonalità di impianto (sol minore), con progressioni diatoniche chiare e l’uso efficace di dominanti che rafforzano il centro tonale. La ripetizione della sezione ribadisce il tema principale con la stessa energia e precisione.
Dopo la ripetizione del refrain, il primo couplet introduce un marcato contrasto, sia timbrico che espressivo.
La tonalità si sposta verso la dominante (re maggiore) e la melodia si fa più lirica e meno angolare, con un andamento più scorrevole e legato. Sebbene mantenga la base ritmica generale, le sincopi aggressive del refrain sono attenuate, sostituite da un flusso più continuo di semicrome. La mano sinistra assume un ruolo più melodico e contrappuntistico in alcuni passaggi, creando un dialogo tra le due mani.
L’articolazione diventa più legata, con un suono più morbido e cantabile. La dinamica si sposta verso un mezzo piano che enfatizza il carattere più intimo e quasi meditativo di questa sezione, pur mantenendo un’eleganza intrinseca. Le progressioni armoniche sono fluide e contribuiscono alla sensazione di apertura e lirismo, portando dolcemente alla preparazione per il ritorno del refrain.
Viene ripreso il tema principale, ripristinando l’energia e il carattere “selvaggio” iniziale, per poi introdurre un nuovo contrasto con il secondo couplet, questa volta con una sfumatura più profonda e forse più drammatica.
La tonalità sembra modulare verso la sottodominante (do) o addirittura verso regioni minori prima di tornare alla tonalità principale. La melodia è ora più elaborata e a volte più “corposa”, con un maggior uso di accordi e passaggi che richiedono una maggiore pienezza di suono. Il ritmo rimane sostenuto, ma le figure sono spesso più complesse e intrecciate, quasi a creare un dialogo serrato tra le voci. Si notano passaggi che sembrano quasi delle scale discendenti o ascendenti in blocchi di accordi, dando un senso di grandezza.
L’articolazione è ancora precisa, ma con una tendenza a un legato più pronunciato in alcune frasi, permettendo al suono di sostenersi. Viene esplorata una gamma dinamica leggermente più ampia, con momenti di maggiore intensità (forte) che poi si risolvono in diminuendo prima del ritorno finale del refrain. Le progressioni armoniche si fanno più avventurose e creano una tensione che si risolve elegantemente nel ritorno del tema principale.
Il brano si conclude con l’ultima riaffermazione del refrain, seguito da una coda concisa, con una chiara cadenza nella tonalità principale, che termina su un accordo risonante, lasciando un senso di completezza e vivacità duratura.

Šostakovič 1975-2025 – III

Dmitrij Šostakovič (1906 - 9 agosto 1975): Dalla poesia popolare ebraica, ciclo di canzoni per soprano, mezzosoprano o contralto, tenore e orchestra op. 79a (1948-63). Anna Aglatova, soprano; Svetlana Šilova, mezzosoprano; Michail Gubskij, tenore; Orchestra Filarmonica di Stato di Mosca, dir. Vladimir Spivakov.

  1. Lamento per un bimbo morto: Moderato

    Il sole e la pioggia, la luce e l’ombra, la nebbia è scesa, la luna è impallidita.
    – Ha partorito?
    – È un maschio, un maschio.
    – E come si chiama?
    – Mojšele, Mojšele.
    – E dove è stato cullato, Mojšele?
    – In una culla.
    – E che cosa gli hanno dato da mangiare?
    – Pane e cipolle.
    – E dove è stato sepolto?
    – In una fossa.
    Oh! Il piccolo in una fossa, in una fossa.
    Mojšele in una fossa.

  2. Mamma e zia premurose: Allegretto [2:35]

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci una mela,
    così che non ci facciano male gli occhietti!
    Ciao!

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci un pollo,
    così che non ci facciano male i dentini!
    Ciao!

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci un’anatra,
    così che non ci faccia male il petto!
    Ciao!

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci un’oca,
    così che non ci faccia male il pancino!
    Ciao!

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci dei semi,
    così che non ci faccia male la testolina!
    Ciao!

    Ciao, ciao, ciao!
    Va’ al villaggio, paparino!
    Portaci un coniglietto,
    così che non ci facciano male i ditini!
    Ciao!

  3. Ninna-nanna: Andante [4:46]

    Il mio bambino è il più bello del mondo –
    una luce nell’oscurità.
    Tuo padre è in catene in Siberia,
    Lo zar lo tiene in prigione!
    Dormi, lju-lju, lju-lju!

    Dondolando la tua culla
    la mamma piange.
    Quando sarai grande capirai
    che cosa le brucia il cuore.

    Tuo padre è nella lontana Siberia,
    io nella miseria.
    Ma ora dormi senza preoccupazioni, ah,
    lju-lju, lju-lju, lju-lju!

    Il mio dolore è più nero della notte,
    Tu dormi, io non posso.
    Dormi, mio caro, dormi, figlio mio, dormi,
    lju-lju, lju-lju, lju-lju!

  4. Prima di una lunga separazione: Adagio [7:41]

    – Ah! Abraham, come vivrò senza di te? Io senza di te, tu senza di me, come faremo a vivere lontani?

    – Ricordi, vicino al portico, che cosa mi dicevi in segreto? Ah! Rivočka, dammi le tue labbra, bambina!

    – Ah! Abraham, come vivremo adesso? Io senza di te, tu senza di me, ah, come una porta senza maniglia!

    – Ricordi, quando camminavamo insieme, che cosa mi dicevi sul viale? Ah! Rivočka, dammi le tue labbra, bambina!

    – Ah! Abraham, come vivrò senza di te?

    – Ah! Rivočka, come vivrò senza di te?

    – Ricordi? Indossavo una gonna rossa. Ah, com’ero bella!

    – Io senza di te, tu senza di me: come vivremo senza felicità?

    – Ah! Abraham!

    – Ah! Rivočka, dammi le tue labbra, bambina!

  5. Avvertimento: Allegretto [10:07]

    Ascolta, Chasja!
    Non devi uscire, ti proibisco di uscire con la prima persona che incontri.
    Fa’ attenzione!
    Uscirai, starai fuori fino all’alba, ah!, e dopo piangerai.
    Chasja!
    Ascolta! Chasja!

  6. Il padre abbandonato: Moderato [11:29]

    Ele il rigattiere indossò il cappotto.
    Sua figlia, dicono, è andata via con un poliziotto.

    – Cirele, figlia mia, torna da tuo padre, ti darò abiti eleganti per le tue nozze.
    Cirele, figlia mia, ti comprerò orecchini e anelli.
    Cirele, figlia mia, e per di più sposerai un bell’uomo.
    Cirele, figlia mia.

    – Non ho bisogno di abiti, non ho bisogno di anelli.
    E sposerò soltanto il mio poliziotto.

    – Signor poliziotto, caccia via questo vecchio ebreo quanto prima.

    – Cirele, figlia mia, torna da tuo padre!
    Ah… torna da tuo padre! Cirele! Figlia mia!

  7. Canto sulla miseria: Allegro [13:29]

    Il tetto dorme dolcemente,
    in soffitta, sotto la paglia.
    Nella culla dorme un bambino,
    nudo, senza fasce.

      Hop, hop, più in alto, più in alto!
      La capra mangia la paglia del tetto.
      Hop, hop, più in alto, più in alto!
      La capra mangia la paglia del tetto, oh!

    La culla è nella soffitta,
    nella culla un ragno tesse la mia infelicità.
    Succhia tutta la mia gioia
    e mi lascia solo miseria.

      Hop, hop, più in alto…

    C’è un gallo in soffitta,
    la cresta rosso vivo.
    Oh, moglie mia, prendi in prestito, per i piccoli,
    un pezzetto di pane nero.

      Hop, hop, più in alto…

  8. Inverno: Adagio [14:58]

    La mia Šejndl è costretta a letto
    e con lei giace il nostro bambino malato.
    Nella capanna non c’è nulla per riscaldarla
    e fuori ulula il vento.

    Ah…

    Il freddo e il vento sono tornati,
    non c’è più la forza di soffrire in silenzio.
    Gridate e piangete, bambini,
    l’inverno è tornato.

    Ah…

  9. Una bella vita: Allegretto [18:00]

    Dei vasti campi, miei cari amici,
    non ho cantato durante gli anni bui.
    Non è per me che i campi sono diventati verdi,
    non per me la rugiada ha iniziato a scorrere.

    In una stretta cantina, nell’umida oscurità,
    vivevo un tempo, sfinito dalla miseria.
    E dalla cantina saliva un triste canto
    di dolore, della mia incomparabile sofferenza.

    Fiume del kolchoz, scorri gioioso,
    porta subito i miei saluti ai miei amici.
    Di’ loro che la mia casa ora è nel kolchoz
    e un albero in fiore sta sotto la mia finestra.

    Ora i campi fioriscono per me,
    mi nutrono di latte e miele.
    Sono felice, e tu di’ ai miei fratelli:
    d’ora in poi canterò i campi del kolchoz.

  10. Canto della fanciulla: Allegretto [19:40]

    Nei prati, vicino al bosco
    che è sempre così pensoso,
    pascoliamo dall’alba al tramonto
    le mandrie del kolchoz.

    E io siedo sulla collina
    con il mio piccolo flauto,
    e non mi stanco di contemplare
    la bellezza del mio paese.

    Gli alberi, coperti di fogliame rilucente,
    si ergono con grazia e delicatezza.
    Nei campi il grano matura
    colmo di bellezza.

    Oj-oj, lju-lju!

    A volte un ramo mi sorride,
    una spiga ammicca all’improvviso.
    Un sentimento di grande gioia
    brilla nel mio cuore.

    Canta, piccolo flauto!
    È così facile per noi cantare insieme!
    Montagne e valli ascoltano
    la gioia del nostro canto.

    Non piangere, piccolo flauto!
    Dimentica la tristezza di un tempo.
    Lascia che le tue melodie scorrano
    nella dolce lontananza.

    Oj-oj, lju-lju!

    Sono felice nel mio kolchoz,
    non senti? La mia vita è piena!
    Più allegro, più allegro
    devi cantare, piccolo flauto!

  11. Felicità: Allegretto [22:20]

    Ho preso coraggiosamente mio marito per un braccio,
    anche se sono vecchia, e vecchio è il mio cavaliere.
    L’ho portato a teatro con me
    e abbiamo comprato due biglietti per la platea.

    Seduti là con mio marito fino a tarda notte,
    ci siamo abbandonati a sogni gioiosi –
    quali benedizioni circondano
    la moglie di un calzolaio ebreo.

    E voglio raccontare a tutto il paese
    della mia gioiosa e luminosa sorte:
    i nostri figli sono diventati dottori –
    una stella brilla sopra le nostre teste!



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Dalla poesia popolare ebraica op. 79

Non si tratta di un semplice ciclo di canzoni, ma della testimonianza di un profondo atto di coraggio artistico e umano. Composto nel 1948, Dalla poesia popolare ebraica nasce in uno dei periodi più bui per Šostakovič e per l’intera Unione sovietica. Appena denunciato dal Decreto Ždanov per “formalismo” e costretto a una pubblica umiliazione, il compositore si trovava in una posizione di estrema vulnerabilità: in questo clima, segnato da una crescente ondata di antisemitismo di Stato che sarebbe culminata nella “congiura dei medici”, la scelta del compositore di musicare testi della tradizione ebraica fu un gesto di solidarietà tanto audace quanto pericoloso. Il fatto che l’opera, specialmente nella sua versione orchestrale, abbia dovuto attendere fino al 1964 per una prima esecuzione pubblica, sottolinea l’enorme rischio politico che essa rappresentava.
Lo stesso Šostakovič descrisse il fascino che la musica ebraica esercitava su di lui come «una melodia allegra su intonazioni tristi», una capacità di «ridere attraverso le lacrime»: questa dualità è il cuore pulsante dell’op. 79 e si manifesta fin dalle prime note.
L’organico orchestrale – pur essendo completo – viene spesso utilizzato con la delicatezza della musica da camera. Strumenti come il clarinetto, il flauto e l’ottavino emergono con inflessioni che ricordano chiaramente la musica klezmer: scale modali caratteristiche, glissandi lamentosi e ritmi saltellanti. Questi elementi creano un’atmosfera immediatamente riconoscibile. Tuttavia, Šostakovič non si limita a una semplice imitazione stilistica, ma integra questi idiomi nel suo linguaggio sinfonico, creando un tessuto sonoro che è allo stesso tempo folklorico e profondamente personale.
Il ciclo è diviso in undici canzoni, ma la sua struttura narrativa può essere interpretata come un dittico, diviso tra le prime otto canzoni (il nucleo originale) e le ultime tre (aggiunte per superare la censura).
Il ciclo si apre con un Lamento per un bimbo morto, instaurando subito un’atmosfera cupa e straziante. La voce è carica di disperazione contenuta, mentre l’orchestra – con il violoncello solista in primo piano – crea uno sfondo sonoro desolato: è un’elegia che trascende la singola storia per diventare un lamento universale per le vittime innocenti.
Canzoni come Mamma e zia premurose e la Ninna-nanna esplorano la vita familiare, ma sempre con un’ombra di precarietà e tristezza: la seconda, in particolare, è un capolavoro di ambiguità, con una melodia dolce, ma un’armonia sottostante inquieta, suggerendo che il sonno del bambino sia una fuga temporanea da un mondo ostile.
Il duetto Prima di una lunga separazione è uno dei momenti più toccanti: le voci si intrecciano in un dialogo di dolore e rassegnazione, descrivendo la separazione forzata imposta dalle leggi zariste. La musica qui è incredibilmente espressiva, dipingendo un quadro di sofferenza intima ma storicamente radicata. I brani successivi, Avvertimento, Il padre abbandonato e Canto sulla miseria, continuano a esplorare temi di perdita, povertà e ingiustizia, e trovano il culmine nella desolazione di Inverno.
Con la nona canzone, Una bella vita, il tono cambia bruscamente: le ultime tre canzoni – aggiunte da Šostakovič per placare le autorità – descrivono la presunta felicità e libertà di cui godevano gli ebrei sotto il regime sovietico. La musica diventa marcatamente più ottimistica, con ritmi marziali e melodie in tonalità maggiore.
Tuttavia, è proprio qui che emerge il genio sardonico del compositore, poiché questa “felicità” suona spesso esagerata, quasi caricaturale: il Canto della ragazza e Felicità risuonano con un’energia quasi teatrale e una gioia forzata, sostenute da un’orchestrazione bandistica e pomposa. Questo contrasto con l’autenticità emotiva delle prime otto canzoni è stridente e non può essere casuale: è come se il compositore, costretto a inserire un lieto fine propagandistico, lo avesse fatto con un’ironia così tagliente da trasformarlo in una critica. La vera sofferenza suona reale e profonda, mentre la “felicità” ufficiale suona vuota e artificiale.

Qu’est-ce?

Clément Janequin (c1485 - 1558): Qu’est-ce d’amour, chanson a 4 voci (pubblicata in 24 Chansons musicales à quatre parties composées par maistre Janequin, 1533, n. 6) su testo di Francesco I di Valois re di Francia. Ensemble «Clément Janequin».

Qu’est-ce d’amour comment le peult on paindre?
Si c’est ung feu dont l’on oyt chacun plaindre,
Dont vient le froit qui amortist ung cueur?
Si c’est froideur qui cause la chaleur
Dont toute l’eau ne peult jamais estraindre?
S’il est si doux par quoy n’est doncques moindre
L’amertume? S’il est amer sans faindre
Aprenez moy dont vient ceste doulceur.
Qu’est-ce?



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Clément Janequin: il genio errante del suono

Clément Janequin è stato uno dei più prolifici e innovativi compositori francesi del Rinascimento, la cui fama è legata indissolubilmente alle sue vivaci e descrittive chansons polifoniche. Già molto celebre ai suoi tempi, ebbe tuttavia una carriera atipica, segnata da lunghi periodi di silenzio documentario e da un percorso errante tra varie città francesi, senza mai ottenere quella posizione stabile presso la corte reale che la sua notorietà avrebbe potuto garantirgli.

Una carriera itinerante e misteriosa
La vita di Janequin si snoda attraverso diverse tappe geografiche, con lunghe parentesi enigmatiche che ancora oggi lasciano spazio a ipotesi. Nato a Châtellerault da una famiglia agiata, ricevette probabilmente la prima formazione musicale presso la locale chiesa collegiata. Le prime tracce concrete della sua carriera lo collocano nel 1505 come chierico al servizio di Lancelot du Fau, un’importante figura di ecclesiastico. Già nel 1507, lo troviamo maestro dei coristi presso la Cattedrale di Luçon, dove però la sua permanenza fu turbolenta: accusato di condotta immorale, fu scomunicato, imprigionato per un breve periodo e privato del suo incarico, eventi che lo portarono a fare appello al Parlamento di Parigi.
Tra il 1507 e il 1525 si registra un vuoto biografico di diciotto anni. Paradossalmente, è durante questo periodo oscuro che la sua fama esplode: compone la sua celebre chanson La Guerre, che fa riferimento alla battaglia di Marignano (1515), e le sue opere iniziano a circolare, tanto da essere pubblicate a Venezia già nel 1520 e da meritare un intero volume dall’editore parigino Pierre Attaingnant nel 1528. Lo ritroviamo nel 1525 al servizio dell’arcivescovo Jean de Foix a Bordeaux: qui Janequin gode di diversi benefici ecclesiastici che non richiedono un grande impegno, permettendogli presumibilmente di dedicarsi assiduamente alla composizione.
Intorno al 1533 il compositore si trasferisce ad Angers, dove assume l’incarico di maestro di cappella della cattedrale fino al 1537. In questo periodo, sotto la protezione del vescovo e poeta Jean Olivier, entra in contatto con circoli letterari vicini a Clément Marot, di cui musicherà il famoso poema erotico Du beau tétin. Segue un’altra decade di silenzio documentario (1538-48), al termine della quale lo si ritrova brevemente ad Angers come “studente”, probabilmente nel tentativo di ottenere gradi accademici per accedere a benefici più redditizi.
Dal 1549 è a Parigi e, negli ultimi anni di vita, ottiene titoli onorifici (cantore ordinario della cappella del re, compositore ordinario di musica per il re), anche se questi ruoli non sembrano corrispondere a un impiego reale e potrebbero essere stati i suoi unici mezzi di sostentamento. Muore nella capitale francese nel 1558, lasciando un testamento che testimonia la sua identità di compositore.

Il rapporto incompiuto con la corte francese
Nonostante la sua immensa popolarità, Janequin non riuscì mai a ottenere una posizione stabile e prestigiosa alla corte di Francesco I. Tentò di attirare l’attenzione del re musicando alcune sue poesie, ponendosi in diretta competizione con Claudin de Sermisy, compositore di corte. Tuttavia, i suoi sforzi non si concretizzarono, se non in tarda età e in forma puramente onorifica. La sua carriera rimane un caso atipico: brevi incarichi come maestro di cappella, una vita sostenuta da benefici ecclesiastici e la protezione di alcuni vescovi, ma senza la consacrazione di un ruolo a corte.

L’opera: un’eredità monumentale
Il corpus delle composizioni di Janequin supera le 400 composizioni, cosa che fa di lui uno dei maestri più fecondi dell’epoca. Benché la sua produzione sacra sia notevole, è nell’ambito della musica profana che risiede la sua eredità più duratura.
Janequin compose due messe, tra cui la famosa Missa La Bataille, un’auto-parodia della sua stessa chanson. La sua produzione di mottetti è quasi interamente perduta, ad eccezione di un brano, Congregati sunt. Notevole è la vasta produzione di salmi e chansons spirituali, che dimostra come Janequin abbia seguito da vicino il formarsi di un repertorio musicale protestante.
Tuttavia, è con le sue circa 250 chansons che il compositore ha rivoluzionato la musica del suo tempo. Si specializzò in ampie composizioni descrittive, dove la musica evoca suoni della natura e della vita quotidiana con un realismo senza precedenti. Brani come La Guerre, Le Chant des Oiseaux, Les Cris de Paris, La Chasse e L’Alouette comprendono ampi passaggi onomatopeici, trasformando la musica in un vivido affresco sonoro: Janequin può essere considerato il primo bruitista, capace di tradurre in partitura i suoni del suo mondo, quasi come se avesse potuto registrarli. Queste opere gli diedero una rapida e vasta celebrità in tutta Europa e furono pubblicate e ripubblicate dai maggiori editori del tempo, come Attaingnant a Parigi e Gardano a Venezia. Oltre a queste, il suo repertorio spazia da canzoni rustiche e narrative a epigrammi galanti e satirici, consolidando la sua posizione come maestro indiscusso della chanson francese.

Qu’est-ce d’amour?: analisi
Questa delicata chanson si apre con un andamento lento e solenne, quasi meditativo: le quattro voci entrano in uno stile omoritmico, ovvero cantando le stesse parole simultaneamente con il medesimo ritmo. Questo conferisce alla domanda iniziale, «Qu’est-ce d’amour?», un peso e una gravitas particolari. La musica qui è prevalentemente accordale, con armonie chiare e consonanti che creano un’atmosfera di serena riflessione, quasi sacrale, che contrasta con il tormento interrogativo del testo.
La struttura musicale segue fedelmente la forma della poesia: Janequin utilizza la ripetizione di sezioni musicali per sottolineare la struttura retorica delle domande e dei paradossi. Per esempio, la melodia e l’armonia usate per la frase «comment le peult on paindre?» vengono riprese e variate per accompagnare altre domande nel testo, creando un senso di coesione formale.
Il cuore della chanson risiede nella capacità di Janequin di tradurre musicalmente i continui ossimori del testo: quando il testo parla del “fuoco” dell’amore, la dinamica vocale si intensifica leggermente, ma è soprattutto nell’armonia che si percepisce la tensione. Subito dopo, alla menzione del “freddo”, la musica sembra invece quasi “raffreddarsi”, illustrando magistralmente il paradosso descritto.
La dolcezza dell’amore («si doux») è altresì resa attraverso passaggi melodici più fluidi e armonie prevalentemente maggiori, cantate con un timbro morbido e legato, mentre la menzione dell’amarezza («l’amertume») introduce dissonanze sottili e momentanee, piccoli attriti armonici tra le voci che creano un senso di disagio, perfettamente in linea con il significato delle parole.

