Concerto a quattro in re maggiore

Francesco Antonio Bonporti (1672 - 19 dicembre 1749): Concerto a quattro in re maggiore op. 11 n. 8 (c1715). I Virtuosi Italiani.

  1. Allegro
  2. Largo [4:13]
  3. Vivace [7:49]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Francesco Antonio Bonporti: il gentiluomo musico tra ambiti e sonate

La vita di Francesco Antonio Bonporti, compositore e sacerdote trentino dalla solida formazione intellettuale, fu segnata da una costante, ma frustrata, ambizione di ottenere un prestigioso incarico a corte.

Formazione e carriera iniziale
Nato a Trento nel 1672, Bonporti intraprese un percorso di studi rigoroso, passando dagli studi umanistici nel seminario locale alla fisica e metafisica presso l’università di Innsbruck (1688-91). Trasferitosi a Roma nel 1691, studiò teologia presso il Collegio germanico, ma coltivò contemporaneamente la musica sotto la guida di maestri come Ottavio Pitoni e, forse per il violino, Arcangelo Corelli o il suo allievo Matteo Fornari. Dopo l’ordinazione sacerdotale (1697), il compositore tornò a Trento, dove ottenne due benefici ecclesiastici nella cattedrale. Benché si firmasse «dilettante di musica», la sua fama di compositore si diffuse rapidamente in Europa, a partire dalla pubblicazione della sua opera prima (Sonate a tre) a Venezia nel 1696.

La ricerca infruttuosa di patrocinio e status
Bonporti dedicò gran parte della sua vita a tentativi volti a migliorare la propria posizione sociale e professionale, cercando invano di passare da beneficiato a canonico ordinario della Cattedrale di Trento. Per questo obiettivo utilizzò le proprie composizioni come strumenti di appello politico e diplomatico. Esempi di questa strategia includono la dedicazione di opere con titoli politicamente significativi, come Il trionfo della Grande Alleanza (opera ottava, perduta) o La Pace (opera decima), rivolti a sollecitare il favore di figure potenti come il principe elettore di Magonza o l’imperatore Carlo VI d’Asburgo. Questi nel 1727 lo nominò “familiare aulico”, un titolo che fu spesso frainteso dai biografi, i quali erroneamente credettero che Bonporti lavorasse presso la corte di Vienna. In realtà, egli rimase per quarant’anni nel suo modesto ruolo nella Cattedrale di Trento. Nonostante l’ultima vana richiesta di canonicato a Maria Teresa d’Austria nel 1746, il compositore morì a Padova nel 1749, dopo essersi ritirato in pensione (giubilazione) nel 1740.

Il catalogo musicale e l’evoluzione stilistica
La produzione di Bonporti è prevalentemente strumentale, articolata in dodici opere pubblicate che spaziano dalle sonate a tre al concerto solistico.
Le prime opere, come l’opera prima, ricalcano le sonate da chiesa di stile corelliano. Successivamente, nelle Sonate da camera (op. II, IV, VI), il compositore sviluppa uno stile più libero e cantabile, dove la linea melodica è affidata prevalentemente al primo violino. L’opera terza (Motetti a canto solo) si collega invece al genere della cantata di scuola romana e napoletana, evidenziando una forte attenzione all’espressione del testo attraverso l’armonia.
A partire dal 1707, egli si concentra su brani per violino solo, raggiungendo la piena maturità stilistica con le Invenzioni a violino solo (Opera decima, 1712). I Concerti a quattro (Opera XI) occupano infine una posizione unica nel periodo, abbandonando la struttura “a terrazze” del concerto grosso corelliano in favore di una sinfonia concertante, dove le parti dialogano in parità, con una scrittura decisamente polifonica.

Riconoscimento postumo e il caso Bach
La qualità della musica di Bonporti è testimoniata da un singolare episodio: quattro delle sue Invenzioni (Opera X) furono copiate da Johann Sebastian Bach a scopo di studio e, a causa di un errore editoriale del XIX secolo, vennero per lungo tempo incluse nel catalogo delle opere del Kantor di Lipsia. Le sue ultime composizioni, i Concertini e serenate (Opera XII), sono invece brani estesi che uniscono virtuosismo e cantabilità, caratterizzati da recitativi di intensa espressività.
Nonostante sia stato a lungo trascurato dalla critica, l’opera del compositore è stata oggetto di rinnovato interesse negli ultimi decenni, in gran parte grazie agli studi e alle riesumazioni del musicologo Guglielmo Barblan.

Il Concerto a quattro in re maggiore
Il brano si colloca in un affascinante periodo di transizione stilistica tra il robusto concerto grosso barocco corelliano e l’emergente concerto solistico. Come suggerito dagli studiosi, Bonporti non adotta pienamente la contrapposizione netta tra concertino e ripieno, preferendo una struttura che si avvicina alla sinfonia concertante, dove tutti gli strumenti partecipano al dialogo musicale con un alto grado di parità.
Il primo movimento è un Allegro vivace e ritmicamente propulsivo, tipico del Barocco maturo. Esso si apre con un tema principale marcatamente ritmico e incisivo, dominato dal profilo ascendente degli archi. L’inizio è caratterizzato dall’impiego del pieno organico orchestrale (tutti), che stabilisce saldamente la tonalità di re maggiore. L’andamento è brillante, con rapide figure di semicrome che generano grande energia.
Ha poi inizio un serrato dialogo tra le singole parti: a differenza di molti concerti grossi coevi, dove il gruppo di solisti (il concertino) si distingue nettamente dall’orchestra (ripieno), qui l’interazione è più fluida e si notano passaggi virtuosistici che vengono scambiati tra i violini primi e secondi, mantenendo un tessuto sonoro ricco e polifonico.
La musica si evolve attraverso sezioni più distese, caratterizzate da armonie che esplorano tonalità vicine. Le linee melodiche continuano a essere distribuite tra le voci superiori, spesso con figurazioni rapide e arpeggiate che mettono in mostra l’abilità tecnica degli strumentisti. Dopo una sezione centrale complessa, si verifica un ritorno del tema principale, con una ripresa energica che riporta alla tonalità di impianto. Il movimento si conclude con una reiterazione delle frasi tematiche, ribadendo il carattere festoso e dinamico dell’Allegro.
Il movimento centrale, Largo, offre un profondo contrasto emotivo e timbrico rispetto al movimento precedente. La tonalità si sposta verso una regione vicina più malinconica. Il carattere è meditativo e lirico, mentre le dinamiche sono generalmente più contenute. Il violino prende il centro della scena, con una linea melodica espressiva e ornata, tipica del linguaggio solistico del periodo. L’accompagnamento degli altri strumenti è discreto, fornendo un supporto armonico essenziale che enfatizza la cantabilità del violino. L’attenzione si sposta dall’interazione ritmica a una profonda espressività melodica.
Bonporti mantiene l’interesse variando sottilmente la melodia e introducendo tensioni armoniche. Nonostante l’andamento lento, ci sono momenti di intensità emotiva, spesso creati attraverso dissonanze risolte dolcemente o passaggi cromatici, che accrescono il senso di introspezione. Il movimento si chiude con una riaffermazione della serenità iniziale, preparando l’ascoltatore per il finale virtuosistico. Una cadenza perfetta conclude il brano con grazia e compostezza.
L’ultimo movimento, Vivace, ripristina l’energia e il virtuosismo del primo, concludendo il concerto con brio. Il movimento si lancia in un ritmo serrato e veloce, tornando al re maggiore brillante. Il tema è agile e giocoso, con figurazioni di crome e semicrome che richiamano la vivacità delle danze.
La trama musicale è densa, con passaggi rapidi che richiedono grande coordinazione all’ensemble. C’è un forte senso di moto perpetuo, dove l’energia ritmica non si placa. Le frasi vengono scambiate rapidamente, mantenendo la natura “a quattro” del concerto. Inframezzate all’energia principale, compaiono brevi momenti di maggiore cantabilità o di minore intensità, che fungono da respiro prima di reintrodurre la spinta motoria: questi contrasti dinamici e ritmici sono fondamentali per evitare la monotonia del tempo veloce.
Segue una sezione di elevato tecnicismo, con scalette e figurazioni veloci eseguite all’unisono o in imitazione stretta tra i violini. L’elemento distintivo di Bonporti, ovvero l’attiva scrittura polifonica, è particolarmente evidente qui, creando un effetto di turbinio orchestrale. Il movimento si dirige verso la sua conclusione con una ritmica intensificazione: le ultime battute sono un’affermazione conclusiva e perentoria della tonalità di impianto, chiudendo il pezzo con la tipica brillantezza e risolutezza del Barocco italiano.

Preludi non misurati

Louis Couperin (c1626 - 1661): Prélude non mesuré in re minore. Daniel Ivo de Oliveira, clavicembalo.


Louis Marchand (1669 - 1732): Prélude non mesuré (1702). Daniel Ivo de Oliveira, clavicembalo.


Carlotta Ferrari (5 agosto 1975): 3 Preludi non misurati (2014). Matthew McConnell, clavicembalo.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

L’anima improvvisa del clavicembalo: guida completa al preludio non misurato

Il preludio non misurato è una delle espressioni più pure, libere ed enigmatiche della storia della musica. Sbocciato nel cuore del Barocco francese del XVII secolo, non è un semplice genere, ma una vera e propria filosofia esecutiva. Rappresenta un portale sonoro che ci trasporta direttamente nella prassi improvvisativa dell’epoca, svelando l’intima collaborazione tra compositore e interprete e celebrando l’atto creativo come un evento unico e irripetibile.

Che cos’è il preludio non misurato? Una definizione approfondita
Nella sua essenza, un preludio non misurato è una composizione, tipicamente per strumenti a corde pizzicate come il liuto o il clavicembalo, scritta deliberatamente senza indicazioni metriche convenzionali. Questo significa l’assenza di stanghette di battuta, indicazioni di metro (come 3/4 o 4/4) e, soprattutto, di un sistema di valori ritmici (minime, semiminime, crome, ecc.) che definisca gerarchicamente la durata delle note.
La partitura si presenta come una sequenza di note bianche che non indicano una durata fissa, ma fungono da pilastri armonici. Queste note tracciano una mappa sonora, un percorso attraverso un paesaggio di accordi, dissonanze e risoluzioni. È fondamentale capire che “non misurato” non significa “senza forma” o “atonale” ma, al contrario, questi preludi possiedono una logica armonica ferrea e una struttura retorica ben definita. Il loro scopo non è dettare quando suonare una nota, ma suggerire come navigare il flusso armonico, trasformando l’esecuzione in un vero e proprio discorso musicale.