In sintesi, Qu’est-ce d’amour? vive di equilibri e opposizioni: Janequin è abile a creare una cornice musicale elegante e controllata per un testo che esplora il caos emotivo dell’amore.

A mai più rivederci!

Gustav Mahler (7 luglio 1860 - 1911): Nicht wiedersehen!, Lied per voce e pianoforte (c1887-90); testo tratto dalla raccolta Des Knaben Wunderhorn. Dietrich Fischer-Dieskau, baritono; Leonard Bernstein, pianoforte.

Und nun ade, mein herzallerliebster Schatz,
Jetzt muß ich wohl scheiden von dir,
Bis auf den andern Sommer,
Dann komm ich wieder zu dir! Ade!

Und als der junge Knab heimkam,
Von seiner Liebsten fing er an:
„Wo ist meine Herzallerliebste,
Die ich verlassen hab?“

„Auf dem Kirchhof liegt sie begraben,
Heut ists der dritte Tag.
Das Trauern und das Weinen
Hat sie zum Tod gebracht.“

Jetzt will ich auf den Kirchhof gehen,
Will suchen meiner Liebsten Grab,
Will ihr all’weile rufen,
Bis daß sie mir Antwort gab!

Ei du mein allerherzliebster Schatz,
Mach auf dein tiefes Grab!
Du hörst kein Glöcklein läuten,
Du hörst kein Vöglein pfeifen,
Du siehst weder Sonne noch Mond!
Ade, mein herzallerliebster Schatz! Ade!

«E ora addio, mio tesoro,
mi tocca partire e devo lasciarti,
fino alla prossima estate
non potrò tornare da te. Addio.»

E quando il giovane tornò a casa,
della sua amata chiese:
«Dov’è la mia adorata
che avevo dovuto lasciare?»

«Giace sepolta nel cimitero,
oggi è il terzo giorno.
Il dolore e le lacrime
l’hanno portata alla morte.»

«Voglio andare subito al cimitero
a cercare la tomba della mia amata,
la invocherò senza sosta
finché non mi risponderà.

Orsù, mia adorata,
apri questa tua tomba!
Non senti più le campane suonare,
non senti più gli uccelli cantare,
non vedi il sole né la luna!
Addio, mia adorata, addio!»



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Un canto dalla tomba: il “teatro sonoro” di Mahler

Nicht wiedersehen! è uno dei Lieder più intensi e drammatici di Mahler, tratti dalla raccolta di poesie popolari tedesche Des Knaben Wunderhorn, pubblicata in tre volumi, fra il 1805 e il 1808, da Clemens Brentano e Achim von Arnim.
Composto tra il 1887 e il 1890, il brano è molto più di una semplice canzone: è una scena operistica concentrata in cinque minuti, un vero e proprio dramma che esplora i temi mahleriani per eccellenza, ossia l’amore, la separazione, la morte e la trascendenza. Il Lied si articola in quattro strofe che corrispondono a quattro scene emotive distinte: Mahler adotta una forma strofica variata, in cui il materiale musicale ritorna ma viene costantemente trasformato per riflettere l’evoluzione della tragedia.

Ha inizio con accordi solenni e pesanti in do minore. La tessitura è semplice, quasi corale, evocando l’atmosfera di una canzone popolare, ma il tempo lento e il modo minore la caricano di una tristezza ineluttabile. Non è un addio sereno, ma un presagio. La melodia iniziale è relativamente semplice, quasi sillabica, aderendo al carattere popolare del testo. Tuttavia, sulla parola scheiden, Mahler inserisce un cromatismo discendente che esprime il dolore intrinseco della separazione. La promessa di ritorno (Dann komm’ ich wieder) è segnata da un momentaneo passaggio a mi bemolle maggiore (la relativa maggiore), un barlume di speranza subito spento. Il culmine della strofa arriva con le ripetizioni della parola Ade!, su cui Mahler costruisce un crescendo devastante:
– il primo Ade! è interrogativo;
– il secondo è più affermativo e disperato;
– il terzo, sulla frase mein Herzallerliebster Schatz, è un grido di pura angoscia. La voce qui si fa estremamente potente, sostenuta da accordi pianistici fragorosi che suonano quasi orchestrali. La canzone popolare è già diventata un dramma.

Successivamente, la musica cambia radicalmente. Il pianoforte attacca con un ritmo ostinato di marcia funebre, caratterizzato da un andamento puntato e implacabile. Questo è un elemento tipicamente mahleriano, che trasforma la scena in un corteo funebre. Lo strumento non è più solo accompagnamento, ma un narratore onnisciente che rivela la tragedia. La linea vocale perde la sua iniziale liricità per diventare più declamatoria e spezzata, quasi un recitativo angosciato. Canta con un tono più scuro, come se stesse leggendo l’epitaffio con orrore. L’armonia rimane ancorata alla tonalità di impianto, ma si fa più instabile e cromatica. Il momento della presa di coscienza (So ist’s meine Herzallerliebste) è sottolineato da un’armonia sospesa e dolorosa che culmina nella frase sussurrata e straziante die dich verlassen hat, dove la musica si placa in un pianissimo carico di colpa e rimpianto.
Il ritmo di marcia funebre persiste, eseguito in modo ancora più lento e pesante (Sehr langsam, schleppend: Molto lento, trascinato), evocando un dolore che paralizza. La linea vocale è un lamento e sulle parole das Trauern und das Weinen, la melodia scende con figure che mimano dei singhiozzi. L’invocazione all’amata (will ihr allweile wohl rufen) è un crescendo drammatico di straordinaria intensità. La voce sale al registro acuto, piena di disperazione, mentre il pianoforte risponde con tremoli agitati che aumentano la tensione fino a un punto quasi insostenibile. La richiesta di una risposta (bis dass sie mir Antwort gab) rimane sospesa nel vuoto: la risposta del pianoforte non è una melodia, ma una serie di accordi secchi e isolati che rappresentano il silenzio gelido e definitivo della tomba.
Nell’ultima strofa, la musica si trasforma completamente e il pianoforte si sposta nel registro acutissimo, suonando con un tocco cristallino, quasi vitreo (pianissimissimo, senza pedale). L’armonia passa alla parallela maggiore, dando vita a un’atmosfera eterea e spettrale. La linea vocale si adatta, abbandonando ogni calore e vibrato, cantando con un filo di voce (pianissimo), quasi un suono bianco, disincarnato: è la perfetta rappresentazione sonora di uno spirito.
La musica imita i suoni del mondo perduto:
Du hörst kein Glöcklein läuten: il pianoforte suona delle note staccate e dissonanti nel registro acuto, come il rintocco distorto di una campana lontana;
kein Vöglein pfeifen: lo strumento esegue un trillo scheletrico e gelido, l’ombra del canto di un uccello.
Il culmine emotivo arriva sulla menzione del sole e della luna (Sonnen und auch Mond). Per un istante, la voce dello spirito si incrina di dolore, ricordando la bellezza della vita. La voce reintroduce un’intensità straziante, prima di tornare al tono spettrale per l’ultimo e definitivo Ade!. Le ultime note del pianoforte, nella tonalità di impianto, sono come la terra che ricopre la tomba, spegnendosi in un silenzio assoluto e terrificante.

Nel complesso, Nicht wiedersehen! è un capolavoro di narrazione musicale. Mahler trascende la forma del Lied per creare un mondo sonoro completo, dove ogni elemento ha un significato drammatico. L’unione della voce – con la sua ineguagliabile intelligenza del testo e il suo prodevole controllo – con il pianoforte che dipinge scenari, evoca atmosfere e diventa una forza drammatica autonoma, riesce a rivelare la natura “sinfonica” del pensiero di Mahler anche nella musica da camera.

Qual farfalletta

Georg Friedrich Händel (1685 - 1759): «Qual farfalletta», aria dal II atto, scena 7a, dell’opera Partenope HWV 27 (1730), libretto di Silvio Stampiglia. Amanda Forsythe, soprano; Apollo’s Fire, dir. Jeannette Sorrell.

Qual farfalletta
Giro a quel lume
E ’l mio Cupido
Le belle piume
Ardendo va.

Quel brio m’alletta
Perché m’è fido,
La mia costanza
Ogn’altra avanza,
Cangiar non sa.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Il volo incantato della farfalla: analisi di «Qual farfalletta» di Händel

L’aria «Qual farfalletta» è tratta dal dramma per musica Partenope – la prima opera comica (o, piuttosto, non seria) di Händel – composta tra il 1726 e il 1730 su libretto di Silvio Stampiglia. In quest’aria, il personaggio di Rosmira (che è travestita da uomo, con il nome di Eurimene, per spiare il suo ex amante Arsace) paragona sé stessa a una farfalla attratta irresistibilmente da una fiamma, pur sapendo del pericolo. La fiamma è Arsace, verso cui prova ancora un’attrazione fatale. L’aria è un classico esempio di «aria col Da capo» (ABA′), tipica dell’opera barocca, che permette al cantante di esibire virtuosismo e capacità espressiva, specialmente nella ripresa ornata della prima sezione.
L’aria si apre con un vivace e brillante ritornello strumentale. L’orchestrazione, tipicamente händeliana, prevede archi e basso continuo. Il motivo principale, leggero e danzante, evoca immediatamente l’immagine del volo agile e un po’ incerto della farfalla. La tonalità maggiore conferisce luminosità e un senso di giocosa agitazione.
Il soprano entra con una linea vocale che riprende e sviluppa il materiale tematico del ritornello. La melodia è caratterizzata da agilità, con passaggi di coloratura e melismi che dipingono musicalmente il «girare» e il volo della farfalla. La parola «lume» (luce/fiamma) è spesso enfatizzata. Le «belle piume» e l’«ardendo va» sono rese con passaggi virtuosistici che esprimono sia la bellezza che il pericolo imminente. L’orchestra fornisce un supporto ritmico e armonico solido ma trasparente.
Segue una sezione contrastante, tipica delle forme tripartite. La tonalità cambia e il carattere musicale si fa leggermente più riflessivo e meno frenetico, sebbene mantenga una certa vivacità («quel brio»). Le linee melodiche diventano più cantabili e meno dominate dalla coloratura estrema della prima sezione, pur richiedendo sempre grande controllo e sensibilità espressiva. Le parole «costanza» e «cangiar non sa» sono trattate con una certa enfasi, suggerendo la (forse auto-imposta) determinazione del personaggio. L’accompagnamento orchestrale si adatta, divenendo più sostenuto, ma sempre partecipe.
Ritorna la musica della prima sezione ma, come da prassi barocca, la linea vocale è abbondantemente ornata dalla cantante. L’energia dell’orchestra sostiene magnificamente questa esplosione di virtuosismo.

Amanda Forsythe

Come l’arpa

Giovanni Pierluigi da Palestrina (c1525 - 1594): Sicut cervus, 2a pars Sitivit anima mea, mottetto a 4 voci (1584); testo desunto dal Salmo XLII (41), versetti 1-3. Coro da camera del Collegium Musicum Almae Matris dell’Università di Bologna, dir. Enrico Lombardi.

Sicut cervus desiderat ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea ad te, Deus.
Sitivit anima mea ad Deum fortem vivum: quando veniam et apparebo ante faciem Dei?
Fuerunt mihi lacrymae meae panes die ac nocte, dum dicitur mihi quotidie: Ubi est Deus tuus?


Grazie a Luís Henriques e al suo bellissimo sito, ho scoperto una vera chicca: il capolavoro di Palestrina in una versione per due arpe, interpreti Laura Puerto e Manuel Vilas:



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’anelito dell’anima: il Sicut cervus di Palestrina tra fede e musica

Il mottetto Sicut cervus è una delle composizioni più celebri e amate di Giovanni Pierluigi da Palestrina, maestro indiscusso della polifonia rinascimentale. Il testo esprime il profondo anelito dell’anima verso Dio, un tema che Palestrina traduce in musica con straordinaria sensibilità e maestria contrappuntistica.

Siamo nel pieno Rinascimento maturo, e lo stile di Palestrina incarna l’ideale di chiarezza, equilibrio e serena spiritualità promosso dalla Controriforma. La sua musica è caratterizzata da:
– linee melodiche fluide: prevalentemente per gradi congiunti, con salti melodici attentamente preparati e risolti, creando la famosa “curva palestriniana”;
– armonia prevalentemente consonante: le dissonanze sono trattate con estrema cura, principalmente come ritardi, note di passaggio o di volta, sempre preparate e risolte dolcemente;
– chiarezza testuale: nonostante la complessità polifonica, il testo rimane generalmente intelligibile;
– equilibrio tra le voci: nessuna voce predomina in modo eccessivo; tutte contri­bui­scono alla tessitura complessiva;
– tecnica imitativa: l’imitazione tra le voci è uno dei principali procedimenti costruttivi.

Il mottetto ha inizio con un’entrata imitativa. Il tenor intona per primi il motivo ascendente sulle parole “Sicut cervus desiderat ad fontes aquarum“, un disegno melodico semplice e sereno. A breve distanza di tempo entrano l’altus una 5ª sopra, il cantus (soprano) un’8ª sopra il tenor e infine il bassus un’8ª sotto, ciascuno riprendendo il motivo iniziale in imitazione non rigorosa.
Sulle parole “desiderat ad fon[tes]” la melodia si sviluppa verso l’acuto, sottolineando il senso di anelito. Sulla parola “aquarum” la melodia è invece caratterizzata da un movimento che può evocare il fluire dell’acqua, con melismi delicati e una tessitura che si mantiene trasparente. Le diverse voci si intrecciano mantenendo l’indipendenza lineare, ma concorrendo a un’armonia piena e consonante.
La seconda parte del versetto riprende musicalmente l’idea iniziale, con la frase “ita desiderat anima mea” che riecheggia l’anelito di “Sicut cervus desiderat“. Le parole “anima mea” ricevono spesso un trattamento espressivo, con linee melodiche che diventano più personali e interiori. Il culmine emotivo di questa prima parte si raggiunge su “ad te, Deus“: qui, la polifonia tende a convergere verso momenti di maggiore omoritmia o verso armonie particolarmente piene e affermative, creando un senso di arrivo e devozione. La cadenza che conclude la prima parte è chiara ma non definitiva, preparando l’ascoltatore alla continuazione.

La seconda parte s’inizia con un’energia leggermente diversa, forse più intensa, sulla parola “Sitivit“. Anche qui, le entrate sono imitative. L’espressione di “sete” è palpabile nelle linee melodiche che si protendono. “Ad Deum fortem vivum” è trattato con maggiore vigore; “fortem” e “vivum” sono sottolineate da armonie più robuste e da un ritmo leggermente più marcato. La domanda “quando veniam” introduce un elemento di attesa e interrogazione. Le linee melodiche presentano inflessioni ascendenti o ritardi armonici che riflettono l’incertezza e il desiderio.
Et apparebo ante faciem Dei” rappresenta il culmine del desiderio. Palestrina spesso costruisce un crescendo musicale corrispondente all’accrescersi dell’intensità testuale, utilizzando una scrittura più piena e talvolta più omoritmica per enfatizzare il momento dell’apparizione divina. La tessitura si fa densa e solenne.
Un cambio di atmosfera avviene con “Fuerunt mihi lacrymae meae“: la musica si fa più sommessa, riflessiva, quasi dolente. Le linee melodiche tendono a salire e l’armonia si tinge di sfumature più malinconiche. “Panes die ac nocte” esprime la costanza del dolore.
Su “Dum dicitur mihi quotidie” la musica assume un carattere più narrativo o declamatorio. La ripetizione di “quotidie” (ogni giorno) è sottolineata da motivi ritmici o melodici insistenti. La domanda finale, “Ubi est Deus tuus?” è il punto di massima tensione emotiva del mottetto, e Palestrina la tratta con grande intensità. Spesso le voci si uniscono in un grido polifonico, pieno di pathos e interrogazione. La dinamica cresce nuovamente e l’armonia presenta ritardi più pungenti per esprimere l’angoscia della domanda.
Palestrina spesso ripete le frasi testuali più significative per enfatizzarne il contenuto emotivo. La sezione finale del mottetto vede la ripresa di “Ubi est Deus tuus?” e altre frasi chiave. La conclusione del mottetto è particolarmente toccante e, dopo l’intensità della domanda, la musica si placa gradualmente. Le ultime iterazioni di “Deus tuus” sono spesso trattate con un progressivo diminuendo, con le voci che si diradano e le armonie che si semplificano, lasciando un senso di contemplazione, forse di speranza sommessa o di una domanda che rimane sospesa nell’etere.

En fais et dictz, en chansons et accords

Claudin de Sermisy (c1490 - 1562): Tant que vivray, chanson a 4 voci (pubblicata nella raccolta Chansons nouvelles, 1527, n. 2) su testo di Clément Marot (L’Adolescence clémentine, Chanson XII). Ensemble «Clément Janequin».

Tant que vivray en âge florissant,
Je serviray d’Amour le dieu [roy] puissant,
En fais et dictz, en chansons et accords.
Par plusieurs jours m’a tenu languissant,
Mais apres dueil m’a faict resjouyssant,
Car j’ay l’amour de la belle au gent corps.
Son alliance
Est ma fiance:
Son cueur est mien,
Mon cueur est sien;
Fy de tristesse,
Vive lyesse,
Puis qu’en amour a tant de bien.

Quand je la veulx servir et honnorer,
Quand par escriptz veulx son nom décorer,
Quand je la veoy et visite souvent,
Les envieulx n’en font que murmurer,
Mais nostre amour n’en sçauroit moins durer:
Aultant ou plus en emporte le vent.
Maulgré envie
Toute ma vie
Je l’aymeray,
Et chanteray:
C’est la première,
C’est la dernière,
Que j’ay servie et serviray.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Claudin de Sermisy, un musicista per quattro re

Claudin de Sermisy viene ricordato come un influente compositore francese del Rinascimento, il cui nome deriva probabilmente dal suo luogo di nascita, Sermaize nell’Oise. La sua lunga e prestigiosa carriera si svolse principalmente al servizio di ben quattro sovrani francesi: Luigi XII, Francesco I, Enrico II e Francesco II, ricoprendo i ruoli di cantore e, successivamente, di maestro di cappella.

Primi passi e formazione. Ingresso nella Cappella Reale e primi benefici
Le informazioni sulla sua infanzia sono scarse, ma è documentato il suo ingresso come enfant de chœur nella Sainte-Chapelle di Parigi già nel 1508. Nel 1510, figura come cantante nella cappella privata della regina Anna di Bretagna. Nel 1514, probabilmente dopo la morte della regina, Sermisy divenne cantore nella cappella reale, servendo sotto Luigi XII e poi Francesco I. La sua carriera ecclesiastica iniziò parallelamente, con la nomina a canonico nella diocesi di Noyon il 30 gennaio 1516. Ottenne anche il beneficio del priorato di Saint-Jean de Bouguennec (diocesi di Nantes) e richiese al papa dispense per cumulare benefici altrimenti inconciliabili.

Presenza in eventi storici e incarichi ecclesiastici. Ritorno a Parigi e ruolo di vice-maestro
Sermisy partecipò come cantante ai negoziati di pace tra il Papa Leone X e Francesco I a Bologna nel dicembre 1515, ricevendo dispense papali e il canonicato a Noyon poco dopo. Si ipotizza la sua presenza anche alle sfarzose celebrazioni dell’incontro del Campo del Drappo d’Oro nel 1520. Successivamente, divenne canonico di Notre-Dame-de-la-Rotonde a Rouen, carica che lasciò nel 1524 per un’altra a Camberon (diocesi di Amiens). Nel 1532, Sermisy tornò a Parigi come vice-maestro della musica della cappella reale, allora diretta dal cardinale de Tournon. In questa veste, era responsabile dell’educazione musicale dei pueri cantus, della conservazione dei libri di musica e del reclutamento dei coristi, percependo un salario annuo iniziale di 400 lire tornesi. Dal 20 settembre 1533, cumulò questa posizione con quella di canonico prebendato della Sainte-Chapelle, mantenendola fino alla morte. Rimase al servizio dei re di Francia almeno fino al 1554, anno in cui gli fu concessa anche la prebenda di Sainte-Catherine de Troyes.

Ultimi anni, prosperità e morte
È possibile che abbia partecipato alle cerimonie del secondo incontro tra i re di Francia e Inghilterra a Boulogne nel 1532. Possedeva una casa a Parigi sufficientemente grande da ospitare i chierici fuggiti da Saint-Quentin nel 1559. Il suo stipendio come vice-maestro aumentò progressivamente (600 lire nel 1543, 700 nel 1547), cui si aggiungevano i cospicui redditi derivanti dai suoi numerosi canonicati (ne ricevette 13) e altre prebende. Claudin de Sermisy morì a Parigi il 13 ottobre 1562, vittima di un’epidemia di peste, e fu sepolto nella cappella bassa della Sainte-Chapelle. Il suo amico ed ex allievo Pierre Certon ne cantò le lodi in un poema.

Opera musicale: un lascito di fama imperitura
Sermisy godette di un’enorme reputazione durante la sua vita, venendo considerato dai contemporanei uno dei massimi maestri del suo tempo, al pari di Josquin Despres. La maggior parte delle sue opere è pubblicata nell’edizione critica Claudin de Sermisy, Opera omnia. La sua cospicua produzione di musica sacra iniziò a essere pubblicata a partire dal 1542, nella seconda fase della sua carriera.
È autore di 13 messe polifoniche (incluso un Requiem), per lo più a quattro voci, oltre a un Kyrie e un Credo isolati. Stampate principalmente tra il 1556 e il 1568 (molte da Nicolas du Chemin a Parigi), sono in gran parte messe-parodia, basate cioè su temi di opere preesistenti. Sermisy attinse spesso ai propri mottetti (Missa «Domini est terra», Missa «Tota pulchra est») e chansons, ma anche a composizioni di altri musicisti (Missa «Voulant honneur», su una chanson di Sandrin). Il suo stile, pur ereditando elementi dalla scuola franco-fiamminga e da Josquin (raggruppamento delle voci a coppie, imitazioni), li alleggerisce con passaggi più omofonici e melodie semplificate, favorendo la chiarezza del testo e mostrando l’influenza dello stile della chanson sulla sua musica sacra.
Si conoscono anche circa 80 mottetti (da 3 a 6 voci, ma prevalentemente a 4), comprese tre lezioni delle tenebre e una decina di magnificat a quattro voci negli otto toni. Questi si trovano in varie raccolte e in tre monografie dedicate (P. Attaingnant, 1542 e 1548; Adrian Le Roy et Robert Ballard, 1555). Compose anche una Passione secondo San Matteo, una delle più antiche passioni polifoniche conservate.
Le sue circa 170 chansons, infine, furono pubblicate prima della sua musica sacra e composte in gran parte prima del 1536. Come musicista di corte, mise in musica poesie di celebri autori come Clément Marot (ben 30), Francesco I, Margherita di Navarra, François de Tournon e altri. Le sue chansons, generalmente brevi e a 4 voci, godettero di un successo immediato. Si caratterizzano per melodie ben delineate, ritmo variegato, un frequente inizio omofonico, scrittura prevalentemente sillabica e un uso molto discreto del figuralismo (tecnica di rappresentazione musicale del testo). Sermisy ricevette elogi da letterati come Maître Mitou (Jean Daniel), Rabelais e Ronsard.

Tant que vicray: analisi
Pubblicata nel 1527 nella raccolta Chansons nouvelles dall’editore Pierre Attaingnant, questa composizione a 4 voci mette in musica un testo del poeta Clément Marot. Incarna perfettamente lo stile della chanson cosiddetta “parigina” del primo XVI secolo: elegante, chiara, melodicamente accattivante e con una stretta aderenza al testo.
La poesia di Marot è un’espressione gioiosa e devota dell’amore cortese. Nella prima strofa, l’amante dichiara la sua intenzione di servire il dio Amore, finché vivrà, attraverso azioni, parole, canti e musica. Riconosce un periodo di sofferenza passata, ma celebra la gioia attuale derivante dall’amore ricambiato della sua bella. La seconda parte della strofa, con versi più brevi, assume un tono più intimo e assertivo, quasi un motto: l’alleanza con l’amata è la sua fiducia, i loro cuori sono uniti. Si conclude con un rifiuto della tristezza e un’esaltazione della letizia, data la grande felicità che l’amore porta.
Nella seconda strofa, invece, l’amante descrive le sue azioni devote verso l’amata: servirla, onorarla, celebrare il suo nome per iscritto e visitarla spesso. Nonostante le maldicenze degli invidiosi, il loro amore è saldo e non ne viene scalfito. La seconda parte, simile alla prima strofa, ribadisce la fedeltà per tutta la vita, nonostante l’invidia altrui. L’amata è la prima e l’ultima che ha servito e servirà.
Il tono è positivo, celebrativo e fiducioso. La struttura di ogni strofa, con una prima parte narrativa seguita da versi più brevi e incisivi, suggerisce una possibile differenziazione musicale. La chanson è in forma strofica, il che significa che la stessa musica viene utilizzata per entrambe le strofe del test. Analizzando una singola strofa, la sua struttura musicale può essere delineata come AABC.
La prima occorrenza della sezione A copre i primi tre versi della poesia. La musica è fluida, con una melodia chiara e memorabile. La seconda occorrenza ripete esattamente la musica precedente per i successivi tre versi. Questa ripetizione musicale rafforza l’unità della prima parte della strofa poetica.
La seconda sezione mette in musica i quattro brevi versi successivi. Si nota un cambiamento di carattere: la musica qui è spesso più concisa e ritmicamente definita, riflettendo la natura più assertiva e quasi sentenziosa del testo. Le frasi sono più brevi e le cadenze più frequenti. I restanti tre versi brevi formano la sezione conclusiva. Questa sezione porta la strofa a una chiusura soddisfacente, spesso con un carattere affermativo e gioioso, in particolare sulla parola lyesse (letizia).
Sermisy impiega quattro voci (tipicamente superius, contratenor altus, tenor e bassus). La caratteristica predominante della tessitura è l’omofonia o, più precisamente, l’omoritmia: tutte le voci tendono a muoversi insieme ritmicamente, cantando le stesse sillabe nello stesso momento. Questo approccio garantisce una straordinaria chiarezza del testo, un tratto distintivo della chanson parigina, in contrasto con la più complessa polifonia imitativa tipica del mottetto o della chanson franco-fiamminga dell’epoca precedente. L’effetto è quello di un’armonia piena e sonora, dove le voci si fondono in accordi chiari e ben definiti.
La melodia principale è affidata alla voce superiore (superius), come consuetudine nella chanson parigina. È aggraziata, cantabile e ben costruita, caratterizzata prevalentemente dal moto per gradi congiunti, con intervalli più ampi usati con parsimonia e generalmente per effetti espressivi o per delineare l’inizio di una nuova frase. La melodia si adatta perfettamente alla prosodia della lingua francese, seguendo l’accentazione naturale delle parole. La sua semplicità apparente nasconde una grande raffinatezza artigianale.
L’armonia è diatonica e prevalentemente consonante. Sermisy utilizza un linguaggio armonico che, pur essendo modale, anticipa per certi versi la tonalità funzionale. Le cadenze sono chiare e ben posizionate, sottolineando la fine di ogni verso poetico e delle sezioni musicali, contribuendo a dare un senso di direzione e coesione all’intera composizione. L’armonia crea un tessuto sonoro ricco ma trasparente, privo di asprezze e molto gradevole all’ascolto.
Il ritmo della chanson segue la declamazione naturale del testo francese. È generalmente fluido e scorrevole. Il metro è prevalentemente binario, ma con la flessibilità tipica della musica rinascimentale, dove il flusso testuale può influenzare sottili variazioni agogiche. Nella sezione B e soprattutto nella C, in corrispondenza dei versi più brevi ed esclamativi, il ritmo diventa leggermente più marcato o vivace.
Sebbene la chanson parigina non faccia un uso estensivo del madrigalismo esplicito come la musica italiana coeva, Sermisy dimostra una sensibile attenzione al significato del testo. Il carattere generale della musica è gioioso, elegante e sereno, rispecchiando perfettamente il tono della poesia di Marot. La parola languissant (languente) nella sezione A è spesso resa con note leggermente più lunghe o un movimento melodico più dolce, suggerendo sottilmente lo stato d’animo. Al contrario, resjouyssant (rallegrante) e soprattutto Vive lyesse (viva la letizia) nella sezione C sono spesso caratterizzate da un andamento melodico e ritmico più brillante e affermativo, talvolta con un profilo melodico ascendente. La struttura chiara e la predominanza omofonica assicurano che il messaggio del poeta sia trasmesso con la massima intelligibilità, che era uno degli obiettivi principali di questo genere.

Nel complesso, Tant que vivray è un capolavoro di concisione, eleganza e grazia melodica. La sua perfetta fusione tra il testo di Marot e la musica ha garantito la sua popolarità duratura, rendendola un’icona della chanson rinascimentale francese. La sua struttura chiara, la tessitura prevalentemente omofonica, l’armonia consonante e la melodia accattivante ne fanno un brano immediatamente apprezzabile, che continua ad affascinare gli ascoltatori anche a distanza di secoli.

Titanic Suite

James Horner (1953 - 22 giugno 2015): Titanic Suite, tratta dalla colonna sonora del film Titanic (1997) diretto da James Cameron. Coro del King’s College di Cambridge e London Symphony Orchestra diretti dall’autore.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

James Horner: dai Celti a Pandora, l’eredità sonora di un genio di Hollywood

Horner viene ricordato come un acclamato compositore americano di colonne sonore, con un impressionante portfolio di oltre 160 produzioni cinematografiche e televisive realizzate tra il 1978 e il 2015. La sua cifra stilistica distintiva risiedeva nella capacità di integrare elementi corali ed elettronici con orchestrazioni tradizionali, spesso arricchite da motivi ispirati dalla musica cosiddetta “celtica”. Questa fusione ha contribuito a creare atmosfere uniche e memorabili per il grande schermo.

Origini e formazione musicale
Nato a Los Angeles da genitori immigrati ebrei, James Horner era figlio di Harry Horner, un noto scenografo e direttore artistico di origine ceco-austriaca. Iniziò a suonare il pianoforte a cinque anni, dedicandosi poi anche al violino. Trascorse parte della sua giovinezza a Londra, studiando al Royal College of Music con György Ligeti. Rientrato negli Stati Uniti, frequentò la Verde Valley School in Arizona, per poi conseguire una laurea in musica alla University of Southern California e una laurea magistrale all’UCLA, dove studiò con Paul Chihara. Dopo alcune esperienze con l’American Film Institute e un breve periodo di insegnamento di teoria musicale all’UCLA, si dedicò interamente alla composizione per il cinema.

L’ascesa a Hollywood
I primi passi di Horner nel mondo del cinema furono segnati da collaborazioni con il regista e produttore di B-movie Roger Corman, componendo per film come The Lady in Red (1979), Humanoids from the Deep (1980) e I magnifici sette nello spazio (1980). La sua svolta avvenne nel 1982 con la colonna sonora di Star Trek II: L’ira di Khan, che lo consacrò come compositore di primo piano a Hollywood. Negli anni ’80 consolidò la sua fama con partiture per 48 ore (1982), Krull (1983), Cocoon, l’energia dell’universo (1985, prima di molte collaborazioni con Ron Howard), e ottenne la sua prima nomination all’Oscar per Aliens (1986) e per la canzone Somewhere Out There da Fievel sbarca in America.

Anni ’90: versatilità e apice creativo
Durante gli anni ’80, ’90 e 2000, Horner dimostrò una notevole versatilità, componendo musiche per film per famiglie (spesso prodotti dalla Amblin Entertainment di Spielberg) come Alla ricerca della valle incantata, Le avventure di Rocketeer, Casper e Jumanji. Il 1995 fu un anno particolarmente prolifico, con le acclamate colonne sonore per Braveheart e Apollo 13, entrambe nominate all’Oscar. Nel 1990, compose anche la nuova fanfara per gli Universal Pictures. Il culmine arrivò nel 1997 con Titanic, nonostante un precedente voto di non lavorare più con Cameron a causa dello stress vissuto durante Aliens.

Il nuovo millennio e le ultime opere
Dopo Titanic, Horner continuò a firmare colonne sonore per grandi produzioni come La tempesta perfetta, A Beautiful Mind (altra nomination all’Oscar), La maschera di Zorro e La casa di sabbia e nebbia (nomination all’Oscar). Si dedicò anche a progetti minori e compose il tema per il CBS Evening News (2006-11). La collaborazione con Cameron si rinnovò per Avatar (2009), un lavoro mastodontico che lo impegnò per oltre due anni e gli valse la decima nomination all’Oscar. Tra i suoi ultimi lavori figurano The Karate Kid (2010), The Amazing Spider-Man (2012) e, dopo una pausa di tre anni, Wolf Totem (2015), la sua quarta collaborazione con Jean-Jacques Annaud.

Opere orchestrali e la controversia del “borrowing”
Oltre al cinema, Horner compose opere orchestrali come il doppio concerto Pas de Deux (2014) e il concerto per quattro corni Collage (2015). Tuttavia, la sua carriera fu anche segnata da critiche per il presunto “borrowing” musicale, ovvero il riutilizzo di passaggi da sue composizioni precedenti o l’incorporazione di temi di compositori classici (Prokof’ev, Schumann, Šostakovič, Copland, Wagner, Orff, Chačaturjan) e contemporanei (Nino Rota, Raymond Scott). In un caso, per Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi (1989), l’uso non accreditato di un brano di Raymond Scott portò a un accordo extragiudiziale con Disney. Alcuni critici notarono anche somiglianze tra il tema principale di Braveheart e una melodia dell’anime giapponese 3×3 Eyes.

Vita personale, passione per il volo e tragica scomparsa
Horner era un appassionato pilota e possedeva diversi piccoli aerei. Sua moglie Sara ha rivelato che lui stesso si descriveva come affetto dalla sindrome di Asperger. Il 22 giugno 2015, all’età di 61 anni, James Horner perse tragicamente la vita in un incidente aereo mentre pilotava il suo Short Tucano nella Los Padres National Forest, in California. L’inchiesta del NTSB attribuì l’incidente all’incapacità del pilota di mantenere la distanza dal terreno durante manovre a bassa quota, citando come fattori contribuenti l’uso di farmaci da prescrizione.

Eredità postuma e tributi
Le colonne sonore per i suoi ultimi tre film, Southpaw, l’ultima sfida (2015, composta gratuitamente per amore del film), The 33 (2015) e I magnifici 7 (2016, scritta a sorpresa e scoperta postuma), furono completate e pubblicate postume. La sua scomparsa suscitò un’ondata di commozione nel mondo del cinema e della musica. Colleghi come Hans Zimmer, John Williams e registi come Ron Howard e James Cameron espressero il loro cordoglio. Céline Dion, la cui carriera fu profondamente segnata da My Heart Will Go On, lo ricordò con affetto. Molti film successivi, inclusi quelli per cui aveva composto le ultime musiche e Avatar, la via dell’acqua furono dedicati alla sua memoria.

Titanic Suite: analisi
La Titanic Suite è un magnifico compendio della colonna sonora del film omonimo, un’opera che racchiude in sé la grandezza, il romanticismo, la tragedia e la speranza narrate nella pellicola di James Cameron.
La musica inizia in modo quasi impercettibile con un tappeto sonoro elettronico basso e profondo, tipico di Horner, a cui si sovrappone un coro sintetizzato etereo e celestiale. Questo crea un’atmosfera di mistero, vastità e forse un presagio malinconico. L’ingresso degli archi acuti (violini) introduce una melodia lenta, struggente e riflessiva che riconosciamo come il “Tema di Rose” (o una sua variazione). L’arrangiamento è scarno, evocando ricordi lontani e la vastità dell’oceano. Il mood è introspettivo, toccante, quasi un sospiro musicale che prepara il terreno per la narrazione.
Successivamente, la musica cambia radicalmente: le uilleann pipes (cornamuse irlandesi), altro marchio di fabbrica di Horner, introducono con vigore il tema principale del film, noto come “Southampton”. Questo tema, dal forte sapore celtico, è gioioso, avventuroso e pieno di speranza. Si unisce il tin whistle (flauto a fischietto), che dialoga con le cornamuse, mentre una leggera percussione (che ricorda il bodhrán, un tipo di tamburo irlandese) scandisce un ritmo vivace ma non invadente. Gli archi forniscono un accompagnamento caldo e fluente, mentre il coro sintetizzato rimane sottotraccia, aggiungendo profondità. La dinamica cresce gradualmente, simboleggiando l’entusiasmo e la maestosità della partenza del “sogno” chiamato Titanic.
Il tema principale viene ripreso da una celestiale e struggente vocalizzazione femminile (nel film originale è di Sissel Kyrkjebø, qui probabilmente sintetizzata o campionata per la suite), che si libra alta sopra l’orchestra. Gli archi si fanno più ampi e lussureggianti, mentre gli ottoni aggiungono un tocco di solennità. Gli strumenti celtici, pur presenti, lasciano spazio alla grandezza orchestrale. Questa sezione evoca la bellezza, il romanticismo e l’immensità dell’oceano, con un’aura quasi spirituale. La dinamica raggiunge un picco emotivo per poi ritrarsi leggermente, creando un senso di meraviglia.
Il tema di “Southampton” ritorna con forza, questa volta affidato principalmente alla piena sezione degli archi, con un contrappunto più ricco e un maggiore coinvolgimento degli ottoni che ne sottolineano la maestosità. L’atmosfera è di trionfo e fiducia, la nave procede maestosa nel suo viaggio inaugurale. La dinamica è forte e imponente.
Dopo la fanfara orchestrale, la musica si ritira in un’atmosfera di intimità. Un delicato assolo di pianoforte introduce una versione tenera e introspettiva del “Tema di Rose”, già accennato nell’introduzione. Gli archi forniscono un accompagnamento discreto e caldo. Questa sezione è carica di romanticismo, dolcezza e una sottile vena di malinconia, riflettendo i momenti più personali e sentimentali della storia. La dinamica è prevalentemente piano, sottolineando la delicatezza del momento.
Gli archi sostengono note lunghe, creando un senso di attesa e sospensione. Ritornano i droni sintetizzati bassi, aggiungendo un elemento di sottile inquietudine. La melodia è quasi assente, lasciando spazio a un’atmosfera armonica che suggerisce un cambiamento imminente, un presagio oscuro che si insinua nella serenità precedente.
La tensione cresce rapidamente. Accordi dissonanti e potenti degli ottoni, percussioni martellanti (timpani, rullante) e ostinati urgenti degli archi creano un clima di caos e panico imminente. Frammenti tematici precedenti potrebbero essere percepiti, ma sono sovrastati dalla drammaticità della scrittura orchestrale. Questa è la rappresentazione sonora del disastro che si avvicina. La dinamica sale vertiginosamente fino a un fortissimo, esprimendo terrore e urgenza.
Un colpo orchestrale massiccio segna il culmine della tragedia, seguito da un rapido diminuendo che porta quasi al silenzio. Rimangono solo suoni sintetizzati inquietanti e tremoli degli archi gravi, evocando lo shock, la devastazione e l’agghiacciante silenzio che segue il disastro. La dinamica crolla da fortissimo a un pianissimo spettrale.
Dal silenzio emerge nuovamente il suono del tin whistle, che intona la melodia iconica di My Heart Will Go On. Archi delicati e tappeti sonori sintetici creano una base armonica soffusa. La vocalizzazione femminile si unisce al flauto, riprendendo il tema con un’espressione di profonda tristezza, ma anche di amore duraturo e speranza. Il mood è intensamente toccante, un lamento che porta con sé il ricordo e la forza dei sentimenti. La dinamica è inizialmente contenuta, per poi crescere gradualmente in intensità emotiva.
Il “Tema di Rose” (Never an Absolution) ritorna, prima con gli archi, poi ripreso dai legni (probabilmente oboe o clarinetto), evocando un senso di ricordo e riflessione. L’orchestra si espande progressivamente, portando il tema a una piena espressione emotiva, grandiosa ma al contempo struggente. Il coro sintetizzato etereo, che aveva aperto la suite, ritorna, chiudendo il cerchio narrativo e sonoro. La musica raggiunge un ultimo culmine di intensità emotiva, per poi gradualmente dissolversi in un lungo e lento fade out, lasciando l’ascoltatore in uno stato di commossa contemplazione. La suite termina nel silenzio, lasciando risuonare l’eco delle emozioni vissute.
Horner dimostra in questa suite la sua maestria nell’utilizzare temi ricorrenti (leitmotiv) per caratterizzare personaggi ed emozioni. L’uso distintivo di strumenti “celtici” conferisce un’identità sonora unica alla colonna sonora, legandola alle radici irlandesi della storia e dei personaggi. Fondamentale è anche l’impiego di cori sintetizzati e vocalizzazioni eteree, che aggiungono una dimensione quasi soprannaturale e spirituale alla musica, amplificandone l’impatto emotivo.
La struttura della suite segue un chiaro arco narrativo ed emotivo:
– Introduzione/Nostalgia: un’apertura eterea e malinconica;
– Partenza/Speranza: l’introduzione del tema celtico, gioioso e avventuroso;
– Grandezza/Romanticismo: l’espansione orchestrale e vocale del tema principale e l’intimità del tema di Rose;
– Presagio/Dramma: la costruzione della tensione e l’esplosione orchestrale che simboleggia il disastro;
– Dolore/Speranza: l’introduzione del tema di My Heart Will Go On, un lamento carico di amore;
– Riflessione/Trascendenza: la ripresa del “Tema di Rose” e la conclusione eterea che chiude il cerchio.
La dinamica gioca un ruolo cruciale, passando da pianissimi sussurrati a fortissimi travolgenti, rispecchiando la vasta gamma di emozioni della storia.

Nel complesso, la Titanic Suite è un capolavoro di musica cinematografica che condensa efficacemente l’essenza emotiva e narrativa del film. Horner, con la sua abilità nel creare melodie memorabili, orchestrazioni evocative e un uso sapiente di elementi etnici ed elettronici, ha creato un’opera che trascende il film stesso, diventando un’esperienza d’ascolto potente e commovente, capace di evocare immagini e sentimenti profondi anche a distanza di anni. La suite è un testamento della sua capacità di toccare il cuore dell’ascoltatore, trasportandolo in un viaggio sonoro indimenticabile.

Vocalise dorienne

Jehan Alain (1911 - 20 giugno 1940): Vocalise dorienne – Ave Maria per soprano e organo JA 95A (marzo 1937); dedicata alla sorella Marie-Odile (1914 - 1937). Elizabeth Magnor, soprano; Graham Cox, organo.

« Sul manoscritto autografo della Vocalise v’è l’abbozzo, scritto a matita, di un Ave verum incompiuto. Quel frammento indusse nostro padre Albert a cercare un testo latino che si adattasse alla dolce melodia [della Vocalise] senza snaturarla: il testo infine prescelto fu quello dell’Ave Maria » (Marie-Claire Alain).



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Jehan Alain: sinfonia incompiuta di un genio musicista e eroe di Francia

Jehan Alain è una figura eminente della musica francese del XX secolo. Destinato a una vita breve ma intensa, si distinse come compositore e organista, lasciando un’impronta indelebile nonostante la sua prematura scomparsa.

Primi passi e formazione precoce: all’ombra dell’organo paterno
Primo di quattro figli, Alain crebbe in un ambiente saturo di note e armonie. Suo padre, Albert, non era solo organista e compositore, ma anche un abile costruttore d’organi dilettante. Fu proprio su uno strumento costruito in casa dal padre – un organo oggi conservato a Romainmôtier, in Svizzera – che il giovane iniziò a muovere i primi passi sulla tastiera all’età di soli 11 anni. Il suo talento fu talmente precoce e sbalorditivo che, appena due anni dopo, a 13 anni, era già in grado di sostituire il padre, recentemente nominato organista titolare del grande organo della chiesa di Saint-Germain-en-Laye, nella sua città natale.