Le origini: lo style brisé
Le radici del genere affondano nella prassi improvvisativa dei liutisti francesi del primo Seicento, come Ennemond e Denis Gaultier. Il preludio improvvisato aveva scopi precisi:
– funzione pratica: saggiare l’acustica della sala, verificare la tenuta della delicata accordatura del liuto e “scaldare” le dita;
– funzione drammaturgica: stabilire la tonalità e l’”affetto” (il carattere emotivo) della suite che sarebbe seguita, catturando l’attenzione e preparando l’ascoltatore.
La vera chiave del passaggio di questo stile al clavicembalo risiede nel cosiddetto style brisé (stile spezzato). Poiché sia il liuto che il clavicembalo sono strumenti a suono evanescente, i musicisti svilupparono una tecnica per dare l’illusione della polifonia e del sostegno armonico: invece di suonare gli accordi simultaneamente, li “spezzavano” in arpeggi fluidi e figure melodiche sinuose. Questo non solo risolveva un problema tecnico, ma creava anche una tessitura sonora ricca e suggestiva.
Jacques Champion de Chambonnières – considerato il padre della scuola clavicembalistica francese – fu la figura ponte. Sebbene i suoi preludi fossero ancora parzialmente misurati, egli adottò pienamente lo style brisé liutistico, aprendo la strada al suo allievo più geniale, Louis Couperin, che codificò la forma del preludio non misurato per tastiera.

L’arte dell’interpretazione: guida pratica alla decifrazione
L’interprete di un preludio non misurato non è un esecutore passivo, ma un co-creatore. La notazione è un canovaccio che richiede un intervento attivo basato sulla conoscenza e sul bon goût.
Il primo passo è un’analisi armonica approfondita: l’esecutore deve identificare le progressioni, le cadenze e, soprattutto, i punti di tensione (dissonanze, settime, none) e di rilascio (risoluzioni). Questo determinerà l’arco emotivo del pezzo: dove accelerare verso un culmine, dove soffermarsi su una dissonanza struggente, dove lasciare che la risoluzione si plachi dolcemente.
Le semibrevi sono le fondamenta armoniche, ma le legature che le collegano sono l’istruzione più importante: indicano di tenere premuti i tasti per tutta la durata dell’arco. Questo crea una nuvola di risonanza, permettendo alle armonie di fondersi e sovrapporsi, sfruttando al massimo la sonorità dello strumento. Le note scritte all’interno di una stessa legatura costituiscono un unico gesto, una singola “respirazione” armonica.
All’interno della tessitura arpeggiata si celano delle linee melodiche implicite. Il compito dell’interprete è individuarle e farle emergere con sottili variazioni di tempo e agogica, come se una voce stesse cantando sopra il tappeto armonico. L’arpeggio non è un semplice effetto decorativo, ma il motore ritmico ed espressivo del brano: l’interprete deve decidere la velocità, la direzione e il carattere di ogni arpeggio. Può essere lento e maestoso, rapido e brillante, regolare o irregolare, per creare effetti di attesa, slancio o contemplazione.
La scrittura francese del Seicento dava per scontato l’uso di abbellimenti (trilli, mordenti, appoggiature), anche quando non erano esplicitamente segnati. L’interprete deve inserirli nei punti appropriati – tipicamente su note lunghe, sulle dissonanze o nelle cadenze – per aggiungere enfasi, grazia e brillantezza al discorso musicale.
Tanto importanti quanto le note sono le pause: le pauses arbitraires sono momenti di sospensione che l’esecutore inserisce per creare dramma, separare le sezioni o semplicemente lasciare che il suono si estingua nell’aria, invitando alla riflessione.

I maestri indiscussi del genere
Louis Couperin (c. 1626-1661): il maestro assoluto. I suoi preludi, conservati principalmente nel prezioso Manoscritto Bauyn, sono monumenti di libertà inventiva e audacia armonica. Spesso alternano la sezione non misurata a sezioni misurate (fugati o gighe), creando un contrasto formidabile tra contemplazione e danza.
Jean-Henri d’Anglebert (1629-1691): le sue composizioni sono le più dense, complesse e riccamente ornate. Le sue Pièces de clavecin (1689) contengono preludi di una profondità vertiginosa e includono una celebre tavola di abbellimenti che divenne un punto di riferimento per generazioni.
Louis Marchand (1669-1732): famoso tanto per il suo virtuosismo abbagliante quanto per il suo carattere difficile (la sua leggendaria mancata sfida con J.S. Bach a Dresda ne è un esempio), Marchand ha lasciato preludi che riflettono la sua personalità. Sono opere potenti, drammatiche e dal forte sapore improvvisativo, che spingono la retorica del clavicembalo verso vertici di grande intensità teatrale.
Nicolas Lebègue (1631-1702): fu un grande divulgatore dello stile. I suoi preludi sono spesso più schematici e didattici, contribuendo a diffondere la pratica del preludio non misurato anche tra gli organisti e i musicisti meno virtuosi.
Élisabeth Jacquet de La Guerre (1665–1729): straordinaria compositrice e clavicembalista, dimostrò una totale padronanza del genere. I suoi preludi sono carichi di slancio drammatico, fantasia e un uso della dissonanza che rivela una personalità musicale forte e originale.

Il tramonto, l’eterna eredità e la rinascita contemporanea
Con l’avvento del XVIII secolo e dell’Illuminismo, il gusto si spostò verso la clarté e la razionalità. L’opera teorica di Jean-Philippe Rameau (Traité de l’harmonie, 1722) codificò l’armonia in un sistema scientifico, rendendo l’approccio intuitivo e rapsodico del preludio non misurato obsoleto. Compositori come François Couperin le Grand ne rappresentano la transizione: nel suo trattato L’Art de toucher le clavecin (1716), scrisse preludi interamente misurati, ma con l’istruzione di suonarli «con discrezione, senza attaccarsi troppo alla precisione del tempo», cercando di preservarne lo spirito libero pur controllandone la forma.
L’eredità spirituale del preludio non misurato è però immensa e riaffiora carsicamente nella storia della musica:
– nelle Fantasie rapsodiche di C.P.E. Bach;
– nel principio del rubato di Chopin, dove la mano sinistra mantiene un tempo stabile mentre la destra fluttua liberamente;
– nella musica di Debussy, che con i suoi Préludes ricrea la stessa sensazione di tempo sospeso, di colore armonico e di risonanza evocativa che erano il cuore pulsante del preludio non misurato.

Una rinascita nel XXI secolo
Sorprendentemente, la storia del preludio non misurato non si è conclusa con il Barocco o con la sua eco nel Modernismo. In anni recenti, stiamo assistendo a una vera e propria rinascita del genere. Compositori contemporanei, affascinati dalla sua libertà espressiva e dalla sua notazione unica, hanno iniziato a scrivere nuovi preludi per clavicembalo. Tra questi spiccano la figura della compositrice italiana Carlotta Ferrari e quella del compositore statunitense Carson Cooman. Questi nomi sono esempi di testimonianze della vitalità senza tempo del preludio non misurato, visto non più solo un reperto storico da studiare, ma anche come una forma d’arte viva, capace di ispirare la creatività contemporanea.
In conclusione, questo genere è molto più di una curiosità storica, rivelandosi una testimonianza di un’epoca in cui la musica era concepita come un’architettura liquida, una mappa emotiva da esplorare. Richiede all’interprete di essere contemporaneamente storico, analista, retore e poeta, ed è la celebrazione di un’arte del momento, un dialogo vivo e pulsante tra la mente del compositore, le mani dell’esecutore e l’anima risonante dello strumento. Riscoprirlo oggi, anche attraverso le opere di compositori contemporanei che ne hanno raccolto il testimone, significa entrare in contatto con l’essenza stessa della creatività musicale: un atto di libertà controllata la cui eco, potente e suggestiva, non ha mai smesso di risuonare.

Carlotta Ferrari: Preludio non misurato n. 1

Adagio e cantabile (Scarlatti K 208)


Domenico Scarlatti (1685 - 23 luglio 1757): Sonata in la maggiore K 208. Jean Rondeau, clavicembalo, e András Schiff, pianoforte.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Domenico Scarlatti: ritratto di un genio inafferrabile

Origini e formazione a Napoli: all’ombra del padre
Giuseppe Domenico Scarlatti, soprannominato Mimmo, nacque a Napoli in un ambiente straordinariamente musicale: sesto figlio del celebre compositore Alessandro Scarlatti, maestro della cappella reale, egli crebbe circondato da parenti musicisti. La sua formazione fu curata principalmente dal padre e non da altri maestri illustri come talvolta ipotizzato. Il suo talento precoce fu subito riconosciuto: a soli quindici anni, nel 1701, fu nominato organista e compositore della cappella reale di Napoli.
In questo periodo giovanile, Scarlatti si cimentò nei tre generi che avrebbero caratterizzato la sua intera produzione: la musica sacra (un mottetto), la musica per tastiera (tre sonate per organo, K 287, 288, 328) e la musica vocale profana (cantate da camera). Il padre – consapevole del genio del giovane – cercò attivamente di promuoverne la carriera, portandolo con sé a Firenze e Roma. In una famosa lettera, definì il figlio «un’aquila cui son cresciute l’ali», che non poteva rimanere in un “nido” come Napoli, ma doveva spiccare il volo. Dopo aver composto la sua prima opera, L’Ottavia ristituita al trono, fu mandato a Venezia nel 1705 per ampliare le proprie esperienze.

Gli anni romani: tra mecenatismo e carriera ecclesiastica
Stabilitosi a Roma nel 1708, Scarlatti entrò a far parte della vibrante scena musicale della città: qui si colloca il leggendario aneddoto di una “sfida” virtuosistica al clavicembalo e all’organo con il coetaneo Georg Friedrich Händel, promossa dal cardinale Ottoboni. Inizialmente assistente del padre, il compositore si affermò rapidamente, ottenendo il prestigioso incarico di maestro di cappella per la regina in esilio Maria Casimira di Polonia. Per il suo teatrino privato compose un oratorio e sette opere, tra cui Tolomeo et Alessandro e Tetide in Sciro, caratterizzate da uno stile elegante e patetico.
Dopo la partenza della regina, nel 1714 trovò un nuovo protettore nel marchese de Fontes, ambasciatore portoghese, un legame che si rivelerà decisivo per il suo futuro. Parallelamente, intraprese una brillante carriera ecclesiastica, diventando maestro della Cappella Giulia in San Pietro. Di questa intensa produzione sacra, che secondo un inventario comprendeva decine di opere, rimangono oggi poche tracce, tra cui il celebre Stabat Mater a 10 voci. A Roma continuò anche a comporre per i teatri, come l’opera Ambleto e gli intermezzi satirici La Dirindina, la cui rappresentazione fu inizialmente censurata.