L’eccellenza al Conservatorio di Parigi: tra rigore e geniale irriverenza
Il suo percorso formativo proseguì al prestigioso Conservatorio nazionale superiore di Parigi. Qui ebbe l’opportunità di studiare con maestri del calibro di Paul Dukas, Jean Roger-Ducasse, André Bloch, Georges Caussade e, per l’organo, il celebre Marcel Dupré. Durante le lezioni di improvvisazione con Dupré, la sua abilità era tale che gli altri studenti preferivano esibirsi prima di lui, per non sfigurare al confronto. Un aneddoto significativo illustra la sua originalità: in un’occasione, concluse un’improvvisazione in una tonalità completamente diversa da quella iniziale, un’audacia inaudita per i canoni dell’epoca. Alla sua ammissione «Mi sono sbagliato!», Dupré rispose con acume: «Ebbene, dovreste sbagliarvi più spesso!»
I suoi studi si conclusero brillantemente con l’ottenimento dei primi premi in armonia, contrappunto e fuga, e naturalmente in organo e improvvisazione.

Affermazione professionale, riconoscimenti e vita familiare
Il talento compositivo di Alain ricevette un importante riconoscimento nel 1936, quando la sua Suite per orgue vinse il primo premio al concorso degli Amis de l’Orgue. Nello stesso anno, fu nominato organista titolare presso la Chiesa di Saint-Nicolas a Maisons-Laffitte. A Parigi ricoprì anche il ruolo di organista presso la Synagogue Nazareth (nel 3e arrondissement), incarico che, dopo la morte di Alain e la fine della guerra, sarebbe stato assunto da Marie-Louise Girod. Parallelamente alla sua fiorente carriera, Alain costruì una famiglia: si sposò nel 1935 e divenne padre di tre figli.

Il sacrificio eroico: la guerra e la morte prematura
La promettente carriera e la vita familiare di Jehan Alain furono tragicamente interrotte dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Mobilitato fin dall’inizio del conflitto, si distinse per il suo coraggio, ricevendo citazioni per atti di bravura. Entrò a far parte del primo Groupe franc de cavalerie, comandato dal capitano de Neuchèze, e con esso partecipò alla disperata battaglia dei cadetti di Saumur nel giugno 1940. In un atto di estremo eroismo, resistette da solo contro un intero plotone d’assalto tedesco, cadendo al campo d’onore all’età di soli 29 anni.

L’eredità musicale: un tesoro di opere e il mistero delle partiture perdute
Nonostante la sua breve esistenza, Alain fu un compositore prolifico. La sua attività creativa abbracciò diversi generi, con opere per pianoforte, organo, musica da camera, voci (soliste e cori) e orchestra, per un totale di oltre 140 composizioni catalogate. Tra queste, il brano per organo intitolato Litanies (1937), appartenente al genere della toccata, ha ottenuto fama internazionale e fanno parte del repertorio degli organisti di tutto il mondo.
Negli ultimi dieci anni della sua vita, si concentrò prevalentemente sulla musica organistica. Oltre alle già citate Litanies, spiccano le Trois Danses, originariamente concepite per orchestra e da lui stesso trascritte per organo poco prima della sua morte nel 1940. Secondo la testimonianza di Marie-Claire Alain, Jehan avrebbe composto anche diverse altre opere orchestrali. Purtroppo, il compositore portò con sé queste partiture quando partì per il fronte e, dopo la sua morte in battaglia, non furono mai più ritrovate, lasciando un vuoto e un velo di mistero su una parte significativa della sua produzione.

Vocalise dorienne – Ave Maria: analisi
Composta nel marzo 1937 e dedicata alla sorella Marie-Odile (che sarebbe prematura­mente scomparsa da lì a pochi mesi in un incidente alpinistico), è un brano di straordinaria intensità emotiva e raffinatezza compositiva. Come rivelato da Marie-Claire Alain, sorella del compositore, l’opera nacque originariamente come una pura Vocalise, alla quale solo in seguito, per volere del padre Albert, fu adattato il testo dell’Ave Maria, scelto per la sua capacità di fondersi con la “dolce melodia” senza snaturarla.
Il brano si apre con un’introduzione organistica estremamente rarefatta. L’organo, con una registrazione tenue e delicata, stabilisce immediatamente un’atmosfera di sospensione e contemplazione. Le armonie sono statiche, quasi immobili, creando un tappeto sonoro che invita all’introspezione. Questa introduzione prepara l’ascoltatore all’ingresso della voce, preannunciando il carattere serafico del pezzo. Il soprano entra con la pura vocalizzazione (un “Ah” lungo e sostenuto). La melodia è caratterizzata da:
– lunghe arcate liriche: le frasi sono ampie, distese, e richiedono un eccellente controllo del fiato. Si sviluppano con un andamento prevalentemente legato e con un profilo melodico che sale e scende con grazia;
– modo dorico: la melodia e le armonie sottostanti sono impregnate del modo dorico (caratterizzato dalla sesta maggiore sulla scala minore naturale), che conferisce al brano un colore arcaicizzante, sereno ma con un velo di malinconia trasfigurata, tipico della musica sacra e meditativa. Questo evita la sentimentalità del modo maggiore tradizionale e la cupezza del minore, trovando un equilibrio espressivo unico;
– espressività intima: nonostante l’ampiezza delle frasi, l’espressione rimane contenuta, intima, quasi sussurrata. Non vi sono slanci drammatici, ma una costante tensione emotiva mantenuta attraverso la purezza della linea melodica.
La prima sezione vocale presenta un tema principale che viene poi ripreso e variato, mentre una seconda sezione esplora registri leggermente più acuti e introduce un maggior movimento melismatico, pur mantenendo la fluidità. Una sezione centrale, invece, mostra un carattere leggermente più mosso e ornato per il soprano, con melismi più elaborati che, tuttavia, non perdono mai la loro dolcezza e fluidità. L’organo, pur rimanendo discreto, partecipa più attivamente, non limitandosi a sostenere armonicamente ma dialogando sottilmente con la voce, a volte anticipando o facendo eco a frammenti melodici. La scelta dei registri organistici rimane costantemente votata alla trasparenza e alla leggerezza, creando un alone sonoro quasi impalpabile attorno alla voce. Brevi interludi organistici fungono da ponti contemplativi, permettendo alla tensione emotiva di sedimentarsi prima della ripresa della linea vocale. Questi momenti evidenziano la maestria di Alain nel creare atmosfera anche con mezzi apparentemente semplici.
Successivamente, la voce riprende la melodia iniziale, quasi come una ripresa abbreviata della prima sezione, confermando una sorta di forma ternaria (ABA’) o comunque ciclica, tipica delle preghiere. La dinamica si mantiene prevalentemente sul piano. La sezione finale vede la voce spegnersi gradualmente in una discesa melodica che conduce a una sensazione di pace e risoluzione eterea. L’organo conclude il brano con accordi tenui e prolungati, che si dissolvono nel silenzio, lasciando un’eco di serenità e trascendenza.
Considerando la genesi del brano, è evidente come la melodia preesistesse al testo liturgico. L’adattamento dell’Ave Maria alla Vocalise Dorienne si rivela particolarmente felice. La natura fluida, le lunghe frasi e il carattere sereno della melodia si sposano perfettamente con le parole della preghiera mariana. La modalità dorica, inoltre, si allinea con la tradizione del canto sacro, conferendo al testo un’aura di devozione profonda e antica. La dolcezza intrinseca della linea vocale, descritta da Marie-Claire Alain, accoglie le parole della preghiera in modo naturale, senza forzature, come se la musica fosse stata concepita fin dall’inizio per quel testo.

Nel complesso, l’opera è un gioiello di rara bellezza. La sua apparente semplicità cela una profonda sapienza compositiva e una sensibilità spirituale non comune. La dedica alla sorella Marie-Odile aggiunge un ulteriore strato di commozione, trasformando il brano in un omaggio tenero e al contempo elevato, un canto che sembra provenire da una dimensione altra, sospeso tra il dolore terreno e la pace celeste.

Ho fatto un sogno

Mogens Andresen (11 giugno 1945): Good Morning per ottoni e percussione (1994). The Royal Danish Brass Ensemble.
Il brano si fonda sopra un’antica melodia popolare danese, Drømte mig en drøm i nat (La notte scorsa ho fatto un sogno), la cui prima frase musicale è trascritta nel Codex Runicus, un manoscritto compilato attorno all’anno 1300 da un anonimo monaco cisterciense, probabilmente nell’abbazia di Herrevad (fondata nel 1144, si trovava in Scania, regione che fino al 1658 fu soggetta ai re di Danimarca). Si tratta della più antica composizione profana scandinava di cui si abbia notizia.
A partire dal 1931 e per molti anni l’ente radiofonico danese utilizzò l’incipit di Drømte mig en drøm i nat per marcare l’intervallo fra un programma e l’altro: la melodia è dunque molto famosa in Danimarca, e questa è la ragione per cui viene citata da Andresen nel saluto musicale indirizzato ai suoi concittadini – e a tutti gli appassionati di musica.


Anonimo: Drømte mig en drøm i nat, arrangiamento di Phillip Faber. Pernille Rosendahl, voce solista; DR PigeKoret; Henrik Dam Thomsen, violoncello; Phillip Faber, pianoforte e direzione.

Drømte mig en drøm i nat
om silke og ærlig pæl,
Bar en dragt så let og glat
i solfaldets strålevæld,
 nu vågner den klare morgen.

Til de unges flok jeg gik,
jeg droges mod sang og dans.
Trøstigt mødte jeg hans blik
og lagde min hånd i hans,
 nu vågner den klare morgen.

Alle de andre på os så,
de smilede, og de lo.
Snart gik dansen helt i stå,
der dansede kun vi to,
 nu vågner den klare morgen.

Drømte mig en drøm i nat
om silke og ærlig pæl.
Fjernt han hilste med sin hat
og grå gik min drøm på hæld,
 nu vågner den klare morgen.

When David heard

Thomas Tomkins (1572 - 9 giugno 1656): When David heard, anthem a 5 voci (pubblicato in Songs of 3-6 parts, 1622, n. 19). The Gesualdo Six.

When David heard that Absalom was slain
He went up into his chamber over the gate and wept,
and thus he said: my son, my son, O Absalom my son, would God I had died for thee!



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Thomas Tomkins: l’ultimo virginalista tra splendori e tumulti dell’Inghilterra stuartiana

Tomkins viene ricordato come eminente compositore gallese attivo nel periodo di transizione tra l’epoca Tudor e l’inizio del periodo Stuart. Considerato una figura di spicco della scuola madrigalistica inglese, egli si distinse anche come abile compositore di musica per tastiera e per consort, e fu l’ultimo rappresentante della rinomata scuola virginalistica inglese.

Primi anni e formazione musicale
Nato a St David’s, Pembrokeshire, nella famiglia del vicario corale e organista omonimo, Tomkins crebbe in una famiglia di musicisti. Anche i suoi tre fratellastri – John, Giles e Robert – divennero musicisti di rilievo, sebbene nessuno raggiunse la sua fama. Entro il 1594, la famiglia si trasferì a Gloucester, dove il padre ottenne un impiego come canonico minore presso la cattedrale. È quasi certo che Thomas studiò sotto la guida del celebre William Byrd, come suggerito da una dedica in una delle sue canzoni («Al mio antico e molto riverito Maestro, William Byrd») e dalla vicinanza geografica di Byrd a Gloucester in quel periodo. Sebbene manchino prove documentali definitive, è plausibile che Byrd abbia contribuito a far ammettere il giovane Tomkins come corista nella prestigiosa Chapel Royal. Conformemente alla prassi per gli ex coristi reali, Tomkins conseguì il titolo di bachelor of music (1607), come membro del Magdalen College di Oxford.

Carriera brillante tra Worcester e la corte reale
Già nel 1596 Tomkins aveva ottenuto l’importante incarico di organista presso la Cattedrale di Worcester. L’anno seguente, sposò Alice Patrick, vedova del suo predecessore Nathaniel Patrick. Da questo matrimonio nacque nel 1599 il suo unico figlio, Nathaniel, che seguì le orme paterne diventando un musicista stimato. Tomkins coltivò relazioni con altri musicisti di spicco, come Thomas Morley (anch’egli allievo di Byrd), il cui trattato Plaine and Easie Introduction to Practicall Musicke (1597) Tomkins possedeva e annotò. Nel 1601, Morley incluse un madrigale di Tomkins nella fondamentale raccolta The Triumphs of Oriana. Nel 1612 Tomkins supervisionò la costruzione di un magnifico nuovo organo nella Cattedrale di Worcester, opera di Thomas Dallam. Continuò a comporre anthem e nel 1622 pubblicò la sua raccolta di 28 madrigali, Songs of 3, 4, 5 and 6 parts, con una poesia dedicatoria del fratellastro John Tomkins, allora organista al King’s College di Cambridge.
Parallelamente, la sua carriera alla Chapel Royal progredì: intorno al 1603 fu nominato gentleman extraordinary (un titolo onorifico) e nel 1621 divenne gentleman ordinary e organista, lavorando a fianco dell’amico Orlando Gibbons. Questo doppio impegno lo costrinse a frequenti viaggi tra Worcester e Londra fino al 1639 circa. Eventi significativi segnarono questo periodo: nel 1625, Tomkins fu coinvolto nella preparazione delle musiche per il funerale di Giacomo I e l’incoronazione di Carlo I. La morte improvvisa di Gibbons durante questi preparativi accrebbe ulteriormente le sue responsabilità. Fortunatamente, un’epidemia di peste posticipò l’incoronazione al febbraio 1626, dando a Tomkins il tempo di comporre gran parte degli otto anthem eseguiti durante la cerimonia. Nel 1628, Tomkins raggiunse l’apice della sua carriera con la nomina a "compositore della musica del re in ordinario", succedendo ad Alfonso Ferrabosco il giovane. Tuttavia, questo prestigioso incarico gli fu revocato poco dopo, con la motivazione che era stato promesso al figlio di Ferrabosco. Questo trattamento ingiusto fu solo il primo di una serie di sventure.

Gli anni difficili della guerra civile e gli ultimi tempi
Gli ultimi quattordici anni della vita del compositore furono segnati da profonde difficoltà personali e dai tumulti della guerra civile inglese. Nel 1642, anno dello scoppio del conflitto, sua moglie Alice morì. Worcester, città fedele al re, fu una delle prime a subire le conseguenze della guerra: la cattedrale fu profanata e l’organo di Tomkins gravemente danneggiato dalle forze parlamentari. L’anno seguente, la sua casa vicino alla cattedrale fu colpita da una cannonata, distruggendo gran parte dei suoi beni e probabilmente alcuni manoscritti musicali. In questo periodo, Tomkins si risposò con Martha Browne. Ulteriori conflitti e l’assedio di Worcester nel 1646 portarono ulteriore distruzione. Con il coro sciolto e la cattedrale chiusa, Tomkins riversò il suo genio nella composizione di alcune delle sue più belle musiche per tastiera e per consort. Nel 1647, scrisse composizioni in memoria di Thomas Wentworth, conte di Strafford, e di William Laud, arcivescovo di Canterbury, entrambi giustiziati alcuni anni prima e ammirati da Tomkins. L’esecuzione di Carlo I nel 1649 ispirò al compositore, fervente realista, la superba Sad Paven for these Distracted Tymes. La morte della seconda moglie Martha, intorno al 1653, e la perdita del suo sostentamento a causa degli eventi bellici lo lasciarono, all’età di 81 anni, in gravi difficoltà finanziarie. Nel 1654, suo figlio Nathaniel sposò Isabella Folliott, una ricca vedova, e Thomas andò a vivere con loro a Martin Hussingtree, vicino Worcester. In segno di gratitudine, compose la Galliard, The Lady Folliot’s in onore della nuora. Thomas Tomkins morì due anni dopo, il 9 giugno 1656, e fu sepolto nel cimitero della chiesa di St Michael and All Angels a Martin Hussingtree.

Opere e stile compositivo: un ponte tra rinascimento e barocco nascente
Tomkins fu un compositore prolifico. La sua produzione include madrigali, tra cui il celebre The Fauns and Satyrs Tripping (incluso nella raccolta The Triumphs of Oriana di Morley) e la sua personale collezione Songs of 3,4,5 and 6 parts (1622). Compose inoltre circa 76 brani per strumenti a tastiera (organo, virginale, clavicembalo), musica per consort, numerosi anthem e musica liturgica. Dal punto di vista stilistico, si dimostrò estremamente conservatore, quasi anacronistico per il suo tempo. Sembra aver ignorato quasi completamente le nascenti pratiche barocche e gli idiomi di ispirazione italiana che si stavano diffondendo, evitando anche forme popolari come l’ayre. Il suo linguaggio polifonico, anche negli anni ’30 del XVII secolo, rimase saldamente ancorato alla tradizione rinascimentale. Nonostante questo conservatorismo, alcuni dei suoi madrigali sono notevolmente espressivi, caratterizzati da madrigalismi e da cromatismi degni dei grandi autori italiani come Marenzio e Luzzaschi. Fu uno dei più fecondi compositori di anthem del XVII secolo in Inghilterra. La sopravvivenza di gran parte della sua musica sacra è dovuta alla monumentale pubblicazione postuma, curata dal figlio Nathaniel: Musica Deo Sacra et Ecclesiae Anglicanae; or Music dedicated to the Honor and Service of God, and to the Use of Cathedral and other Churches of England (1668). Quest’opera, pubblicata in cinque volumi, comprende 5 services, melodie per salmi, preces, salmi responsoriali e 94 anthem, assicurando così la trasmissione del suo prezioso lascito musicale.

When David heard&lt: analisi
L’anthem When David Heard è un capolavoro di espressività emotiva del tardo Rinascimento inglese. Il testo, incentrato sul dolore lancinante del re Davide alla notizia della morte del figlio Assalonne, offre a Tomkins un terreno fertile per dispiegare tutta la propria maestria nella composizione e in particolare nell’uso dell’armonia per veicolare un pathos profondo.
Il brano s’inizia in un’atmosfera sommessa e contemplativa. Le cinque voci entrano in maniera prevalentemente omoritmica o con una lieve imitazione, garantendo una chiara declamazione del testo. L’armonia è relativamente diatonica, ma la parola slain è sottolineata da un leggero indugio e da una tessitura armonica che preannuncia il dolore imminente. La purezza vocale e l’intonazione impeccabile del gruppo sono evidenti fin dalle prime note, con i controtenori che aggiungono una qualità eterea.
La musica acquista un leggero movimento. He went up è suggerito da linee melodiche ascendenti nelle singole voci, sebbene qui l’effetto sia più sottile, concentrandosi sulla progressione armonica. La parola cruciale wept segna un cambiamento tangibile, segnato da Tomkins con dissonanze più marcate, in particolare attraverso l’uso di ritardi struggenti; il passo è caratterizzato da una palpabile tristezza, con le voci che si intrecciano in un lamento polifonico. L’atmosfera si fa più greve e carica di dolore.
La frase and thus he said funge da ponte: una cadenza prepara l’esplosione emotiva successiva, la più estesa e musicalmente più intensa. La ripetizione ossessiva delle parole my son è il fulcro del dolore di Davide. Tomkins sfrutta questa ripetizione attraverso entrate imitative, con ciascuna voce che riprende il motivo lamentoso. L’armonia diventa cromatica e carica di dissonanze espressive. I ritardi si fanno più frequenti e strazianti, creando un senso di angoscia profonda. Ogni iterazione è trattata con sfumature diverse e, spesso, una o più voci salgono a note acute sulla parola son, quasi a mimare un grido di dolore trattenuto, per poi discendere. O Absalom, invece, è il culmine emotivo di ogni frase e Tomkins vi concentra le armonie più audaci e dolorose. La polifonia è fitta ma trasparente, permettendo di distinguere le singole linee vocali che si intrecciano come fili di un arazzo di dolore.
La frase finale would God I had died for thee! porta il lamento alla sua conclusione più disperata. La musica qui può assumere un carattere di supplica estrema e Tomkins utilizza armonie che esprimono un desiderio struggente e un amore paterno immenso. Would God I had died è carico di un pathos immenso, con le voci che si spingono verso l’alto per poi ricadere, mentre for thee porta a una cadenza finale. La risoluzione è tipicamente su un accordo maggiore che qui non suggerisce felicità, ma piuttosto una sorta di rassegnazione dolente o la sublimazione del dolore nell’amore sacrificale.
Nel complesso, When David Heard si rivela un’esperienza musicale ed emotiva di rara intensità. La capacità del compositore di tradurre in musica il dolore più profondo, unita alla sensibilità, alla perizia tecnica e alla purezza vocale dell’ensemble, crea un momento di bellezza straziante che rimane impresso nell’ascoltatore. È una testimonianza della potenza duratura della polifonia rinascimentale inglese e della sua capacità di toccare le corde più intime dell’animo umano.

What is our life?

Orlando Gibbons (1583 - 5 giugno 1625): What is our life?, madrigale a 5 voci (pubblicato in The First Set of Madrigals and Mottets, 1612, n. 14) su testo di Walter Raleigh. The Cambridge Taverner Choir.

What is our life? A play of passion.
Our mirth the music of division.
Our mother’s wombs the tiring houses be,
where we are dress’d for this short comedy.
Heav’n the judicious sharp spectator is,
that sits and marks still who doth act amiss.
Our graves, that hide us from the searching sun
are like drawn curtains when the play is done.
Thus march we, playing to our latest rest;
Only we die in earnest, that’s no jest.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Orlando Gibbons: astro della musica inglese e ponte tra due epoche

Gibbons viene ricordato come un eminente compositore e tastierista inglese, annoverato tra gli ultimi grandi maestri della scuola virginalistica e della scuola madrigalistica inglese. Membro più celebre di una dinastia musicale, negli anni ’10 del Seicento divenne il principale compositore e organista d’Inghilterra. La sua promettente carriera fu tragicamente interrotta da una morte prematura, motivo per cui la sua produzione complessiva non eguaglia quella di contemporanei come il più anziano Byrd. Nonostante ciò, egli apportò contributi significativi a numerosi generi del suo tempo, venendo spesso considerato una figura di transizione tra il periodo rinascimentale e il Barocco.

Origini familiari e primi passi nella musica
Nato in una famiglia profondamente radicata nella musica – il padre era un wait (musicista civico) e i fratelli Edward, Ellis e Ferdinand erano anch’essi musicisti – Gibbons era destinato a seguire la tradizione. Non si sa con certezza sotto chi abbia studiato (forse con il fratello Edward o con Byrd), ma è quasi sicuro che apprese a suonare la tastiera in giovane età. La sua abilità era tale che nel maggio 1603 fu nominato membro non stipendiato della Chapel Royal, diventandone poi gentiluomo e organista aggiunto a pieno titolo nel 1605. Nel 1606 conseguì il baccalaureato in musica presso il King’s College di Cambridge.