La svolta iberica: il periodo portoghese
Nel 1719, Scarlatti lasciò Roma per Lisbona, assumendo l’incarico di compositore della cappella patriarcale e maestro di musica della famiglia reale di Giovanni V di Portogallo. Il suo ruolo principale divenne quello di insegnante per i due talentuosi allievi reali, l’infante don António e, soprattutto, la principessa Maria Barbara di Braganza. Con quest’ultima, eccellente clavicembalista, stabilì un rapporto artistico e didattico destinato a durare tutta la vita.
Il soggiorno portoghese fu intervallato da viaggi in Italia e a Parigi e, durante una sosta a Roma nel 1728, sposò la sedicenne Maria Caterina Gentili. A Lisbona compose un gran numero di opere vocali di grandi dimensioni, come serenate e cantate per le celebrazioni di corte, ma la maggior parte di questa produzione è andata perduta, probabilmente a causa del devastante terremoto del 1755. Anche le fonti delle sue sonate di questo periodo sono scarse, sebbene la sua fama come compositore per tastiera fosse già consolidata.

La maturità in Spagna: maestro della regina e compositore di sonate
Nel 1729, Scarlatti seguì l’allieva Maria Barbara in Spagna, dopo il suo matrimonio con l’erede al trono spagnolo, il futuro Fernando VI. Il suo status cambiò: da musicista con un ruolo pubblico a Lisbona, divenne il maestro di musica privato della principessa. Questo spiega la sua minore visibilità pubblica rispetto al celebre castrato Farinelli, che dominava la scena operistica di corte.
Fu in Spagna che la sua produzione di sonate per clavicembalo fiorì in modo straordinario. L’ispirazione proveniva da un insieme di fattori unici: la simbiosi artistica con la sua regale allieva, il contatto con le vivaci tradizioni musicali iberiche e la disponibilità di una ricca collezione di strumenti a tastiera (cembali, clavicordi e i primi pianoforti). La pubblicazione a Londra nel 1738 degli Essercizi per gravicembalo (K 1-30) gli conferì una vasta notorietà europea, tanto da meritargli il titolo di cavaliere dell’Ordine di Santiago da parte del re del Portogallo. Nell’ultima fase della sua carriera, su richiesta della regina Maria Barbara, supervisionò la copiatura delle sue sonate in quindici volumi manoscritti, oggi conservati principalmente a Venezia e Parma, che rappresentano il nucleo del suo lascito.

Gli ultimi anni e la sfera privata
Rimasto vedovo nel 1739, Scarlatti si risposò nel 1741 con Anastasia Ximenes, da cui ebbe altri quattro figli, oltre ai cinque del primo matrimonio. Negli ultimi anni, forse a causa di un’invalidità, condusse una vita ritirata, esprimendo in una lettera il proprio disprezzo per i «moderni teatristi compositori» ignoranti del contrappunto. Nonostante ciò, riconobbe di aver infranto egli stesso le regole nelle proprie sonate, con l’unico scopo di piacere all’udito. Le sue ultime composizioni, una Messa in stile antico e un commovente Salve regina in stile napoletano, testimoniano la sua versatilità fino alla fine.
Morì a Madrid il 23 luglio 1757. Contrariamente alla leggenda che lo voleva rovinato dal gioco, l’inventario dei suoi beni rivela una condizione agiata, assicurata anche dalle pensioni concesse dai sovrani di Spagna e Portogallo alla sua famiglia.

Eredità e fortuna critica: la sopravvivenza di un genio
L’eredità di Domenico Scarlatti è rimasta viva soprattutto attraverso le sue 555 sonate per tastiera. La loro fama si diffuse rapidamente in Europa grazie a musicisti come Thomas Roseingrave in Inghilterra e a edizioni stampate a Parigi. Nel corso dell’Ottocento, il suo ricordo fu perpetuato da collezionisti come l’abate Santini e da musicisti come Liszt, Czerny e Brahms. La riscoperta moderna iniziò con l’edizione completa di Alessandro Longo (1906) e culminò con la fondamentale monografia di Ralph Kirkpatrick (1953), che stabilì la catalogazione (K) tuttora in uso. Il suo stile ha influenzato profondamente anche compositori del Novecento come Stravinskij, Falla e Bartók.

L’arte della sonata: “lo scherzo ingegnoso” al gravicembalo
Nella prefazione agli Essercizi, Scarlatti descrive la propria musica non come un’opera di «profondo intendimento», ma come uno «scherzo ingegnoso dell’arte». Questa formula racchiude l’essenza delle sue sonate, che si fondano su tre pilastri:
– padronanza tecnica dissimulata: una profonda conoscenza del contrappunto e dell’armonia, nascosta sotto un’apparenza di eleganza e spontaneità;
– invenzione estrosa: un caleidoscopio di idee musicali, caratterizzato da contrasti improvvisi, passaggi repentini tra maggiore e minore, ripetizioni ossessive, ritmi di danza, imitazioni di chitarra, dissonanze audaci e modulazioni vertiginose;
– sfruttamento virtuosistico dello strumento: un uso spavaldo e completo delle potenzialità del clavicembalo, con arpeggi, salti, incroci di mani acrobatici e note ribattute che mettono a dura prova l’esecutore.

Un artista inclassificabile: ritratto di un musicista unico
Domenico Scarlatti sfida ogni semplice etichetta: il suo “splendido isolamento” nelle corti iberiche lo rende un artista unico, sospeso tra il contegno stilizzato del Barocco e l’inquietudine indagatrice dell’Illuminismo. Conteso tra le sue radici italiane e la sua assimilata “ispanitudine”, la sua musica continua a generare dibattiti appassionati tra interpreti e musicologi su questioni come la scelta dello strumento (cembalo o pianoforte), l’influenza del folklore spagnolo e la sua intrinseca teatralità. Le sue sonate, in particolare, esercitano ancora oggi un fascino irresistibile, confermandolo come un miracolo senza paragoni nella musica del suo secolo.

La Sonata K 208: analisi
Non un saggio di virtuosismo pirotecnico, ma un brano di straordinaria intimità, lirismo e bellezza pastorale: in questa Sonata Scarlatti dimostra di non essere solo un compositore di fuochi d’artificio, ma anche un poeta del suono, capace di dipingere con poche, essenziali pennellate un paesaggio sonoro di struggente bellezza.
Come la stragrande maggioranza delle sonate scarlattiane, anche la K 208 è strutturata in una forma bipartita, con due sezioni ciascuna delle quali viene ripetuta. L’equilibrio e la simmetria armonica sono i pilastri su cui si regge l’intera composizione.
La sonata si apre con un tema principale di una semplicità disarmante: è un arpeggio ascendente in la maggiore, suonato con delicatezza, che evoca l’immagine di un liuto o di una chitarra barocca. La melodia è limpida e si muove con grazia, stabilendo immediatamente un’atmosfera serena e pastorale. La mano sinistra fornisce un sostegno armonico essenziale e discreto. Il materiale tematico viene ripreso e variato con l’introduzione di figure melodiche discendenti, simili a “sospiri”, che aggiungono un tocco di dolce malinconia. Armonicamente, Scarlatti inizia un graduale percorso di allontanamento dalla tonica per preparare la modulazione alla tonalità della dominante. La prima sezione si conclude nella tonalità di mi maggiore (la dominante). Questa conclusione è preparata con grande maestria e segna il punto di arrivo armonico della prima parte, creando un senso di sospensione che richiede la prosecuzione nella seconda parte. La ripetizione della sezione permette di apprezzare nuovamente la perfezione di questo piccolo arco narrativo.
La seconda sezione ha inizio nella tonalità di mi maggiore, riprendendo il materiale tematico della prima parte ma trasfigurandolo armonicamente. L’atmosfera è leggermente più inquieta, come un’ombra che passa su un paesaggio soleggiato. Scarlatti si sposta poi brevemente verso tonalità minori: questo passaggio conferisce al brano la sua profondità patetica e malinconica, un momento di introspezione prima del ritorno alla luce, Attraverso un percorso armonico sapiente, la musica ritorna gradualmente alla tonalità originale. Il tema principale riappare nella sua veste originale, portando un senso di risoluzione e serenità ritrovata. La sonata si chiude con la stessa grazia con cui era iniziata, spegnendosi su un accordo finale che lascia l’ascoltatore in uno stato di pacata contemplazione. La ripetizione consolida questo senso di chiusura del cerchio.

In nocte secunda

Carlo Prosperi (1921 - 15 giugno 1990): In nocte secunda per chitarra, clavicembalo e 6 violni (1968). Andrea Botto, chitarra; Margherita Gallini, clavicembalo; Paola Besutti, Leandro Puliti, Chiara Foletto, Marcello D’Angelo, Francesco Di Cuonzo e Massimo Nesi, violini; dir. Mario Ruffini.



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Carlo Prosperi, compositore fiorentino

Origini e formazione musicale (1921-40)
Nato a Firenze da Alfredo Prosperi e Maria Piani, trascorse L’infanzia nella sua città natale, dove si iscrisse al Conservatorio «Luigi Cherubini». Qui, nel 1940, conseguì il diploma in corno sotto la guida di Pasqualino Rossi. Un incontro determinante per la sua futura carriera fu quello con Luigi Dallapiccola, che lo iniziò ai principi dell’atonalità e della dodecafonia, diventando di fatto il suo maestro principale e punto di riferimento.

L’esperienza della guerra e della Resistenza (1940-44)
Con l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, Prosperi fu inviato in Montenegro. Rientrò a Firenze nell’estate del 1943 per una breve licenza. Successivamente, si unì alle file della Resistenza, militandovi attivamente fino alla liberazione della città, avvenuta l’11 agosto 1944.

Prime composizioni e l’ombra di Dallapiccola (1940-44)
Parallelamente agli eventi bellici, tra il 1940 e il 1944, videro la luce le prime composizioni ufficiali di Prosperi. In queste opere giovanili, egli stesso spiegò di aver perseguito una «ricerca poliarmonica, o policromatica, senza abbandonare il concetto di tonalità». Contemporaneamente emergeva un dialogo artistico con il maestro Dallapiccola, evidente in titoli e approcci che sembravano riecheggiare le opere del mentore (ad esempio, la Sonatina profana di Prosperi del 1943 in risposta alla Sonatina canonica di Dallapiccola del 1942, o i Tre frammenti di Saffo di Prosperi del 1944 rispetto ai Cinque frammenti di Saffo di Dallapiccola del 1942).

Consolidamento professionale e vita familiare (1949-58
Nel 1949 Prosperi ottenne il diploma in composizione con Vito Frazzi e sposò Maria Teresa Ulivi. L’anno seguente iniziò a lavorare come assistente alla programmazione musicale presso la Rai, incarico che mantenne fino al 1958, operando prima nella sede di Torino e poi in quella di Roma.