L’ascesa alla Chapel Royal e la vita a corte
La carriera di Orlando Gibbons fu coronata dagli ottimi rapporti con figure influenti della corte inglese, tra cui i suoi mecenati re Giacomo I e il principe Carlo, e amici intimi come sir Christopher Hatton. Insieme con William Byrd e John Bull contribuì alla prima raccolta a stampa di musica per tastiera inglese, Parthenia or the Maydenhead of the first musicke that ever was printed for the Virginalls, pubblicata verosimilmente nel 1611. Tra le sue pubblicazioni di rilievo figura il First Set of Madrigals and Motets (1612), che include il celebre madrigale The Silver Swan. Altre composizioni importanti sono gli «anthem» This is the Record of John e O Clap Your Hands Together, e due arrangiamenti dell’Evensong (vespro). L’incarico di maggior prestigio cui pervenne Gibbons fu quello di organista presso l’Abbazia di Westminster, ottenuto nel 1623 e mantenuto fino alla morte.

Controversie biografiche: nascita e dottorato
Fino all’inizio del XX secolo, si riteneva che Gibbons fosse nato a Cambridge, un’informazione riportata anche sul suo monumento funebre a Canterbury. Tuttavia, nonostante il padre avesse vissuto a Cambridge per anni e Orlando stesso vi trascorse gran parte della vita, prove documentali, tra cui un atto di battesimo scoperto da Anthony Wood presso la St. Martin’s Church di Oxford e la successiva conferma della residenza dei genitori a Oxford al momento della sua nascita, hanno definitivamente stabilito Oxford come suo luogo natale (battezzato il giorno di Natale del 1583). La famiglia si trasferì a Cambridge quando Orlando aveva 4-5 anni. Un’altra questione dibattuta riguarda il conseguimento di un dottorato in musica nel maggio 1622. Mentre alcune fonti storiche e musicologi lo affermano, citando l’esecuzione del suo O Clap Your Hands alla cerimonia di laurea di William Heather come prova, altri esprimono dubbi, basandosi sull’assenza di tale titolo in alcuni documenti ufficiali e, soprattutto, sulla sua mancata menzione sul monumento funebre. L’evidenza attuale suggerisce che probabilmente non ottenne mai il dottorato, ma non vi è certezza assoluta.

Maturità artistica, mecenatismo e pubblicazioni
Negli anni ’10 del Seicento, Gibbons era considerato il più eminente organista d’Inghilterra. Strinse una forte amicizia con sir Christopher Hatton, al quale dedicò il suo First Set of Madrigals and Motets (1612), specificando che molti dei brani erano stati creati nella dimora di Hatton. Sei sue composizioni furono incluse in Parthenia, pubblicazione celebrativa del fidanzamento della principessa Elisabetta Stuart con Federico V, conte palatino del Reno. Gibbons potrebbe aver accompagnato la coppia reale a Heidelberg dopo il matrimonio, celebrato nel febbraio 1613. Divenne organista congiunto della Chapel Royal intorno al 1615 e ricevette due sovvenzioni da Giacomo I. Nel 1617 ottenne l’incarico di tastierista nell’ensemble da camera del principe Carlo e, probabilmente, un incarico analogo per Giacomo I nel 1619. Intorno al 1620 pubblicò Fantasies of Three Parts.

Gli ultimi anni e la morte improvvisa
Nel 1623 Gibbons fornì le melodie per la maggior parte dei canti in Hymnes and Songs of the Church di George Wither e divenne organista dell’Abbazia di Westminster. Il 7 maggio 1625, officiò ai funerali di Re Giacomo I. Alla fine di maggio dello stesso anno, mentre si recava a Canterbury con altri membri della Chapel Royal per accogliere la regina Enrichetta Maria, moglie di Carlo I, Gibbons fu colpito da un malore improvviso, probabilmente un’emorragia cerebrale. Morì all’età di 41 anni a Canterbury e fu sepolto nella Cattedrale locale. La moglie Elizabeth morì circa un anno dopo, lasciando i figli orfani alle cure del fratello maggiore di Orlando, Edward.

Profilo personale: tra riservatezza e riconoscimenti
Poco si sa della personalità di Gibbons. La sua vita appare relativamente tranquilla se paragonata a quelle turbolente di contemporanei come Byrd o Bull. Un raro incidente documentato fu un’aggressione subita nel 1620 da parte di un sagrestano. Per contro, il musicista ebbe generalmente buoni rapporti con datori di lavoro e colleghi, sviluppando amicizie strette con figure come Hatton e legami familiari solidi. Le sue nomine precoci e prestigiose alla Chapel Royal testimoniano il suo eccezionale talento. Fu universalmente riconosciuto come un virtuoso della tastiera: John Hacket lo definì «il miglior dito di quell’epoca» e John Chamberlain «la miglior mano d’Inghilterra».

L’opera musicale: stile e generi
La produzione di Gibbons, benché non vasta, è significativa. Comprende circa 45 pezzi per tastiera, dove eccelle nelle fantasie polifoniche e nelle forme di danza, caratterizzate da una solida padronanza del contrappunto a tre e quattro voci e dall’abilità nello sviluppare idee melodiche lineari (per esempio nella Lord Salisbury’s Pavan and Galliard). Scrisse anche una trentina di fantasie per viole. I suoi madrigali, tra cui il famosissimo The Silver Swan e i suoi numerosi e popolari verse anthems su testo inglese (come Great Lord of Lords e il rinomato This is the Record of John, per tenore o controtenore solista e coro) dimostrano la sua capacità di esprimere la forza retorica del testo con eleganza. Produsse inoltre due importanti arrangiamenti dell’Evensong (Short Service e Second Service) e imponenti full anthems come l’espressivo O Lord, in thy wrath e l’anthem per l’Ascensione O clap your hands together a 8 voci.

Eredità duratura e riscoperta moderna
Dopo la sua morte, Gibbons fu ricordato principalmente come compositore di musica sacra. Tuttavia, con la rinascita della musica antica, è cresciuto l’interesse per le sue altre composizioni. Le sue opere per tastiera sono state particolarmente valorizzate dal pianista canadese Glenn Gould che lo considerava il suo compositore preferito, elogiandone la profondità emotiva. Il musicologo Frederick Ouseley lo soprannominò il “Palestrina inglese". Gibbons perfezionò le basi del madrigale inglese e degli anthems (sia full che verse) gettate da Byrd, influenzando significativamente le generazioni successive di compositori inglesi. Questo lignaggio passò attraverso suo figlio Christopher, che fu maestro di John Blow, Pelham Humfrey e, soprattutto, di Henry Purcell, pioniere inglese dell’era barocca.

What is our life? – analisi
Il madrigale What is our life? di Orlando Gibbons è una profonda meditazione musicale sul testo attribuito a sir Walter Raleigh. Questa composizione a cinque voci (soprano, contralto, 2 tenori e basso) sfrutta magistralmente le tecniche madrigalistiche per dipingere vividamente il significato e l’emozione del poema, trasformando la riflessione filosofica sulla vita come breve commedia in un’esperienza sonora toccante e complessa.
Il brano si apre con la domanda retorica "What is our life?". Gibbons imposta questa frase con entrate imitative scaglionate: prima il soprano, seguito dall’contralto, poi dal tenore II e dal basso quasi simultaneamente, e infine dal tenore I. Questo procedimento crea un senso di crescente riflessione. Le linee melodiche tendono ad ascendere leggermente, quasi a sollevare la domanda, per poi risolversi in modo più contemplativo. La risposta, "A play of passion", è trattata con una maggiore enfasi. La parola "passion" riceve un trattamento melodico e armonico più intenso, con le voci che si uniscono in momenti di maggiore omoritmia, sottolineando la natura emotiva e drammatica della vita.
La ripetizione della frase "a play of passion" rafforza questa metafora centrale, con le diverse voci che si scambiano il materiale melodico, creando un ricco tessuto polifonico che suggerisce la complessità delle passioni umane.
Il concetto di "mirth" (allegria, gaiezza) è inizialmente presentato con un carattere leggermente più vivace. Tuttavia, la vera enfasi è sulla frase "the music of division". "Division" nel linguaggio musicale rinascimentale si riferisce a variazioni ornamentali e virtuosistiche su una melodia e Gibbons coglie brillantemente questo significato attraverso un intenso madrigalismo: le voci, in particolare l’contralto e i Tenori, si lanciano in passaggi melismatici (più note su una singola sillaba, specialmente su "di-vi-si-on") e figure ritmiche più rapide e complesse. L’imitazione si fa più fitta e le linee si intrecciano, mimando la complessità e l’ornamentazione delle "divisions" musicali. Questo crea un effetto quasi frenetico, suggerendo la natura effimera e forse superficiale della nostra allegria, vista come un mero abbellimento musicale nel grande dramma. Le voci si separano e si rincorrono, evidenziando l’abilità contrappuntistica di Gibbons.
Il tono si fa più riflessivo e pacato. "Our mother’s wombs" è introdotto con un andamento più calmo e armonie più consonanti. La frase "the tiring houses be" (i camerini, luoghi dove gli attori si preparano) continua questa atmosfera di preparazione. La frase "where we are dress’d for this short comedy" vede le voci convergere verso una maggiore omoritmia, quasi una declamazione. La parola "comedy", nonostante il suo significato letterale, è inserita in un contesto generale piuttosto sobrio, suggerendo forse un’ironia amara. La sezione si conclude con una cadenza che segna la fine di questa "preparazione".
Il riferimento a "Heav’n" (Cielo) è spesso caratterizzato da linee melodiche ascendenti o da una tessitura vocale leggermente più acuta, come si nota nel soprano. La frase "the judicious sharp spectator is" assume un carattere più serio e severo. L’attenzione si concentra su "that sits and marks still who doth act amiss" (che siede e osserva chi agisce male). La musica qui si fa più grave. La parola "amiss" è particolarmente significativa: Gibbons la sottolinea con armonie più scure, inflessioni modali tendenti al minore e, talvolta, con un contorno melodico discendente o una dissonanza preparata e risolta che crea un senso di ammonimento e di peso morale. Le voci si muovono con un ritmo più deliberato e talvolta sincopato, creando un senso di scrutinio implacabile.
Il passaggio a "Our graves" (le nostre tombe) introduce un’atmosfera decisamente più cupa. Gibbons impiega armonie che tendono verso il modo minore e le linee melodiche, specialmente quelle del basso, scendono a registri più gravi, dipingendo l’immagine della sepoltura. "that hide us" (che ci nascondono) è espresso con una sonorità forse più raccolta o con dinamiche più contenute. La menzione del "searching sun" (il sole che scruta) potrebbe presentare un breve sprazzo melodico ascendente o una tessitura leggermente più luminosa, in contrasto con l’oscurità della tomba, prima di ricadere nell’ombra.
La sezione successiva esprime la conclusione definitiva della "commedia" della vita: "are like drawn curtains" (sono come sipari calati) è caratterizzato da un senso di chiusura: le linee melodiche tendono a discendere, il movimento armonico e ritmico può rallentare e le voci si uniscono spesso in accordi sostenuti. "when the play is done", invece, è trattata con grande enfasi e finalità: Gibbons la ripete più volte, e ogni ripetizione conduce a una cadenza ben definita, rafforzando l’idea della conclusione ineluttabile. La tessitura diventa più omoritmica, conferendo solennità all’affermazione.
"Thus march we" introduce un elemento di movimento processionale. Il ritmo si fa più marcato e regolare, quasi a mimare una marcia lenta e inesorabile. "playing" ritorna, ricollegandosi alla metafora centrale del "play" (recita/gioco). In "to our latest rest", come per "graves" e "done", la musica tende a scendere, rallentare e risolversi armonicamente, preparando l’affermazione conclusiva del poema. La ripetizione della parola "playing" accanto a "latest rest" crea un toccante paradosso.
"Only we die in earnest" (Solo moriamo sul serio) è la dichiarazione culminante del brano ed è espresso con la massima gravità. Gibbons abbandona la complessa polifonia per una scrittura prevalentemente omoritmica e accordale. Questo conferisce alle parole una chiarezza e un impatto diretti. "Earnest" (sul serio) è trattato con peso e solennità. "that’s no jest" (questo non è uno scherzo), invece, rafforza la serietà della morte. Il madrigale si conclude con una cadenza forte e inequivocabile. Le armonie sono piene e gli accordi finali sono sostenuti, lasciando l’ascoltatore con un profondo senso della verità ineluttabile espressa dal testo. La possibile inflessione maggiore nell’accordo finale non servirebbe tanto a dare speranza, quanto a conferire una lapidaria certezza alla conclusione.
La tessitura è prevantemente polifonica, con un sapiente uso dell’imitazione che crea un dialogo continuo tra le cinque voci. Gibbons alterna questa complessità con sezioni più omoritmiche o accordali per enfatizzare parole chiave o per creare un senso di affermazione collettiva. Il linguaggio armonico è tipico del tardo Rinascimento inglese, ricco di inflessioni modali ma con un chiaro senso tonale emergente, specialmente nelle cadenze. L’uso di sospensioni e dissonanze controllate (ad esempio su "amiss" o in preparazione delle cadenze) aggiunge profondità espressiva. Le linee vocali sono cantabili e ben modellate, spesso seguendo il contorno naturale del testo parlato, ma capaci di slanci espressivi e di agilità nelle sezioni di "division". Il ritmo, invece, è flessibile e strettamente legato alla prosodia del testo inglese. L’alternanza tra sezioni ritmicamente più complesse e altre più misurate contribuisce alla varietà e all’espressività del brano.
Gibbons eccelle nell’uso di figure musicali per illustrare il significato delle parole: l’attività frenetica per "division", le linee ascendenti per "Heav’n", quelle discendenti e le armonie cupe per "graves" e "done", e la declamazione solenne per le affermazioni finali. Il madrigale è through-composed (senza ripetizioni strofiche formali), seguendo fedelmente la struttura del poema. Ogni verso o coppia di versi riceve un trattamento musicale distinto, che sfocia generalmente in una cadenza prima di passare all’idea successiva. La ripetizione di frasi testuali (e quindi musicali) serve a scopi di enfasi. L’atmosfera generale è profondamente riflessiva, a tratti malinconica e severa, in linea con la natura filosofica e quasi pessimistica del testo di Raleigh. Gibbons riesce a trasmettere un senso di gravitas senza rinunciare alla bellezza e all’eleganza contrappuntistica.
Nel complesso, What is our life? è un capolavoro del madrigale inglese, in cui Orlando Gibbons dimostra una straordinaria sensibilità nel tradurre le complesse immagini e le profonde riflessioni del testo di Raleigh in un linguaggio musicale eloquente e toccante. La sua abilità nel bilanciare la ricchezza polifonica con la chiarezza declamatoria, e il suo uso incisivo dei madrigalismi, rendono questo brano un esempio superbo di come la musica possa elevare e intensificare il significato della poesia, offrendo all’ascoltatore un’esperienza estetica e intellettuale di grande spessore.

Stripsody

Cathy Berberian (4 giugno 1925 - 1983): Stripsody (1966). Esegue l’autrice, dal vivo.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

MagnifiCathy: l’eredità poliedrica di Cathy Berberian, voce dell’avanguardia

Cathy Berberian viene ricordata come una figura rivoluzionaria nel panorama musicale del XX secolo. Mezzosoprano e compositrice americana di origini armene, naturalizzata italiana, ha lasciato un’impronta indelebile grazie alla sua straordinaria versatilità vocale, alla sua dedizione alla musica contemporanea d’avanguardia e al suo approccio innovativo all’interpretazione e alla composizione.

Formazione e debutto: una vocazione globale
Nata ad Attleboro nel Massachusetts da genitori armeni, Berberian manifestò fin da giovane un vivo interesse per la musica e la danza tradizionale armena, dirigendo e cantando in un gruppo folk armeno a New York già durante gli studi superiori. Dopo un periodo alla New York University, proseguì la sua formazione musicale e teatrale alla Columbia University, per poi trasferirsi in Europa. Studiò a Parigi con Marya Freund nel 1948 e, dal 1949, a Milano presso il Conservatorio con Giorgina del Vigo, ottenendo nel 1950 una borsa di studio Fulbright. Sebbene avesse già partecipato a produzioni studentesche e trasmissioni radiofoniche, il suo debutto formale avvenne nel 1957 al festival di musica contemporanea “Incontri Musicali” di Napoli. L’anno successivo, la sua interpretazione in prima mondiale di Aria with Fontana Mix di John Cage la consacrò come una delle principali esponenti della musica vocale contemporanea. Il suo debutto americano seguì nel 1960 al Tanglewood Music Festival con la prima di Circles di Luciano Berio.

Il sodalizio con Luciano Berio: musa e collaboratrice
Durante gli studi al Conservatorio di Milano Berberian conobbe Luciano Berio, che sposò nel 1950 e da cui ebbe una figlia, Cristina, nel 1953. Il loro matrimonio durò fino al 1964, ma la collaborazione artistica e l’influenza reciproca proseguirono ben oltre. Berberian divenne la musa ispiratrice di Berio che, per la sua voce, scrisse capolavori come Thema (Omaggio a Joyce) (1958), Circles (1960), Visage (1961), Folk Songs (1964–73), Sequenza III (1965) e Recital I (for Cathy) (1972).

Un’interprete senza confini: dall’antico al pop rivisitato
Cathy Berberian non si limitò al repertorio d’avanguardia. La sua curiosità e la sua tecnica le permisero di interpretare un vastissimo repertorio di musiche, da Claudio Monteverdi a Heitor Villa-Lobos, Kurt Weill e Philipp zu Eulenburg. Come curatrice di recital, presentò generi vocali diversi in contesti classici, includendo arrangiamenti di canzoni dei Beatles (curati da Louis Andriessen) e canti popolari di varie culture. Un esempio emblematico della sua originalità fu l’album del 1967 Beatles Arias, dove brani del quartetto di Liverpool venivano riletti in chiave barocca, con arrangiamenti di Guy Boyer per quartetto d’archi o quintetto di fiati e clavicembalo o organo.

La voce compositrice: Stripsody e Morsicat(h)y
Oltre all’attività interpretativa, Cathy Berberian si dedicò alla composizione. Le sue opere più note sono Stripsody (1966) – un pezzo che sfrutta la sua straordinaria tecnica vocale per riprodurre suoni onomatopeici tipici dei fumetti – e Morsicat(h)y (1969), una composizione per tastiera (eseguibile con la sola mano destra) basata sull’alfabeto Morse. Queste opere testimoniano la sua continua esplorazione delle potenzialità sonore della voce e degli strumenti.

Oltre la musica: insegnamento, traduzione e riconoscimenti
La statura artistica di Berberian ispirò numerosi compositori – tra cui Sylvano Bussotti, John Cage, Hans Werner Henze, William Walton, Igor’ Stravinskij e Anthony Burgess – a scrivere opere appositamente per la sua voce. Pur risiedendo principalmente a Milano, negli anni ’70 insegnò alla Vancouver University e alla Rheinische Musikschule di Colonia. Fu anche una talentuosa traduttrice, collaborando con Umberto Eco (che la soprannominò Magnificathy, poi da lei adottato come titolo di un suo album) alla versione italiana di opere di Jules Feiffer, Woody Allen e altri. La sua fama si estese anche alla cultura popolare, venendo citata nella canzone Your Gold Teeth degli Steely Dan.

Gli ultimi anni e la scomparsa: una sfida continua
Nei suoi ultimi anni Cathy Berberian affrontò crescenti problemi di salute, tra cui una quasi totale perdita della vista che la costrinse a memorizzare l’intero repertorio. Questa condizione fu per lei, avida lettrice, fonte di grande frustrazione, solitudine e depressione. Nonostante l’aumento di peso e problemi cardiaci, continuò a mantenere un intenso programma concertistico. Aveva in programma di eseguire L’Internazionale alla maniera di Marilyn Monroe per una trasmissione Rai in occasione del centenario della morte di Karl Marx. Il 5 marzo 1983 discusse di questa performance con Luciano Berio, ma morì il giorno successivo, il 6 marzo 1983, per un attacco cardiaco. Luciano Berio le dedicò Requies: in memoriam Cathy Berberian, presentato in prima esecuzione nel 1984.

“La Nuova Vocalità”: una rivoluzione teorica e pratica
Nel 1966 Berberian pubblicò un articolo intitolato La nuova vocalità nell’opera contemporanea in cui delineò un approccio rivoluzionario al canto nella musica contemporanea. Sviluppate in collaborazione con Berio, queste idee divennero centrali nella sua filosofia performativa. In contrasto con la prassi operistica tradizionale, focalizzata sulla produzione di “bei suoni”, la “Nuova Vocalità” propone una voce con una gamma illimitata di stili, che abbraccia la storia della musica e gli aspetti intrinseci del suono stesso. Non si tratta solo di “tecniche vocali estese” (effetti vocali inediti), ma di un approccio in cui il cantante diventa co-compositore della performance dal vivo, utilizzando la voce in tutti i suoi aspetti, con la stessa flessibilità delle espressioni di un volto. Questa filosofia è stata fondamentale per lo sviluppo della performance art vocale e ha influenzato artisti come Meredith Monk, Diamanda Galás e Laurie Anderson, consolidando l’eredità di Cathy Berberian come pioniera e innovatrice.

Stripsody: analisi
Stripsody è una composizione iconica che esemplifica magistralmente il concetto di “Nuova Vocalità” da lei stessa teorizzato. Basata interamente sull’uso della voce umana per ricreare l’universo sonoro dei fumetti (in inglese comic strips, da cui il titolo), l’opera è un tour de force di virtuosismo vocale, espressività teatrale e innovazione compositiva. L’esecuzione mostra Berberian in piedi davanti a un leggio, dove è posta la partitura che non è tradizionale, ma grafica: una serie di onomatopee, simboli e disegni stilizzati che suggeriscono suoni, dinamiche, inflessioni e durate. Berberian non si limita a “leggere” la partitura, ma la interpreta con tutto il corpo. Le sue espressioni facciali sono incredibilmente mobili, passando dalla sorpresa al disgusto, dalla malizia alla concentrazione. I gesti delle mani e del corpo sono parte integrante della performance, sottolineando, mimando o anticipando i suoni prodotti. Per esempio:

  • un urlo acuto e modulato ("Aaaaah"), seguito da un suono gutturale e poi da uno starnuto ("A-CHOO!") accompagnato da un gesto della mano al naso e un’e­spres­sione di disgusto ("Yech!");

  • per "Chomp chomp chomp", mima l’azione di mordere;

  • per "Click", unisce le mani con un suono secco e un gesto netto;

  • per il suono dell’aereo ("Prrrr"), le sue mani mimano il volo;

  • per "Tick Tock" e "Dong", le braccia mimano il pendolo di un orologio;

  • per "Yeeeaaah!" (Superman), assume una posa eroica.