La Schola fiorentina e l’approfondimento dodecafonico (1953-58c)
Il 1953 vide la nascita della figlia Giuliana. L’anno successivo, nel 1954, Prosperi, insieme ad altri cinque compositori legati all’insegnamento di Dallapiccola (Bruno Bartolozzi, Reginald Smith Brindle, Arrigo Benvenuti, Sylvano Bussotti, Alvaro Company), fondò la Schola fiorentina. Questo sodalizio mirava sia ad approfondire lo studio e la sperimentazione della tecnica dodecafonica, sia a promuovere la diffusione delle musiche dei suoi membri. L’esperienza attiva del gruppo durò circa cinque anni, ma i legami di amicizia e stima reciproca tra i componenti perdurarono a lungo.

Riflessione teorica e una dodecafonia personale: la "pluriserialità" (Anni ’50)
Durante gli anni ’50 Prosperi affiancò all’attività compositiva un’intensa riflessione teorica, volta a dare un fondamento concettuale alle sue scelte artistiche. Da ciò scaturirono l’articolo Dodecafonia e atonalità: due effetti della stessa causa (1956) e il saggio L’atonalità nella musica contemporanea (1957). Sul piano compositivo, Prosperi si distanziò dall’adesione dodecafonica di Dallapiccola, sviluppando tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta una propria interpretazione della dodecafonia, definita "pluriserialità". Questo approccio rappresentava una rottura rispetto alle applicazioni tradizionali del metodo, sia quelle di Dallapiccola sia quelle del suo ideatore, Arnold Schönberg. Una prima applicazione matura di questa tecnica si trova nelle Variazioni per orchestra (1951). Il Concerto d’infanzia per orchestra con una voce femminile (1957), dedicato alla figlia, è emblematico della sua poetica: l’opera mirava a liberare il linguaggio dodecafonico dall’espressionismo nichilista, cercando invece di catturare la "poesia lieta dell’infanzia", la sua freschezza, serenità e meraviglia.

Ritorno a Firenze: insegnamento e impegno culturale (1958-Anni ’60)
Nel 1958 Prosperi lasciò il suo impiego alla Rai per dedicarsi all’insegnamento di armonia e contrappunto al Conservatorio di Firenze. Nel 1962 si ristabilì definitivamente con la famiglia nella sua città natale. Qui si dedicò con passione all’insegnamento (ottenendo la cattedra di composizione nel 1969) e partecipò attivamente al dibattito culturale e musicale. Fu coinvolto nelle iniziative dell’associazione Vita musicale contemporanea(1961-67), promossa da Pietro Grossi, con l’obiettivo di avvicinare il pubblico alla musica del suo tempo.

Visione sociale della musica e il rapporto con il pubblico
Nelle conferenze e nei dibattiti Prosperi enfatizzò la "missione sociale" della musica nella vita civile, pur mantenendo una prospettiva indipendente da impegni politici diretti o legami partitici. Esprimeva il desiderio di un rinnovamento e di una maggiore apertura di Firenze all’arte musicale contemporanea. Criticava da un lato le "forze contrarie" che spingevano verso il conservatorismo, e dall’altro individuava nel rifiuto della comunicazione e di una spiccata dimensione lirica da parte di molti compositori contemporanei una causa della frattura con il pubblico.

Maturità artistica, sperimentazione timbrica e la controversia di Noi soldà (anni ’60 – inizio anni ’70)
A partire dagli anni ’60 la produzione di Prosperi si distinse per una crescente attenzione all’aspetto timbrico e per scelte di organico non convenzionali. Ne sono esempi In nocte secunda per chitarra, clavicembalo e sei violini (1968) e il Concerto dell’arcobaleno per pianoforte, marimba e archi (1972). Un’opera cruciale, sia artisticamente sia umanamente, fu Noi soldà (1966), una «memoria per voce recitante, soprano, coro maschile e orchestra». Quest’opera, nata dal ricordo dell’esperienza bellica in Montenegro e con riferimenti alla tragedia degli alpini della Divisione Julia, utilizzava testi di Carlo Betocchi e stralci da Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi, dopo il fallito tentativo di usare testi di Brecht per questioni di diritti. La scelta di Bedeschi (che dopo l’8 settembre 1943 militò nella Rsi), la tematica bellica incentrata più sui soldati che sui partigiani, apparvero provocatorie. Una recensione sostanzialmente negativa di Massimo Mila sulla “Stampa” (10 ottobre 1971) segnò di fatto l’ultima esecuzione dell’opera e contribuì all’isolamento del musicista nel panorama culturale coevo.

Ultimi anni: isolamento, riconoscimenti e ricerca di essenzialità (anni ’70 – 1990)
Ebbe così inizio un’ultima, lunga fase nella vita di Prosperi. Nonostante continuasse a ricevere riconoscimenti (come la Medaglia di benemerenza della scuola, della cultura e dell’arte nel 1980), la sua presenza nelle programmazioni concertistiche divenne sempre più rara. Dalla seconda metà degli anni Settanta, anche la sua produzione compositiva iniziò a diradarsi. Nel 1978 completò il suo ultimo lavoro di grandi dimensioni, il balletto Elogio della follia per orchestra e voci, che non fu mai eseguito. Nelle opere del decennio successivo, proseguì la sua ricerca verso il lirismo e l’essenzialità della scrittura, privilegiando la dimensione cameristica (es. Canti dell’ansia e della gioia, 1980-82; O Diotima, 1981). Il 1° ottobre 1989 lasciò l’insegnamento al Conservatorio per limiti d’età. La sua ultima composizione completata, nel 1990, fu Tre poesie dal «Canzoniere» di Francesco Petrarca per soprano e viola, che si conclude con il sonetto La vita fugge e non s’arresta un’ora, riflesso della sofferenza intima vissuta dal musicista negli ultimi anni. Morì a Firenze il 15 giugno 1990 a causa di un attacco cardiaco.

In nocte secunda: analisi
Si tratta di una composizione cameristica per un organico inconsueto formato da chitarra, clavicembalo e sei violini. Questo brano si colloca in un periodo di matura sperimentazione per il compositore, profondamente influenzato dal magistero di Luigi Dallapiccola e dalla sua personale elaborazione della dodecafonia, definita "pluriserialità". L’opera, come suggerisce il titolo ("Nella seconda notte"), evoca un’atmosfera notturna, misteriosa e introspettiva, esplorando con maestria le potenzialità timbriche e tessiturali dell’ensemble.
L’aspetto più immediatamente affascinante del brano è la scelta e l’utilizzo dell’organico. Prosperi non tratta gli strumenti in modo convenzionale, ma ne esplora le sonorità più recondite e le interazioni più sottili. La chitarra apre il brano e ne costituisce spesso l’elemento più intimo e riflessivo. Il suo ruolo è multiforme:

  • arpeggi e accordi spezzati: spesso delicati, creano un senso di sospensione e mistero, quasi un respiro notturno;

  • suoni isolati e armonici: note singole, pizzicati secchi, armonici cristallini che emergono dal silenzio, contribuendo all’atmosfera rarefatta;

  • frammenti melodici: brevi spunti lirici, spesso malinconici o interrogativi, che non si sviluppano in temi veri e propri ma rimangono come gesti espressivi;

  • interazione con il clavicembalo: un dialogo costante, a volte di contrasto (risonanza della chitarra vs. secchezza del clavicembalo), a volte di fusione in un unico tessuto sonoro. Il clavicembalo, invece, introduce un timbro più brillante, incisivo e percussivo che contrasta e dialoga splendidamente con la chitarra e i violini;

  • arpeggi e figure staccate: spesso utilizzato con figure rapide, staccate, quasi puntillistiche, che aggiungono un elemento di scintillio e frammentazione;

  • cluster e accordi dissonanti: contribuisce alla tessitura armonica atonale con sonorità dense e a volte aggressive, ma sempre all’interno di una dinamica controllata;

  • Funzione ritmica: a volte fornisce brevi impulsi ritmici che animano la staticità di alcune sezioni.

I sei violini non sono trattati come una sezione d’archi tradizionale, ma come un insieme di voci individuali capaci di creare una vasta gamma di effetti timbrici e testurali:

  • Suoni tenuti e glissandi: spesso creano "veli" sonori, tappeti armonici eterei e fluttuanti, utilizzando suoni lunghi, sottili glissandi, e forse tecniche come il suono sul ponticello per ottenere timbri più aspri o spettrali;

  • cluster dissonanti: contribuiscono a momenti di maggiore tensione armonica;

  • pizzicati: aggiungono un ulteriore colore percussivo, dialogando con la chitarra e il clavicembalo;

  • frammenti melodici incisivi: brevi frasi, a volte all’unisono o in ottava, altre volte in una polifonia rarefatta, che emergono dalla tessitura;

  • polifonia frammentata: le sei voci si intrecciano creando una polifonia complessa ma trasparente, dove le singole linee mantengono una loro individualità pur contribuendo a un effetto d’insieme.

Il linguaggio del pezzo è decisamente atonale. Non vi sono centri tonali riconoscibili e la musica fluttua in un universo armonico mobile e ambiguo. La "pluriserialità" di Prosperi potrebbe manifestarsi nell’uso flessibile di brevi frammenti seriali o nella libera combinazione di altezze per evitare qualsiasi reminiscenza tonale. Le armonie sono spesso dense di dissonanze, ma queste non sono aggressive nel senso espressionista; piuttosto, contribuiscono all’atmosfera misteriosa e sospesa. Non ci sono melodie tradizionali estese: il materiale melodico è costituito da brevi gesti, frammenti, incisi, spesso separati da pause. Questi frammenti possono avere un carattere lirico (specialmente nella chitarra o in brevi interventi dei violini) ma non vengono sviluppati tematicamente. L’espressività è affidata più al colore timbrico, alla dinamica e all’articolazione di questi gesti.
Il brano non segue una forma tradizionale riconoscibile (come la forma sonata o il rondò). Piuttosto, si sviluppa come un flusso continuo di episodi sonori, caratterizzati da diverse combinazioni timbriche e densità tessiturali. La composizione sembra procedere per sezioni o "quadri" sonori che si susseguono, a volte contrastanti, altre volte evolvendo gradualmente l’uno dall’altro. Il brano inizia e si conclude con sonorità rarefatte, dominate dalla chitarra, creando un effetto di emersione dal silenzio e di dissolvenza finale, appropriato per l’evocazione notturna. Le pause giocano un ruolo strutturale ed espressivo fondamentale, creando momenti di sospensione e tensione e permettendo ai singoli eventi sonori di risuonare e di essere percepiti nella loro individualità.
Si alternano momenti di estrema rarefazione (chitarra sola, o dialogo chitarra-clavicembalo con poche note) a momenti di maggiore densità, specialmente quando i sei violini intervengono con tessiture più complesse. Tuttavia, la trasparenza cameristica è quasi sempre mantenuta. Le idee musicali sono presentate come gesti che appaiono, si trasformano brevemente, e poi lasciano spazio a nuovi gesti. Non c’è uno sviluppo tematico nel senso classico, ma piuttosto una continua metamorfosi del materiale sonoro.
Nel complesso, In nocte secunda è un’opera affascinante che dimostra la maestria di Prosperi nel manipolare timbri e tessiture in un contesto atonale. La sua personale interpretazione delle tecniche seriali si traduce in una musica che è al contempo rigorosa nella sua concezione e libera nella sua espressività. Il brano è un eccellente esempio della "attenzione all’aspetto timbrico e per scelte d’organico inconsuete" che caratterizza la sua produzione matura. È una musica che richiede un ascolto attento per coglierne tutte le delicate interazioni e la raffinata tavolozza sonora, confermando Prosperi come una voce originale e significativa nel panorama musicale italiano del Novecento.