La partitura grafica stessa, mostrata a tratti, è un’opera d’arte visiva, con le parole-suono che si contorcono, si ingrandiscono, si rimpiccioliscono, suggerendo la qualità del suono da produrre. I cambi di colore nella visualizzazione della partitura nel video (verde, arancione, rosa, rosso) sembrano segmentare la composizione in diverse “scene” sonore. Berberian sfrutta un’incredibile gamma di tecniche vocali estese per dare vita ai suoni dei fumetti. L’opera è un catalogo di ciò che la voce umana può fare, andando ben oltre il canto tradizionale:

  • suoni percussivi e d’impatto:

    • "Blomp Blomp": suoni sordi e gravi;

    • "Boinggg": un suono elastico e vibrante, con glissando;

    • "Clang Clangety Clack Clack Clack Click": suoni metallici, secchi e ritmici;

    • "Pow!": un colpo secco e forte;

    • "Stomp": suoni pesanti, che mimano passi;

    • "Bang bang bang": esplosioni vocali secche.

  • suoni animali:

    • "Meow meow meow": miagolii con diverse inflessioni;

    • "Sniff sniff," "Hisss," "Ruff ruff": suoni canini e felini, incluso un sibilo;

    • "Oink oink", "Buk buk", "Caw", "Mooooo": un vero e proprio bestiario sonoro.

  • suoni meccanici e ambientali:

    • "Brrrrrr": un trillo labiale o linguale, che può evocare un motore o un telefono, con un andamento melodico ascendente e discendente;

    • "Prrrr": simile al precedente, ma chiaramente inteso come un aereo, con un glissando ascendente e poi discendente;

    • "Tick Tock… Dong Dong Dong": l’orologio e le campane, resi con precisione ritmica e timbrica;

    • "Whreeeeee": un suono acuto e stridente, come una sirena o uno pneumatico;

    • "Swoom" e "Swash": suoni che evocano movimento rapido e impatto acquatico:

  • vocalizzazioni umane (parlate e cantate):

    • frammenti di discorso: "You stupid kite, get down out of that tree!", "I’m Frieda and I’ve got naturally curly hair…" e "Good grief!". Questi sono resi con intonazioni caricaturali, tipiche dei personaggi dei fumetti;

    • citazione operistica: "Sempre libera…" (da La Traviata di Verdi), cantata con enfasi teatrale e interrotta bruscamente.

    • esclamazioni e interiezioni: "Oh, s-smack!", "It’s a bird! No! It’s a plane! No! It’s Superman! Yeeeaaah!";

    • suoni di sforzo, lotta, sonno: "Grunt," "snort," "glub," "krum," "rumble" e i vari tipi di "Zzzzz" (russare) verso la fine.

Nonostante l’apparente frammentarietà, Stripsody possiede un flusso narrativo implicito, guidato dalla sequenza delle “vignette” sonore. La composizione si sviluppa attraverso una serie di brevi episodi, ognuno con un proprio carattere sonoro e gestuale.

  • apertura: introduce la tavolozza sonora con suoni isolati e d’impatto;

  • scene di vita quotidiana/conflitto: il dialogo con l’aquilone, i suoni di gatti e cani, l’interiezione di "Frieda";

  • azione e movimento: combattimenti ("Pow!"), il volo dell’aereo, il ticchettio dell’orologio;

  • momenti lirici e comici: la citazione operistica interrotta, il bacio sonoro;

  • caos e bestiario: una rissa sonora seguita dai versi degli animali della fattoria;

  • crescendo d’azione: suoni di spari, "Stomp", la sirena, il climax con l’arrivo di Superman;

  • conclusione: la scena del sonno, con vari tipi di russare, che si conclude con un brusco risveglio ("Bang!").

La struttura è rapsodica, un collage di eventi sonori che mimano la lettura veloce e frammentata di una striscia di fumetti. Berberian crea tensione e rilascio attraverso l’alternanza di suoni acuti e gravi, forti e piano, veloci e lenti. Stripsody è molto più di un semplice divertissement. È una profonda esplorazione delle potenzialità della voce umana come strumento musicale capace di produrre una gamma sonora che va oltre il belcanto. L’opera:

  • legittima l’onomatopea: eleva i suoni del fumetto a materiale musicale degno di una sala da concerto;

  • sintetizza le arti: unisce musica, teatro (gestualità, espressione) e arti visive (la partitura grafica e l’immaginario del fumetto);

  • sperimenta con la "Nuova Vocalità": dimostra come la voce possa essere utilizzata in modi non convenzionali,
    diventando essa stessa fonte di suoni percussivi, ambientali e meccanici;

  • incorpora l’umorismo: l’opera è intrinsecamente umoristica e giocosa, riflettendo lo spirito del suo materiale di partenza.

Nel complesso, Stripsody è una testimonianza straordinaria del genio interpretativo e compositivo di Berberian. La sua maestria tecnica, la sua espressività e la sua audacia nell’esplorare nuovi territori sonori rendono quest’opera un caposaldo della musica vocale del XX secolo, un pezzo che continua a stupire e divertire per la sua originalità e il suo virtuosismo.

Come ai bei dì d’amor

Stefano Donaudy (1879 - 30 maggio 1925): Vaghissima sembianza, aria per voce e pianoforte (c1915). Carlo Bergonzi, tenore; John Wustman, pianoforte.

Vaghissima sembianza d’antica donna amata
Chi, dunque, v’ha ritratta contanta simiglianza
Ch’io guardo, e parlo, e credo d’avervi a me
Davanti come ai bei dì d’amor?

La cara rimembranza che in cor mi s’è destata
Si ardente v’ha già fatta rinascer la speranza
Che un bacio, un voto, un grido d’amore
Più non chiedo che a lei che muta è ognor.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Stefano Donaudy: l’effimero successo teatrale e l’eterna eco delle melodie antiche

Primi passi e formazione di un talento precoce (1879-1892)
Nato a Palermo da Augusto Donaudy e Elena Pampillonia, Stefano Donaudy manifestò fin da giovanissimo un eccezionale talento musicale. Studiò privatamente violino e pianoforte, esibendosi in pubblico a soli dieci anni e suscitando ammirazione per le sue doti innate. Ancora fanciullo, iniziò a comporre melodie per canto e pianoforte. La sua formazione fu influenzata dalla frequentazione del Politeama «Garibaldi» di Palermo, dove assistette a importanti stagioni liriche che lo indirizzarono verso il teatro. Dopo aver scritto brevi scene drammatiche, a soli tredici anni, nel 1892, compose la sua prima opera, Folchetto, in un prologo e due atti, su libretto del fratello Alberto (già avviato come librettista e commediografo) e ispirata a un poema di T. Grossi. Benché rappresentata solo privatamente, Folchetto rivelò il precoce talento teatrale del giovane compositore. Subito dopo, Donaudy interruppe gli studi musicali per dedicarsi a quelli classici, che proseguì fino alle soglie dell’università.

Ritorno alla musica e perfezionamento accademico (1899-1902)
Tornato alla musica, nel 1899 compose un’altra opera drammatica, Scampagnata, sempre su libretto del fratello Alberto. Anche questa non fu rappresentata pubblicamente ma eseguita privatamente con accompagnamento di pianoforte. A questo evento seguì l’inizio di un serio impegno nello studio della composizione: Donaudy entrò come allievo interno al Conservatorio di Palermo, dove studiò armonia, contrappunto e composizione sotto la guida del direttore G. Zuelli. L’insegnamento di Zuelli fu cruciale per Donaudy, aiutandolo a disciplinare il suo versatile talento e a indirizzarlo verso una produzione che valorizzasse la sua facile vena melodica e il suo gusto raffinato. Fra il 1899 e il 1902, durante gli anni di conservatorio, produsse opere pregevoli come la cantata Il sogno di Polisenda, un Quartetto per archi, la scena lirica Idilli estivi e diverse arie per canto e pianoforte, che gli valsero notorietà e la pubblicazione da parte dell’editore Ricordi.

L’ascesa teatrale: primi trionfi e grandi speranze (1902-1908)
Conclusi gli studi e sentendosi pronto per la carriera teatrale, Donaudy compose l’opera in quattro atti Teodoro Körner, su libretto del fratello Alberto. L’opera fu rappresentata con buon successo il 27 novembre 1902 allo Stadt-Theater di Amburgo, attirando l’attenzione dell’editore Ricordi, che commissionò al giovane musicista Sperduti nel buio, ispirata dal dramma omonimo di Roberto Bracco, su libretto dello stesso Bracco e di Alberto Donaudy. Il favore della critica, che ne lodò la spontaneità melodica e la solida struttura, sembrava preludere a una luminosa carriera.

Aspettative deluse e il progressivo distacco dal teatro (1908-1925)
Sull’onda del successo, Ricordi commissionò a Donaudy l’opera Ramuntcho, tratta da Pierre Loti e con libretto ancora una volta del fratello Alberto, destinata al Teatro alla Scala. Tuttavia, l’opera ebbe una lunga gestazione e, una volta pronta, incontrò difficoltà a essere rappresentata alla Scala a causa della guerra e della conseguente riduzione delle stagioni. Fu eseguita solo il 17 marzo 1921, al Teatro Dal Verme di Milano, al termine di una stagione di scarso rilievo. Nonostante l’interesse del pubblico e i consensi, la critica non le dedicò particolare attenzione. Un successo postumo arrivò con una trasmissione radiofonica dell’EIAR nel 1933. Nonostante ciò, Donaudy continuò a comporre. Nel 1922 scrisse l’opera in un atto La fiamminga, che vinse il primo premio al Concorso lirico nazionale e fu rappresentata con successo al San Carlo di Napoli nell’aprile dello stesso anno, diretta da E. Mascheroni. Sebbene acclamata dal pubblico, non ebbe ulteriori rappresentazioni in altri teatri, pur venendo trasmessa via radio dall’EIAR nel 1931 con buon esito. Deluso dalla scarsa fortuna delle sue opere teatrali, Donaudy abbandonò la composizione, trascorrendo gli ultimi anni lontano dagli ambienti musicali. Si spense a Napoli il 31 maggio 1925.

Profilo artistico: un musicista “ritardatario” tra fascino antico e incomprensione contemporanea
Donaudy fu un musicista colto e sensibile, ma per molti aspetti “ritardatario”. La sua produzione teatrale, pur contenendo pagine di pregio, non fu al passo con i tempi, dominati da Puccini e dal Verismo di Mascagni, indugiando in stilemi legati a un passato troppo lontano. La sua natura era incline a rievocare atmosfere di raffinata eleganza stilistica sei-settecentesca, e diede il meglio di sé nelle raccolte di Arie di stile antico, che gli conferirono notorietà internazionale ma rappresentarono anche il limite della sua figura artistica. Abile nel creare atmosfere delicate e nel vagheggiare epoche lontane, faticò a calarsi nella realtà quotidiana e nelle istanze espressive del suo tempo.
Tuttavia, gli fu riconosciuta la capacità di rendere con sensibilità e caratterizzazione psicologica particolari situazioni drammatiche. Se in Teodoro Körner mostrò una vena tardoromantica, nel più fortunato Sperduti nel buio cercò di sottolineare il tono intimistico con uno stile vagamente crepuscolare, tratteggiando con patetica sensibilità gli aspetti umani del dramma. Ramuntcho, considerata la sua opera più originale, affronta una situazione drammatica dai caratteri netti e passionali, ripresi poi nella Fiamminga, dove si concentrano i valori prediletti dal musicista: amor patrio, seduzione femminile e sacrificio materno.

L’eredità duratura: le Arie di stile antico e il catalogo delle opere
Oggi, il nome di Donaudy è legato soprattutto alle Arie di stile antico, pubblicate in tre fascicoli da Ricordi fra il 1918 e il 1922, e divenute popolarissime anche all’estero. Queste 36 composizioni (villanelle, canzoni, madrigali, ecc.) su testi del fratello Alberto, si distinguono per la ricchezza melodica e la varietà stilistica, rivelando il gusto per la riscoperta di stilemi del passato, caratteristico dell’epoca. Pur influenzato dalla romanza da salotto, Donaudy assimilò la grande tradizione melodica italiana, evitando le convenzioni e le banalità armoniche tipiche della romanza fin de siècle.
La sua produzione include anche l’opera incompiuta La fidanzata del mare; lavori sinfonici come Il sogno di Polisenda e Sogno di terra lontana; musica da camera (in gran parte inedita) tra cui un Quintetto, Quartetti, un Trio, Miniature liriche, e vari pezzi per violino e violoncello; composizioni per pianoforte come Sarabanda e fuga e Minuetto Carillon. Per voce e pianoforte, oltre alle citate Arie, si ricordano Douzes Petits poèmes japonais e la Ballata delle fanciulle povere. Completano il catalogo un’Ave Maria per voce e quartetto d’archi e un Canto di ringraziamento.

Vaghissima sembianza: analisi del brano
Quest’aria è un eccellente esempio dell’abilità del compositore nel coniugare una sensibilità melodica tardo-romantica con forme e stilemi che richiamano epoche precedenti, in linea con il titolo della raccolta Arie di stile antico. Strutturalmente può essere interpretata come una forma ternaria modificata (ABA’) con un’introduzione e una coda pianistica, oppure come una forma bipartita con sezioni contrastanti ma tematicamente correlate.
Il brano stabilisce immediatamente la tonalità e l’atmosfera, esponendo la melodia lirica principale, sviluppata con maggiore intensità e raggiungimento di un culmine espressivo. La seconda sezione introduce un momento più intimo e riflessivo, con una melodia cantabile e dolce. Segue la ripresa del materiale tematico della prima sezione, ma con maggiore impeto e progressione verso il climax. Si arriva a una conclusione strumentale che riafferma la tonalità.
Donaudy utilizza un linguaggio armonico che, pur essendo fondamentalmente tonale e diatonico, è arricchito da un cromatismo espressivo tipico del tardo Romanticismo, ma sempre controllato e al servizio della melodia e del testo. Si osservano progressioni armoniche chiare e funzionali e l’uso di accordi di settima di dominante per creare tensione e spinta verso la tonica. Non ci sono modulazioni vere e proprie a tonalità distanti. Il centro tonale di la maggiore rimane il perno. Eventuali inflessioni cromatiche servono più ad arricchire gli accordi o a creare passaggi fluidi che a stabilire nuove tonalità. Prevalgono triadi e settime, con un uso sapiente di appoggiature, ritardi e note di passaggio che impreziosiscono la tessitura armonica. L’ancoraggio a una tonalità chiara e l’uso di progressioni fondamentalmente diatoniche contribuiscono all’effetto “antico”, evitando le complessità armoniche estreme di alcuni contemporanei.
La linea vocale è eminentemente lirica, cantabile e costruita con grande attenzione all’espressività del testo. È fluida e ben bilanciata. La melodia procede spesso per gradi congiunti, ma è intervallata da salti espressivi che sottolineano parole chiave. Le frasi sono ben definite, spesso corrispondenti ai versi del testo e modellate con cura attraverso indicazioni dinamiche e agogiche. Donaudy mostra una grande sensibilità nel musicare il testo. Per esempio, l’ascesa melodica e il crescendo su parole come “ardente” o “speranza” sono efficaci. La domanda “come ai bei dì d’amor?” è resa con un calo dinamico. La chiarezza melodica, la cantabilità e l’evitamento di virtuosismi eccessivi o frammentazioni tipiche di stili più moderni contribuiscono a questa sensazione.
L’aria è in 3/4 e presenta come indicazione di tempo Andante con moto. L’accompagnamento pianistico presenta un flusso costante di crome e semicrome, spesso in figurazioni arpeggiate o accordali spezzate, che creano un tappeto sonoro continuo e morbido. La linea vocale utilizza valori ritmici più variati (minime, semiminime, crome), adattandosi con flessibilità al testo. Si notano spesso valori più lunghi all’inizio o alla fine delle frasi per dare respiro e importanza. Le numerose indicazioni agogiche conferiscono all’aria una grande flessibilità espressiva, tipica più del Romanticismo che di uno “stile antico” rigoroso, ma che contribuisce al fascino della composizione. L’aria sfrutta una vasta gamma dinamica, dal “piano dolce” al “forte con anima” e “rinforzando“. Le dinamiche sono usate per sottolineare la struttura formale, enfatizzare momenti emotivi del testo e creare contrasti.

L’accompagnamento non è meramente di supporto, ma partecipa attivamente alla creazione dell’atmosfera e all’espressione. Ha una sua indipendenza pur integrandosi perfettamente con la linea vocale. La tessitura varia da arpeggi delicati e trasparenti a figurazioni più dense e accordali nei momenti di maggiore intensità. Spesso il pianoforte raddoppia o armonizza parti della melodia vocale, oppure offre un contrappunto discreto o un sostegno armonico. In alcuni punti, il pianoforte segue più strettamente il ritmo e il fraseggio vocale.
Donaudy non opera una pedissequa imitazione di un preciso stile storico (barocco o classico). Piuttosto, evoca un’aura di “antichità” attraverso strutture riconoscibili e un solido ancoraggio alla tonalità, linee vocali cantabili e ben modellate, evitando eccessi di sentimentalismo o drammaticità verista. L’emozione è presente ma contenuta entro limiti di raffinata eleganza.
Tuttavia, l’armonia ricca (seppur tonale), l’ampia gamma dinamica e le dettagliate indicazioni agogiche ed espressive collocano senza dubbio la composizione nell’epoca tardoromantica: si tratta quindi uno “stile antico” filtrato attraverso una sensibilità ottocentesca.
Nel complesso, Vaghissima sembianza è un’aria di grande fascino e raffinatezza: Donaudy riesce a creare un brano che è al contempo accessibile, emotivamente coinvolgente e tecnicamente ben scritto sia per la voce che per il pianoforte. La sua bellezza risiede nell’equilibrio tra una melodia memorabile, un’armonia espressiva e un’evocazione nostalgica di un passato idealizzato, il tutto realizzato con impeccabile gusto e mestiere compositivo. È un pezzo che continua a essere amato da cantanti e pubblico proprio per questa sua capacità di toccare corde emotive profonde attraverso mezzi musicali eleganti e apparentemente semplici.

Chiari di Luna – VI

Clara Schumann (1819 - 20 maggio 1896): Der Mond kommt still gegangen, Lied per voce e pianoforte op. 13 n. 4 (1844) su testo di Emanuel Geibel (1815 - 1884). Barbara Bonney, soprano; Vladimir Aškenazij, pianoforte.

Der Mond kommt still gegangen
Mit seinem gold’nen Schein.
Da schläft in holdem Prangen
Die müde Erde ein.

Und auf den Lüften schwanken
Aus manchem treuen Sinn
Viel tausend Liebesgedanken
Über die Schläfer hin.

Und drunten im Tale, da funkeln
Die Fenster von Liebchens Haus;
Ich aber blicke im Dunkeln
Still in die Welt hinaus.

La luna silenziosamente avanza con il suo chiarore dorato. Là si addormenta in incantevole splendore la terra stanca.
E nell’aria migliaia di pensieri d’amore da molte menti fedeli fluttuano sui dormienti.
E giù nella valle le finestre della casa del mio tesoro scintillano; ma io in silenzio guardo il mondo nell’oscurità.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Clara Schumann: melodia di una vita straordinaria – virtuosa, compositrice, donna

Introduzione
Clara Schumann (nata Wieck) viene ricordata come una figura poliedrica nel panorama musicale tedesco dell’epoca: pianista di fama mondiale, compositrice, stimata insegnante di pianoforte ed editrice. Bambina prodigio, si focalizzò subito su opere virtuosistiche, incluse le proprie, per poi passare a lavori del marito Robert e dei maggiori compositori del tempo (Chopin, Mendelssohn, Beethoven, Bach, Schubert e Brahms), contribuendo a definire il canone concertistico del tardo XIX e XX secolo.

Origini familiari, primi anni, formazione da Wunderkind e ascesa internazionale
Nata a Lipsia nella famiglia di Friedrich Wieck – teologo di formazione ma appassionato di musica al punto da diventare insegnante di pianoforte, fondatore di una fabbrica di pianoforti e di una biblioteca musicale – e di sua moglie Mariane Tromlitz, Clara iniziò a parlare tardi, probabilmente a quattro anni, durante un soggiorno di un anno con la madre presso i nonni materni a Plauen, dopo il quale tornò sotto la tutela paterna.
Già prima di questo periodo, aveva mostrato predisposizione al pianoforte. Al suo ritorno, a cinque anni, ricevette un’intensa formazione pianistica, principalmente dal padre, che mirava a farla emergere rapidamente come bambina prodigio e virtuosa. La sua istruzione generale fu inizialmente limitata, privilegiando lo studio musicale e lunghe passeggiate per l’esercizio fisico, ma in seguito apprese anche lingue straniere. I successi non tardarono ed ella divenne il fiore all’occhiello del metodo pedagogico paterno.
Il suo debutto pubblico avvenne il 20 ottobre 1828 al Gewandhaus di Lipsia, dove eseguì a quattro mani un’opera di Friedrich Kalkbrenner, ricevendo elogi dalla critica. Il padre tenne un diario per la figlia, scritto in prima persona come se fosse lei stessa, e successivamente controllava le sue annotazioni. Un esempio del 29 ottobre 1828 rivela la severità del padre, il quale la punì per la sua presunta pigrizia strappandole uno spartito e limitandola a esercizi tecnici. Clara stessa, in età avanzata, riconobbe che la disciplina paterna, pur definita tirannica da alcuni, fu fondamentale per la sua salute e la sua longevità artistica.
Inizialmente, il repertorio – scelto dal padre – era composto da brani brillanti e tecnicamente impegnativi di compositori come Kalkbrenner e Herz, includendo anche le sue prime composizioni. Solo con la diminuzione dell’influenza paterna, la giovane inserì nei suoi concerti opere di Beethoven, Bach e Robert Schumann. Friedrich agiva come impresario, organizzando tournée, assicurandosi della disponibilità e funzionalità degli strumenti, spesso occupandosi personalmente dell’accordatura e delle riparazioni, fino a far spedire pianoforti di sua scelta sui luoghi dei concerti.
Clara suonò per Goethe, conobbe Paganini, strinse amicizia e collaborò con Liszt, scambiò composizioni con Chopin e fu incoraggiata da Mendelssohn. Si esibì in numerose città tedesche e all’estero, ottenendo nel marzo 1838, a soli 18 anni, il titolo di “k. k. Kammer-Virtuosin” (imperial-regia virtuosa da camera) a Vienna. Come compositrice, fu attiva precocemente e le sue Quatre Polonaises op. 1, composte a soli 10-11 anni, furono pubblicate nel 1831, seguite da altre opere significative.