Partita XVIII

Johann Jakob Froberger (28 maggio 1616 - 1667): Partita XVIII in sol minore FbWV 618. Gustav Leonhardt, clavicembalo.

  1. Allemande
  2. Gigue [3:23]
  3. Courante [4:46]
  4. Sarabande [6:11]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Froberger: il genio errante della tastiera barocca e innovatore della suite

Figura di spicco nel panorama della musica barocca, Froberger fu un musicista cosmopolita che seppe fondere magistralmente le influenze stilistiche italiane, tedesche e francesi in un linguaggio musicale unico e profondamente personale. È universalmente riconosciuto come uno dei più significativi e influenti compositori per strumenti a tastiera, tanto da essere paragonato al suo maestro Girolamo Frescobaldi e persino a Chopin per il suo impatto sulla storia della musica. Il suo contributo più celebre riguarda lo sviluppo della suite per clavicembalo, genere in cui raggiunse vette di notevole profondità emotiva.

Origini familiari e formazione (1616–c1634)
Nato a Halle nella famiglia del Kapellmeister Basilius Froberger e di sua moglie Anna Schmid, il giovane crebbe in un ambiente musicale internazionale alla corte del Württemberg. Sebbene i dettagli sulla sua prima educazione siano scarsi, è probabile che abbia ricevuto le prime lezioni dal padre e/o da un fratello maggiore e, probabilmente, da Johann Ulrich Steigleder, l’organista di corte. Nel 1637, Froberger perse entrambi i genitori a causa di un’epidemia di peste.

Vienna e l’Italia: apprendistato e affermazione (c1634–1645)
Già da qualche anno Froberger si trovava a Vienna, dove il 1° gennaio 1637 ottenne il suo primo impiego come organista alla corte imperiale, convertendosi per l’occasione dal protestantesimo al cattolicesimo. Nell’autunno dello stesso anno, ricevette una borsa di studio imperiale per recarsi a Roma a studiare per tre anni e mezzo con Girolamo Frescobaldi, dove potrebbe aver conosciuto anche Michelangelo Rossi. Dall’aprile 1641 all’ottobre 1645, riprese servizio a Vienna come terzo Cammerorganist.

Anni di viaggi e incontri determinanti (1645–1653)
Questo periodo è meno documentato: sappiamo che prima del 1649 intraprese un secondo viaggio in Italia, entrando in contatto con Giacomo Carissimi e Athanasius Kircher. Quest’ultimo gli affidò una “arca musurgica” (una macchina per comporre) che Froberger presentò a diverse corti, inclusa quella imperiale nel 1649. Kircher pubblicò una Fantasia di Froberger nella Musurgia universalis (1650).
Nel 1649, il suo modo di suonare il cembalo impressionò William Swann, inviato del principe d’Orange, che ne scrisse entusiasticamente a Constantijn Huygens, futuro grande ammiratore e amico del compositore. Nell’inverno 1649-50, Froberger si recò a Dresda, forse in missione diplomatica, dove ebbe un celebre agone musicale con l’organista di corte Matthias Weckmann, con il quale nacque poi una profonda amicizia. Ulteriori viaggi lo portarono a Bruxelles (primavera 1650) e a Parigi (1652). Nella capitale francese, nonostante una nota di stampa poco lusinghiera (“tedesco grassone”), frequentò il liutista Charles Fleury, sieur de Blancrocher (cui dedicò un famoso Tombeau dopo la sua morte accidentale), e probabilmente Denis Gaultier, Jacques Champion de Chambonnières e il giovane Louis Couperin. Una lettera a Kircher del 1654 menziona viaggi in Germania, Paesi Bassi, Inghilterra e Francia.

Ritorno a Vienna, ultimi anni e morte (1653–1667)
Nell’aprile 1653 Froberger tornò a Vienna come organista di corte. Compose una toccante Lamentation per la morte dell’imperatore Ferdinando III nel 1657. Tuttavia, il nuovo imperatore Leopoldo I ridusse il personale della cappella musicale e il posto di Froberger fu soppresso dopo il luglio 1658, probabilmente per ragioni politiche (Leopoldo I lo considerava un sostenitore del rivale Leopoldo Guglielmo). Il periodo 1658-64 è oscuro; potrebbe essere tornato a Stoccarda o aver visitato nuovamente Parigi. Dal 1662 o 1664 si stabilì presso la duchessa Sibylla von Württemberg-Mömpelgard nel castello di Héricourt, forse viaggiando con lei fino a Madrid. Nel settembre 1665, a Magonza, incontrò Huygens, al quale confidò la speranza di tornare a Vienna. Morì il 16 o 17 maggio 1667 a Héricourt per un ictus, durante la preghiera serale.

L’opera: l’eredità musicale tra stile e forme
Froberger compose quasi esclusivamente musica per strumenti a tastiera. Le sue toccate, capricci, canzoni, ricercari e fantasie sono eseguibili su organo, cembalo, virginale o clavicordo, mentre le suites e i brani singoli (come i tombeaux) sono specifici per strumenti a corde pizzicate (cembalo, virginale) o clavicordo.
L’influenza di Frescobaldi è evidente nelle opere contrappuntistiche. Per Froberger, fantasia e ricercare sono intercambiabili, indicando brani fugati in tempo moderato, solitamente suddivisi in sezioni. Anche canzoni e capricci sono simili: opere fugate in più sezioni, più vivaci, con il tema iniziale variato nelle sezioni successive. In questi generi, Froberger fu uno dei pochi autori capaci di eguagliare la maestria compositiva di Frescobaldi, benché oggi queste sue fughe godano di minor popolarità.
Le toccate di Froberger presentano tipicamente un’introduzione libera, quasi improvvisativa, seguita da due o tre fugati, incastonati tra ulteriori sezioni libere e una coda. Le parti toccatistiche alternano passaggi virtuosistici e sezioni più accordali, spesso con armonie sorprendenti ed espressive. I temi dei fugati sono correlati, avvicinandosi alla forma della canzona variata. Stilisticamente, le toccate risentono più dell’influenza di Michelangelo Rossi che di Frescobaldi, ma formalmente appaiono più chiare e rigorose (“tedesche”), con l’uso di più fugati che rimanda a Claudio Merulo. Un gruppo a parte è costituito dalle cosiddette Toccate per l’Elevazione, meditative e ricche di sorprese armoniche, sul modello frescobaldiano.
Le partite (o suites), insieme con lamentazioni, tombeaux e méditations (queste ultime talvolta introduttive a una partita) sono considerate il suo contributo più originale. Contrariamente a quanto sostenuto in passato, Froberger non stabilì un ordine standard per i movimenti della suite. Si riscontrano principalmente tre sequenze:
  - allemande, courante, sarabande: la forma più antica, presente in quattro delle sei partite del Libro Secondo (1649);
  - allemande, courante, sarabande, gigue: la cosiddetta “forma classica”, compare una volta nel Libro Secondo (1649); molte suites furono successivamente riordinate in questa sequenza da copisti ed editori, ma non per sua volontà;
  - allemande, gigue, courante, sarabande: la sequenza apparentemente preferita da Froberger, con la giga al secondo posto e la sarabanda come conclusione; una nota di Matthias Weckmann conferma questa predilezione.