L’amore ostacolato e il matrimonio con Robert Schumann
Clara conobbe Robert Schumann nel 1828, quando aveva circa otto anni e mezzo. Dall’ottobre 1830, Schumann, ventenne, visse per un anno presso i Wieck come allievo del padre di Clara, intrattenendo la bambina e i suoi fratelli con fiabe inventate. Quando la giovane compì 16 anni, nel novembre 1835, i due si scambiarono il primo bacio, un momento che Robert ricorderà con affetto. Friedrich Wieck si oppose fermamente alla loro relazione, cercando di separarli organizzando tournée per Clara, sorvegliandola costantemente e proibendo la corrispondenza. Nel giugno 1837, portò Clara dagli amici Serre a Maxen, vicino Dresda, per allontanarla da Robert, ma i Serre sostennero la coppia.
Al fidanzamento segreto nell’agosto 1837 seguì una richiesta formale di matrimonio da parte di Robert a Friedrich Wieck, la quale fu respinta. Nonostante il divieto, i due riuscirono a vedersi. Durante il soggiorno viennese di Clara (1837/38), accompagnata dal padre, poté scrivere a Robert, ma le lettere più intime erano redatte di nascosto e in condizioni precarie.
Dopo un viaggio a Parigi senza il padre (gennaio-agosto 1839), Clara lasciò la casa paterna, trovando ospitalità prima da amici e poi, da settembre 1839, dalla madre a Berlino, dove poté trascorrere il Natale con Robert e risiedette fino al matrimonio. Il 16 luglio 1839, i due intentarono una causa legale contro Wieck per ottenere il consenso al matrimonio. In questo periodo di incertezza, Clara espresse nel suo diario le speranze e le preoccupazioni per la futura vita coniugale, temendo di non riuscire a legare a sé Robert e preoccupandosi per la sua salute, ma determinata a conciliare il ruolo di artista con quello di moglie e a non abbandonare la sua arte. Il tribunale approvò le nozze e la cerimonia si tenne il 12 settembre 1840 – il giorno prima del ventunesimo compleanno di Clara – nella Gedächtniskirche di Schönefeld, vicino Lipsia.

Vita coniugale: arte, famiglia e sfide (Lipsia, Dresda)
Dopo il matrimonio, la coppia si stabilì in un appartamento a Lipsia, dove riceveva fre­quenti visite da musicisti di passaggio, tra cui Mendelssohn, Bennett, Berlioz, Liszt e Wagner. Clara si dedicò al marito, cercando di garantirgli un ambiente sereno per com­porre, ma desiderava continuare la propria carriera concertistica, temendo che le sue qualità di pianista potessero risentire della pausa forzata. Robert, inizialmente, preferiva che lei rimanesse al suo fianco e limitasse gli esercizi al pianoforte per non disturbarlo, data la scarsa insonorizzazione del­l’ap­par­tamento. La incoraggiò, tuttavia, a dedicarsi maggiormente alla composizione.
Clara approfittò di questo periodo per ampliare la propria cultura generale, leggendo Goethe, Shakespeare e studiando a fondo le opere di Bach e Beethoven con il marito. La riconciliazione con il padre avvenne nel 1843, su iniziativa di quest’ultimo. Molti dettagli di questo periodo sono noti grazie al diario coniugale tenuto da entrambi. Clara riprese presto l’attività concertistica, anche per necessità economiche, contribuendo significativamente al sostentamento della famiglia. I suoi concerti furono cruciali per la diffusione delle opere di Robert, che non poteva esibirsi pubblicamente a causa di un problema alla mano destra. Dopo la morte del marito, Clara divenne la principale artefice della sua fama.
La prima tournée significativa della coppia fu nel nord della Germania (1842), seguita da un faticoso viaggio in Russia (1844), durante il quale Robert soffrì per essere spesso messo in ombra dalla moglie. Al ritorno a Lipsia, Robert ebbe un crollo fisico e mentale nell’agosto 1844. Clara dovette ritirarsi da un breve incarico al Conservatorio di Lipsia. La famiglia si trasferì a Dresda il 13 dicembre 1844, sperando in un miglioramento delle condizioni di Robert. A Dresda (1844-1850), Robert cercò invano una posizione stabile come direttore. Fu spesso malato e depresso fino al 1846.
Un soggiorno a Norderney nell’estate 1846 non portò il sollievo sperato e vi furono tensioni legate a una presunta gravidanza di Clara. Nel 1847, la famiglia si trasferì in un appartamento più grande dove Clara poteva suonare senza disturbare il marito. Dopo una tournée a Vienna, Brno e Praga e un successo a Berlino con l’oratorio di Robert Das Paradies und die Peri, i due considerarono di trasferirsi a Berlino, ma la morte prematura di Fanny Hensel, amica di Clara, li fece desistere. Alla fine del 1849, Robert accettò l’incarico di direttore musicale municipale a Düsseldorf.

Düsseldorf, la malattia del marito e l’arrivo di Johannes Brahms
La famiglia si trasferì a Düsseldorf nel settembre 1850. Clara soffrì per le difficoltà economiche e logistiche che limitavano il suo tempo per studiare. Clara riprese a esibirsi e assisteva Robert nelle prove d’orchestra, ma l’indisciplina dei musicisti e la scarsa autorevolezza del marito causarono frustrazioni.
Nel 1852, Woldemar Bargiel – fratellastro di Clara – visitò la coppia, notando la simbiosi emotiva tra i due e le frequenti malattie di Robert che preoccupavano profondamente la donna. Dopo un viaggio a Scheveningen, si trasferirono in un nuovo appartamento dove Clara aveva uno studio separato.
Nel 1853, i contrasti tra Robert e l’orchestra di Düsseldorf si acuirono, portandolo a dimettersi. Clara sostenne il marito, nonostante le sue preoccupazioni per il suo stato mentale sempre più labile. Tournée in Olanda e Hannover (fine 1853 – inizio 1854) furono un successo, ma poco dopo la malattia di Robert, forse dovuta a una sifilide pregressa, peggiorò drasticamente con “affezioni uditive” (allucinazioni sonore, dolori). Il 27 febbraio 1854, Robert tentò il suicidio gettandosi nel Reno, ma fu salvato e, il 4 marzo, ricoverato nella clinica per malattie nervose di Endenich, vicino Bonn. La tesi che Robert si sia ricoverato volontariamente per non nuocere alla famiglia è controversa e non supportata da fonti primarie certe, derivando principalmente dalla biografia di Litzmann, i cui materiali originali (diari di Clara) sono in gran parte andati perduti. A Clara fu negato l’accesso al marito per motivi medici e lo rivide solo il 27 luglio 1856, due giorni prima della sua morte, convinta che l’avesse riconosciuta.
Johannes Brahms visitò i Schumann a Düsseldorf il 30 settembre 1853, in un momento difficile per la famiglia. La sua musica e la sua personalità impressionarono profondamente Robert e Clara. Dopo il ricovero di Robert, il legame tra Clara e Brahms si intensificò. Brahms divenne un amico intimo e un sostegno indispensabile per Clara e la sua famiglia. È certo che Brahms fosse innamorato di Clara, come testimoniano le sue lettere. La natura esatta della loro relazione in quel periodo rimane incerta, poiché gran parte della loro corrispondenza fu distrutta. Le lettere superstiti di Brahms rivelano un’evoluzione da “Stimata Signora” a “Amatissima Amica” e “Amata Clara”, con espressioni di profondo affetto e amore. Dopo la morte di Robert, il tono delle lettere divenne più formale. Clara, in un diario per i figli, descrisse Brahms come un amico inviato da Dio, che amava profondamente per la “bellissima intesa delle nostre anime”.

Vita dopo Robert: concertismo, insegnamento e dolori familiari
Dopo la morte di Robert (29 luglio 1856), Clara affidò i figli maggiori a istituti o parenti. Nell’ottobre 1857, la donna si trasferì a Berlino (fino al 1863), dove l’amica Elisabeth Werner l’aiutava con la casa e i figli durante le sue tournée. Dal 1863 al 1873 visse a Baden-Baden, dove ebbe una relazione con il compositore Theodor Kirchner, interrotta poco tempo dopo a causa della ludopatia di lui e dell’incertezza dei suoi sentimenti. Ciò non le impedì però di continuare la sua acclamata carriera concertistica. Un grande dolore fu la malattia mentale del figlio Ludwig che, nel 1870, fu internato nell’ospedale psichiatrico di Colditz, dove morì nel 1899. Tornò a Berlino (1873-1878) per stare vicino ai figli, ma non si trovò a suo agio, soffrendo per dolori al braccio che le impedirono di concertare per un periodo e per la mancanza di un ambiente artistico stimolante. Un impiego alla Königliche Hochschule für Musik, purtroppo, non si concretizzò.

Gli ultimi anni a Francoforte, la malattia e la morte
Nel 1878, Clara fu nominata “prima insegnante di pianoforte” al neonato Dr. Hoch’s Konservatorium di Francoforte sul Meno. Insegnò anche privatamente e si dedicò anche alla curatela delle opere dell’ex marito per Breitkopf & Härtel e alla pubblicazione dei suoi scritti. Il suo ultimo concerto si tenne il 12 marzo 1891, a 71 anni. Negli anni successivi, soffrì di problemi all’udito che peggiorarono progressivamente, rendendole intollerabile l’ascolto della musica orchestrale, sebbene potesse ancora suonare e insegnare. Il 26 marzo 1896 subì un ictus e morì dopo un secondo attacco il 20 maggio 1896, all’età di 76 anni.

Clara la compositrice: evoluzione stilistica e riscoperta
Su indicazione paterna, Clara ricevette fin da bambina lezioni di teoria, contrappunto e composizione, oltre a violino e lettura della partitura. Le sue prime opere (opp. 1-10), come le Quatre Polonaises op. 1, erano destinate principalmente alle sue esibizioni e riflettevano il gusto virtuosistico dell’epoca, con un’armonia ricca e una metrica variabile, influenzate da Chopin, Spohr, Weber e Mendelssohn. Già in queste opere giovanili, dialogava musicalmente con Robert Schumann. Le composizioni femminili erano ancora viste come un’eccezione, ma la sua abilità fu riconosciuta, pur con qualche riserva paternalistica da parte di alcuni critici.
Con le Romanze per pianoforte op. 11 — nate durante il fidanzamento con Robert — il suo approccio compositivo cambiò e la virtuosità divenne secondaria rispetto all’espressività romantica e a una scrittura più complessa, influenzata da Robert Schumann e Mendelssohn. Robert la considerava una compositrice alla pari, auspicando una collaborazione artistica. Alcuni suoi Lieder furono pubblicati insieme a quelle di Robert nell’op. 37 n. 12 (Liebesfrühling di Rückert). Tuttavia, i doveri familiari e il costante confronto con il genio del marito generarono in lei dubbi sulle proprie capacità compositive, come espresso riguardo al suo Trio per pianoforte op. 17.
Una crisi creativa nel 1847 portò all’abbandono di un concerto per pianoforte e orchestra. Solo nel 1853 riprese a comporre con le Variazioni su un tema di Robert Schumann op. 20 che ispirarono le analoghe Variazioni op. 9 di Brahms. Seguirono le Romanze per pianoforte op. 21 e le Romanze per violino e pianoforte op. 22, e i Sei Lieder op. 23, opere che le diedero grande gioia. Dopo la morte di Robert nel 1856, la sua vena compositiva si spense quasi del tutto, con poche eccezioni. Dimenticata come compositrice per lungo tempo, è stata riscoperta dagli anni ’60, e le sue opere sono oggi studiate ed eseguite.

Clara l’editrice: la salvaguardia dell’eredità schumanniana
Clara partecipò alla preparazione delle edizioni delle proprie opere e di quelle di Robert già durante il matrimonio. Dopo la morte del marito, curò la pubblicazione di trascrizioni per pianoforte di Lieder di Robert Schumann (le 30 Mélodies), mirando a renderle accessibili pur rimanendo fedele alle intenzioni del compositore. Le sue due principali imprese editoriali furono i Robert Schumanns Werke (opera omnia, 1879-1893) e Robert Schumann: Klavierwerke. Erste mit Fingersätzen und Vortragsbezeichnungen versehene instruktive Ausgabe (edizione critica per la pratica pianistica, dal 1886), entrambe per Breitkopf & Härtel.
Per gli opera omnia collaborò strettamente con Johannes Brahms e altri musicisti, cercando di basarsi sui manoscritti originali e le prime stampe. Sorsero divergenze con Brahms riguardo a quali opere e versioni includere e Clara fu restia a pubblicare lavori che riteneva potessero recare tracce della malattia del marito, arrivando a distruggere alcune composizioni. L’edizione, pur autorevole, mancava di un apparato critico moderno.
L’edizione “istruttiva” delle opere pianistiche, invece, mirava a trasmettere la sua esperienza interpretativa attraverso diteggiature, indicazioni di pedale e fraseggio. Curò anche una raccolta di studi di Czerny e la pubblicazione delle Jugendbriefe (lettere giovanili) di Robert Schumann.

Der Mond kommt still gegangen: analisi
Questo Lied è un esempio squisito della sensibilità compositiva di Clara Schumann e della sua capacità di tradurre in musica le sfumature emotive della poesia romantica.
Il brano segue una forma strofica modificata (strofa 1 e 2 musicalmente quasi identiche, strofa 3 con significative variazioni), una struttura tipica del Lied romantico che permette di mantenere un’unità tematica pur adattando la musica alle diverse immagini e stati d’animo del testo.
Il brano si apre con un breve preludio pianistico, nel quale la mano destra disegna delicati arpeggi ascendenti e discendenti, creando un’atmosfera eterea e sognante. Queste figure arpeggiate caratterizzeranno gran parte dell’accompagnamento ed evocano immediatamente l’immagine del “silenzioso avanzare” della luna e la sua luce dorata. La mano sinistra fornisce un sostegno armonico discreto, con note tenute o movimenti lenti che contribuiscono alla sensazione di calma notturna. La dinamica è sommessa (piano).
La voce entra con dolcezza, su una melodia lirica e cantabile che si muove prevalentemente per gradi congiunti, confermando il carattere sereno e contemplativo. La linea melodica è fluida e naturale, adattandosi perfettamente alla prosodia del testo. Il registro è centrale, confortevole per la voce di soprano. Il pianoforte prosegue il motivo arpeggiato della mano destra, ora leggermente variato per integrarsi con la linea vocale. La mano sinistra mantiene il suo ruolo di fondamento armonico. L’effetto è quello di un cullare gentile, quasi una ninna nanna cosmica. L’armonia è prevalentemente diatonica, con accordi consonanti che rafforzano la sensazione di pace e serenità. La frase “[schläft] die müde Erde ein” ([si addormenta] la terra stanca) si conclude con una cadenza perfetta, portando un senso di quiete e riposo.
Un brevissimo interludio pianistico, che riprende il materiale dell’introduzione, collega la prima alla seconda strofa, mantenendo inalterata l’atmosfera. Musicalmente, questa strofa è una ripresa quasi letterale della prima, confermando la struttura strofica. Le leggere variazioni sono più nell’interpretazione dinamica e agogica che nella scrittura. Le immagini di “auf den Lüften schwanken” (fluttuano nell’aria) e “viel tausend Liebesgedanken” (molte migliaia di pensieri d’amore) sono cullate dalla stessa musica serena. La dolcezza della melodia e l’ondeggiare degli arpeggi pianistici si adattano bene all’idea di pensieri d’amore che fluttuano leggeri sui dormienti.
Simile al precedente, un nuovo interludio fa da ponte alla terza strofa. Qui avviene la “modifica” della forma strofica, poiché il focus del testo si sposta dall’osservazione generale della natura all’esperienza intima e personale dell’io lirico. Si avverte un’inflessione armonica più malinconica, con accordi che creano una maggiore tensione emotiva, forse con un uso più marcato di settime o un breve accenno al modo minore per sottolineare Dunkeln (oscurità) e la solitudine contemplativa dell’osservatore. L’armonia si fa leggermente più cromatica e introspettiva.
La linea melodica, pur mantenendo una sua cantabilità, assume un’inflessione più pensosa. L’accompagnamento si adatta e gli arpeggi persistono, ma il loro contesto armonico conferisce loro una nuova coloritura. Sulla parola still (silenziosamente), la dinamica ritorna molto sommessa, ma con una carica emotiva diversa, più intima e riflessiva rispetto alla serenità iniziale. Il pianoforte conclude il Lied con una coda che riprende il materiale arpeggiato dell’introduzione. Tuttavia, dopo l’esperienza emotiva della terza strofa, questi arpeggi sembrano ora tinti di una sfumatura più riflessiva. La musica si dissolve gradualmente (diminuendo), lasciando nell’ascoltatore una sensazione di quieta contemplazione, forse con un eco della malinconia appena espressa. La chiusura è pacata, come un sospiro notturno.
Nel complesso, Der Mond kommt still gegangen è un Lied che, nella sua apparente semplicità, racchiude una notevole profondità emotiva. Clara Schumann riesce a dipingere un quadro notturno che evolve da una serena contemplazione della natura a un’intima riflessione personale. La forma strofica modificata è impiegata con maestria per sottolineare questo passaggio. È una testimonianza della capacità di Clara Schumann di creare musica che parla direttamente all’anima, con grazia e profondità.

Clara Schumann, op. 13 n. 4

Cornemuse et tambourin

Nicolas de Marle (attivo intorno alla metà del XVI secolo): Une bergère un jour, chanson a 4 voci (pubblicata nel Dixseptiesme Livre contenant XIX. chansons legères très musicales nouvelles à quatre parties di Pierre Attaingnant, 1545, n. 17). Ensemble «Clément Janequin».

Une bergère un jour aux champs était
Sous un buisson prenant chemise blanche.
Et le berger qui de près la guettait,
Qui doucement la tira sous manche,
En lui disant: « Margot, voici mon anche.
Jouons nous deux de cette cornemuse,
Car c’est un jeu où souvent tu t’amuses ».
Elle sourit, disant en telle sorte:
« J’ai tambourin joli dont toujours j’use:
Frappez dessus, la peau est assez forte »



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Nicolas de Marle: l’eredità musicale di un maestro "minore" del Rinascimento a Noyon

Un compositore tra sacro e profano
Nicolas de Marle emerge dalla storia come un compositore francese attivo nella città di Noyon durante la metà del XVI secolo. La sua produzione musicale abbraccia sia il genere sacro sia quello profano e, benché Marle sia a tutti gli effetti un maestro "minore" rispetto ad altri suoi contemporanei, le sue composizioni erano già all’epoca considerate di notevole qualità, tanto da meritare la pubblicazione da parte delle rinomate stamperie parigine.

Cenni biografici. Un legame indissolubile con Noyon
Le informazioni sulla vita di Nicolas de Marle sono frammentarie. Si ipotizza che potesse essere originario del borgo di Marle, situato a nord di Laon, lo stesso luogo di provenienza del celebre cancelliere di Francia Henri de Marle. Tuttavia, l’unica testimonianza diretta sulla sua esistenza e sul suo ruolo ci perviene da una sua messa pubblicata nel 1568. In essa, egli viene identificato come prete e maître des enfants de chœur (maestro dei fanciulli cantori) della prestigiosa Cattedrale di Noyon. Data l’assenza di sue tracce in altre località, è plausibile supporre che Marle abbia trascorso, se non l’intera, la maggior parte della sua carriera musicale e sacerdotale proprio a Noyon.

L’opera sacra

L’insieme delle composizioni sacre di Marle pervenuteci si concentra principalmente su tre messe, tutte caratterizzate dalla tecnica compositiva della “messa parodia”, ovvero basate su melodie preesistenti, sacre o profane:

  • la Missa «Je suis deshéritée» (1557): pubblicata a Parigi da Adrian Le Roy e Robert Ballard, questa messa a 4 voci è costruita sulla melodia della celebre chanson Je suis deshéritée di Pierre Cadéac, molto popolare all’epoca;

  • la Missa «Panis quem ego dabo» (1558): edita anch’essa da Le Roy & Ballard, questa messa a 4 voci si basa su un mottetto intitolato Panis quem ego dabo, il cui autore non è stato ancora identificato. Di questa messa esistono anche esemplari datati 1559;

  • la Missa «O gente brunette» (1568): stampata a Parigi da Nicolas du Chemin, questa messa a 4 voci prende spunto da una canzone dal contenuto licenzioso di un certo Mithou. È significativo che il frontespizio di questa edizione confermi esplicitamente il ruolo di Marle come "moderatore" (direttore/maestro) dei fanciulli del coro della chiesa di Noyon. Nello stesso anno, questa messa fu inclusa in una pubblicazione collettiva contenente altre nove messe.

La musica profana
Oltre che di composizioni sacre, Marle fu un prolifico autore di musica profana. Ci sono pervenute 12 sue chansons, pubblicate tra il 1544 e il 1554 da tre importanti stampatori parigini: Pierre Attaingnant, Nicolas du Chemin e la coppia Adrian Le Roy et Robert Ballard. Tra queste chansons, Une bergère un jour (1545) godette di particolare successo e si presume che ciò abbia potuto favorire la pubblicazione di altre opere profane del compositore. Per i testi delle sue chansons, Marle attinse principalmente a fonti anonime, ma musicò anche versi di personalità illustri come il re di Francia Francesco I di Valois e il poeta Clément Marot, dimostrando la capacità di inserirsi nel contesto culturale del suo tempo.

Analisi di Une bergère un jour
Questa chanson rappresenta un esempio squisito della chanson parigina rinascimentale. Benché Marle sia considerato un compositore "minore", questo brano dimostra una notevole abilità nel combinare una melodia accattivante, una chiara declamazione del testo e un’arguta espressività musicale che ne giustificano la popolarità e le numerose ripubblicazioni. La chanson si distingue per il suo carattere leggero, la sua elegante semplicità e, soprattutto, per il suo sottile e giocoso sottotesto erotico.
Il testo narra un incontro pastorale apparentemente innocente, ma è ricco di doppi sensi tipici della letteratura e della musica profana dell’epoca. Le allusioni sono chiare: l’"ancia" (anche) e la "cornamusa" (cornemuse) del pastore, così come il "tamburo" (tambourin) e la sua "pelle" (peau) della pastorella, sono metafore sessuali evidenti. La musica di Marle gioca abilmente con questa malizia, senza mai diventare volgare, ma mantenendo un tono di arguzia e complicità.
La chanson segue una struttura che riflette le divisioni del testo, con sezioni musicali che corrispondono ai diversi momenti narrativi e dialogici. Possiamo identificare:

  • una sezione A (versi 1-4): esposizione della scena
    La musica s’inizia in modo prevalentemente omoritmico, con le quattro voci che si muovono insieme, garantendo un’eccellente intelligibilità del testo. La melodia è graziosa e scorrevole. La frase "Sous un buisson" presenta una leggera inflessione che sottolinea l’ambientazione intima. La frase "Doucement la tira sous manche" è invece enunciata con una delicatezza che rispecchia l’avverbio "doucement".

  • una sezione B (versi 5-7): la proposta del pastore
    Qui la tessitura si anima leggermente. La proposta "Margot, voici mon anche" è enunciata con chiarezza. La frase "Jouons nous deux de cette cornemuse" introduce un carattere più ritmico e giocoso, con un leggero contrappunto imitativo che suggerisce l’interazione e il "gioco". La parola "cornemuse" riceve una certa enfasi.

  • una sezione C (versi 8-10): la risposta della pastorella
    "Elle sourit" è spesso sottolineato da una breve pausa o da un cambio di armonia che introduce la risposta della pastorella. La sua replica, "J’ai tambourin joli dont toujours j’use", è presentata con una melodia altrettanto assertiva e un po’ più vivace. La vera apoteosi della chanson si ha con le parole "Frappez dessus, la peau est assez forte". Questa sezione finale si distingue nettamente per il ritmo più marcato e quasi percussivo, con un andamento scandito che imita l’atto del "battere" (frappez). Le voci, invece, si compattano in una solida omoritmia, conferendo forza e decisione all’invito. La frase "Frappez dessus" (e talvolta l’intera frase finale) viene ripetuta più volte, creando un effetto di crescendo ludico e insistente, quasi come un ritornello che conclude il brano con brio. Questa ripetizione è un chiaro esempio di "madrigalismo" o pittura musicale, dove la musica illustra direttamente l’azione descritta.

La tessitura è prevalentemente omofonica-omoritmica, come tipico di molte chansons parigine destinate a un pubblico ampio, in modo da privilegiare la chiarezza del testo. Tuttavia, Marle introduce abilmente brevi passaggi imitativi o un più libero movimento delle voci interne per aggiungere varietà e sottolineare determinate parole o frasi, come nella frase "Jouons nous deux". La melodia principale è solitamente affidata alla voce superiore ed è caratterizzata da linee cantabili, spesso con movimento congiunto, ma con salti ben calibrati che le conferiscono vivacità. Le altre voci forniscono un solido supporto armonico e, a tratti, partecipano attivamente al dialogo contrappuntistico.
L’armonia è tipica del periodo, basata sulla modalità ma con un chiaro senso di direzione tonale verso cadenze ben definite che marcano la fine delle frasi. Si percepisce un’atmosfera generalmente "maggiore" che contribuisce al carattere solare e leggero del pezzo. Le armonie sono consonanti, con un uso controllato delle dissonanze, principalmente come note di passaggio o ritardi risolti.
La ripetizione ossessiva del comando "Frappez dessus" non è casuale ed è usata dal compositore per creare un finale memorabile ed energico. Questa tecnica ricorda quasi un "ostinato" ritmico-melodico ed è volta a concentrare l’attenzione sull’allusione più diretta del testo, concludendo la chanson con un’esplosione di allegria e arguzia. È questo tipo di scrittura efficace e spiritosa che probabilmente contribuì al successo duraturo del brano.
Nel complesso, Une bergère un jour si propone come un’ottima testimonianza della maestria di Nicolas de Marle nel genere della chanson. Con mezzi apparentemente semplici, egli riesce a creare un pezzo musicale affascinante che cattura perfettamente lo spirito giocoso e allusivo del testo. La chiarezza formale, la cantabilità delle melodie, l’uso efficace dell’omoritmia alternata a un leggero contrappunto e, soprattutto, la brillante pittura musicale nella sezione finale, rendono questa chanson un piccolo capolavoro del suo tempo. Dimostra come anche un compositore non annoverato tra i "giganti" del Rinascimento potesse produrre opere di grande qualità, capaci di divertire e affascinare gli ascoltatori attraverso i secoli.

Del ciel regina

Marco da Gagliano (1º maggio 1582 - 1643): Vergine bella, canzone spirituale a 3 voci e basso continuo (pubblicata in Musiche a una dua e tre voci, 1615, n. 21) su testo di Francesco Petrarca (Canzoniere 366, 1ª strofe). Ensemble La Fenice, dir. Jean Tubéry.

Vergine bella, che di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose,
amor mi spinge a dir di te parole:
ma non so ’ncominciar senza tu’ aita,
et di Colui ch’amando in te si pose.
Invoco lei che ben sempre rispose,
chi la chiamò con fede:
Vergine, s’a mercede
miseria extrema de l’humane cose
già mai ti volse, al mio prego t’inchina,
soccorri a la mia guerra,
bench’i’ sia terra, et tu del ciel regina.

Dolore indicibile

Ludwig Senfl (1486 - 1543): Unsäglich Schmerz, Lied. Tore Tom Denys, tenore; Ensemble La Caccia, dir. Patrick Denecker.

Unsäglich Schmerz
empfind’t mein Herz
versehrt an allen Enden.
Ich fürcht’ es wöll’
mir Ungefäll
mein Freud’ auf Erden wenden.
Durch Scheidens Fall
Seufzen ohn’ Zahl
wird ich zu allen Stunden
bedenken das, wie es vor was:
tuet mein Gmüet verwunden, verwunden.

Rat zue Gelück
der Sorgen Strick
nimm weg und tue verhüeten
mit Freuden die
der ich mich nie
zue sehen an mocht nieten
daß ihrer Ehr’
durch Weges Fähr’
beschehe kein Verletzen.
Elend bleib ich
und mein als mich
auf Erd’ ihr’r mag ergetzen.

Stät Leid und Klag
wird mir kein Tag
mein Leben lang verlassen.
Oft wünschen mir,
daß ich von ihr
nie hätt’ erkennt dermaßen
schön Zucht und Bärd’
kein Sach auf Erd’
bringt mir solichen Schmerzen.
Treulich ohn’ List
bleibt sie und ist
der halb’ Teil meines Herzen.

Planctus David

Pietro Abelardo (1079 - 21 aprile 1142): Planctus David super Saul et Ionatha. Ensemble für frühe Musik Augsburg.

Dolorum solatium,
Laborum remedium,
Mihi mea cithara,
Nunc quo major dolor est,
Justiorque moeror est
Plus est necessaria.

Strages magna populi,
Regis mors et filii,
Hostium victoria,
Ducum desolatio,
Vulgi desperatio,
Luctu replent omnia.

Amalech invaluit
Israel dum corruit,
Infidelis jubilat
Philistaea
Dum lamentis macerat
Se Judaea.

Insultat fidelibus Infidelis populus;
In honorem maximum
Plebs adversa,
In derisum omnium
Fit divina.

Insultantes inquiunt:
“Ecce de quo garriunt,
Qualiter hos perdidit
Deus summus,
Dum a multis occidit
Dominus prostratus.”

Quem primum his praebuit,
Victus rex occubuit;
Talis est electio
Derisui,
Talis consecratio
Vatis magni.

Saul regum fortissime,
Virtus invicta Jonathae,
Qui vos nequit vincere,
Permissus est occidere.

Quasi non esset oleo
Consecratus dominico,
Scelestae manus gladio
Jugulatur in praelio.

Plus fratre mihi Jonatha,
In una mecum anima,
Quae peccata, quae scelera,
Nostra sciderunt viscera!

Expertes montes Gelboe,
Roris sitis et pluviae,
Nec agrorum primitiae
Vestrae succurrunt incolae.

Vae, vae tibi, madida
Tellus caede regia!
Quare te, mi Jonatha,
Manus stravit impia?

Ubi Christus Domini,
Israelque inclyti,
Morte miserabili
Sunt cum suis perditi?

Tu mihi nunc, Jonatha,
Flendus super omnia,
Inter cuncta gaudia
Perpes erit lacryma.

Planctus, Sion filiae,
Super Saul sumite,
Largo cujus munere
Vos ornabant purpurae.

Heu! cur consilio
Acquievi pessimo,
Ut tibi praesidio
Non essem in praelio?

Vel confossus pariter
Morirer feliciter,
Quum, quod amor faciat,
Majus hoc non habeat.

Et me post te vivere
Mori sit assidue,
Nec ad vitam anima
Satis est dimidia.

Vicem amicitiae
Vel unam me reddere,
Oportebat tempore
Summae tunc angustiae;

Triumphi participem
Vel ruinae comitem,
Ut te vel eriperem
Vel tecum occumberem,

Vitam pro te finiens,
Quam salvasti totiens,
Ut et mors nos jungeret
Magis quam disjungeret.

Infausta victoria
Potitus, interea,
Quam vana, quam brevia
Hic percepi gaudia!

Quam cito durissimus
Est secutus nuntius,
Quem in sua anima
Locuta est superbia!

Mortuos quos nuntiat
Illata mors aggregat,
Ut doloris nuntius
Doloris sit socius.

Do quietem fidibus:
Vellem ut et planctibus
Sic possem et fletibus!
Caesis pulsu manibus,
Raucis planctu vocibus
Deficit et spiritus.


Il planctus (compianto, lamentazione) è una forma poetico-musicale le cui origini risalgono all’e­poca carolingia. Dei temi trattati nei testi v’è una certa varietà: si va dal lamento funebre vero e proprio al lamento d’amore, alla rivisitazione di episodi biblici. Il più antico planctus conosciuto è A solis ortus usque ad occidua ovvero Planctus de obitu Karoli, scritto in morte di Carlo Magno († 814) da un monaco dell’Abbazia di San Colombano a Bobbio.
La maggior parte dei planctus pervenutici hanno testo in latino, ma nel corso del Medioevo si de­di­ca­rono al genere anche autori in lingua d’oc (planh), in lingua d’oïl (plainte o complainte) e in inglese (dirge). Il più famoso fra i trovatori italiani, Sordello da Goito (XIII secolo), compose in lingua d’oc Planher vuelh en Blacatz en aquest leugier so, compianto in morte di Blacas de Blacas, un feudatario provenzale che si era distinto per il suo mecenatismo.
Fra gli esempi in lingua inglese, uno dei più noti è costituito dal quattrocentesco Lyke-Wake Dirge, che fra l’altro è stato musicato da Benjamin Britten (fa parte della Serenade op. 31).

Oltre al Planctus David super Saul et Ionatha, Abelardo compose altri cinque planctus, tutti con testo latino e di argomento biblico.

Quel cor è mio

Sigismondo d’India (c1582 - 19 aprile 1629): Felice chi vi mira, madrigale a 5 voci (dal Primo Libro de madrigali a 5 voci, 1606, n. 6) su testo di Battista Guarini. La Venexiana, dir. Claudio Cavina.

Felice chi vi mira,
Ma più felice chi per voi sospira;
Felicissimo poi
Chi sospirando fa sospirar voi.

Ben hebbe amica stella
Chi per donna sì bella
Puù far content’in un
L’occhi e ‘l desio
E sicuro può dir:
«Quel cor è mio».

Boulez 100 – I

Pierre Boulez (26 marzo 1925 - 2016): Le Marteau sans maître per voce e 6 strumentisti (1954, rev. 1957) su testi di René Char (1907-1988). Ensemble Insomnio, dir. Ulrich Pöhl.

  1. Avant «l’artisanat furieux» per flauto contralto, vibrafono, chitarra e viola

  2. Commentaire I de «bourreaux de solitude» per flauto contralto, xilomarimba, tamburo basco, 2 bongo, tamburo a cornice e viola [2:48]

  3. L’artisanat furieux per voce e flauto contralto [7:53]

    La roulotte rouge au bord du clou
    Et cadavre dans le panier
    Et chevaux de labours dans le fer à cheval
    Je rêve la tête sur la pointe de mon couteau le Pérou.

  4. Commentaire II de «bourreaux de solitude» per xilomarimba, vibrafono, zill, agogô, triangolo, chitarra e viola [11:16]

  5. Bel édifice et les pressentiments, version première, per voce, flauto contralto, chitarra e viola [16:23]

    J’écoute marcher dans mes jambes
    La mer morte vagues par-dessus tête
    Enfant la jetée-promenade sauvage
    Homme l’illusion imitée
    Des yeux purs dans les bois
    Cherchent en pleurant la tête habitable.

  6. Bourreaux de solitude per voce, flauto contralto, xilomarimba, vibrafono, maracas, chitarra e viola [21:04]

    Le pas s’est éloigné le marcheur s’est tu
    Sur le cadran de l’Imitation
    Le Balancier lance sa charge de granit réflexe.

  7. Après «l’artisanat furieux» per flauto contralto, vibrafono e chitarra [26:26]

  8. Commentaire III de «bourreaux de solitude» per flauto contralto, xilomarimba, vibra­fono, claves, agogô, 2 bongo e maracas [27:42]

  9. Bel édifice et les pressentiments, double, per voce, flauto contralto, xilomarimba, vi­brafono, maracas, tam-tam piccolo, gong grave, tam-tam molto grave, piatto sospeso grande, chitarra e viola [34:21]

La vita e l’onore

Matthias Hermann Werrecore (c1500 - p1574): La bataglia taliana (Die Schlacht vor Pavia) a 4 voci (pubblicata per la prima volta nel 1544). Il Terzo Suono, dir. Gian Paolo Fagotto.

Signori e cavalieri d’ingegn’e forza,
Udite la vittoria del Duca
De Milan Francesco Sforza.
All’arm o trombetti, o tamburini,
Li inimici son vicini.
All’arm, butte selle a caval.
Monta a caval.
Tutt’alli stendard inant.

Avant tous gentilz compagnons.
Gente d’arm’a li stendardi.
Su su, fanti, alle bandiere.
Gl’adversari vengon gagliardi.
Via via, caval leggieri.

Gente d’arm’all’ordinieri
Stat’in quella prataria
Capitan e buon guerrieri
De la nobil fantaria.
Da man manch’ardit’ e fieri
In battaglia ciascun stia.
Vivandieri carriazzi saccomani, su via.
Non passate quei sentieri,
Stati strett’in compagnia.
Fulminate cannonieri
Con la vostr’artigliеria.
Scampe da li francois.
Mazza, tocca, dagli o valent’homini milanesi.
Mazza, tocca, dagli Duca.

El gran Duca milanеse
Guard’il ponte
Con la sua gente lombarda.
Sta ben fort’alle contese
Contra si gross’antiguarda
D’assai compagnia francese.

Compagnons, avant, donnes dedans
Frappes dedans, tues ces vilains
France, Marco, gentilz compagnons.

Duca, Italia, mazza francois.
Su, bottiglioni, mazza francois.
Su schiopetti, su archibusi.
Su, su, ché son confusi li francois.
A più non pos passat’il fos.
A dos, mazza, ahi canaglia.

O Nostre Dame, O bon Jesu
Astur nous sommes tous perdus.

Hai poltroni, hai bottiglioni,
Gl’han pur persa la giornata.
Su la peverata, ahi miseri francois.
Scampe da li francois.
O signor’italiani, su ogni alemano
A voi vien la furia amara
D’ogni sguizaro villano.
Scopettier, su spara
Non scargate colp’in vano.

Har, har, raube
Da vir de vir villen latin ruben
Myrher, myrher, perausche
Vir villen chuden rubel binden.

Su alabardieri, urta spezza maglia
Hai vil canaglia
La si sbaraglia mazza taglia.

A los villiacos qui viene a ellos
Qui son rotos hides hechios.

L’è pur vinta la bataglia.
Vittoria, Italia.
Viva il Duca
Con tutta la Italia.

La battaglia di Pavia fu combattuta esattamente cinquecento anni fa, il 24 febbraio 1525. Dopo la rovinosa disfatta, Francesco I di Francia scrisse alla madre Luisa di Savoia: « Madame, de toutes choses ne m’est demeuré que l’honneur et la vie qui est sauve ».

La figlia del re degli elfi

Niels Gade (22 febbraio 1817 - 1890): Elverskud, cantata per soprano, mezzosoprano, baritono, coro e orchestra op. 30 (1851-54); testi di Hans Christian Andersen, Christian Knud, Fredrik Molbech e Gottlieb Siesbye, da una ballata tradizionale danese. La Figlia del re degli elfi (soprano): Lisbeth Balslev; la Madre di Oluf (mezzosoprano): Edith Guillaume; Oluf (baritono): Mikael Melbye; Canzone Choir & Collegium Musicum, dir. Frans Rasmussen.

  • Prologo
  • Parte 1a: Vigilia di nozze [3:16]
  • Parte 2a: Notte di luna sul colle fatato [16:43]
  • Parte 3a: Mattino al castello di Oluf [28:44]
  • Epilogo [42:50]

Testo completo (v.o.): https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/89/Elverskud_NW_Gade_tekst.pdf
Prologo

La mugnaia di Vernon

Clément Janequin (c1485 - 1558): La meunière de Vernon, chanson a 4 voci (1551). Ensemble «Clément Janequin».

La meunière de Vernon,
tire tire tire ton,
don don don,
Elle est mignonne et gorrière,
Et si elle est, ce dit-on,
tire tire tire ton,
don don don,
De bien aimer coutumière.

Un jour tout à l’environ
d’une saussaie et rivière,
Un beau jeune compagnon
D’amour lui fit la prière.

Lors la baisant le mignon
Se prit à lui faire chère
Puis s’assit en son giron
De bonne grâce et manière.

…et des châtaignes aussi

Anonimo: Mort et convoi de l’invincible Malbrough, ovvero Malbrough s’en va-t-en guerre. Le Poème Harmonique, dir. Vincent Dumestre.

Malbrough s’en va-t-en guerre,
    mironton, mironton, mirontaine,
Malbrough s’en va-t-en guerre,
Ne sait quand reviendra.

Il reviendra-z-à Pâques,
ou à la Trinité.

La Trinité se passe,
Malbrough ne revient pas.

Madame à sa tour monte
si haut qu’elle peut monter.

Elle voit venir son page,
tout de noir habillé.

Beau page, ah!, mon beau page,
quell’ nouvell’ apportez?

Aux nouvelles que j’apporte,
vos beaux yeux vont pleurer!

[Quittez vos habits roses,
et vos satins brodés!

Prenez la robe noire
et les souliers cirés.
]

Monsieur Malbrough est mort,
est mort et enterré.

L’ai vu porter en terre,
par quatre-z-officiers.

L’un portait sa cuirasse
l’autre son bouclier.

L’autre portait son grand sabre,
et l’autre ne portait rien.

A l’entour de sa tombe,
romarins l’on planta.

[Sur la plus haute branche
un rossignol chantait.
]

On vit voler son âme
au travers des lauriers.

Chacun mit ventre à terre
et puis se releva

pour chanter les victoires
que Malbrough remporta.

La cérémonie faite,
chacun s’en fut coucher.

Les uns avec leurs femmes,
et les autres tout seuls!

Ce n’est pas qu’il en manque,
car j’en connais beaucoup

des blondes et des brunes
et des châtaignes aussi.

J’ n’en dis pas davantage,
car en voilà-z-assez.


Fernando Sor (13 febbraio 1778 - 1839): Introduction et variations sur l’air Malbroug op. 28 (1827). Anders Miolin, chitarra.

Fair, if you expect admiring

Thomas Campian (o Campion; 12 febbraio 1567 - 1620): Fair, if you expect admiring, ayre (pubblicato nel Third Booke of Ayres, 1617, n. 8). Nigel Rogers, tenore; Desmond Dupré, liuto.

Fair, if you expect admiring,
Sweet, if you provoke desiring,
Grace dear love with kind requiting.
Fond, but if thy light be blindness,
Fair, if thou affect unkindness,
Fly, both love and love’s delighting.
Then, when hope is lost and love is scorned,
I’ll bury my desires, and quench the fires that ever yet in vain have burned.

Fates, if you rule lovers’ fortune,
Stars, if men your powers importune,
Yield relief by your relenting.
Time, if sorrow be not endless,
Hope made vain, and pity friendless,
Help to ease my long lamenting.
But if griefs remain still unredressed,
I’ll fly to her again, and she for pity to renew my hopes distressed.

Ho cercato, di notte

Johann Vierdanck (battezzato il 5 febbraio 1605 - 1646): Ich suchte des Nachts, mottetto a 5 voci, 2 violini e basso continuo (pubblicato in Geistlicher Concerten, ander Theil, 1643, n. 17). Europäisches Hanse-Ensemble, dir. Manfred Cordes.

Ich suchte des Nachts in meinem Bette, den meine Seele liebet.
Ich suchte, aber ich fand ihn nicht.
Ich will aufstehen und in der Stadt umgehen
auf den Gassen und Straßen und suchen, den meine Seele liebet.
Ich suchte, aber ich fand ihn nicht.
Es fanden mich die Wächter, die in der Stadt umgehen:
Habt ihr nicht gesehen, den meine Seele liebet?
Da ich ein wenig vor ihnen über kam, da fand ich, den meine Seele liebet.
Ich halte ihn und will ihn nicht lassen, bis ich ihn bringe in meiner Mutter Haus,
in meiner Mutter Kammer.
(Cantico dei cantici 3:1-4)