La Partita in sol minore FbWV 618: analis
La Partita XVIII è un esempio squisito della capacità del compositore di fondere introspezione, eleganza e pathos. La tonalità di sol minore, spesso associata a sentimenti di malinconia e serietà, viene esplorata da Froberger con una profondità emotiva caratteristica. La sequenza dei movimenti (allemande, gigue, courante, sarabande) è tipica di molte delle sue suite, con la giga posta prima della corrente, una prassi che differisce dalla successiva standardizzazione (allemande, courante, sarabande, gigue) che si affermerà pienamente con compositori come Bach.
L’Allemande apre la partita con un’aura di solenne gravità e profonda introspezione. Il carattere è nobile, ma velato da una sottile malinconia. Il sol minore è stabilito fin dalle prime battute, con un uso sapiente di armonie ricche e talvolta sorprendenti. Froberger impiega frequenti sospensioni e ritardi che accentuano il pathos, creando un dialogo continuo tra tensione e risoluzione. Si notano modulazioni verso tonalità vicine – come il si bemolle maggiore (relativa maggiore) e il re minore (dominante) – che offrono momentanei squarci di luce prima di ritornare all’atmosfera più cupa del sol minore. La scrittura armonica è densa, ma mai congestionata, evidenziando la padronanza contrappuntistica di Froberger. Le linee melodiche sono cantabili ed espressive, spesso caratterizzate da movimenti graduali e figure “sospiranti” (intervalli discendenti). La tessitura è prevalentemente polifonica, con le voci che si intrecciano in un dialogo raffinato. Si percepisce l’influenza dello style brisé (stile spezzato), tipico della musica liutistica francese, con arpeggi e accordi fratti che contribuiscono alla fluidità e alla ricchezza armonica. L’ornamentazione, applicata da Leonhardt con gusto e discrezione (come trilli e mordenti), non è mai fine a sé stessa ma serve ad accentuare l’espressività delle linee. Il ritmo è fluido e scorrevole e non ci sono ritmi ecces­sivamente marcati o spigolosi, prevalendo una sensazione di continuità discorsiva.
La Gigue introduce un elemento di vivacità e slancio, pur mantenendo una certa serietà intrinseca dovuta alla tonalità minore. È una danza energica e propulsiva; le armonie sono più dirette e meno cromatiche rispetto all’Allemande, focalizzate sul sostegno dell’impulso ritmico e del gioco imitativo. Le modulazioni sono funzionali alla forma e al movimento contrappuntistico. La scrittura è spiccatamente imitativa, quasi fugata. Il tema principale, con il suo profilo ritmico saltellante e melodicamente agile viene presentato e ripreso dalle diverse voci. La tessitura è vivace e trasparente, permettendo di seguire chiaramente l’intreccio delle linee. Il metro come da tradizione è ternario composto, cosa che conferisce alla giga il tipico andamento danzante e “saltellante”. I ritmi puntati e le rapide figurazioni sono predominanti.
La Courante presenta un carattere più elegante e raffinato, meno impetuoso della Gigue precedente ma comunque danzante e scorrevole. Ha una nobiltà intrinseca. Si muove con armonie fluide e chiare; le progressioni armoniche sono aggraziate; le linee melodiche sono continue e sinuose; la tessitura è polifonica, ma con una chiarezza che permette alle melodie di emergere con eleganza. Vi è un buon equilibrio tra le parti. Come molti suoi contemporanei, Froberger gioca sottilmente con gli accenti, talvolta creando effetti di emiolia (spostamento dell’accento metrico che dà la sensazione di un cambio di metro ternario a uno binario) soprattutto in prossimità delle cadenze, aggiungendo interesse e sofisticazione ritmica. Leonhardt gestisce queste sottigliezze con grande maestria.
La Sarabande che conclude la Partita ne costituisce il culmine emotivo. È un brano di una bellezza struggente, lento, maestoso e profondamente espressivo, quasi un lamento o una meditazione. La tonalità di sol minore giunge qui alla sua massima intensità espressiva. Le armonie sono estremamente ricche, dense e spesso audaci per l’epoca, con un uso intensificato di cromatismi, dissonanze (ritardi, appoggiature) che si risolvono con grande effetto patetico. La progressione armonica è lenta e ponderata, contribuendo al senso di gravità. La melodia è intensamente lirica e cantabile, quasi vocale nella sua espressività. È riccamente ornata, ma gli abbellimenti sono sempre al servizio dell’espressione, amplificando il pathos. La tessitura alterna momenti più omoritmici e accordali, che conferiscono solennità, a passaggi in cui le voci interne si muovono con indipendenza, arricchendo l’armonia. La Sarabande è caratterizzata dal tipico accento sulla seconda pulsazione della misura ternaria, conferendole un andamento maestoso e quasi processionale. Il tempo è molto lento e Leonhardt lo dilata ulteriormente, permettendo a ogni nota e armonia di risuonare con pienezza.
Nel complesso, la Partita XVIII si rivela un lavoro di grande spessore artistico. La scelta di anteporre la Gigue alla Courante crea un interessante arco dinamico ed espressivo all’interno della composizione. L’Allemande introduce un tono grave e riflessivo, la Gigue porta energia e complessità contrappuntistica, la Courante offre un momento di eleganza più distesa e la Sarabande funge da conclusione profondamente toccante e meditativa, vero cuore pulsante dell’intera Partita. L’uso che Froberger fa della tonalità di sol minore è magistrale, sfruttandone tutte le potenzialità espressive, dalla malinconia all’energia controllata, fino al pathos più intenso.

Hornpipes

Hugh Aston (c1485 - 1558): A Hornepype (1522). Elisabeth Chojnacka, clavicembalo.

Con il termine hornpipe si indica un gruppo di forme di danza diffusesi nelle isole britanniche a partire dal XVI secolo; il più antico documento inglese relativo alla hornpipe è costituito appunto da questa composizione di Aston.


Una famosa hornpipe tradizionale, risalente al XVIII secolo, è la Sailor’s Hornpipe (nota anche come College Hornpipe), qui eseguita da Eduardo Antonello e i suoi Doppelgänger con un clavicembalo, due viole da gamba e una melodica 🙂

Aston, Hornepype



L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Hugh Aston: compositore e figura civica del periodo Tudor

Hugh Aston è oggi ricordato per la scrittura innovativa per tastiera e per la musica sacra. Oltre che musicista fu anche una figura politicamente attiva, ricoprendo le cariche di sindaco, membro del Parlamento e assessore (alderman) a Leicester.

Primi anni e formazione
Non abbiamo che scarse informazioni sulla vita e l’attività di Hugh Aston: la sua biografia si fonda perciò su ipotesi. Nato a Leicester nella famiglia dell’assessore e deputato della circoscrizione del South Ward Robert Aston, il giovane Hugh fu probabilmente avviato agli studi musicali entrando intorno agli 8 anni (quindi forse nel 1493) come puer cantus nel Choral College and Hospital of the Annunciation of St Mary in the Newarke. Potrebbe poi aver continuato la propria attività nel college come chierico laico anche dopo la muta della voce. Nel 1502 si trasferì alla Oxford University Music School, dove si laureò in musica otto anni più tardi. Per l’esame, presentò un’orazione sui volumi di Boezio (probabilmente il De Institutione Musica) e presentò per l’esecuzione una messa e un’antifona. Si ritiene che queste opere fossero la sua Missa Te Deum laudamus a 5 voci e l’antifona associata Te Deum laudamus.

Carriera musicale a Leicester
Dopo Oxford, potrebbe aver vissuto a Londra e avuto contatti con la corte di Enrico VIII. Nel 1517 fu ammesso come Freeman and Burgess di Leicester, un diritto acquisito in quanto figlio di un Freeman. La qualifica di gent (gentleman) probabilmente attestava il suo status di laureato. Nel 1520-21 fu consultato dalla Collegiate Church of St Mary di Warwick per l’acquisto e l’installazione di un nuovo organo. La documentazione più antica del suo ruolo di maestro di coro (magister choristerorum) e custode degli organi (Keeper of the Organs) al Newarke College di Leicester risale al 1525, quando testimoniò durante una visita del vescovo Longland. Nello stesso anno, il vescovo lo raccomandò al cardinale Wolsey per la posizione di direttore musicale al Cardinal’s College di Oxford, ma Aston rifiutò citando il suo "greate wages which he alligith in perpetuity" (stipendio elevato che sosteneva gli fosse stato promesso a vita).

La dissoluzione dei monasteri e le sue conseguenze
Aston si ritirò poco prima della dissoluzione definitiva della Newarke Choral Foundation nella Pasqua del 1548. La chiesa collegiata e gran parte degli edifici furono demoliti, mentre l’ospizio fu rinominato Trinity Hospital. Aston, tuttavia, continuò a vivere in quella che sembra fosse la residenza ufficiale del maestro di coro, una proprietà sostanziosa di fronte al cancello principale del Newarke. Alla dissoluzione, non solo gli fu garantita una pensione annuale dal Newarke College, ma ricevette anche ulteriori pensioni per la perdita degli incarichi presso le altre sei istituzioni soppresse. Gli fu concessa una locazione a vita sulla proprietà e a sua moglie Elizabeth fu garantito un contratto di affitto di 21 anni dopo la sua morte. La proprietà rimase alla famiglia Aston almeno fino al 1595.

Responsabilità civiche e carriera politica
Già prima del 1530 Aston rappresentava il Southgates Ward nel consiglio comunale, diventando poi alderman (assessore). Dal 1532 fu giudice di pace, coroner (1532-34), revisore dei conti (1532-48), sindaco di Leicester (1541-42) e uno dei due membri del Parlamento per il Borgo (1555).

Opere musicali
Di lui sopravvivono, in forma sostanzialmente completa, 4 composizioni vocali sacre (le messe Missa Te Deum e Missa Videte manus meas e le antifone Gaude mater matris Christe e Te Deum laudamus), altre antifone e un canto devozionale. È particolarmente noto per la sua musica per tastiera, anche se pochi esempi sopravvivono. Altri pezzi per tastiera, come My Lady Carey’s Dompe e My Lady Wynkfyld’s Rownde, gli sono stati attribuiti su base stilistica. Un pezzo perduto, Hugh Aston’s Grounde, fu utilizzato da William Byrd nel Hugh Aston’s Maske.

Analisi del brano
La Hornepype di Aston rappresenta uno dei gioielli più affascinanti e significativi del repertorio tastieristico inglese del primo periodo Tudor. Sebbene il corpus di musiche per tastiera di Aston giunto fino a noi sia esiguo, questo brano spicca per la sua energia contagiosa, la sua scrittura innovativa e il suo peculiare legame con la musica popolare e strumentale dell’epoca, fungendo da ponte tra la pratica improvvisativa e la composizione scritta formalizzata.
Il tratto più immediatamente riconoscibile della Hornepype è la struttura basata sopra un basso ostinato o, più precisamente, un pedale armonico-ritmico persistente. La mano sinistra ripete incessantemente una semplice figura basata principalmente sull’intervallo di quinta sol-re, a volte con l’aggiunta della tonica nell’ottava inferiore o brevi passaggi che rafforzano questo ancoraggio armonico. Questa figura si qualifica come un bordone che imita chiaramente il suono caratteristico della hornpipe, un tipo di cornamusa o strumento a fiato popolare all’epoca, noto per il suo suono penetrante e la presenza di un bordone costante.
Sopra questa fondamenta ostinata, la mano destra si lancia in una serie di variazioni (divisions) brillanti e virtuosistiche. È qui che risiede gran parte dell’innovazione di Aston e l’importanza storica del brano: la scrittura per la mano destra è notevolmente idiomatica per la tastiera, ovvero concepita specificamente per le possibilità tecniche dello strumento e delle dita, allontanandosi dalla scrittura più vocale o generica tipica di molta musica per tastiera precedente.
Possiamo osservare passaggi scalari rapidi scale ascendenti e discendenti, spesso suonate a grande velocità che esplorano l’estensione disponibile della tastiera), figure volatili (brevi frammenti melodici, gruppetti, trilli impliciti o figure ornamentali che aggiungono brillantezza), arpeggi e accordi spezzati, interazioni ritmiche tra le mani, sperimentazione armonica (note di passaggio, note estranee e dissonanze momentanee che aggiungono colore e tensione prima di risolvere sulle consonanze) e un forte senso improvvisativo (l’intera parte della mano destra, pur scritta, conserva un forte sapore di improvvisazione, come se Aston stesse esplorando liberamente le possibilità offerte dal materiale tematico e dalla tastiera sopra il bordone fisso).
Nel complesso, la Hornepype di Aston anticipa le conquiste dei virginalisti elisabettiani come Byrd e Bull. L’uso del bordone ostinato come base per variazioni virtuosistiche è una tecnica che avrà grande fortuna negli anni successivi. Inoltre, il legame esplicito con uno strumento e una danza popolare mostra l’interazione tra musica colta e folklorica nel Rinascimento inglese.

Alcune Sonate dell’op. IX di Leclair

Jean-Marie Leclair (10 maggio 1697 - 1764): 4 Sonate per violino e continuo, dall’op. IX (1743). Simon Standage, violino; Nicholas Parle, clavicembalo.

– Sonata in la maggiore op. IX n. 1

  1. Adagio
  2. Allegro assai [4:32]
  3. Andante [7:50]
  4. Minuetto: Allegro moderato [10:38]

– Sonata in re maggiore op. IX n. 3, Tombeau

  1. Un poco andante [16:15]
  2. Allegro – Adagio [19:58]
  3. Sarabande: Largo [16:15]
  4. Tambourin: Presto [25:34]

– Sonata in la minore op. IX n. 5

  1. Andante [29:16]
  2. Allegro assai [35:27]
  3. Adagio [39:42]
  4. Allegro ma non troppo [43:03]

– Sonata in do maggiore op. IX n. 8

  1. Andante ma non troppo [45:19]
  2. Allegro assai [49:01 ]
  3. Andante [54:28]
  4. Tempo di ciaccona [57:20]


L’approfondimento
di Pierfrancesco Di Vanni

Jean-Marie Leclair: virtuoso del violino barocco tra fama e mistero

Figura centrale nel panorama musicale francese del XVIII secolo, Leclair è oggi ricordato come un eminente violinista e compositore del periodo barocco. Considerato il fondatore della scuola violinistica francese, la sua musica è celebre per la fusione unica tra l’eleganza e la grazia dello stile francese e la brillantezza tecnica e la cantabilità dello stile italiano, in particolare quello di Corelli.

Gli inizi: dalla danza al violino
Nacque a Lione nella famiglia del musicista e passamanaro (chi decorava o rifiniva abiti od oggetti) Antoine Leclair, il quale lo introdusse presto nell’ambiente musicale e operistico della città. Distintosi fin dall’adolescenza come eccellente violinista, intraprese la sua carriera artistica come danzatore, prima a Lione e poi a Rouen. Fu a Torino che ebbe l’opportunità di perfezionare sia la danza — diventando maestro di balletto — sia la tecnica violinistica con Giovanni Battista Somis.

Affermazione a Parigi e in Europa
Trasferitosi a Parigi nel 1723, Leclair iniziò a farsi conoscere pubblicando le sue prime sonate per violino ed esibendosi come virtuoso al Concert spirituel. Nel 1733 entrò al servizio di Luigi XV come “ordinaire de la musique“, ma lasciò l’incarico quattro anni dopo a seguito di un disaccordo, preferendo dedicarsi a tournée concertistiche. Tra il 1738 e il 1743, all’Aia, fu ingaggiato per diversi mesi ogni anno presso la corte di Anna di Hannover, principessa d’Orange, musicista essa stessa ed ex allieva di Händel.

Compositore riconosciuto e opere principali
Rientrato a Parigi nel 1743 e forte dei guadagni ottenuti con lezioni private all’Aia, Leclair si dedicò alla composizione della sua unica opera lirica, Scylla et Glaucus, rappresentata per la prima volta il 4 ottobre 1746 all’Académie royale de musique. Dal 1748 fu al servizio del duca Antonio VII di Gramont, per il quale curava gli intrattenimenti musicali nel teatro privato di Puteaux, componendo musiche di scena. Nonostante l’impegno teatrale, Leclair rimase celebre soprattutto per le sue composizioni strumentali — in particolare sonate e concerti per violino — che consolidarono la sua fama come il più eminente violinista francese del suo tempo. La sua grandezza fu riconosciuta anche dalla critica coeva, come testimonia un articolo del «Mercure de France» del 1753 che elogiava una sua nuova raccolta di ouvertures e sonate a tre, definendolo «l’artista più celebre che la Francia abbia avuto per la musica puramente strumentale». Leclair scrisse anche per altri strumenti, come dimostra un Concerto in do maggiore per flauto traverso o oboe, apprezzato per l’audacia armonica e la ricchezza inventiva.

Gli ultimi anni e la morte misteriosa
La vita di Leclair ebbe una svolta drammatica nel 1758 quando, dopo una brusca separazione dalla seconda moglie, acquistò una piccola casa nel malfamato quartiere parigino del Temple. Fu qui che venne assassinato nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 1764, in circostanze mai chiarite.

Analisi generale dell’opera
L’Opus IX — pubblicata nel 1743 e dedicata alla principessa Anna d’Orange — rappresenta un punto culminante della sua maturità artistica. Queste sonate per violino e basso continuo sono note per la loro notevole difficoltà tecnica, richiedendo una padronanza avanzata dell’arco, delle doppie corde, delle posizioni elevate e dell’ornamentazione. Allo stesso tempo, mostrano una profonda espressività melodica e una solida scrittura contrappuntistica.
Molte sonate seguono lo schema della sonata da chiesa italiana (lento-veloce-lento-veloce), ma Leclair introduce alcune varianti, includendo danze come minuetti, sarabande, ciaccone e tambourin, tipiche della suite francese.
Vi è un equilibrio costante tra la raffinatezza armonico-ritmica francese e il virtuosismo e l’espansività melodica italiana. I movimenti lenti sono spesso carichi di pathos e ornati con delicatezza, mentre i movimenti veloci sono energici e richiedono grande agilità.
Leclair spinge i limiti tecnici del violino dell’epoca, con passaggi complessi, ampio uso di doppie corde (spesso usate tematicamente e non solo per riempimento armonico) e scrittura che esplora l’intera estensione dello strumento, con salti e abbellimenti arditi. Il basso continuo non funge solo da mero accompagnamento, ma partecipa attivamente al dialogo musicale.

Analisi delle singole sonate
La Sonata n. 1 si apre in un’atmosfera di serena contemplazione. La melodia, affidata al violino, è ornata e lirica, con un andamento calmo e misurato. La forma è una sorta di aria, con una melodia principale che si sviluppa e si orna nel corso del movimento. L’armonia è prevalentemente diatonica, incentrata sulla tonalità di impianto, ma con occasionali deviazioni verso tonalità relative per aggiungere colore e interesse. L’uso di abbellimenti è fondamentale per il carattere espressivo del movimento. Leclair sfrutta molto il registro acuto del violino per creare momenti di particolare brillantezza. Segue un secondo movimento contrastante, più energico e virtuosistico. Il ritmo è incalzante e la melodia è ricca di passaggi rapidi e arpeggi. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con una chiara esposizione, sviluppo e ripresa. L’armonia è più dinamica, con modulazioni frequenti e un uso più accentuato del cromatismo. La scrittura virtuosistica per il violino è al centro dell’attenzione, con passaggi di scale e arpeggi che mettono in mostra l’abilità dell’esecutore. Il terzo movimento, invece, offre un momento di respiro tra i due movimenti più vivaci. Il carattere è lirico e cantabile, con una melodia fluente e un accompagnamento delicato. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si ripete e si varia nel corso del movimento. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sulla bellezza della melodia. Il finale elegante e spensierato, con un ritmo di minuetto e un andamento più vivace del solito. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza.
La Sonata n. 3 s’inizia in modo malinconico e introspettivo, con una melodia elegante e ornata. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si sviluppa e si varia nel corso del movimento. L’armonia è cromatica e modulante, riflettendo l’instabilità emotiva del movimento. L’uso di dissonanze e di passaggi cromatici contribuisce al carattere espressivo e malinconico del movimento. Il secondo movimento è diviso in due sezioni contrastanti: l’Allegro è energico e virtuosistico, mentre l’Adagio è lento e contemplativo. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, ma con un’interruzione nella sezione di sviluppo per un Adagio. L’armonia è dinamica, con modulazioni frequenti e un uso accentuato del cromatismo. Il terzo movimento è lento e solenne e ha un ritmo di sarabanda, una danza di origine spagnola, ma con un andamento molto lento e contemplativo. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sulla bellezza della melodia. L’uso di pause e di silenzi contribuisce al carattere solenne e contemplativo del movimento. Il finale è vivace e spensierato, con un ritmo di tambourin, una danza popolare francese, con un andamento molto rapido e brillante. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza. L’uso di note ribattute e di passaggi rapidi contribuisce al carattere vivace e brillante del movimento.
La Sonata n. 5 si apre in un’atmosfera di malinconia e introspezione, la quale domina l’intero movimento. La tonalità minore e una melodia ornata contribuiscono a creare un’espressione di pathos. La forma è quella di un’aria, con la melodia principale che si sviluppa attraverso variazioni e abbellimenti. L’armonia, pur rimanendo salda in la minore, esplora modulazioni verso tonalità relative, intensificando il senso di struggimento. L’uso espressivo di appoggiature e trilli, unito a un registro medio-grave del violino, conferisce al movimento un’aura di intimità e sofferenza. Il secondo movimento è in netto contrasto con il precedente ed è un’esplosione di energia e virtuosismo. Il ritmo incalzante e le figurazioni rapide creano un’impressione di urgenza. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con esposizione, sviluppo e ripresa ben definiti. L’armonia è dinamica e modulante, con un’alternanza di sezioni in tonalità maggiore e minore per aggiungere colore. Leclair sfrutta appieno le capacità tecniche del violino, con scale, arpeggi e passaggi di doppia corda che mettono alla prova l’abilità dell’esecutore. Il terzo movimento fa ritorno a un’atmosfera più contemplativa, sebbene intrisa di una sottile inquietudine. La melodia è espressiva e lirica, ma con un velo di malinconia. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si ripete e si varia nel corso del movimento. L’armonia è cromatica e modulante, creando un senso di instabilità emotiva. L’uso di silenzi e di dinamiche contrastanti contribuisce al carattere espressivo del movimento. Il finale è vivace e spensierato, allentando la tensione emotiva dei movimenti precedenti. Il ritmo è incalzante e la melodia è orecchiabile. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con esposizione, sviluppo e ripresa ben definiti. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza. L’uso di note ribattute e di passaggi rapidi contribuisce al carattere vivace e brillante del movimento.
La Sonata n. 8 si apre in un’atmosfera serena e contemplativa. La melodia, affidata al violino, è fluente e cantabile, con un andamento misurato. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si sviluppa e si varia nel corso del movimento. L’armonia è semplice e diatonica, incentrata sulla tonalità di do maggiore. L’uso espressivo di abbellimenti e di dinamiche contrastanti contribuisce al carattere lirico del movimento. Segue un movimento energico e virtuosistico, che contrasta con la serenità dell’Andante. Il ritmo è incalzante e la melodia è ricca di passaggi rapidi e arpeggi. La forma è quella di un movimento di sonata barocca, con esposizione, sviluppo e ripresa ben definiti. L’armonia è più dinamica rispetto alla parte iniziale, con modulazioni frequenti e un uso più accentuato del cromatismo. La scrittura virtuosistica per il violino è al centro dell’attenzione, con scale, arpeggi e passaggi di doppia corda che mettono alla prova l’abilità dell’esecutore. Il terzo movimento è lento e solenne e offre un momento di respiro tra i due movimenti più vivaci. Il carattere è lirico e cantabile, con una melodia fluente e un accompagnamento delicato. La forma è quella di un’aria, con una melodia principale che si ripete e si varia nel corso del movimento. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sulla bellezza della melodia. Il finale è maestoso e solenne. Il ritmo è quello di una ciaccona, una danza di origine spagnola, con un andamento lento e misurato. L’armonia è semplice e diatonica, con un’enfasi sul ritmo e sulla danza. L’uso di pause e di silenzi contribuisce al carattere solenne e contemplativo del movimento.

Rondeau champêtre

Nicolas Siret (3 marzo 1663 - 1754): Suite (n. 3) in la minore, dal II Libro delle Pièces de clavecin (1719). Fernando De Luca, clavicembalo.

  1. Gavotte
  2. Allemande I
  3. Courante I
  4. Allemande II
  5. Courante II
  6. Chaconne I
  7. Sarabande I
  8. Sarabande II
  9. La Manon, Rondeau
  10. Gavotte rondeau
  11. Chaconne II
  12. Rondeau champêtre

Sonata accademica

Francesco Maria Veracini (1° febbraio 1690 - 1768): Sonata in sol minore per violino e basso continuo, n. 5 delle 12 Sonate accademiche op. 2 (1744). Luigi Mangiocavallo, violino; Claudio Ronco, violoncello; Marco Mencoboni, clavicembalo.

  1. Capriccio con due soggetti: Allegro assai – Adagio assai
  2. Allegro assai [5:44]
  3. Giga: Allegro [8:28]

The woods so wild

John Dowland (1563 - 1626): Can she excuse my wrongs, ayre, dal First Booke of Songes or Ayres (1597). Emma Kirkby, soprano; Anthony Rooley, liuto.

Can she excuse my wrongs with Virtue’s cloak?
Shall I call her good when she proves unkind?
Are those clear fires which vanish into smoke?
Must I praise the leaves where no fruit I find?
 No, no; where shadows do for bodies stand,
 That may’st be abus’d if thy sight be dim.
 Cold love is like to words written on sand,
 Or to bubbles which on the water swim.
Wilt thou be thus abused still,
Seeing that she will right thee never?
If thou canst not o’ercome her will,
Thy love will be thus fruitless ever.

Was I so base, that I might not aspire
Unto those high joys which she holds from me?
As they are high, so high is my desire,
If she this deny, what can granted be?
 If she will yield to that which reason is,
 It is reason’s will that love should be just.
 Dear, make me happy still by granting this,
 Or cut off delays if that I die must.
Better a thousand times to die
Than for to live thus still tormented:
Dear, but remember it was I
Who for thy sake did die contented.

Il testo – adattato a un tema di gagliarda: in qualche fonte, la versione strumentale del brano (qui) reca il titolo The Earl of Essexhis ] Galliard – fa forse riferimento alle vicende di Robert Devereux, 2° conte di Essex (1566-1601), che potrebbe essere l’autore dei versi. È probabile che sia da collegarsi a Robert Devereux la citazione della melodia tradizionale The woods so wild, da Dowland inserita nel terzo periodo, affidata a una voce intermedia (tenore; testo: Wilt thou be thus abused still ecc.): farebbe riferimento al fatto che il conte di Essex soleva ritirarsi in una casa di sua proprietà, sita nei boschi a nord-est di Londra.
The woods so wild è un ballad assai diffuso in epoca Tudor: pare che fosse par­ti­co­lar­mente caro a Enrico VIII. Variazioni sulla melodia si devono a William Byrd (riportate dal Fitzwilliam Virginal Book e dal My Lady Nevell’s Book) e a Orlando Gibbons.


William Byrd (c1540 - 1623): The Woods so Wilde, variazioni. Michael Maxwell Steer, clavicembalo.


Orlando Gibbons (1583 - 1625): The Woods so Wild, variazioni. Michael Maxwell Steer, clavicembalo.


Un’altra interpretazione del brano di Dowland, ove la parte che comprende la citazione della melodia tradizionale è eseguita con un flauto dolce. Karin Gyllenhammar, soprano; Mirjam-Luise Münzel, flauto; David Leeuwarden, liuto; Alina Rotaru, clavicembalo.

Dowland - Can she

Tempo di dormire

Tarquinio Merula (1595 - 10 dicembre 1665): Or ch’è tempo di dormire, «canzonetta spirituale sopra la nanna» per soprano e basso continuo (pubblicata in Curtio Precipitato et altri Capricij composti in diversi modi vaghi e leggiadri a voce sola, 1638). La Venexiana: Monica Piccinini, soprano; Michele Palomba, tiorba; Chiara Granata, arpa; Claudio Cavina, cembalo e direzione.

Or ch’è tempo di dormire,
dormi, figlio, e non vagire,
perché tempo ancor verrà
che vagir bisognerà.
Deh ben mio,deh cor mio, fa
fa la ninna ninna na.

Chiudi quei lumi divini,
come fan gl’altri bambini,
perché tosto oscuro velo
priverà di lume il cielo.

O ver prendi questo latte
dalle mie mammelle intatte,
perché ministro crudele
ti prepara aceto e fiele.

Amor mio, sia questo petto
hor per te morbido letto,
pria che rendi ad alta voce
l’alma al Padre su la croce.

Posa hor queste membra belle,
vezzosette e tenerelle,
perché poi ferri e catene
gli daran acerbe pene.

Queste mani e questi piedi
ch’or con gusto e gaudio vedi,
Ahimé, com’in varii modi
passeran acuti chiodi.

Questa faccia graziosa
rubiconda, or più che rosa
Sputi e schiaffi sporcheranno
con tormento e grand’affanno.

Ah, con quanto tuo dolore,
sola speme del mio core,
questo capo e questi crini
passeran acuti spini.

Ah, ch’in questo divin petto,
amor mio, dolce, diletto,
vi farà piaga mortale,
empia lancia e di sleale.

Dormi dunque, figliol mio,
dormi pur, redentor mio,
perché poi con lieto viso
ci vedrem in Paradiso.

Or che dorme la mia vita,
del mio cor gioia compita,
taccia ognun con puro zelo,
taccian sin la terra e ’l cielo.

E fra tanto, io che farò?
Il mio ben contemplerò,
ne starò col capo chino
fin che dorme il mio bambino.

Due O blu

Hanns Jelinek (5 dicembre 1901 - 1969): Two blue O’s per celesta, cla­vi­cem­balo, arpa, percussioni e contrabbasso (1959). Michiyoshi Inoue, celesta; Reiko Honsho, clavicembalo; Ma­tsue Yamahata, arpa; Tomoyuki Okada e Mitsuaki Imamura, percussioni; il con­trab­bassista è ignoto.

  1. Organpoint
  2. Ostinato

Piccola Sinfonia concertante

Frank Martin (1890 – 21 novembre 1974): Petite Symphonie concertante per arpa, clavicembalo, pianoforte e doppia orchestra d’archi (1944-45). Taylor Ann Fleshman, arpa; Renée Anne Louprette, clavicembalo; Frank Corliss, pianoforte; The Orchestra Now, dir. Zachary Schwartzman.

  1. Adagio – Allegro con moto
  2. Adagio [13:58]
  3. Allegretto alla marcia [18:46]

Concerto doppio – II

Elliott Carter (1908 - 5 novembre 2012): Concerto doppio per pianoforte, clavicembalo e 2 orchestre da camera (1961); commissionato dalla Fromm Music Foundation e dedicato a Paul Fromm, filantropo e mecenate. Charles Rosen, pianoforte; Ursula Oppens, clavicembalo; Fellows of the Tanglewood Music Center, dir. Oliver Knussen.

  1. Introduzione
  2. Cadenza per clavicembalo
  3. Allegro scherzando
  4. Adagio
  5. Presto
  6. Cadenza per pianoforte
  7. Coda

«Un capolavoro – e di un compositore americano» (Igor’ Stravinskij).

Cogli la rosa – I

Georg Friedrich Händel (1685 - 1759): «Lascia la spina», dall’oratorio Il trionfo del Tempo e del Disinganno HWV 46a (1707) su testo di Benedetto Pamphili. Mary Bevan, soprano; Academy of Ancient Music, dir. Christopher Bucknall.

Lascia la spina,
cogli la rosa;
tu vai cercando
il tuo dolor.

Canuta brina
per mano ascosa
giungerà quando
nol crede il cuor.


Georg Friedrich Händel: «Lascia ch’io pianga», dal II atto dell’opera Rinaldo HWV 7 (1711) su libretto di Giacomo Rossi. Patricia Petibon, soprano; Venice Baroque Orchestra.

Lascia ch’io pianga
mia cruda sorte
e che sospiri
la libertà.

Il duolo infranga
queste ritorte
de’ miei martiri
sol per pietà.


William Babell (1689/90 - 1723): «Lascia ch’io pianga» di Händel, trascrizione per clavicembalo eseguita da Erin Helyard.

Lascia ch'io pianga Händel: «Lascia ch’io pianga», manoscritto autografo (1711)

Woodycock

Anonimo (XVII secolo): Woodycock, tratto dalla raccolta The English Dancing Master (1651, n. 15) di John Playford. Folger Consort.


Anonimo (XVII secolo): Divisions (variazioni) on Woodycock. Latitude 37 (Julia Fre­ders­dorff, violino barocco; Laura Vaughan, viol; Donald Nicolson, clavicembalo) e Genevieve Lacey, flauto dolce.


Giles Farnaby (c1563 - 1640): Wooddy-Cock (variazioni), dal Fitzwilliam Virginal Book (n. [CXLI]). Zsuzsa Pertis, clavicembalo.

Sonnerie

Marin Marais (1656 - 1728): Sonnerie de Sainte Geneviève du Mont-de-Paris, da La Gamme et autres morceaux de symphonie (1723). Le Concert des Nations; Jordi Savall, viola da gamba e direzione; Fabio Biondi, violino; Pierre Hantaï, clavicembalo e organo positivo.

Violino solo – II

Heinrich Ignaz Franz von Biber (3 maggio 1644 - 1704): Sonata in mi minore per violino e basso continuo C 142 (n. 5 delle 8 Sonatæ, violino solo, … ab Henrico I. F. Biber … Anno M.DC.LXXXI ). Ensemble Voices of Music: Elizabeth Blumenstock, violino: William Skeen, viola da gamba; David Tayler, arciliuto; Hanneke van Proosdij, clavicembalo.


Sonatae